In Tu con Zero - Le interviste

Gli incontri di Lettera Zero: Elisa Ruotolo – “Quel luogo a me proibito”

(trascrizione della videointervista del 10 aprile 2021)

VITO SANTORO. Elisa, mi sembra che la tua possa essere rubricata come una ‘scrittura dalle macerie’, tanto fisiche quanto morali. Chi dice io è una ragazza senza nome. «Tutto – ci racconta nell’incipit – è cominciato prima di me, quando sono nata io, c’erano già disseminate molte infelicità lungo i vari rami della famiglia». C’è un retaggio negativo, c’è una vergogna. La protagonista deve fare i conti con un ambiente familiare che sembra un nido, ma che in realtà si rivela un nodo, un carcere. Quel luogo a me proibito è dunque il romanzo di un blocco e della ricerca di un’identità, che va scavata dentro sé stessi. Un romanzo confessione, capace anche di esplorare la vita psichica di altri personaggi, che sono assolutamente simmetrici rispetto all’io narrante. Da una parte abbiamo l’amica di scuola, Nicla, che è tutto un grumo di azione, una figura assolutamente selvaggia, una donna che rimane incinta suo malgrado a 13 anni. Dall’altra c’è Andrea, figura di un amore tardivo, che consente alla protagonista di riemergere, sia pure con grande fatica. Il tutto con una scrittura estremamente raffinata, pervasa di poesia e di una fortissima carica visionaria.

ELISA RUOTOLO. Vita, amore, corpo e silenzio sono sicuramente le parole chiave di questo romanzo. La vita di cui parlo è un’esistenza mancata, lasciata da parte, perché la mia donna bonsai – così si definisce la protagonista – è stata amputata, dilaniata, potata potrei dire. L’amore è quindi affrontato in termini di negazione, se per un lungo pezzo di vita la mia protagonista decide di obbedire ai divieti, senza scegliere di assecondare il desiderio e la propria vera natura. C’è poi il silenzio in cui lei è confinata, isolata come in un guscio di carne a cui arrivano sollecitazioni difficile da cogliere; e il corpo, che era fondamentale esporre sin dall’immagine di copertina. Esso è la luce che accompagna il lettore lungo le pagine, perché è un involucro che la mia protagonista abita con una scarsa consapevolezza. Molte volte dice “Io non sono mia, non mi sento mia, non mi sento capace di mettere in gioco il mio corpo”. È un corpo che viene definito analfabeta perché incapace di rispondere a qualsiasi sollecitazione esterna: è come se la vita di questa donna fosse collocata in una sorta di bolla esistenziale e in questo spazio il suo tempo ha avuto uno sviluppo diverso da quello degli altri: mentre la vita degli altri correva, lei invece restava indietro, ferma in un limbo e in un’attesa poco consapevole.
Proprio nella prima pagina del libro lei dice qualcosa del tipo “gli altri già tiravano le somme mentre io ero ancora a incolonnare le cifre della mia esistenza”. Si può dire quindi che lei è una donna che è rimasta piccola, indietro rispetto agli altri, una donna bonsai proprio per questo, perché le è stata negata la possibilità dello sviluppo e quindi l’accesso alla vita.
Tuttavia, un appiglio è stato comunque rintracciato: importante è stato difatti il potere dei libri, perché la mia protagonista, pur avendo trascurato la propria esistenza, al contempo l’ha edificata proprio intorno ai volumi che ha letto con voracità per poter esistere. Io credo che lei sia rimasta viva e desiderante nel momento in cui ha appunto permesso ai libri di entrare nella sua vita. Le parole sono importanti in questo racconto, perché oltre al narrare contengono un’esigenza di perdono. La mia donna bonsai prende la parola e contemporaneamente comincia a perdonarsi. Soltanto il silenzio è una forma di auto punizione, mentre il racconto è già una forma di accadimento del sé, una forma di comprensione, sicuramente un modo per abbracciare tutto ciò che si è nel bene e nel male.


VITO SANTORO. A proposito di libri, una curiosità. Tu citi L’affare Marseille, che è un thriller. Ernest Lehman, l’autore, ha scritto Sabrina, è nei titoli di testa di Intrigo internazionale di Hitchcock. Come è finito nel tuo romanzo?


