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Grado Zero

In Sesto Potere

Su The Mandalorian, The Book of Boba Fett e la riscrittura del concetto di spin-off nel panorama trans-mediale contemporaneo

di Giovanni Morese

This Is The Way”

Mai citazione fu più profetica. Parliamo di The Mandalorian, prodotto live-action di punta della piattaforma streaming Disney+ fin dal suo lancio sul mercato internazionale, giunto il 1° marzo al terzo ciclo di programmazione con il rilascio dell’attesissima premiere. Oltre all’indubbia bellezza di un episodio che riporta la qualità in queste storie dopo lo scricchiolante esperimento di Obi Wan Kenobi, ciò che salta immediatamente agli occhi dello spettatore è la conferma di una tendenza rivoluzionaria nella costruzione della lore ultra-quarantennale dell’universo Star Wars. Difatti la puntata, denominata Chapter 17, non figura minimamente come il naturale proseguimento del capitolo precedente. Chi credeva di ritrovarsi dinnanzi allo status quo del finale – andato in onda il 18 dicembre 2020 – che vedeva il Mandaloriano protagonista separarsi apparentemente per sempre dal suo fido amico Grogu, non solo rimarrà sorpreso, bensì anche profondamente perplesso e disorientato. Questo perché la storyline orizzontale della serie è proseguita ed ha anche avuto risvolti narrativi di fondamentale importanza all’interno dello spin-off The Book Of Boba Fett, show andato in onda lo scorso anno, proprio a cavallo tra Season Two e Season Three. La trama, incentrata sul personaggio incontrato per la prima volta in The Empire Strikes Back del 1980 e interpreto sul piccolo schermo da Temuera Morrison a partire dal 2020, ha di fatto riscritto il concetto di serial storytelling, fungendo sia da contenitore delle vicende di questo personaggio che da diretto sequel del Mandaloriano. Se i primi quattro episodi avevano posto quindi le basi per una storia in salsa western focalizzata sui giochi di potere relativi alla gestione del noto pianeta desertico Tatooine da parte del cacciatore di taglie e della mercenaria Fennec Shand, a partire dal quinto non solo ci siamo ritrovati di fronte ad un prodotto totalmente diverso, in cui il protagonista viene da un momento all’altro messo da parte a favore di personaggi che, al massimo, avrebbero dovuto fare un’apparizione crossover in funzione della trama della serie, bensì ad una storia che nel Season Finale non fa assolutamente brillare il suo lead character, a favore di un Grogu deus ex machina che si sostituisce prepotentemente e insensatamente sulla scena. Emblematica anche l’ultima scena, che non vede la presenza di Boba ma del duo della serie principale riuniti per nuove avventure, collegandosi ad un opener episode della terza stagione che evita così di fornire al teleutente un doveroso recap di quanto accaduto ai due all’interno di un prodotto diverso che si dà, quindi, per scontato essere stato seguito. E la situazione non potrà che peggiorare, con le nuove serie tv spin-off Ahsoka e Skleton Crew in arrivo tra questo e il prossimo anno. Che cosa stiamo guardando, quindi? A cosa sta andando incontro esattamente il panorama trans-mediale contemporaneo? Siamo di fronte ad un nuovo format che presto riusciremo a collocare in maniera puntuale all’interno dei complessi e mutevoli linguaggi cine-televisivi? Effettivamente il messaggio della major parla chiaro, considerando anche il caso Marvel di Doctor Strange – In the Multiverse of Madness, film uscito a maggio dello scorso anno e sostanziale sequel non del primo capitolo sul personaggio, bensì della serie televisiva Wanda Vision del 2021, senza la quale la visione di questo prodotto risulta alquanto incomprensibile: questa nuova modalità di interconnessione mediale pare non tener conto della nostra libertà in qualità di fruitori di storie. E così, schiavi di strategie di marketing che ledono la narrativa seriale e cinematografica attraverso la creazione di micro-universi frammentari e mutilati, potremo decidere se impelagarci sempre di più nella visione di percorsi quasi orgogliosamente privi di una loro identità o se, forse in maniera più dignitosa, decidere di premere il tasto play altrove.

In Sesto Potere

Audiolibri: i pro e i contro di questo nuovo modo di fruire la lettura

di Ilaria Orzo

Come abbiamo già potuto vedere, gli audiolibri sono ormai più che diffusi. Nonostante questo, non tutti sono ancora realmente convinti che utilizzarli possa essere vantaggioso. Infatti, sebbene siano sempre di più i lettori che si affidano a piattaforme come Storytell e Audible, per citare le più famose, sono tanti anche quelli che continuano ad accostarsi a questa modalità di lettura con diffidenza e, talvolta, ostilità.

Da che parte sta la ragione? Ovviamente, non può esistere una risposta valida in termini assoluti: le esperienze di lettura sono assolutamente personali e individuali. Possiamo, però, provare a individuare i pro e i contro della “lettura ascoltata” per avere un quadro generale più completo e capire se può fare al caso nostro o no.

Indubbiamente, i vantaggi che si traggono dall’audiolettura sono numerosi e molto significativi.

Per prima cosa, sfruttare gli audiolibri significa ottenere un notevole risparmio da due punti di vista: lo spazio e il denaro. Materialmente parlando, gli audiolibri non sono voluminosi, tutto ciò che occupano è una parte di memoria dello smartphone o tablet, su cui è necessario scaricare l’applicazione associata alla piattaforma. Dunque, non si corre il rischio di ritrovarsi sepolti in casa a furia di comprare libri; siate onesti: sebbene il sogno di tutti i più accaniti lettori sia quello di avere una casa che ricordi anche solo vagamente quella di Umberto Eco, la realtà può essere ben diversa. Ma anche dal punto di vista economico il risparmio è palese: un abbonamento mensile ad una piattaforma per audiolibri ha, in media, il costo di un libro cartaceo in versione economica. Allo stesso prezzo, quindi, si potrà accedere ad un numero infinitamente superiore di titoli: non male.

Ma non è tutto. Gli audiolibri consentono di leggere in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, come si fa quando si ascolta la radio o un album musicale: che ci si trovi a letto, ai fornelli, in auto, sull’autobus, al parco o sotto la doccia, non è importante. Questo punto a favore convince soprattutto i pendolari e coloro che, per un motivo o per un altro, non riescono a fermarsi se non alla fine della giornata, quando ormai sono troppo stanchi per leggere e possono dire addio ai libri abbandonati per mesi e mesi sul comodino prima di essere conclusi.

C’è poi un vantaggio assai pratico. Quando si hanno uno spazio limitato a disposizione e un portafoglio con cui dover fare i conti, si è costretti a scegliere quali volumi acquistare e quali no. Potendo accedere a una libreria virtuale molto vasta e potendolo fare ad un costo fisso, invece, ci si può concedere di ascoltare anche quei libri che sappiamo destinati a non stravolgere i nostri interessi e non avranno un posto speciale nel nostro cuore, ma che comunque suscitano la nostra curiosità: l’abbonamento è comunque pagato, tanto vale approfittarne.

L’ultimo vantaggio che abbiamo individuato, invece, colpirà sicuramente i lettori più romantici e sognatori. Se è vero che c’è un libro giusto per ogni umore e ogni situazione, infatti, è anche vero che non è possibile avere la propria libreria fisicamente sempre con sé e, quindi, ci sono delle situazioni in cui la lettura da fare potrebbe rivelarsi obbligata e, per questo, poco piacevole e partecipata. Pensiamo, ad esempio, ad un viaggio: la scelta delle letture da portare con sé viene fatta con anticipo, ma chi ci assicura che i libri che al momento del fare la valigia ci sembrano interessanti e adatti siano gli stessi che vorremo leggere anche una volta giunti a destinazione? Certo, si può sempre correre ai ripari provando a raggiungere una libreria e comprando qualcosa di nuovo, ma non è detto che questo sia possibile. Sfruttando gli audiolibri, invece, il problema non si pone: basterà sfogliare il catalogo e scegliere la lettura che ispira il momento, senza neanche il rammarico di aver occupato invano spazio in valigia.

Insomma, i punti a favore sono davvero tanti e tutti molto importanti. Ma, se qualcuno non è ancora del tutto convinto, un motivo forse c’è. Anzi, più di un motivo.

I primi “contro” individuati sono di carattere pratico. Innanzitutto, bisogna tenere conto del fatto che il telefonino e il tablet possono scaricarsi in qualsiasi momento, e non è detto che si sia nelle condizioni di poter ricaricare il dispositivo; in quel caso, si dovrebbe forzatamente interrompere la lettura in ascolto, magari proprio sul più bello. Un libro cartaceo, invece, è sempre pronto all’uso.

Inoltre, mentre con un volume tra le mani è semplice ritrovare l’eventuale segno perso o una frase che ha colpito particolarmente, con un audiolibro è un qualcosa di meno immediato; non impossibile, certo, ma meno immediato. Anche rimandando indietro l’audio, infatti, ci potrebbe volere un po’ di tempo prima di individuare il punto esatto che si sta cercando: questo significa che la soglia dell’attenzione durante l’ascolto deve essere sempre alta.

Le altre perplessità, invece, sono più “romantiche” e legate al valore che l’esperienza della lettura ha per ciascun individuo.

Un audiolibro non permette di sottolineare le citazioni più belle e i passaggi che si ritengono più significativi. Tra i lettori, quella della sottolineatura è una pratica molto comune e spontanea, l’espressione di un legame con il libro che si ha tra le mani e del processo di empatia. E questa, per qualcuno, è una pecca da non poter ignorare.

Altri, invece, puntano il dito contro l’influenza che si può subire concentrandosi sul tono di voce del lettore. Chi legge il libro conosce già la storia che sta per raccontare e, dunque, adegua il tono di voce non solo al personaggio che interpreta, ma anche ai fatti narrati. Questo, sebbene aiuti a sentirsi coinvolti, a volte può fungere da rivelazione circa ciò che sta per accadere: un tono di voce che diventa improvvisamente più grave, ad esempio, non lascia presagire nulla di buono. Insomma, più che una lettura, ci si sente quasi di fronte ad film di cui si può ascoltare solo l’audio.

