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“Povere creature!” Il post-umanesimo di Yorgos Lanthimos

di Umberto Mentana

In questa stagione cinematografica ormai in dirittura d’arrivo alla cerimonia degli Academy Awards, il Cinema dei “grandi” sembra essere pienamente in linea con la narrazione televisiva multi strand delle piattaforme digitali e pare segnare un trittico di riflessione esistenziale sull’umano-postumano, un motivo già superficialmente affrontato dall’oscuro Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg.

Oppenheimer (dir. C. Nolan, 2023), Barbie (dir. G. Gerwig, 2023) e Poor Things (Povere Creature!, dir. Yorgos Lanthimos, 2023) sembrano tracciare la linea di una vera e propria evoluzione, in senso univoco,  di “creature” sì umane ma non troppo. Ne deriva un’analisi sistematica e ben organizzata sul “frankensteinesimo” e sulla mutazione dei corpi, in un’ottica decisamente attuale, sociologica e in aperta polemica, anche politicamente parlando.

            Abbiamo di fronte tre spaccati, tre punti di vista progressivi sulla faccenda e se Oppenheimer risulta essere il death point da cui non poter più tornare indietro, il momento nel quale l’umano è diventato “Distruttore di Mondi” e su cui bisogna ricostruire partendo dalle sue ceneri e Barbie è il punto d’avvio di un nuovo creazionismo caduto – letteralmente – dal cielo a tinte rosa Mattel. Un voluto rimando all’incipit di 2001: A Space Odissey, di Stanley Kubrick, che auspica un nuovo inizio per la razza umana, decisamente più paritario. Il discorso per Poor Things (Povere Creature! in traduzione) risulta ainvece più complesso e sfaccettato poiché, come recita un celebre meme che gira in questi giorni sulla rete, Poor Things è Barbie per coloro che ascoltano Bjork.

Il film di Lanthimos, già vincitore come Miglior Film all’ultimo Festival di Venezia, ammette una sconfitta e un infinito senso di spaesamento, quello provato dalla fu Victoria Blessington, nella prima immagine del film in cui una sontuosa Emma Stone in blu cobalto decide di buttarsi da un altissimo ponte di una Londra irreale e a tratti steampunk dove un passato di matrice vittoriana dialoga con tecnologie improbabili, macchine volanti e colori sgargianti.

Non sappiamo chi è lei e perché si porta dietro quei lunghissimi capelli neri, quella “insostenibilità dell’esistenza” che sembra rievocare a tratti il celebre quadro di Caspar Friedrich mentre osserva dall’alto quel mare, fatto non di nebbia ma di un blu intenso che avvolge i suoi pensieri e anche il corpo. Questo è solo l’avvio del film perché, come scopriremo, Victoria sarà splendidamente ri-costruita in Bella Baxter dal prometeico e, solo in superficie, inquietante dott. Godwin Baxter (Willem Dafoe), altro personaggio che con la forza della sapienza e della conoscenza empirica, così come Oppenheimer, intende sostituirsi al lavoro della Natura o di un dio creatore ma, come vedremo, animato da un intento e un progetto decisamente differente. Nel laboratorio del dottor Godwin – dl già il suo nome si presta bene a questo felice parallelismo – fanno capolino le specie più insolite di animali mutati: galli-maiali, cani-oche, gatti-capre e così via, ma soprattutto c’è Bella, progenitrice di una nuova stirpe di postumani da cui tutti noi avremmo da imparare su come si può rinascere, soprattutto nell’anima, per cambiare il mondo. Emma Stone, la vera forza del film, retto splendidamente in ogni scena delle circa due ore e mezza di girato, è magnetica, affascinante, robotica, sensuale, gelida, divertente e straziante in questo magnifico ruolo che già le ha fruttato la vittoria ai Golden Globes come miglior attrice e una nomination all’Oscar (il film è candidato in totale a ben 11 statuette), e il suo ingresso come Bella nel film è inizialmente circondato dal puro interesse scientifico da parte del suo padre-creatore Godwin, deforme nel corpo e nel viso, che si accompagnerà per tutta la vicenda da un novello aiutante medico di nome Max McCandles (Ramy Youssef) il cui compito è praticamente annotare i cambiamenti e le evoluzioni della “povera creatura” Bella, della quale cadrà inevitabilmente innamorato, come tutti noi spettatori. Nel susseguirsi dei primi tempi della crescita di Bella, Yorgos Lanthimos opta per un bianco e nero espressionista che ricorda non poco i primi esperimenti teutonici con il cinematografo. Ed è proprio il senso di controllo, di oppressione quello che prova Bella Baxter in questa prima parte del film; ma piano e soprattutto dopo la scoperta di un autoerotismo spensierato e vivacemente vissuto, che comprendiamo quanto lei sia speciale, priva di ipocrisia e armata di una progressiva voglia di conoscere di più il mondo, e noi con lei. Attraverso il suo sguardo sincero e diretto comprendiamo quanto sia sbagliata, in direzione contraria e assurda la nostra esistenza, le scelte che facciamo, la vita che conduciamo. Da questo momento Poor Things si trasforma in un mondo a colori, plumbei, shock, ‘sospesi’ nella visione distorta (di Bella o degli altri e danneggiati esseri umani?) vivacemente espressa dalle inquadrature amplificate e a tratti surreali del film grazie all’ausilio di obiettivi grandangolari estremi, un marchio di fabbrica del Cinema di Lanthimos, già presenti e apprezzabilissimi nel suo precedente La favorita (2018), sempre con una fiammante Emma Stone.