ELISA RUOTOLO. Ne ho un ricordo personale. Mi è capitata proprio quando ero alle scuole medie la situazione che ho raccontato, perché questo libro è un po’ strano, mescola eventi chiaramente inventati a questioni private. Effettivamente quando ero un’adolescente mi capitò di scegliere dei libri da leggere, ma poi, in sostituzione di un libro da me indicato, mi fu dato proprio il testo di Lehman. Quel romanzo, a una ragazzina di 12-13, svelava parecchio della sessualità e dell’uso del corpo. Leggerlo era stata quasi una iniziazione. Ricordo di averlo percepito, in maniera confusa, di non essere innanzi ad un’alta letterarietà, tuttavia mi trasmetteva altro: mi introduceva a un livello di conoscenza che disarmava qualcosa di silente e di accantonato. In effetti mi è accaduto proprio quello che racconto: un testo mi ha aiutato a scoprire quella che non era – e non sarebbe stata – esperienza di vita. Un libro quindi veniva a sostituirsi alla vita, a un suo pezzo non trascurabile.


VITO SANTORO. Perché non ha nome la protagonista?


ELISA RUOTOLO. Non avevo considerato questa cosa in origine. La voce è arrivata così da subito e io così l’ho accettata. Non ho mai pensato né ipotizzato di poter utilizzare una terza persona, un narratore esterno. Volevo raccontare la storia di questa donna dall’interno. Poi però andando avanti mi sono resa conto che, in realtà, questa donna che dice “io”, crea una sorta di empatia molto forte. Molti si riconoscono in lei, ma non soltanto le donne. Dal confronto che ho avuto con i lettori è emerso come sia molto facile l’identificazione con il vissuto di questa donna, con le sue mancanze e con le occasioni che lei ha perduto, con le sue amputazioni, con i suoi rami recisi. Lei non è un essere umano più generico solo perché non ha una onomastica definibile, dietro quell’ “io” c’è piuttosto un discorso di universalità. Alla fine di tutto mi è sembrato di aver raccontato la storia di un essere umano che potesse essere facilmente accessibile da chiunque in termini di vissuto, di esperienze condivisibili. Quindi questo “io” – inconsciamente cercato – alla fine credo che sia stato molto utile proprio a creare questo gioco di rispecchiamento tra lettore e personaggio raccontato.

VITO SANTORO. Il romanzo si articola in tre parti. Ogni parte incorniciata da un’epigrafe. Abbiamo Kafka, Coetzee e Cristina Campo e in certi aspetti dialogano, c’è purezza da una parte e innocenza dall’altra. Com’è nata questa idea?