Infine, quello di cui i lettori più incalliti sentono più la mancanza quando approcciano agli audiolibri è la possibilità di vivere in prima persona i loro amici più preziosi: l’odore della carta, la delicatezza delle pagine a contatto con i polpastrelli, il vedere i volumi posizionati l’uno accanto all’altro in quell’ordine che si è scelto con tanta cura e quella sensazione di sicurezza che riescono a trasmettere sanno essere insostituibili.

Come dicevamo all’inizio, è impossibile schierarsi da una parte o dall’altra: tutte le motivazioni per apprezzare o disdegnare gli audiolibri sono valide e assolutamente soggettive, proprio perché soggettiva è l’esperienza della lettura. E, comunque, è bene tenere a mente che una cosa non esclude l’altra: i cartacei e gli audiolibri possono essere alternati in base alle necessità e alle voglie del momento, nessuno ci obbliga a fare una scelta. L’importante è leggere, in qualsiasi modo si preferisca farlo.

In Sesto Potere

Siamo ancora nazionalpopolari (ma Gramsci non c’entra: c’entra Pippo Baudo) – II e ultima parte

di Antonio R. Daniele

Con gli ultimi mondiali Mamma Rai ha tentato di giocarsi il jolly, anzi due, e ha portato al microfono e dietro le telecamere due prodotti eccentrici rispetto alla tradizione, nella persuasione – evidentemente – che ormai il racconto del calcio debba andare in una certa direzione. Ed ecco Daniele Adani e la BoboTV, il primo portabandiera della narrazione da bar sport (per quanto mescolata a un atteggiamento da nerd della materia), la seconda frutto dell’autogestione nella giungla della rete che, come tutte le giungle, ha la propria scimmia urlatrice e sulla quale parole non ci appulcro. Quanto ad Adani, invece, è accaduto qualcosa di strano, ma fino a un certo punto: l’Italia calcistica e non solo lo ha messo sotto processo, rimproverandogli il fanatismo del calcio sudamericano, soprattutto quello di lingua ispanica, nell’incrocio tra Argentina e Uruguay. Il neopaganesimo adanico – lo sappiamo – si traduce nella commossa idolatria per Messi e per tutto quel che con lui ha a che fare. Più estesamente, con tutto ciò che viene dall’altezza cosmogonica del Rio de la Plata. E così, ad ogni alito platense, si udiva al microfono il ruggito del nostro eroe, nelle pasticciate (e spesso inventate) catene semantiche di una millantata e improbabilissima cultura argentino-uruguaiana (“uruguagia!”, mi rimbrotterebbe Danielito da Correggio, dall’alto del suo culatello della Pampa). E, per quella approssimazione che solo i governativi della tv sanno avere, gli strepiti virulenti e naïf di Adani sono stati accostati alla sobrietà asburgica del bolzanino Bizzotto, il quale ha dovuto sacrificare la sua notevole competenza nell’arte della telecronaca per non apparire troppo fuori luogo rispetto ai fragori di Adani che intanto latrava dalla sua cabina-barrio. Dopo le prime telecronache, è scoppiata la polemica: Adani è inascoltabile, è troppo “tifoso”; è inaccettabile che faccia telecronache sulla rete di Stato, ha sentenziato il popolo del web, tra un post e l’altro. Cosa davvero curiosa, a pensarci. Prima di tutto perché l’Adani che i nostri timpani hanno udito nelle settimane passate è lo stesso Adani che ha imperversato su Sky per anni e anni; in secondo luogo perché il popolo del web – che si presume non avere l’età media di coloro che sono nati alla tv con Pippo Baudo e Mike Bongiorno – non solo dovrebbe conoscere i vezzi di certi commentatori, ma con buona probabilità ha un abbonamento a una delle piattaforme dello sport a pagamento. Dunque, da dove vengono tanta meraviglia e tanta insofferenza?

Forse il popolo del web non è poi così piegato alle regole dell’odierno calcio mediatico e, magari, nonostante la passione, dovendo scegliere preferisce comprare un maglione in più ai propri figli che pagare per vedere pettinatissimi damerini appresso a un pallone; forse c’è chi pensa che quel che vale in un contesto non possa o non debba valere in un altro e si reagisce come con l’amico compagnone che in casa di estranei condivide le stesse gag che usa con i suoi amici di sempre: scatta la gelosia e se ne parla male. Forse c’è ancora una discreta fetta di pubblico legata alla tv di Pippo Baudo o cresciuta sulla base di certi fenomeni culturali: sono quelli che passano più tempo davanti al teleschermo, che affondano col corpo nella poltrona e cercano il telecomando che si è andato a infilare tra il cuscino e la mantella. Ed è accaduto che una delle più note voci del commento tecnico italiano – a torto o a ragione –, uno dei nomi mediaticamente più sfruttati e celebrati, è stato ripudiato dal pubblico della tv in chiaro, che è ancora quello che genera “l’opinione pubblica”, perché non è volatile e liquido come quello che paga gli abbonamenti o smanetta in rete. Il pubblico dei ballerini sotto le stelle e delle cronache in diretta, degli “accendiamo”, dei pacchi, doppi pacchi e delle ghigliottine è ancora vasto. Ed è ancora quello che decreta i destini di dirigenti e direttori di rete. E non è bastato il clamore sorto attorno a certe telecronache per far sì che le ragioni del richiamo reclamistico (“chissà cosa dirà Adani in finale commentando Messi”, si chiedevano in molti) avessero la meglio sul profilo dell’azienda e sugli accordi fatti a monte: nessuno se l’è sentita di negare ad Alberto Rimedio e Antonio Di Gennaro la telecronaca della finale per promuovere i ringhiosi rintroni di Adani, specie dopo che i due dovettero dare forfait per quella degli europei, vittime del Covid proprio alla vigilia. Certo, altrove se ne sarebbero infischiati. Anzi, altrove Rimedio e Di Gennaro non potrebbero sperare di commentare nemmeno la finale di un torneo di scopetta. Non ce ne vogliano: Adani è certamente improponibile nelle sue arringhe calienti ad ogni mossetta di Messi, ma la coppia di punta della Rai è coinvolgente quanto due cacciatori di iceberg. Sta di fatto che certi fenomeni non sfondano sulla tv di Stato, dove va ancora molto di moda il “popolare” inteso esattamente come quello che Enrico Manca credette di rimproverare agli italiani più di trent’anni fa, quando si lamentava del fatto che amassero Baudo e la Carrà. Chiamò “nazionalpopolare” quel fenomeno (scatenando le ire del presentatore siciliano) e qualcuno pensò a Gramsci, a finissime analisi di ordine socio-storico. No: era solo la constatazione che la fiamma resta più facilmente accesa quando è lenta ma costante, piuttosto che alta e guizzante. Che il modello Baudo tira ancora più di Adani: appiattire, modellare, livellare su comode certezze, rassicuranti come una balia. In barba a tutte le garre charrue e a tutti i cammelli dribblati nel deserto.

(qui la I parte: https://www.letterazero.it/siamo-ancora-nazionalpopolari-ma-gramsci-non-centra-centra-pippo-baudo/

In Sesto Potere

Siamo ancora nazionalpopolari (ma Gramsci non c’entra: c’entra Pippo Baudo) – I parte –