Dunque, il post-umano Bella, in piena enfasi libidica, parte per un viaggio che la condurrà a Lisbona, Alessandria, Parigi, al fianco dal manigoldo Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), avvocato e maschio-alfa per eccellenza, che lei decide di seguire non perché costretta o ammaliata dal fascino del seduttore ma semplicemente perché è in lei il “sangue di esploratrice”, come le dice il dottor Godwin. Wedderburn si mostra in tutto il suo “splendore” colmo di apparenze e vanità e per un periodo Bella resta con lui perché scopre le gioie dei “furiosi sobbalzi” che le danno felicità, è la carnalità del sesso a cui si dedica con piacere e che richiede a volte costantemente al suo momentaneo partner. Però man mano che lo sviluppo e la continua conoscenza del mondo di Bella inizia sempre più a progredire, lei incomincia a guardare all’esterno e Duncan Wedderburn, da apparente Casanova e insensibile ai sentimenti inizia ad essere consapevole di essere soggiogato completamente dal fascino e dalla personalità, ingombrante e, stramba e priva di filtri di Bella. Dal non essere mai uscita di casa ai primi pic-nic sul prato insieme al dottor Godwin e Max al viaggio intrapreso in Europa con Duncan a cui i due medici non si oppongono perché lei “possiede il libero arbitrio”, la sete di conoscenza di Bella Baxter è insaziabile: Duncan Wedderburn arriverà finanche a rinchiuderla in un baule e a portarla lontano in primis da Lisbona – distante dai pericoli della mondanità – su una nave da crociera dove può – secondo lui – controllarla…naturalmente senza successo. La maestria della scrittura del film qui inizia ad essere feconda perché vediamo un completo rovesciamento nei caratteri dei due personaggi dove, la prima conquista sempre più autocontrollo, volubilità, intraprendenza, libertà, respiro e naturalmente autonomia, mentre il secondo diventa e diventerà sempre più patetico, al pari di un bambino capriccioso. Non saranno, infatti, rari i pianti e gli scatti di rabbia di Wedderburn, il suo struggimento dovuto all’impossibilità di controllare e possedere una super-donna forte, indipendente e nuova come Bella. Da bruco a farfalla lei e da leone a scarafaggio lui. È importante ribadire che i comportamenti e il carattere di Bella non sono in alcun modo dettati da una qualsivoglia forma di cattiveria, ambiguità, rivalsa o vendetta: lei è un’anima buona e ad esempio decide di fare sesso con altri e non solo con Duncan perché nella sua innocenza da rinata non riesce a comprendere cosa c’è di sbagliato, la ragazza non è in alcun modo coinvolta intellettualmente sugli usi della “buona società” e dei costrutti sociali – che provengono da una matrice esclusivamente maschile –, lei non li ha appresi, vive in una sorta di innaturale stato di natura vergine, immacolato dalle perturbazioni di facciata che la società del patriarcato ha eretto e predisposto nei singoli individui e a cui il film si rivolge più volte grazie al parallelo anche “visivo” con un setting tra passato e presente, come già precedentemente evidenziato, ambiantato in un’ epoca immaginaria, sospesa tra quella che potremmo definire pseudo vittoriana e uno steampunk popolato da macchine volanti, città sospese e colori lisergici; o quando, in una delle scene più strazianti del film, ambientata in una esotica e surreale Alessandria d’Egitto, Bella decide di prendere ed affidare tutto il danaro di Duncan a due inservienti della nave perché lo diano ai poveri che vivono nei bassifondi della città (gli inservienti lo terranno per loro, in quanto individui che a differenza della ‘splendida’ Bella conoscono l’avidità e il voler approfittare dell’altro). In quella sequenza, la protagonista apprende per la prima volta dal “cinico” Harry (Jerrod Carmichael), come quando una bambina sperimenta il dolore primordiale di una piccola ferita, che il mondo nella quale lei vive non è tutto rose e fiori e le persone non vivono esattamente alla stessa maniera. Bella è sconvolta, per la prima volta la vediamo davvero scoppiare in un pianto disperato di fronte a quella visione, a quella scoperta dopo che Harry le fa toccare con mano “empiricamente” cosa c’è sotto di loro: ambientata sempre sull’enorme e irreale nave da crociera ormeggiata ad Alessandria, sotto esortazione di Harry, Bella attraversa una lunga scalinata in argilla che richiama l’antichità e il passato di quelle terre e, mentre osserva sotto di lei, Bella vede i “poveri” e gli abbandonati della società. Non a caso la messa in scena opta per una struttura piramidale dove in alto ci sono i pochi e in basso i molti. Bella vuole scendere fino in fondo quelle scale ma Harry la ferma con decisione. Le  intenzioni della donna, però, non si fermano di certo lì, vuole e deve fare qualcosa per quelle persone, non accetta un mondo dove si lasciano morire dei bambini e migliaia di persone mentre “al piano di sopra” si beve champagne e si spendono contanti al casinò: raccoglie quindi i soldi vinti al gioco quella notte da Duncan Wedderburn ed è pronta a scendere, la nave però è in procinto di salpare e lei è costretta a darli ai due inservienti che  approfitteranno dei soldi e dell’innocenza di lei.