ELISA RUOTOLO. Ci sono delle citazioni a partire da testi che ho molto amato, sicuramente Vergogna, o anche le Lettere di Kafka a Milena e poi Cristina Campo, straordinaria. Tra la prima e la terza parte c’è un legame molto forte in termini di esergo. Kafka dice «Sono sporco Milena, per questo faccio tanto chiasso con la purezza» e Cristina Campo invece dice «Non si può nascere ma si può morire innocenti». Ecco, la purezza e l’innocenza, che sono quasi sinonimi, e sono funzionali al percorso della mia protagonista. Lei crea un legame molto forte con la purezza, anche se per un lungo periodo la fraintende, forse perché non sa bene cosa significhi effettivamente essere puri. La purezza all’inizio del suo percorso è coincidente con l’assenza del desiderio. Infatti, c’è una traccia all’interno di questo libro che è quella data dal bianco. Questo colore viene citato più volte nel corso del testo, perché percepito come una tinta assolutamente acromatica, cioè come un non colore quasi, spoglio di qualsiasi identificazione. Invece poi, andando avanti, si comprende che non è così, perché il bianco è tutt’altro che un colore acromatico: il bianco nasce dalla sintesi additiva dei tre colori primari, anzi è un colore se vogliamo crudele perché ne divora altri per esistere. E lei dice «Ecco allora io sono come il bianco perché ho divorato le mie passioni, le ho tenute da parte per potermi dichiarare per bene». Questo evidenzia il nucleo di questo romanzo: la ricerca di un perbenismo, di un essere accettati dall’occhio e dallo sguardo degli altri, di cui le pagine sono pregne. Lei viene educata proprio in questa modalità e ad avere questo come unico indirizzo fondamentale della sua esistenza. In realtà l’innocenza è qualcosa di ben diverso e lei lo capirà soltanto col tempo, dopo aver incontrato l’amore della sua vita, cioè Andrea. Con questa esperienza lei capirà che l’innocenza non è al di fuori di te e tu non puoi sperare di trovarla al di fuori del tuo sguardo se non sei capace di costruirla in te. Essa è un approdo graduale non originario, è qualcosa a cui si arriva dopo una lunga riflessione, forse anche dopo un lungo dolore, che è quello che lei ha attraversato. La mia donna bonsai riuscirà ad essere innocente solo nel momento in cui comprenderà che non c’è nulla di bestiale, non c’è nulla di animalesco, nel desiderare. Questo si oppone a ciò che le era stato insegnato (la mortificazione del desiderio e dell’istinto quasi ferino, che in quanto tale doveva essere represso, messo da parte e lasciato andare). Invece no, l’innocenza è qualcosa di diverso. Anche nell’immaginario collettivo è innocente il bambino, che non sa, che non ha ancora l’esperienza adulta, anche se poi questa modalità di pensiero è stata nel tempo anche abbastanza smantellata. In verità l’innocenza non coincide con il non sapere.
Io credo che coincida con la consapevolezza, con l’assumersi la responsabilità di ciò che si è, e soprattutto con l’abbracciare la parte luminosa e la parte meno luminosa che abbiamo dentro. Nel libro parlo di carnivoro ed erbivoro, cioè della natura istintiva e della natura più razionale che ci appartengono nella stessa misura. Dostoevskij ci ha dato nei suoi romanzi un saggio notevole di quanto la natura umana sia complessa, di quanto siamo come dei prismi perché non siamo completamente santi né completamente depravati, ma siamo una sintesi perfetta del bene e del male, della luce dell’ombra. E questo è innocenza, riuscire a guardare le cose del mondo, la realtà con lo sguardo giusto. La mia protagonista ha una visione alterata delle cose. Se noi la osserviamo lungo lo scorrere del romanzo notiamo che, ad esempio, la città di Napoli, le persone che la circondano vengono giudicate con un occhio che non è innocente, ma che lo diventerà in seguito proprio quando smetterà di giudicare. Quindi l’innocenza è un qualcosa a cui lei arriverà più tardi, ma allo stesso tempo è un filo conduttore della storia e forse inconsciamente mi piaceva che la prima citazione e l’ultima si richiamassero un po’ a distanza.


VITO SANTORO. Quel luogo a me proibito si legge con lentezza per accogliere la prosa preziosa che vi è all’interno, oltre alla storia narrata che ha un immenso valore, perché ci racconta dell’evoluzione dell’animo femminile della protagonista. Magnifico.


ELISA RUOTOLO. In effetti questa è proprio l’evoluzione dell’animo di una persona. Io sono molto contenta che questa donna sia stata compresa, perché tutti hanno capito quanto sia doloroso rimettersi al mondo, partorirsi da capo dopo essere stata lungamente dimenticata. Lei riesce a recuperare sé stessa attraverso un lungo percorso che i lettori hanno identificato, notato, apprezzato e quindi sono stati non solo in grado di accogliere le fragilità di questa donna, ma anche la sua estrema forza nel divincolarsi da se stessa.

VITO SANTORO. Il rapporto tra l’io narrante, Nicla e Andrea, è sintetizzato visivamente dalla figura del nodo, lo shibari, che è un rapporto fortemente codificato e preciso. Nello scrivere queste pagine c’è sempre il rischio di andare nel campo del morboso e anche del pornografico, pericolo che tu scantoni in maniera evidente, anzi sono delle pagine fortemente raffreddate. Non c’è niente di morboso.