di Antonio R. Daniele

Mentre al cospetto di un emiro sbalordito non più che compiaciuto Emiliano Martínez compiva le sue prodezze priapee (Mérimée diceva che “la storia, come un idiota, meccanicamente si ripete”: ecco, se Messi è il predestinato come Maradona, di questa massima il portiere argentino è solo l’idiota), pensavo che quasi trent’anni di tentata rivoluzione mediatica, di sconvolgimenti televisivi, di albe di nuovi giorni, in Italia non sono serviti a nulla: dalle nostre parti è ancora la terna poltrona-pantofola-telecomando a dettare legge. E il telecomando che va per la maggiore è ancora quello cantato da Arbore molti anni fa. Il “popolare” sta ancora lì: tra il telegiornale e il quiz. E tutto quello che prova a mettersi in mezzo finisce come nelle crisi di rigetto di una operazione chirurgica mal riuscita. I recenti mondiali televisivi Rai ne sono stati l’ultima e, forse, definitiva conferma (per inciso, avrete notato che, quando l’Italia non si qualifica, Mamma Rai ci offre il pacchetto intero; altrimenti un malloppetto di partite scelte, chiaramente le più noiose, tra le quali quelle della Nazionale. Tuttavia, c’è di buono che, con questi chiari di luna, possiamo legittimamente sperare nella All Inclusive anche per il 2026). Siamo televisivamente conservativi, anzi retrogradi. E lo siamo con un certo grado di orgogliosa fierezza. Quando nella primavera del 2012 il Digitale Terrestre si spalmò su tutto il territorio nazionale, completammo il celebre “switch-off” con soddisfatto slancio tecnologico: mai più interferenze, una offerta molto più ampia, un palinsesto infinito. Soprattutto, giungeva la grande novità del canale tematico: chi ama il cinema avrà i suoi canali, chi ha bimbi in casa (anche di 40 anni) ne avrà altri e i fanatici dello sport potranno passare 24 ore al giorno su spazi televisivi appositamente dedicati. E così la Rai, che misurava il polso del Paese e sapeva che siamo un popolo di poeti, di navigatori, di santi, di eroi ma anche di lettori della Gazzetta dello Sport che fingono di leggere Proust, aprì non uno ma due canali per lo sport, al 57 e al 58 del Digitale Terrestre. E sembrò a tutti l’inizio di un’altra era: finalmente coloro che consideravano una seccatura dover aspettare un film, un varietà, un quiz, le previsioni del tempo e il telegiornale prima di vedere il grande evento sportivo avevano non uno ma addirittura due canali sui quali la nostra tv di Stato ci avrebbe garantito tutto lo sport in diretta e in chiaro. Quello che vedevamo a spizzichi e bocconi tra un canale e l’altro, quello che intercettavamo tra le pieghe del palinsesto stantio della vecchia tv generalista sarebbe stato spazzato via dalla mirabolante offerta televisiva del 57 e del 58. Ebbene, a dieci anni di distanza si può dire che la rivoluzione è stata mancata. Del tutto. E non soltanto perché coloro che ingenuamente credevano che il 57 e il 58 sarebbero stati il faro di fatti sportivi destinati ad entrare nella storia hanno ben presto capito che la maggior parte del palinsesto sarebbe stato occupato dal curling, dal biliardo (nelle funamboliche varianti della carambola o del pool o dello snooker) e dalle repliche della Domenica Sportiva dei tempi di Alfredo Pigna, ma anche perché gli eventi di maggior richiamo avrebbero riguardato al massimo il calcio della serie C e, quando andava di lusso, un po’ di pallavolo e di pallacanestro. E soprattutto, perché i dati Auditel dicevano che gli italiani non si abituavano e non si volevano abituare al criterio del canale tematico, che riscuoteva un successo modesto, tanto che un paio di anni fa Rai Storia, Rai Movie e Rai Premium hanno rischiato il taglio. Quanto allo sport, lo scarso appeal dei nuovi canali ha riguardato non soltanto il tempo, diciamo così, “ordinario”, ma anche le occasioni dei grandi appuntamenti sportivi. Da quando esiste il DT, abbiamo avuto – solo per restare al calcio – tre campionati del mondo e tre campionati europei: nessuno di essi è stato trasmesso sui canali tematici. La Rai ha preferito offrirli sulle reti ammiraglie/generaliste. O, forse, col tempo ha compreso che i suoi utenti più fedeli, quelli che garantiscono gli ascolti e, quindi, gli inserzionisti che pagano meglio, non stanno sul 57 e sul 58, ma ancora sul “primo” e sul “secondo”. E anche un po’ sul “terzo”. Col risultato, però, che con gli anni Rai Sport 2 è diventato il canale SD rispetto all’altro, passato in alta definizione, fin quando è servito soltanto come riempitivo, per repliche di repliche o per il freestyle e il ciclocross (con tutto il rispetto che si deve, non proprio eventi di portata mondiale) e ora non esiste più: nel piano di riorganizzazione, l’azienda ha dovuto alzare bandiera bianca e riconoscere che quei due canali tematici per lo sport, nati dal convincimento di poter sollecitare la passionaccia degli italiani, creduti esperti di pallone come di polo e di cricket, erano troppi ed erano una spesa inutile. Per cui ora ne abbiamo uno solo che, nel momento in cui scrivo (e da stamattina), sta trasmettendo in esclusiva le repliche del mondiale senza soluzione di continuità. Naturalmente in tutto questo hanno pesato trent’anni di pay tv, da Tele+ a Sky a Dazn, che hanno inciso sia sulle dinamiche di fruizione dello sport più popolare sia sulla sua narrazione. Hanno inciso anche su alcune abitudini degli italiani che parevano eterne: se oggi un ventenne non sa e non è in grado nemmeno di immaginare cosa sia stato il Totocalcio e la “schedina”, cosa volesse dire “montepremi” e fare un “tredici”, lo si deve al fatto che i diritti televisivi ci hanno privato di uno dei cardini della storia mediatica del nostro calcio, ossia la simultaneità dell’intera giornata di campionato. Il 29 agosto del 1993 il primo posticipo ci parve un po’ una bestemmia, un po’ un fenomeno destinato a non durare e al massimo la concessione fatta dalla intoccabile domenica pomeriggio. Fu, invece, uno scisma. Perché a quel primo dogma infranto seguirono molti altri fino alla situazione attuale in cui praticamente si gioca tutti i giorni e a tutti gli orari tranne la domenica pomeriggio. Così il Totocalcio, che fondava la sua fortuna sulla possibilità di incolonnare 13 pronostici esatti fino al sabato sera e all’ultima ricevitoria aperta, è affogato nello spezzatino delle piattaforme. E sono sparite (o sono in forte declino o si sono dovute “ripensare” se non proprio rivoluzionare) anche storiche trasmissioni. “Quelli che il calcio” ha resistito finché ha potuto: già molto cambiata rispetto alla rutilante versione di Fazio (indubbiamente la migliore) e passata a essere un varietà in cui il calcio era un pretesto (ma in cui il calcio esisteva ancora), è diventato un programma non più collocabile nel palinsesto perché anche quel minimo pretesto (almeno tre o quattro partite in programma la domenica pomeriggio) è venuto meno. “90° minuto” da tempo non è più il programma che dava le prime immagini e le prime trepidazioni agli italiani. Anche Mediaset ha dovuto rinunciare alla simpatica “corrida” di Piccinini e Mughini perché ben presto non ha avuto più senso allestire un salotto per parlare di partite giocate tre giorni prima e sulle quali avevano già detto tutto Caressa e i suoi accoliti, con giacca e senza giacca. E poi Mangiante, Trevisani, Marchegiani, Adani. E tutta la corte dei miracoli dei “Dilettanti” Dazn (intesi come Diletta e i suoi colleghi, ça va sans dire…), tra una storia e un reel.

(qui la II parte: https://www.letterazero.it/siamo-ancora-nazionalpopolari-ma-gramsci-non-centra-centra-pippo-baudo-ii-e-ultima-parte/)

In Balloon

Lo strano caso dell’invisibilità dello scrittore di fumetti: “L’Uomo con la faccia in ombra” – Tito Faraci (Feltrinelli Comics, 2022)

di Umberto Mentana

Era il 1983 quando Alfredo Castelli, dominus per eccellenza del fumetto seriale italiano portava in stampa con la collaborazione di Gianni Bono e Silver – il “papà” di Lupo Alberto – un agile manualetto intitolato emblematicamente Come si diventa autore di fumetti, allegato alla storica rivista Eureka della Editoriale Corno. In quelle snelle ma intense circa sessanta pagine veniva per la prima volta messo in chiaro un concetto che sembrava e tuttora sembra essere scontato ma che ancora non riesce a fare breccia nel lettore-fumettaro: dietro ad ogni storia a fumetti c’è qualcuno che scrive e sceneggia una storia, e non per forza questo qualcuno (o qualcuna) è capace o semplicemente non vuole e non è suo compito disegnarla! Castelli, onnivoro sceneggiatore e soggettista delle testate più note del fumetto seriale italiano, da Martin Mystére a tantissimi altri, non per ultimo Diabolik – di sua firma è infatti l’idea di base dell’inedita “trilogia” sceneggiata da Tito Faraci di cui è protagonista il “Re del Terrore” conclusasi proprio questo Novembre in occasione del sessantesimo compleanno del personaggio creato da Angela e Luciana Giussani –, nel suo libriccino dedicava finalmente spazio alla figura e al ruolo dello “scrittore per immagini”, anzi per vignette, cosa mai accaduta prima di allora nel panorama culturale italiano, arrivando appunto anche a proporre come trasformare un soggetto puramente letterario in un testo “atto ad essere illustrato”. Dicevo, ne sono passati decenni, e la lezione di Castelli-Bono-Silver, nonostante abbia aperto più di una porta è purtroppo tutt’oggi ancora per lo più confinata agli addetti ai lavori, ed è invece per riflesso lo stereotipo che vige e domina il microuniverso fumettistico: “Come dici, scrivi fumetti? Quindi sai disegnare!”, siamo ancora ben fissati a questo punto, anche se qualcosa si muove almeno per quanto riguarda la considerazione del fumetto su scala nazionale. Fenomeni letterari come Zero Calcare, Gipi, Fumetti Brutti e la triste nomenclatura che è stata affibbiata loro di “autori completi”, visto che sia scrivono che disegnano le loro storie (come se i “soli” disegnatori o sceneggiatori non fossero completati a loro volta) hanno per certi versi scardinato nel nostro territorio tanto indisponente sul fumetto quel sistema di analisi del medium fumettistico come letteratura di serie B –  roba che in Francia sarebbe impensabile, vista l’alta considerazione che ha sempre avuto la bande dessinnée – proprio per i contenuti profondi e stimolanti delle loro storie e assecondando l’assurdo compromesso della tanto dibattuta dicitura “Graphic Novel” per i loro libri, tanto comoda al mercato editoriale ma che sempre fumetto rimane (ricordatelo!). Perlomeno  oggigiorno non c’è libreria italiana che non abbia una sezione fumetto, nonostante siamo tradizionalmente il Paese di geni artistici riconosciuti unanimemente come Andrea Pazienza, Magnus, Milo Manara, Hugo Pratt; è decisamente un passo in avanti per quanto riguarda la divulgazione della Nona Arte ma il lettore è ancora lì, a dibattere che non ci può essere una figura professionale che si occupa solamente di scrivere la storia e di “metterla in scena” per poi consegnarla al disegnatore o alla disegnatrice di turno.

            Tito Faraci è sicuramente uno dei nomi più noti se parliamo di scrittura nell’ambito del fumetto, è un autore camaleontico, ci continua a portare quasi ogni mesi da ormai qualche decennio in universi su carta molto differenti tra loro, in storie ugualmente accattivanti che hanno in comune, solo apparentemente dietro le quinte, la firma de L’uomo con la faccia in ombra. Ed è infatti proprio questo il titolo dell’ultimo lavoro di Faraci per, possiamo definirla una major (aggiungo, finalmente!) Feltrinelli Comics, collana da lui stesso curata, e questa volta non è un fumetto ma qualcosa di meglio: è la posizione perfetta da cui spiare e osservare come effettivamente si fa un fumetto, ovvero come si scrive una storia per la Nona Arte, posizionando finalmente al centro e non più in “ombra” lo sceneggiatore di fumetti. Faraci è abile ed è un appassionante insegnante non restio a svelare i segreti del suo “metodo” di scrittura, ci racconta come delineare tutti gli aspetti della stesura di una storia per immagini in particolare per il fumetto seriale, dalla “forma” archetipica e anatomica alle definizioni e alle componenti di una visual grammar di base, così passando in rassegna la scelta delle inquadrature, la “recitazione” dei personaggi e consigli direttamente maturati da casa Diabolik, Dylan Dog, Tex e Topolino non mancando di presentarci integralmente alcune delle sue pagine di sceneggiatura. Il libro, accompagnandosi con le efficaci illustrazioni di Paolo Castaldi è una miscellanea, è un manuale e anche un’autobiografia dove l’esperienza non solo professionale ma anche interamente umana di Luca “Tito” Faraci si riflette nel suo metodo, nel suo sentire carnalmente quelle storie che noi tutti amiamo tanto leggere come ci racconta nell’incipit del libro: “Faccio fumetti per vivere. Mi piace dirlo. Non lo trovo svilente. Perché dovrebbe? Significa affermare un rapporto di intimità e necessità con il fumetto”, e noi tutti siamo grati a Tito per aver finalmente sviscerato con questo libro tramite tutte le sue sensibilità l’importanza dello sceneggiatore di fumetti…perché un fumetto non lo realizza solo chi sa disegnare, anzi!