            Le sequenze ambientate a Parigi sono quelle dove la protagonista matura completamente, sa cosa vuole e sa come ottenerlo – anche diventando con piacere una momentanea prostituta in una casa chiusa gestita tutta al femminile – a differenza di Duncan Wedderburn che è diventato l’ombra di se stesso senza i suoi soldi e senza la sua autorità di maschio alfa, e Bella che in tutti i modi cerca di allontanarlo da sé, nonostante le sue insistenze. Lui non riesce a comprendere come si può vivere senza il danaro, diventa ancor più piccolo e capriccioso, fino ad impazzire, mentre lei afferma con una semplicità disarmante che i soldi “sono una malattia”, e nello scambio di battute della Bella Baxter ormai maturata completamente che si infilano sottopelle tutte le dichiarazioni polemiche del film, dalla critica ad ogni forma di sopruso dovuto alle conseguenze estreme del capitalismo alla ribellione e la lotta al patriarcato, tema costante e attualissimo delle narrazioni cinetelevisive contemporanee, di cui soprattutto nella parte finale del film si presenta in tutta la sua potenza facendo ergere Bella a simbolo e araldo di ri-nascita di una consapevolezza maggiore e bandiera del girl power.

            Lo sguardo di Bella Baxter è uno sguardo di donna autodeterminata, nuova e libera finalmente da qualsivoglia costruzione che si anima esclusivamente di buone intenzioni e conoscenza del mondo per affrontare le brutture di un pianeta “distrutto” dalle ipocrisie e dai comportamenti avidi e presuntuosi dell’uomo. E noi tutti dovremmo avvertire il suo occhio del mondo per guardarlo con distacco in tutti i suoi paradossi: e Yorgos Lanthimos è abile a dotare il film di un punto di vista fondato sull’alterità, Bella attraversa il mondo dall’esterno, conosce persone e corpi estranei al suo ma è parte di una nuova trasformazione identitaria, o meglio mutazione, non è più l’umano che conosciamo, è una nuova forma di intelligenza (artificiale?, creata con l’artificio che non è più il “peccato” di Oppenheimer) forse più sviluppata e di sicuro animata da positive vibes scevre da ogni forma di malvagità. Non potrebbe esserci un occhio esterno migliore e più estraneo del suo. La formazione di un nuovo post-umano e un nuovo post-luogo dopo la distruzione e la deriva conseguita  è l’unica maniera per Lanthimos (e per lo sceneggiatore Tony McNamara che riadatta l’omonimo romanzo di Alasdair Gray del 1992) da cui ripartire per ricalibrare e riparare le brutture insite innanzitutto in noi stesse e in noi stessi. Non è un caso che questa complessa opera cinematografica si chiude con Bella Baxter che afferma di voler diventare un medico come il suo creatore Godwin mentre in tutta la sua definita e luminosa bellezza un primissimo piano la ritrae concentrata a leggere un libro di anatomia medica. Ci affidiamo alla sua sensibilità, alla sua natura ‘meccanica’ e al suo essere-simbolo per un nuovo mito fondativo dell’essere-umani e restare umani, e l’urlo “Povere Creature!” è di conseguenza quello ridondante che echeggia in un mondo osservato dall’alto e dall’al di fuori provando una certa tristezza per la “caduta” inesorabile nella quale siamo approdati.