ELISA RUOTOLO. Assolutamente no. Io credo che si possa raccontare tutto, che non ci sia nulla che uno scrittore non possa narrare se riesce a usare le parole giuste. Anche la scena più forte del romanzo, che è esattamente a metà del libro, quando Andrea e la protagonista è come se si dedicassero a un “giocare” che il mio io narrante non ha mai praticato da bambina, ecco, anche in quel momento di grande tensione erotica, le parole e lo sguardo sono tali da non sforare in una dimensione poco attraversabile. La scrittura rende tutto abitabile, tutto raccontabile. La mia donna bonsai lamenta di non aver mai potuto mettere in gioco il suo corpo, di non averlo potuto “sfrenare” da bambina attraverso il gioco, e poi è come se seguisse Andrea in questo tentativo di liberazione e di abbandono. Lui glielo presenta con leggerezza, quasi come una modalità per sperimentare fin dove si può arrivare nel dominio dell’altro o nel dare fiducia. Andrea è un essere poco rassicurante, e tuttavia rappresenta per questa donna innominata una sorta di essere umano allo stesso tempo familiare, non solo sconosciuto. Familiare nei nodi che viene a proporre, ma anche estraneo nel modo che ha di occupare il suo spazio nel mondo. Credo che quel catalogo dei pericoli che le era stato dato da piccola includesse anche Andrea; tuttavia il proibito ha un’ampia fascinazione, allora ecco che la mia protagonista si innamora proprio dell’opposto, forse perché sta cercando qualcosa che la scuota. I nodi fisici che Andrea le propone sono nodi la rimettono in contatto con quelli originari, quelli che provenivano dal suo vissuto familiare. Eppure mentre giocano “tenendo il pericolo e l’amore sotto controllo” lei comincia a scegliere, e la scelta diventa rinascita e innocenza conquistata. È il momento in cui lei comincia a domandarsi: quali nodi della mia vita voglio tenere? Quali voglio lasciare andare? Quali riesco a sopportare? Nel momento in cui lei riesce a scegliere, rinasce come creatura nuova, desiderante, una creatura che riesce a perdonarsi, abbracciarsi per quel che è. Andrea diventerà uno specchio, così come lo diventerà Nicla, la sua compagna di scuola. Nicla che si lancia nelle cose della vita ad occhi chiusi, che non prende nessuna precauzione, tanto che la troviamo già madre a tredici anni. E alla fine sarà proprio Nicla a darle il senso del suo vissuto perché le dice che “l’amore – forse come la vita – non è igienico”. Lei le sta dicendo che non ci si può proteggere dalla vita e se lo facciamo troppo spesso finiamo col non vivere. In sostanza non si vive senza desiderare: in fondo che cosa saremmo noi se non desiderassimo? La nostra vita è guidata dal desiderio, ogni volta che ci alziamo al mattino il motore è proprio quello: desideriamo qualcosa. Saranno Nicla e Andrea, sono questi esseri che vivono al di fuori del recinto familiare, ad insegnarle e mostrarle la potenza del desiderio, ma soprattutto a non ritenere il desiderio come qualcosa di bestiale.


VITO SANTORO. Una caratteristica di questo romanzo è anche l’ambientazione: un Sud indecifrabile dal punto di vista cronologico.


ELISA RUOTOLO. Sì, anche la mia protagonista è contemporanea, ma fuori dal tempo. È come se ci fossero due dimensioni cronologiche: il passato e il presente si danno appuntamento nelle mie pagine, questa è un po’ una mia caratteristica. Io non riesco a descrivere la modernità piena, come se volessi tenermi fortemente salda anche a un passato letterario che cerco di riproporre nel momento in cui scrivo. Le situazioni che ho inserito a livello cronologico, credo che siano state scelte perché avevano un valore all’interno della storia. Ad esempio, il terremoto dell’80 mi è servito per raccontare questa famiglia anomala, perché controlla, stringe, trattiene, eppure non è poi così salda; anzi essa si spacca proprio nel momento della difficoltà. Le scosse fanno tremare la casa e la famiglia della mia donna bonsai si divide a metà: c’è chi decide di difendersi dal terremoto dormendo in auto in strada (una cosa che avveniva e chi ha vissuto il terremoto dell’80 se ne ricorderà), mentre il padre rimane dentro, nella casa. Questa incapacità di fare gruppo, pur essendo un gruppo invincibile rispetto al fuori e alle sue minacce, queste crepe che alla fine noi troviamo nelle pareti dell’abitazione, in realtà sono le crepe delle loro esistenze. Spesso nella mia scrittura i singoli episodi hanno la funzione di approfondire un dato, di restituirlo sotto forma di situazione narrativa.


VITO SANTORO. Della famiglia dai una definizione che ricorda il “familismo amorale” di Edward Banfield, dove famiglia era questo: «una messa in comune del privato, un difetto dell’autonomia, una continua chiamata in causa dell’altro, un sostenersi che diventa peso». Un nido che poi diventa, a tutti gli effetti, una prigione.