Tito Faraci

L’uomo con la faccia in ombra

Feltrinelli Comics, 2022, pp. 224

In mdp

SPECIALE HALLOWEEN. TIM BURTON presenta al Lucca Comics & Games 2022 in anteprima europea la serie TV Mercoledì.

di Umberto Mentana

Quale migliore occasione se non la Notte di Halloween per chiacchierare con l’esponente forse più emblematico della notte più misteriosa dell’anno, ossia Tim Burton?

In occasione del Lucca Comics & Games 2022 il regista de Il mistero di Sleepy Hollow, Batman, La sposa cadavere, Edward Mani di Forbice ha presentato in anteprima europea la serie TV Mercoledì, un progetto ambizioso in otto episodi incentrati sull’iconica Famiglia Addams e in particolare sulla primogenita Mercoledì. Lo show sarà disponibile a partire dal 23 Novembre sulla piattaforma Video On-Demand Netflix.

Domanda: Il personaggio di Mercoledì Addams è al centro di una famiglia, questa serie la possiamo considerare una mystery con toni investigativi che ripercorre gli anni

di Mercoledì come studentessa all’interno della Nevermore Academy.

Quindi, Tim, come sei arrivato a lavorare su Mercoledì?

Tim Burton: Io sono cresciuto guardando la serie tv della Famiglia Addams anche se in realtà sono partito dai fumetti, sono a prescindere sempre stato un grande fan di questa famiglia.

Devo dire che Mercoledì è sempre stato il personaggio che mi ha interessato di più perché io mi sono sempre sentito come Mercoledì fin da quando ero ragazzino, sin da quando ero adolescente.

Sono un ragazzo ma sicuramente avrei potuto benissimo essere lei, condividiamo lo stesso punto di vista in “bianco e nero”, direi.

Lei in passato è stata sempre stata rappresentata come una bambina ma mi è sempre piaciuto sapere come poteva essere a scuola, come avrebbe potuto reagire alla propria famiglia, agli insegnanti…e da lì è partito il progetto.

D: Cosa pensi che renda la Famiglia Addams così amata ancora oggi? Perché dopo così tanti anni è ancora attuale?

T.B.: Io credo perché loro sono per definizione la weird family.

Nella realtà la maggior parte delle famiglie o almeno alcuni componenti che ne fanno parte sono propri di questa categoria. E quindi, in un certo senso, nella Famiglia Addams loro ci vedono un modo per identificarsi,fondamentalmente è questa la ragione del suo successo.

La maggior parte dei ragazzini che conosco si sentono imbarazzati dai propri genitori…immaginate avere Morticia come madre, che imbarazzo!

D: Come pensi che Jenna (Jenna Ortega, l’attrice che interpreta Mercoledì nella serie TV, ndr)abbia contribuito a dare vita a questa Mercoledì? Perché la sua è diversa da tutte le altre.

T.B.: Assolutamente vero, Mercoledì è un personaggio iconico.

Quindi era molto difficile trovare un’attrice che lo potesse interpretare, senza Jenna per me non ci sarebbe stata la serie perchè non era assolutamente facile trovare chi potesse impersonarla in quella maniera. È vero sono i suoi occhi, moltissimo, bellissimi e la sua forza di carattere a darle quel tono

perché Mercoledì è un personaggio forte, ed è quello di cui aveva bisogno per il nostro personaggio.

Il lavoro che Jenna ha dovuto fare fare è stato quello di trasferire, trasmettere questo personaggio in bianco e nero che però qui e lì lascia intravedere qualche sfumatura di un qualsivoglia lato umano senza tradire quel nucleo fondamentale insito in Mercoledì.

D: Per Mercoledì i social sono un buco nero di gratificazioni mentre per Enid (Emma Myers), la compagna di stanza di Mercoledì, è completamente diverso.

Mercoledì usa macchina da scrivere e violoncello, per Enid le emoji servono a trasmettere le emozioni che non sa esprimere. Si dice che Mercoledì esprime la tua visione del mondo, tramite lei vediamo anche quello che Tim Burton pensa. Cosa pensi quindi del rapporto tra i social e il mondo reale?

T.B.: Per quello che mi riguarda io ho paura di internet e ovviamente ogni volta che navigo su internet per cercare qualcosa mi ritrovo in qualche buco nero e qualche video strano di gatti.

Sicuramente in partenza queste cose erano pensate per fare qualcosa di bello, di fare del bene, ma poi finiscono per utilizzate per qualcosa di male.

Naturalmente io sono un po’ come Mercoledì, condivido il suo modo di pensare al mondo.

D: Ci puoi raccontare come il personaggio Mano è stato realizzato per lo schermo?

T.B.: Essendo un personaggio particolare gli volevo conferire una vita anche un po’ più ampia rispetto alle versioni precedenti, dargli un’esperienza più vissuta.

Il personaggio mi piaceva comunque anche nelle versioni precedenti, aveva quell’aspetto di vecchi film dell’orrore, io però gli ho voluto dare anche un passato che fosse abbastanza particolare.

La possiamo definire il Dustin Hoffman delle mani.

D: Con Mercoledì tu ci racconti come anche in passato hai fatto in molti dei tuoi film, di aspetti quali l’emarginazione, il sentirsi non accettati, di essere degli outkast. Vuoi per difetti fisici, psicologici, sociali. Ce ne parli in relazione al personaggio di Mercoledì?

T.B.: Capisco benissimo questo tema avendo avuto problemi di salute mentale per metà della mia vita. Ed è ovviamente questo perché amo il personaggio di Mercoledì, mi identifico con lei.

Lei è fonte di ispirazione, è sempre molto chiara, dice quello che pensa, quello che prova.

A volte però questo ti mette nei guai nei confronti degli altri ma lei è un simbolo, è simbolica per  tutto questo. Lei ha anche quella forza semplice e silenziosa che trovo molto importante.

D: Nella scuola, la Nevermore Academy tu racconti che l’hanno frequentata importanti figure storiche, come Edgar Allan Poe. Quali altre figure storiche immagini che abbiano frequentato o insegnato in questa scuola?

T.B.: Devo dire che questo è uno dei motivi perché la serie mi piace ed è buffo, Mercoledì lei va in una scuola per reietti e si sente una reietta tra i reietti. Ed è quello che io ho provato e sentito per tutta la mia vita nei confronti della scuola, dei genitori e degli altri. È il motivo perchè lei fondamentalmente mi piace.

D: Anche per Mercoledì si è rinnovato il sodalizio artistico con Denny Elfman. Come avete lavorato sul tema musicale forse più celebre della storia della TV?

T.B.: Io e Danny siamo amici da una vita, abbiamo entrambi un passato lungo di collaborazioni.

E questo perché condividiamo gli stessi gusti, amiamo gli stessi film, abbiamo un rapporto molto stretto in questo senso ed è molto facile lavorare con lui proprio per queste ragioni, peraltro io lo considero come un altro personaggio del film, come un attore, lo tratto come tale perché secondo me la musica è un altro personaggio nei film.

Ed è stato fantastico che lui abbia accettato di lavorare e di scrivere le musiche per questo nuovo lavoro, lui è ritornato ad essere una rockstar ed è stato bello che abbia trovato del tempo da dedicare a Mercoledì.

D: I costumi di Colleen Atwood svolgono come le musiche di Danny Elfman un ruolo fondamentale per contrassegnare e caratterizzare i personaggi. Ce ne parli?

T.B.: Allo stesso modo, la collaborazione con Colleen è stata una partnership che va avanti da tantissimi anni, abbiamo collaborato insieme per tantissime produzioni, tantissimi film.

Ed è stata importante la sua visione perché Mercoledì aveva un solo look ed era importante trovare uno stratagemma per conferirle look diversi pur distinguendola da tutti gli altri studenti della Nevermore dove anche loro hanno un aspetto da “diversi” che li distingue dagli altri ragazzi in generale. Per me è fondamentale che sia visibile il mondo, questo mondo e che risulti diverso rispetto agli altri a prescindere da quello che è.

D: Se c’è stata, quali sono state le difficoltà di affrontare una serie ad episodi? Il cinema rimane sempre il suo vero amore oppure affronterà nuovamente la serialità in futuro?

T.B.: Lavorare ad una serie televisiva significa lavorare ad un ritmo diverso, una specie di cottura un po’ più lenta rispetto ad un film ma il Cinema continua a rimanere ovviamente il mio primo amore e credo che comunque  oggigiorno ci sia ancora spazio per i film, per il Cinema.

D: Il regista in una serie tv è come un ammiraglio di una flotta perché come sappiamo anche in Mercoledì c’è stata una vera e propria collaborazione anche con altri registi per co-creare il prodotto (Tim Burton ha diretto 4 episodi su 8 dell’intera stagione, ndr). Come è stato per Tim Burton il rapporto con gli altri registi per mantenere consistenza e visione?

T.B.:Intanto, l’ho trovato interessante a prescindere da quello che è e si fa, io ho assoluto rispetto per le altre persone, conosco questo tipo di lavoro e so la fatica che c’è dietro.

È stata una sensazione molto bella, molto positiva perché noi ideatori abbiamo stabilito in un certo senso qual era il tono poi gli altri registi lo hanno ripreso, lo hanno rielaborato in base al proprio stile, hanno fatto la regia a modo loro però hanno seguito in un certo senso questo tono.