            Per un approfondimento della filmografia di Yorgos Lanthimos consiglio la lettura del libro di Roberto Lasagna e Benedetta Pallavidino Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos, edito da Mimesis Edizioni nel 2019.

                                                                                                                     

In Balloon

Conversazioni sul fumetto a partire da Un bracciale di stelle di Umberto Mentana e Giuseppe Guida

di Carmen Rampino

Ci sono immagini che prendono il loro alito di vita dalle parole.

Ci sono parole che si animano grazie alle immagini.

Ci sono immagini che non solo rendono la parola più incisiva, ma la accarezzano dolcemente, diventando indispensabili per essa, affinché si possano esprimere concetti che, in altri modi, difficilmente potrebbero esprimersi.

Ci sono molte parole mute e paralizzate se non hanno il supporto delle immagini.

Il miracolo che nasce quando questi due linguaggi si incontrano è storia, precisamente una storia, quella del graphic novel. Definito da Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia come «uno dei fenomeni più straordinari della letteratura contemporanea» (Calabrese–Zagaglia 2017, p. 7), l’emergere del graphic novel ha rappresentato una vera e propria rivoluzione. Per avvicinarci sempre più all’interno del laboratorio artistico di quest’arte senza tempo, abbiamo approfittato della recente pubblicazione (novembre 2023) per La Ruota Edizioni di Un bracciale di stelle (Mentana-Guida 2023), graphic novel scritto da Umberto Mentana e disegnato da Giuseppe Guida, per analizzare più da vicino i ferri di un mestiere che richiede una fatica e una perizia da orafo o miniaturista. In questo caso si è trattato di un lavoro durato due anni. Come ci ha spiegato il disegnatore Giuseppe Guida, l’opera è una particolare trasposizione a fumetti di un libro del 2019, Io mi dono,della giornalista foggiana Michela Magnifico, la quale collabora con l’associazione AIL (Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma). Infatti, il fumetto pone al centro le storie vere di malati e volontari dell’associazione, narrate all’interno della cornice finzionale che vede la giovane giornalista Greta imbattersi nell’associazione AIL di Foggia, venendone travolta e cambiata per sempre attraverso le storie di dolore, forza, lotta e resistenza che verrà a conoscere. Se Io mi dono era un libro dossier contenente le storie vere dell’associazione AIL di Foggia, la trasposizione a fumetti, con un pizzico di fantasia, riesce forse in maniera ancora più calda e penetrante ad arrivare al cuore dei lettori attraverso i colori, le metafore disegnate e le immagini che stringono la gola e si attaccano alla pelle del lettore, come quella della morte, non così perfida come ci si aspetterebbe, ma una cara morte, quasi eco buzzatiano del Poema a fumetti del ’69.

L’AIL sezione di Foggia è la prima in Italia ad aver deciso di affidare al fumetto la possibilità di narrare la sua storia, proprio con il preciso scopo di arrivare a quante più persone possibili. Tale scelta è estremamente eloquente dal punto di vista del medium e del momento florido che sta vivendo. Il fumetto si configura sempre più come luogo in grado di sensibilizzare, divulgare senza essere didascalico, un vero e proprio strumento politico trasversale. In questo caso al centro ci sono i temi del volontariato, dell’altruismo, dell’associazionismo, temi che hanno un’immediata ricaduta sociale. Come ci conferma Guida, negli ultimi 10 anni il fumetto è entrato nelle scuole, in cui vengono abitualmente adottati testi sull’antimafia o il razzismo a fumetti. Da strumento considerato nocivo per le giovani generazioni, si è dunque arrivati alla convinzione che non solo con tale linguaggio si possa trattare qualunque argomento, ma anche in maniera più efficace, incisiva e toccante. Per approfondire meglio i segreti di quest’arte quasi ossimorica, quella che può fare critica sociale, però toccando le corde più profonde della nostra emotività, quella che divulga in maniera gentile, ma allo stesso tempo ribelle e disubbidiente, e per approfondire la sfida della riscrittura trasformando un libro di non fiction in un libro di fiction, abbiamo incontrato direttamente i due creatori e conversato con loro sul progetto realizzato e sulle sorti del fumetto.

Ciao, potete raccontarmi come è nato questo progetto?