ELISA RUOTOLO. Esattamente, perché è un nido mancato. È una famiglia che invece di dare forza alimenta la sfiducia, educa alla paura e la paura è un fortissimo deterrente. È un microcosmo che alleva la fragilità della mia donna bonsai. Lei dice, infatti, avrei potuto avere anche la forza, avrei potuto anche costruire in me una forza, ma mi hanno educata ad essere fragile. Il problema è il fuori, il mondo, percepito in tutto il suo potenziale negativo. Da esso la famiglia non vuole essere turbata. In questa chiusura e in questo reciproco sostenersi e proteggersi i personaggi diventano peso reciproco. Ognuno si appoggia all’altro, come se avesse un’invalidità latente. È una situazione molto asfittica che a lungo andare è destinata a esplodere.


VITO SANTORO. Uno dei temi principali del romanzo è quello di accettare la parte sconosciuta di ognuno di noi.


ELISA RUOTOLO. Sì, è accettare il desiderio che molte volte noi tendiamo a mettere da parte come non necessario nella nostra vita. Alla mia donna bonsai viene detto che tutto quello che è superfluo va tenuto da parte, e soprattutto il godimento, il piacere, il desiderio. Siccome è qualcosa di effimero, che apparentemente non dura, le viene chiesto di tenerlo da parte. Sono importanti altre cose come l’essere per bene, essere approvati dallo sguardo degli altri, quindi il decalogo include questo e altre cose ritenute più vitali.

VITO SANTORO. Dal punto di vista stilistico, questo romanzo è molto diverso da Ovunque proteggici. La domanda è ovvia, dopo il grande successo che hai ottenuto perché hai scelto di percorrere una strada molto diversa?

ELISA RUOTOLO. Io ho la “sindrome dell’opera prima” si potrebbe dire. Ho scritto racconti, poi un romanzo, poi un libro per ragazzi, ho curato un’antologia poetica, poi ho scritto un libro di poesie e ora un altro romanzo come se, ogni volta, io volessi cominciare. Ovunque proteggici era un testo stilisticamente molto roccioso, molto complesso, qui invece io entro nell’animo di un essere umano. Ho avuto bisogno di un approccio più morbido, una lingua che poi ha risentito molto della poesia, perché prima di scriverlo, per anni, ho letto molta poesia, soprattutto ho letto Antonia Pozzi. Tutta la sua produzione, oltre ad informarmi sulla sua esistenza e devo dire che il mio stile e la mia voce ne hanno molto risentito. Per raccontare un essere umano dall’interno, come in una giara, io mi son calata nell’inferno di questa donna. Ho raccontato e condiviso il suo dolore, le sue mancanze, la sua voglia di emanciparsi rispetto a una vita che non era soddisfacente. Antonia Pozzi è stata fondamentale perché quel malessere l’ho trovato nei suoi versi. Quando lei scrive quella bellissima poesia in cui dice «Guardami, sono nuda» lei racconta e mostra il suo corpo, in un tempo in cui le donne sostanzialmente tendevano a non farlo. Quella poesia mi ha colpito e mi ha portato anche a immaginare la possibilità di descrivere quanto un corpo possa essere trascurato, anche maltrattato, nel momento in cui viene privato della sua libertà d’espressione e dal suo bisogno di essere visto. Quindi Antonia Pozzi e la poesia credo che abbiano molto influito sullo stile di questo mio ultimo romanzo rispetto ad Ovunque proteggici.

VITO SANTORO. A proposito di Antonia Pozzi, c’è un nesso fortissimo tra poesia e vita, che ha portato la poetessa a bruciare il proprio tempo e la propria vita. C’era una fame talmente forte che l’ha portata a una fine precoce e voluta.

ELISA RUOTOLO. Assolutamente sì, non per il gesto in sé. Lei è immensa proprio per la sua capacità di raccontare che cosa significhi essere invisibili. Antonia racconta il suo dolore e la sua invisibilità rispetto ai genitori. La cosa che mi colpisce sempre leggendo i suoi versi è la sua capacità di oggettivazione: il dolore lei lo vede nei paesaggi, negli oggetti, nei fiori, in tutto quello che ritrae (anche fotograficamente perché era una straordinaria fotografa). Riesce a mostrare ciò che ha dentro, anche attraverso le lettere, il suo epistolario difatti è tra i più preziosi (per quanto probabilmente alterato da manipolazioni di chi voleva proteggerne la memoria, e ha ulteriormente sacrificato la sua voce). Antonia Pozzi è stata una luce potentissima, che mi ha guidato verso il corpo, soprattutto verso quello della mia donna bonsai.