Io lo trovo estremamente importante poiché io traggo ispirazione dagli altri, è un dare e avere, io do qualcosa e questo qualcosa poi ti ritorna indietro. Quindi sei tu una fonte di ispirazione e gli altri lo sono per te.

La realizzazione di una serie, così come la realizzazione di un film, è sempre composta da una famiglia un po’ strana, magari nella TV ha delle caratteristiche un po’ diverse ma non sono dissimili come lavori.

D: Qual è il segno, l’eredità che ti hanno lasciato i comic books? E se ci sono quali sono

quelli che hai amato di più?

T.B.: Ho fatto Batman quindi ad un certo punto qualche comic book devo averlo letto e incontrato.

Tra parentesi io disegno, amo disegnare e amo tutto quello che ha a che vedere con l’arte.

Da ragazzino ho sempre avuto problemi nel leggere le didascalie nei comics perché non so mai a quale riquadro, a quale disegno si riferisce. Comunque il disegno, questo tipo d’arte la trovo fantastica ed è questo il motivo perché è bellissimo essere qui.

In Sesto Potere

Audiolibri: nascita, sviluppo e fortuna della lettura da ascoltare

di Ilaria Orzo

È ormai qualche anno che gli audiolibri sono ufficialmente entrati nel quotidiano dei lettori: questo nuovo modo di fruire il testo scritto prevede la lettura ad alta voce da parte di uno o più speakers oppure tramite un motore di sintesi vocale. I software più evoluti permettono di usufruire anche dei Digital Talking Book: in questo caso, l’audio viene sincronizzato al testo, permettendo di leggere e ascoltare in contemporanea.

Il termine audiolibro fu riconosciuto ufficialmente nel 1994 dall’Audio Publishers Association, l’organizzazione statunitense nata senza scopo di lucro a difesa dei diritti di questa nuova forma di lettura nel 1986.

Al giorno d’oggi, numerose sono le piattaforme che ci consentono di scaricare il libro in formato mp3 e ascoltarlo come fosse un podcast o una canzone in qualsiasi situazione: durante le faccende domestiche, in macchina, sull’autobus e persino sotto la doccia.

Ma siamo sicuri si possa parlare davvero di “nuovo modo di fruire il testo scritto”? Perché, in realtà, gli audiolibri hanno circa un secolo e mezzo di vita.

Era il 1877 quando Thomas Edison mise a punto i primi esperimenti di registrazione sui cilindri fonografici; il suo scopo era quello di rendere la lettura possibile anche per i ciechi. La sua prima prova consistette nel registrare un pezzo della filastrocca Mary had a little lamb, molto conosciuta in America. Vent’anni dopo, nel 1897, lo scrittore statunitensse Sylvanus Stall incise su dei cilindri fonografici What a Young Boy Ought to Know, il suo più grande best seller: l’esperimento ebbe grande successo.

Il più grande limite della registrazione su cilindri fonografici, però, riguardava la durata: ogni cilindro poteva supportare solo pochi minuti di audio. Le prime tracce audio erano lunghe circa 4-6 minuti e si riuscì ad arrivare a non più di 20 minuti.

Negli anni Trenta del Novecento, l’American Foundation for the Blind istituì il Talking Books Program, allo scopo di aiutare nella lettura non solo i ciechi, ma anche i feriti di guerra. Il catalogo comprendeva le opere di Shakespeare e alcuni tra i più grandi successi letterari americani dell’epoca; le registrazioni erano fatte sui dischi in vinile, che nel frattempo avevano fatto il loro ingresso nel panorama musicale e si erano ormai diffusi. In quegli stessi anni, in Inghilterra, anche il Royal National Institute of Blind People cominciò a produrre audiolibri a favore dei reduci di guerra.

In Italia, invece, le prime registrazioni di audiolibri su vinile risalgono al 1966: il riferimento è alle Fiabe sonore dei Fratelli Fabbri. La collana andò avanti per quattro anni; ogni numero comprendeva un disco con musiche e storia da ascoltare e un libro illustrato su cui seguire il racconto. I bambini degli anni Novanta, invece, ricorderanno con affetto le musicassette Disney, vendute in edicola insieme ad un libro illustrato e uno dei personaggi della storia in miniatura. Le prime case di registrazione di audiolibri italiane in assoluto sono state IlNarratore e GOODmood Audiolibri, molto attive ancora oggi.

Nel caso dei dischi in vinile, però, i problemi principali erano due. Il primo riguardava anche in questo caso il tempo di registrazione, che non poteva superare i quindici minuti per lato. Il secondo era legato al copyright: quelli che erano e sono conosciuti come i Libri Parlanti sono nati con scopo benefico e a titolo gratuito, sono accessibili solo ai non vedenti e non sono legati alla filiera editoriale.

La vera svolta per quelli che oggi chiamiamo audiolibri arrivò tra gli anni Settanta e Ottanta, con l’avvento delle musicassette e del walkman. Grazie a questo dispositivo tecnologico, si fece sempre più spazio il concetto dell’ascolto in movimento: se era ormai possibile ascoltare musica, in auto o camminando, perché non avrebbe dovuto essere possibile ascoltare storie, racconti, romanzi? È in questo periodo che nascono quelle che ancora oggi sono le più solide catene di distribuzione di audiolibri; tra tutte, ricordiamo la Books in Motion e la Recorded Books.

Negli anni a seguire, la tecnologia avanzò rapidamente e, di conseguenza, anche la fruibilità degli audiolibri fu sempre più facile. Alla fine degli anni Novanta divenne particolarmente popolare l’Audible Player, un dispositivo portatile – precursore dell’mp3 e dell’iPod della Apple che sarebbero usciti qualche anno dopo – dedicato solo al download di file audio contenenti libri.

E se nei primi anni del Nuovo Millennio, con l’avvento degli iPhone, l’iTunes Store rendeva possibile la creazione di una propria libreria virtuale formato audio per la prima volta, la vera rivoluzione l’hanno fatta gli smartphone, che hanno reso possibile rendere disponibili delle applicazioni specifiche attraverso cui dedicarsi all’ascolto online e offline di cataloghi molto vasti – che comprendono ormai anche podcast – pagando un piccolo abbonamento mensile. Tra le piattaforme che offrono maggiore scelta vi segnaliamo Storytell e Audible, ma, ormai, sono sempre di più le case editrici che scelgono di mettere in piedi dei propri studi di registrazione, cedendo i diritti per la diffusione dell’audiolibro a terze piattaforme solo successivamente. Molti grandi classici della letteratura italiana e non sono disponibili in Ad alta voce, la sezione di audiolibri messa a punto dalla Rai e su YouTube, la piattaforma su cui video di lettura ad alta voce sono caricabili in maniera gratuita.  

Inoltre, vale la pena segnalare l’esistenza di LibriVox, un’associazione che raccoglie un gruppo di volontari che leggono e registrano libri ormai privi di copyright, rendendoli poi disponibili per l’ascolto e per il download sul loro sito e su alcune biblioteche virtuali con cui collaborano. Ad oggi, il loro catalogo conta più di 15000 testi, di cui molti in inglese. L’iniziativa ha preso piede da una discussione nata sul blog di Hugh McGuire, scrittore statunitense, nel 2005. Il primo libro da loro registrato è L’agente segreto di Joseph Conrad.

Ad oggi, secondo le statistiche della ricerca di NielsenIQ per Audible del 2021, sono più di 10 milioni gli italiani – dagli adolescenti agli adulti – che hanno contratto l’abbonamento ad almeno una delle piattaforme di audiolibri disponibili e si prospetta che il dato sia destinato ad aumentare.

Insomma, ormai, tanto quanto è scontato che di un libro troverete la sua versione ebook, è quasi certo che ne troverete la versione audiolibro. Non dovete fare altro che scegliere il catalogo che più si avvicina ai vostri gusti; o, perché, no, provare tutte le piattaforme e non rinunciare all’ascolto di nessun titolo. Non avete idea di quale libro valga la pena ascoltare? Se siete al primo approccio, in effetti, la vasta scelta potrebbe portarvi in confusione. Per capire se questa lettura alternativa fa al caso vostro, potreste cominciare da un libro che avete già letto in versione cartacea: è un buon metodo per capire se riesce a trasmettervi le stesse sensazioni e se riuscite a mantenere lo stesso grado di concentrazione. A tal proposito, vi segnaliamo alcuni tra i best sellers più ascoltati degli ultimi anni: la saga di Harry Potter, Anna Karenina, I leoni di Sicilia, L’amica geniale, Il conte di Montecristo, La verità sul caso Harry Querbert e Un uomo a pezzi. Come potete vedere, se è vero che molta risonanza sulle piattaforme di audiolibri l’hanno i classici, i generi a cui ci si può approcciare sono vari e incontrano e accontentano i gusti di tutti i lettori, anche quelli più difficili da accontentare.

In Lettera 22

Riccardo Falcinelli presenta “Filosofia del Graphic Design” – parte seconda –

di Umberto Mentana

Falcinelli, sempre dialogando sul progresso e sulle potenzialità di mutamento che la rete ha prodotto, in particolare negli ultimi anni, sui rapporti umani e professionali, esemplifica alcune personalità meravigliose e geniali, i cui interventi sono naturalmente parte di Filosofia del Graphic Design, mettendo in chiaro e ribadendo che tuttavia il valore di un’idea, di una congettura sopraffina è il germe di una grande invenzione e del progresso globale.

Qui dentro ci sono una manciata di idee che quando sono state formulate erano veramente fantascienza.

Muriel Cooper, che era la director del MIT (Massachussets Institute of Technology), proprio là nella Silicon Valley, era una signora fantastica, veramente un genio che a metà anni Ottanta dice: “la novità del computer non è che rende più veloce il lavoro ma che da qui a poco con i cablaggi che noi usiamo internamente faremo smart working”. Lo dice nel 1985! Quarant’anni fa lei dice che la novità del computer non è la velocità ma che nel momento in cui  i cablaggi che noi abbiamo interni ce l’avranno tutti sulla Terra, la vera novità del computer è il telelavoro. E lo dice quando le persone non avevano neppure idea di cosa si stesse parlando. Noi abbiamo avuto bisogno di una pandemia per sperimentarlo per la prima volta. Come ha fatto la Cooper ad arrivarci? Perchè era filosofa, perché si è posta tutta una serie di problemi culturali che facevano vedere qual era il vero senso del computer.