VITO SANTORO. L’autobiografia di Antonia Pozzi che hai scritto per ragazzi per l’edizione rueBallu, potrebbe essere un buon inizio per chi non avesse mai letto le opere di questa straordinaria artista. C’è un dialogo molto preciso tra le illustrazioni di Pia Valentinis e il tuo testo, che dà un’idea molto precisa dell’opera della Pozzi. Consiglierei a tutti la lettura di Antonia Pozzi e del tuo libro, che è per ragazzi ma non solo. C’è anche la raccolta che hai curato delle Mia vita cara. Cento poesie d’amore e di silenzio di Antonia Pozzi. Leggete Elisa Ruotolo, ma leggete anche Antonia Pozzi.

VITO SANTORO. Tornando allo stile del libro, un altro aspetto che mi ha incuriosito è che non ci sono termini dialettali. È molto letteraria come scelta…Non ci sono Nemmeno le classiche paroline in corsivo.

ELISA RUOTOLO. …che invece erano presenti nelle mie precedenti scritture, sì, hai notato una cosa importante. La mia protagonista, a un certo punto, dice che per allontanarsi dall’universo da cui proveniva aveva fatto delle scelte anche linguistiche, semantiche, fonetiche molto particolari. In pratica aveva educato il suo linguaggio. E quindi lei, che ha escluso qualsiasi interferenza dialettale nella sua modalità d’espressione, è chiaro che nel momento in cui si esprime in prima persona rimane coerente con questa scelta. Infatti, critica Andrea che non si preoccupa minimamente di fare uso del dialetto.

VITO SANTORO. «Benedicevo i libri perché li abitavo in solitudine». C’è questo rapporto fortemente simbiotico con la letteratura che diventa un altro corpo per certi aspetti.

ELISA RUOTOLO. La letteratura diventa esperienza per questa donna che non ha avuto modo di farne. C’è una scena nel libro, quando lei bambina va a cambiare canale nel momento in cui in tv c’è qualcosa di spinto, che potrebbe turbare la serenità della famiglia, e lei dice invece che i libri le permettevano una libertà: quella di non voltare pagina, poiché nessuno vedeva le parole. Per esempio il libro di Lehman nessuno poteva proibirglielo. I libri trasmettono immagini escludendo il gioco degli occhi. C’è piuttosto una dimensione mentale che, in quanto nascosta, diventa praticabile, percorribile.

VITO SANTORO: Il tutto poi è dovuto a un problema di convivenza con i genitori che si prolunga ben oltre il previsto, che è un tema tipicamente italiano.

ELISA RUOTOLO. Lei però non ha il problema per cui in genere si resta in famiglia. Non ha problemi di lavoro che le impediscono di allontanarsi, lei resta lì perché non ha avuto occasioni (o forse non ha voluto vederle), e perché si è accomodata in una dimensione di obbedienza. Le occasioni della vita lei le definisce come una “mercanzia che il venditore aveva tenuto da parte come in un retrobottega e lei non aveva nemmeno pensato di poter chiedere altro”. La mia donna bonsai comincia a pensare di poter desiderare e chiedere nel momento in cui qualcuno bussa alla sua porta, ma fino a quel momento lei non si era posta il problema della propria indipendenza. In lei vive un qualcosa che ci riguarda da vicino. Io credo che questo libro sia molto stratificato. Ci sono i nodi che vengono imposti dalla famiglia o quelli sociali, però ci sono anche dei nodi interiori che sono i più difficili da sciogliere, perché auto inflitti, interiorizzati, accettati. Io torno al Dostoevskij che fa dire a Ivan Karamazov: “io mi son convinto che in realtà l’essere umano non vuole essere libero, ma preferisce che qualcuno gli dica che cosa fare perché la scelta è difficile, scegliere è molto più difficile di obbedire”. Se qualcuno ti dice “fai questa cosa” è molto più facile seguire un’indicazione che non dire “no, io desidero altro”. Questa donna per un lungo periodo è rimasta a casa perché non ha voluto scegliere, non ha sentito l’esigenza e il bisogno recuperare un proprio spazio. Ecco, il nodo universale raccontato dal mio romanzo.