L’altro gigante è Moholy-Nagy che nel 1922 dice: “sì, hanno inventato il grammofono, il disco. La gente lo usa per sentire la musica. Ma questo è un momento di passaggio. La cosa che ci interessa è quando noi incideremo direttamente il disco senza registrare la musica”. Questo parlava di musica elettronica quando ancora non esisteva l’elettronica.

Allora, la mia aspirazione è che se i ragazzini iniziano a famigliarizzare con questi temi, non limitandosi a quello che la tecnologia fa oggi, comincino a rifletterci, ovviamente per chi ha quella fantasia per immaginare queste cose, forse potranno dire cosa accadrà in futuro.

            C’è spazio anche per numerose domande da parte del pubblico e Falcinelli certo non si limita a non entrare nel dettaglio. Uno dei primi quesiti a cui risponde è quello riguardo all’utilizzo della grafica per le copertine nell’editoria, un lavoro che da anni svolge con estrema abilità e professione. Subito dopo invece si sofferma brevemente sul bisogno della conservazione e sulla cosiddetta eredità psicologica dei supporti di “registrazione”.

Nel libro anche gli scrittori più attenti e più sensibili non hanno mai sentito la copertina come un’opera parallela rispetto a quanto accadeva per le produzioni musicali riguardo al disco in vinile, ma come packaging. La stessa Elsa Morante, che è stata una delle più attente alla grafica dei suoi libri, se la disegnava da sola fondamentalmente. La Morante stava lì: lo voglio così, lo voglio colà.

La famosa copertina de La Storia che ha una foto della Magnum in bianco e nero stampata su fondo rosso è un’idea della Morante, le cose erano un po’ diverse. Che cosa sta accadendo invece oggi? Il libro sta riesplodendo da capo, soprattutto nel mondo dei libri per bambini e quindi per reazione all’ebook, il libro di carta è diventato sempre più ricercato nei materiali e ha una sua nuova vita che sembrava stesse perdendo mentre il disco al momento riguarda solamente una nicchia da “biblioteca” che però esiste.

Di tutte queste tecnologie, che sia il file .avi o l’mp3 noi quello che veramente non sappiamo è che sa tra dieci anni si leggeranno ancora. Noi passiamo tutto questo tempo infinito a trascrivere il nostro archivio sul nuovo hardisk e ogni anno sul nuovo hardisk e così via, fondamentalmente stiamo conservando tutto questo materiale digitale come portando l’acqua con le bacinelle e travasandola sperando che non evapori.  Alla fine il libro di carta e il vinile stanno là e nessuno li tocca.

Io sono un appassionato dell’Ottocento perché secondo me nell’Ottocento hanno inventato il mondo che conosciamo oggi. Io ho ereditato il servizio di piatti di porcellana dei miei bisnonni, Richard Ginori – 1895. Ma noi che lasciamo? I piatti Ikea? Noi siamo in un momento di usa e getta molto pratico, molto economico però conta anche l’eredità psicologica che tu lasci ai figli, ai nipoti, ai discendenti.

E così la collezione di dischi fatta in vinile ha un po’ quell’idea lì: che nonostante mio figlio non li ascolta ugualmente, questa è la musica che mia mamma ascoltava…e mi commuove un po’ questa cosa.

            Concludendo, l’autore ripresenta il problema dell’insegnamento del mestiere del grafico e di che tipo di sapere sia più adatto in virtù dei bisogni delle nuove generazioni, per stabilire una connessione equilibrata con le esigenze del presente, virtualizzato e liquido.

È diventato un mestiere, sia quello dell’insegnante che quello del grafico che necessariamente deve fare i conti con un po’ più di teoria,  sono le storie che ci racconti, le idee che hai in testa ciò che diventa signficativo perché più andiamo avanti e più la parte pratica la farà il computer da solo, sempre di più. Quindi bisogna spostare il tipo di insegnamento all’altra parte, ossia sottoporre ai ragazzi che cosa possiamo fare con queste cose qui. Più la storia e non la tecnica.

La grande frode di questi anni, poi, è l’idea della start-up, quella che un ragazzino che non ha mai lavorato possa prendere dei soldi e partire da zero. È impossibile farlo perché saper lavorare significa che qualcuno ti ha insegnato a lavorare, a parte l’eccezione di uno su un milione che magari è particolarmente dotato o fortunato. Le cose da imparare sono talmente tante e non credo che siano cose che si possano imparare sui libri o a scuola perché c’è un aspetto pratico, ma anche di fiuto, di tono generale che devi vedere qualcuno che lo fa. Serve insomma quell’aspetto lì pratico di accompagnamento.

C’è da dire che ad un certo punto nell’Occidente ci siamo creduti che tutto fosse insegnabile a scuola. Non è così. Fino ad un po’ di anni fa delle cose si studiavano a scuola e delle cose si imparavano a bottega ma ad un certo punto abbiamo detto si impara tutto a scuola. Ci sono tutta una serie di competenze che si continuano ad imparare a bottega. Devi stare insieme a delle persone che lo sanno fare, le devi fare, e da quel vederlo fare cominci piano piano ad imitarli.

È invece rimane questa cosa di: “bisognerebbe fare più master su questa cosa qui”. No, si sta troppo a scuola bisogna starci meno a scuola.

            Un ultimo spazio Falcinelli lo dedica esprimendo un consiglio spassionato agli studenti, ai professionisti, ai semplici appassionati di qualsiasi mestiere creativo, un insegnamento che secondo me non dovrebbe nella maniera più assoluta rimanere inascoltato, anche per chi in un certo senso si ritiene già esperto e formato in un dato campo di studi.

Il sapere è virtualmente accessibile ma è importante però praticarlo, ovvero quello che dico sempre ai miei studenti: ti piace il calcio? Vai sempre allo stadio? Vai anche all’Opera, vai al Balletto. Confrontati con cose di cui non te ne importa niente e che potrebbero annoiarti perché quello di cui hai bisogno sono un’infinità incredibile di stimoli. Se ti piace solamente il cinema e sei un appassionato di cinema e teatro vai allo stadio, vai a vedere una partita di calcio dal vero. Devi stare veramente dentro le cose, essere curiosi e non limitarsi solo a quello che troviamo su internet. Poiché internet virtualmente ti presenta tutto però poi è diverso. Stimolarsi, trovarsi di fronte a tante cose perché le idee arrivano se sei molto e davvero stimolato.

In Lettera 22

Riccardo Falcinelli presenta “Filosofia del Graphic Design” – parte prima –

di Umberto Mentana

Giovedì 30 Giugno, nella cornice del cortile della Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” della città di Foggia, si è avuta l’opportunità di incontrare Riccardo Falcinelli che ha presentato il suo ultimo libro Filosofia del Graphic Design, edito per la collana Piccola Biblioteca Einaudi, un libro che raccoglie per la prima volta in lingua italiana: “le idee, le visioni, i manifesti di alcuni dei maggiori protagonisti della grafica del Novecento”,come recita la scheda del libro.
Ed è proprio dalla nota collana creata nel 1960 e diretta da Franco Fortini che incomincia il dialogare con Falcinelli che sottopone al numeroso pubblico sopravvenuto una riflessione importante su come sia cambiato il ruolo dello studente, o meglio di chi sia lo studente oggi.


Questa è una collana che quando è nata ormai quasi sessant’anni fa nasceva come collana rivolta soprattutto agli studenti. Continua ad essere una collana di questo tipo ma io credo che nel mondo attuale sia molto cambiata l’idea di chi sia uno studente. Lo studente oggi non è soltanto chi va a scuola ma moltissime persone sono curiose e per esempio frequentano le biblioteche per farsi una propria cultura, per farsi un’idea del mondo.
Io ho scritto due libri che hanno avuto un indubitabile successo negli ultimi anni (si riferisce a Cromorama e Figure, edite da Einaudi Stile Libero rispettivamente nel 2017 e 2020, ndr) e che hanno avuto dei numeri che sono più simili ai libri gialli che alla saggistica e quando mi chiedono se quelli erano libri di divulgazione, io dico sempre che quella non era divulgazione ma saggistica di intrattenimento.Affrontavo dei temi saggistici però in una maniera tale che chi leggeva si poteva divertire, poteva essere coinvolto dal libro. Qual è la differenza rispetto alla divulgazione, quindi? La divulgazione prende delle cose date, delle cose che sono note agli esperti e le semplifica per i non esperti. E non è quello che io ho fatto nei miei due libri, perché le cose in cui parlavo non erano spesso assolutamente date per scontate.


    Il dibattito ovviamente si sposta subito dopo sulla sua nuova pubblicazione spiegando perché è quanto mai oggi importante “divulgare” un testo di questo tipo e perché:


Vuol essere veramente un’introduzione a quali sono le dieci cose che veramente uno dovrebbe leggere se vuole interessarsi di grafica. E in Italia un libro di questo genere ancora non ce l’avevamo.A me l’idea è venuta proprio dal fatto che in Italia questo tipo di libro non c’era. Ma chi vuole studiare queste cose come fa? E per quanto insomma si tratta di un libro che richiede un entusiasmo da parte del lettore, una partecipazione, è tuttavia un libro che richiede essere studiato, guardato, magari qualcuno legge qualche cosa, poi lo salta, poi lo mette via, poi lo riprende. È un libro che fa un altro tipo di richiesta al lettore.Noi abbiamo la grafica addosso e intorno ormai da un secolo in ogni momento della giornata. La grafica non è solo la pubblicità o il poster messo in mezzo ad una strada, la grafica è davvero ovunque e siamo le prime generazioni che producono grafica senza essere grafici. Questa è una novità radicale. Io ho dei biglietti da visita dei miei nonni, fatti presumo intorno agli anni Trenta-Quaranta e li ha fatti il tipografo che a suo modo era un grafico e che insieme ai nonni ha scelto il carattere usare, magari il corsivo inglese, ha scelto il formato, ha scelto la carta.Hanno fatto delle scelte di grafica, però i nonni l’hanno fatto coadiuvati da un professionista.Oggi chiunque, semplicemente facendo una storia su Instagram ha a disposizione delle tecnologie grafiche che un tempo riguardavano soltanto i professionisti, non è più un sapere esoterico, che riguarda esclusivamente professioniste e allora mi son detto: “Se tutti oggi usano queste cose, forse saperne un pochino di più tutti quanti non è più un sapere da addetti ai lavori”.


    Falcinelli, in chiusura a questo primo intervento si sofferma sulla fondamentale differenza di tono nella grafica e nello specifico, spiegando tramite un esempio concreto che ben si presta ad accontentare tutti i palati, ci parla di quanto sia di gran peso utilizzare un certo tipo di font grafico rispetto ad un altro, e anche per coloro che sono abbastanza ignari della materia sono certo che sia arrivato il messaggio, soprattutto agli insegnanti a cui Riccardo Falcinelli rivolge un appello conclusivo:


Voi sapete che esiste un tono, un registro quando facciamo le cose. Noi abbiamo un tono, un registro quando ci presentiamo alle occasioni, se qualcuno andasse alla Scala di Milano in bermuda ad esempio verrebbe comunque guardato strano, perché sta sbagliando il registro. Sull’abbigliamento abbiamo introiettato dei codici che ci insegnano quali sono le cose da fare e da non fare. Anche i caratteri tipografici hanno la stessa tradizione, la differenza tra Garamond ed Helvetica   è una differenza di tono, di registro, di tono di voce. Quindi è come dire: “mi metto i calzoni lunghi o i calzoni corti”. C’è un’adeguatezza in base a quello di cui si sta scrivendo. Vi faccio un esempio brutale: se volete leggere quattrocento pagine di Anna Karenina non le potete leggere in “Helvetica” o in “Arial”, perché il vostro occhio dopo dieci pagine è esausto, mentre il nostro occhio riesce a rispondere molto bene se ci mettete ad esempio “Garamond”, “Casual”, altri tipi di carattere. C’è una questione funzionale, c’è una questione di gusto, c’è una questione anche semplicemente stilistica che noi associamo a certi tipi di contesti.  L’Helvetica è in tutte le metropolitane del mondo e se io mi permettessi di cambiare il carattere e ci mettessi qualcosa  pieno di svolazzi, a voi non vi sembrerà più di stare in una metropolitana ma a Disneyland perché quella leziosità non si lega a quello che noi chiediamo ad un luogo come una metropolitana, a una banca, ad un ufficio. Noi abbiamo l’idea retorica di che forma debbano avere i caratteri però le persone questo non lo sanno, nessuno glielo ha insegnato a scuola. Noi, infatti, nelle scuole non insegniamo questo genere di cose ma se invece oggi noi spieghiamo con il computer forse alle elementari dovremmo dare dei rudimenti sui caratteri, quando usare uno quando usare un altro. Perciò, ritornando all’idea del libro, perché non cominciare a leggere un po’ di queste cose? Ovviamente io non mi auspico che tutti inizino a leggere questi testi però se si cominciasse a parlarne, se questi libri cominciano a circolare, io sono convinto che nel giro di un po’ di anni cambierà la situazione. E la cosa più importante è che lo leggano soprattutto gli insegnanti e che a partire dalle scuole primarie si cominci a parlare di queste cose, cioè non si corregga soltanto l’ortografia ma si ragioni anche un po’ sul fatto che la scrittura fatta al computer difatti corrisponde al tono di voce che chi scriveva voleva usare.


    Il secondo intervento dell’autore, una bella parentesi storica su concetti chiave della grafica che conosciamo oggigiorno quali “tecnica-industrializzazione-scolarizzazione di massa”, mette in luce e dipana con estrema semplicità e fluidità nel raccontare di quanto siamo in realtà figli dell’Ottocento spiegando quali sono effettivamente le scoperte di grande attualità ma non per questo questo progressivo e sempre più veloce progresso manca di inquietudine, relativamente parlando di digitalizzazione e di virtualizzazione di ogni cosa facente parte della nostra realtà.


La grafica nasce con la tecnica. La grafica come ne parliamo oggi è qualcosa che compare più o meno a metà Ottocento quando con l’industrializzazione, con la scolarizzazione di massa, con il fatto che le persone si spostano dalle campagne ed entrano nelle fabbriche, nascono tutta una serie di pratiche sociali, di linguaggi che sono quelli che conosciamo ancora oggi. Tanto per dirvene uno, la grande invenzione dell’Ottocento è il packaging delle merci.
 La prima merce che viene messa dentro una scatoletta, e nella scatoletta c’è della grafica, è il sapone. Prima della saponetta non esistevano merci che avessero un involucro, che non avessero una scatola con una grafica, con una marca, con un disegno che per noi oggi è standard. Questa è la grande rivoluzione grafica dell’Ottocento, dare un aspetto visivo serializzato ed industrializzato a tutto quello con cui noi abbiamo a che fare, da allora in poi non c’è più niente che non abbia un aspetto grafico. Ed è subito una rivoluzione ed un’invenzione tecnica perché questa cosa compare quando l’industria inizia a produrre in serie grandi quantitativi di cose. Quando poi iniziano anche ad esserci gli spettacoli con i grandi cantanti d’opera dell’Ottocento la gente ci va apposta per andarli a vedere. Questi eventi come li pubblicizzi? Con la grafica. Il teatro del Sei-Settecento era invece un teatro itinerante, gli attori erano famosi e si spostavano di città in città mentre nell’Ottocento la cosa si ribalta, i grandi attori stanno a Parigi e la gente da tutta la Francia va a Parigi; gli attori stanno a Roma e a Milano e la borghesia si sposta per andarli a vedere.  L’Ottocento dunque si inventa tutto quello che di grafico noi conosciamo oggi ed è un’invenzione tecnica ed è ovviamente il grande salto che copre tutto il XX secolo e che ci accompagna fino ad oggi, questa esplosione e questa implementazione, questo incremento della tecnica e della tecnologia.
Cento anni fa, nel 1922, c’erano degli artefatti, cioè dei poster che per farli ci volevano cinque persone, oggi quelle stesse cose noi le facciamo con un computer portatile o addirittura con uno smartphone in 20 cm2, andiamo in copisteria e per cinque euro l’abbiamo fatto, ed è un cambio gigantesco che però ha delle conseguenze. Da una parte appunto queste innovazioni sono state viste come qualcosa di altamente progressivo, fino agli anni Quaranta sono tutti entusiasti di questa cosa perché dicono: tutto questo porterà solo del bene all’umanità, e in gran parte l’ha portato. Però quali sono gli aspetti, forse, più inquietanti? C’è un romanzo molto bello degli anni Settanta, di Ira Levin che si chiama La fabbrica delle mogli, dal quale hanno tratto più di un film (tra cui The Stepford Wives, 2004 con Nicole Kidman), di questa provincia americana un po’ tra Paperopoli e Desperate Housewives dove tutto è perfetto e dove si scopre che gli uomini sostituivano un chip nel cervello delle donne e le trasformavano in robot per far sì che facessero tutto quello che loro volevano. Nel film del 1975 (diretto da Bryan Forbes, ndr) c’è la scena finale che risulta essere incredibilmente significativa: quando la protagonista scopre il complotto – questa storia si svolge non lontana dalla Silicon Valley e questo è l’aspetto più inquietante e politico della vicenda perché nel ‘73 Ira Levin dice: “guardate che qua ci sono dei signori che hanno le tecnologie per farci fare quello che vogliono loro” –  il capo/direttore recita una battuta che non c’è nel romanzo ma che è incredibilmente potente. Lei gli chiede il perché lo abbiano fatto, il mega capo risponde con la cosa più inquietante che potesse rispondere. Non dice lo abbiamo fatto perché siamo maschilisti, dice invece: “Lo abbiamo fatto perché c’era la tecnologia per poterlo fare”.Ecco, questo è il modo in cui noi dobbiamo guardare a tutte le tecnologie e nello specifico a tutte le tecnologie grafiche oggi. Perché le persone si fanno i selfie? Perchè c’è la tecnologia per poterlo fare, non perché hanno il desiderio di farlo.Perchè le persone mettono i filtri alle foto che fanno? Non perché sono Nadar o Cartier-Besson ma perché c’è la tecnologia per poterlo fare. Oggi tutti facciamo delle cose, professionisti e non professionisti perché c’è la tecnologia per poterlo fare, siamo nella società delle immagini, siamo nella società di massa, ci sono i mass media ma la vera novità è che i mass media non sono da un’altra parte. Non è più Rai 1 degli anni Cinquanta che decideva il Martedì si guardava il teatro e il Venerdì il film, non è più quel tipo di mass medium che decideva e noi eravamo pubblico passivo. Oggi i mass media ce l’avete tutti in tasca. Si dice “pubblico” qualcosa su Instagram dove la parola ‘pubblico’ è fondamentale poiché tutti siamo essenzialmente editori dei nostri contenuti e allora lì si pone una responsabilità che non è più solo degli addetti ai lavori ma è di tutti, cioè: “Che storia stiamo raccontando agli altri?”

E certamente il discorso non poteva sorvolare il fondante apporto che internet e la rete ha avuto per chi professionalmente muove i suoi passi in ambito grafico ma non solo, in generale è notevolmente mutato approcciarsi a questo tipo di sapere che ci circonda in ogni momento della nostra vita.


Nel libro io mi fermo al 2000 perché nel 2000 è successa una cosa…arriva internet, o meglio internet non arriva nel 2000 però il 2000 è l’anno dove esplode a livello popolare, ce l’hanno tutti fondamentalmente. Ed è da quel momento in poi che la grafica non è più soltanto quella che fanno i grafici, ma attenzione non è che i grafici scompariranno, si occuperanno invece di cose ad alta complessità che richiedono tutta una serie di studi, di formazione, di preparazione.Ad esempio, io mi occupo di editoria scolastica e l’editoria di questo tipo ti pone dei problemi di tipo cognitivo: che tipo di carattere, che spaziatura, dove metto le cose, quali sono i layout che fanno sì che si memorizzino meglio sui ragazzini delle elementari, che cos’è l’alta leggibilità, come interagisci con il lettore dislessico…ecco questa non è roba che può fare chiunque, devi aver studiato. Questa è grafica ad alta leggibilità che continuerà ad essere fatta dai professionisti ma oggi la grafica è qualcosa che fanno anche tutti gli altri. Il discorso è molto semplice, se voi andate da Le Roi Merlin vi vendono i secchi di pittura murale, ma quanti sono quelli che si imbiancano casa da soli? La maggior parte delle persone continua a chiamare i muratori, i piastrellisti, l’idraulico. Perché puoi pure imparare ma a meno che non hai una passione per il fai da te, questo è qualcosa che deleghi ad un professionista e alla grafica sta accadendo la stessa cosa, però ancora non si è capito chi farà cosa, cosa si delega a chi, però le persone si stanno rendendo conto che non è che possono fare tutto. Quello che invece è diventato di tutti è la forma della scrittura, non si è mai scritto tanto come in questo momento storico. Tutti scrivono al computer e tutti si pongono i problemi di editing, di impaginazione. 

Considerate questa cosa: quando è arrivata l’illuminazione a gas hanno incominciato a dire che i produttori di candele sarebbero andati rovinati. L’anno scorso si sono vendute dieci volte le candele che si vendevano nel 1800, perché la candela ha smesso di essere un bene usato per illuminare lo spazio ed è diventata la forma retorica del romanticismo. Usiamo le candele per fare il bagno terapeutico, le mettiamo nelle spa, le mettiamo alle cene di San Valentino e a Natale, le mettiamo nei ristoranti,  sono diventate un’altra cosa…sono diventate una figura retorica.Noi dobbiamo sempre ragionare in questi termini, quando arriva una nuova tecnologia raramente spodesta quella precedente ma solitamente gli si affianca e si mette a fare delle altre cose.È molto più probabile, come difatti è stato, che scompariranno il vhs o il CD che non alla fine il disco di vinile, e non soltanto per nostalgia vintage ma perché noi abbiamo la grande capacità di inglobare tutta una serie di tecnologie del passato per farci delle altre cose. Io credo che accadrà più o meno qualcosa di simile. Sono cresciuto in un’epoca in cui la tipografia a mano non se ne parlava più, adesso di workshop di tipografia a mano sono di grande successo.

In mdp

“Stranger Things”: risospinti senza posa nel passato

di Giovanni Morese

Se in futuro qualche pittore dovesse mai decidere di realizzare un quadro sulle condizioni della Settima Arte nel 2022, non stupirebbe certo se ci ritrovassimo ad ammirare il ritratto di un uomo con uno sguardo assuefatto, rivolto ad un panorama cinetelevisivo che non esiste più. Non a caso, ad inaugurare il nuovo anno al cinema è stato Matrix – Resurrections, regia di una solitaria sorella Wachowski. Lana, la “sentimentale” di questo duo rivoluzionario della storia del cinema di fine anni Novanta, ci aveva proposto un distopico all’epoca sfacciato e dissacrante, una pietra miliare difficile da dimenticare ed impossibile da emulare. Una storia, quella di Matrix, consapevolmente destrutturata e malauguratamente banalizzata da due sequel Reloaded e Revolutions – trainati da un successo pericoloso ed opprimente ma che, a giochi fatti, erano riusciti a porre la parola fine. Eppure, Matrix è resuscitato e ciò non ha sorpreso né smosso nessuno. Perché Matrix doveva resuscitare: è ciò che avviene a tutti i franchise di un passato perduto, di un mondo fitzgeraldiano in cui «così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato». E così ci siamo ritrovati a Matrix pur non essendo davvero lì. Abbiamo guardato il grande schermo con la speranza di riottenere ciò che avevamo perso da tempo, constatando col senno di poi che però ciò non sarebbe mai potuto accadere. Questo perché quando il protagonista Neo si è specchiato durante i primi minuti della pellicola, attraversando la parete per raggiungere un luogo conservato solo nei meandri dei suoi ricordi, ci siamo ritrovati in realtà di fronte Lana, l’artista costretta a rinnovare un mondo privo di linfa vitale solo perché, in caso contrario, lo avrebbe comunque fatto qualcun altro al posto suo. Gli urli della dolorosa visione di questa irriverente pellicola sono diventati, così, moniti di un primo anno di cinema post-covid costellato di profetizzate presenze spettrali. Tra un autoreferenziale, nostalgico ed ennesimo Scream ed un terzo capitolo della saga spin-off di Harry Potter pronto ad ingannare un pubblico ancora assetato della magia di Hogwarts che non ritroveranno probabilmente mai più, anche il Marvel Cinematic Universe ha iniziato a seguire la via della nostalgia introducendo versioni del passato di personaggi entrati ormai nell’immaginario collettivo attraverso l’escamotage narrativo del multiverso. All’interno di questo vortice vizioso, il settore seriale si è collocato in una posizione intermediaria, figlia di un entertainment contemporaneo basato sempre di più sulla creazione di esperienze di fruizione unificate e trasversali. Si passa da sperimentazioni di reboot di show di passate generazioni come Gossip Girl, Pretty Little Liars ed addirittura una versione âgée di Sex and the City, tutte prodotte dalla recente piattaforma streaming HBO Max – particolarmente attenta a cavalcare l’onda del passato anche attraverso le smielate reunion di Friends e del cast del maghetto della Rowling – a show di Prime Video rivoluzionari e peculiari come The Boys, satira intelligente del mainstream supereroistico messo in piedi dal colosso rivale Disney Plus. E poi c’è Stranger Things, l’emblema dello sguardo rivolto al passato, ma allo stesso modo quanto di più lontano dai tragici esempi sopracitati. Perché il quarto atto di Stranger Things – atteso e forse anche un po’ temuto – si è imposto in questa stagione seriale come la vera e definitiva epopea di questa generazione. Mai come nell’ultimo ciclo episodico, infatti, ci si è resi conto di quanto i fratelli Duffer possano essere considerati i contemporanei rapsodi di un periodo storico, quello dei mitici anni Ottanta, a cui l’atteggiamento citazionistico postmoderno si è rivolto negli ultimi anni con maggior attenzione. Questi nuovi nove lungometraggi – con un capitolo finale dalla durata di due ore e mezza – opportunamente scissi in due parti, hanno avuto l’onere di ossequiare le aspettative di un’attesa di tre anni di speculazioni e congetture, con il rischio di depotenziare ulteriormente la coesione di una lore sempre più complessa e, in alcuni momenti delle stagioni due e tre, decisamente scricchiolante. Basta visionare i primi minuti di questa nuova fatica per rendersi conto di quale sia, però, uno dei segreti del successo di questa operazione televisiva: l’adeguare il suo tono, i suoi risvolti narrativi, le reazioni dei personaggi e la qualità degli episodi alla crescita fisica ed emotiva dei suoi protagonisti.

Con questo quarto capitolo, Stranger Things passa ottimamente dall’essere una serie di formazione contornata da continui riferimenti pop e nerd di quegli anni al prospettarsi come lo specchio della fallibilità dell’uomo di oggi, del perpetuarsi degli stessi errori e dinamiche comportamentali a seguito di una non adeguata assimilazione dei traumi infantili. Per questo, personaggi di punta come Eleven, Max e Will percorrono un affascinante viaggio a ritroso, affrontando la più grande battaglia della loro vita fino a quel momento, quella di serrato, reciproco confronto e – nel secondo arco della stagione – accettazione della loro più intima essenza. Nessun eroe che ha a che fare con le “cose strane” di Hawkings e dintorni sarebbe realmente capace di rivestire questo ruolo, eppure è proprio il loro continuo richiamo al passato a renderli i beniamini della generation Z. Così, mentre la Joyce di Winona Ryder tenta il tutto e per tutto per riportare indietro il suo amato Hopper per il costante rimorso di non aver salvato, ai tempi della seconda stagione, il compianto partner Bob e Vecna si rivela una nemesi motivata dall’incapacità di perdonare e perdonarsi, ci si rende conto di quanto Hawkings e i suoi abitanti siano maledetti, diversi. Perché di quel mondo – quello degli ’80 – che vede al futuro in maniera ottimistica e spensierata, Hawkings non si sente di far parte. Perché Hawkings e il Sottosopra sono la stessa cosa, fermi al giorno in cui le vicende della serie hanno avuto inizio. Ancorati al passato, come noi telespettatori che doniamo una seconda vita a Running Up That Hill di Kate Bush o tifiamo per Eddie che suona Master of Puppets dei Metallica pur sapendo che di lì a poco morirà, come accade sempre con il personaggio più simpatico introdotto all’interno di ciascuna season. Amiamo genuinamente Stranger Things perché è un modo diverso di fare storytelling, perché ha capito in anticipo rispetto ai tempi le esigenze della nostra società e l’ha rappresentata come poche altre storie sullo schermo dal 2016 ad oggi, tanto da portare le major a concepire proposte concorrenziali che hanno cercato di impostare il medesimo dialogo con il passato, spesso utilizzando strategicamente gli stessi volti attoriali, come nei casi dei due capitoli cinematografici di IT del 2017 e 2019 o della trilogia Netflix di Fear Street distribuita la scorsa estate. Amiamo Stranger Things per i plot twist che ci ricordano The Empire Strikes Back senza doverlo neppure velatamente nascondere, perché ci fa respirare aria di casa, perché quando guardiamo i personaggi di Hawkings che assistono all’inizio dell’apocalisse durante gli ultimi minuti di The Piggyback, speriamo di poter aver la loro stessa forza di sperare che, con qualcuno che creda in noi, si possa combattere qualunque mostro. O che, forse, il segreto per progettare l’arte del futuro sia proprio quella di guardare intelligentemente a quella del passato, sconfiggendone i suoi fantasmi peggiori per poi – anche se dolorosamente – lasciarcela alle spalle.