G.: Il progetto nasce dall’associazione AIL di Foggia. Io sono stato contattato da Michela Magnifico, giornalista di TeleFoggia, attiva collaboratrice dell’associazione e autrice di Io mi dono del 2019, da cui è tratto il fumetto. Esattamente, l’idea di produrre un fumetto è nata ad un primo evento AIL al Teatro Giordano, in cui io disegnavo dal vivo. Ho conosciuto lì tutta l’AIL e, in particolar modo, Michela, che mi ha lanciato la proposta. Quindi, conoscendo Umberto, e intuendo poi anche la struttura che poteva e doveva avere la storia, abbiamo iniziato a collaborare.

Se si tratta di una trasposizione a fumetti del libro di Michela Magnifico Io mi dono (2019), perché realizzare un fumetto da un libro già esistente?

G.: Perché loro volevano dare continuità al messaggio dell’associazione arrivando ai giovani. Il mezzo più efficace qual è? La lettura di un fumetto.

Quale tecnica è stata utilizzata per la parte grafica?

G.: In questo lavoro io ho riposto il mio stile, il mio tratto, che non è realistico, ma collocabile tra il cartoon e il grottesco. Conoscendoci, Umberto mi ha lasciato la libertà di potermi muovere e insieme abbiamo cercato di dare continuità allo stile, alla dinamica e soprattutto alla colorazione, scelta particolare perché abbiamo optato per questo turchese/celeste, un colore di speranza soprattutto per chi ha sofferto, in contrasto con il tradizionale bianco e nero, proprio per far trasparire anche un senso di leggerezza. Questa costante attenzione per i dettagli spiega anche perché ci siano voluti più anni per portare a termine il progetto.

Effettivamente si vede che ogni piccolissimo elemento è frutto di una scelta mai casuale. Ma è stato fatto in digitale?

G.: Sì, io lavoro in digitale da un anno e mezzo più o meno.

E invece a livello linguistico che lavoro è stato fatto? E come, in un secondo momento, la sceneggiatura e la parte grafica sono state messe insieme? Come è stato mescolare parole e immagini affinché diventassero una cosa sola?

U: Tutto il discorso è partito da un libro che non era un romanzo o un libro di finzione ma un libro reportage, un libro dossier di testimonianze in cui sono riportate le varie vicissitudini sia dei malati che dei volontari, senza un vero e proprio filo narrativo. Io poi ho operato un lavoro di traduzione attraverso le immagini dando una continuità narrativa. Quindi il libro di raccolta di testimonianze della giornalista Michela Magnifico, intitolato Io mi dono, adesso ha dato vita ad un’altra cosa, che ha un’altra natura. Da lì io ho cercato di selezionare le testimonianze, quelle un po’ più “filmabili”, cioè quelle che potevano essere benissimo rese per immagini, e da quelle poi ho cercato una continuità finzionale attraverso la creazione di Greta, personaggio di mia invenzione. Greta è una giornalista che arriva un bel giorno nell’AIL di Foggia e scopre una realtà totalmente nuova, fatta di persone che lottano, ma anche di volontari che praticamente si applicano anima e corpo per trovare una soluzione e alleggerire vite. Accanto a questo, nel libro compaiono tante altre situazioni anche visivamente interessanti, come la malattia che si personifica o la morte, che pure ha una certa sensibilità per gli affari dei vivi e non è connotata in maniera negativa, anzi vi è tutta una parte che ho chiamato proprio I doni della morte, citando, in un certo senso, Harry Potter. Poi si è lavorato sulle singole immagini e sulle singole inquadrature: in fondo lo sceneggiatore funziona anche un po’ da regista nel fumetto, perché a differenza del regista cinematografico e dello sceneggiatore cinematografico che sono figure staccate, nel fumetto c’è un connubio delle due.

Quindi le redini ce le avevi tu di fatto?

U.: Sì, della parte narrativa sì. Io lavoro con un approccio molto visivo anche nella creazione dei testi. Infatti non scrivo solo la sceneggiatura con le battute, ma lavoro sulle immagini, sugli storyboard. Quindi lavoro già disegnando qualcosina abbozzato (perché sono totalmente incapace di disegnare) proprio per vedere l’impatto della tavola, il ritmo, il montaggio. Da lì faccio tutto un fumetto muto. Questo è il mio modo di lavorare, ma ci sono altri sceneggiatori che sono molto narrativi perché provengono dal romanzo. Io, provenendo dalla sceneggiatura cinematografica, dal cinema e da produzioni video, ho un approccio visivo, ma non c’è un modo giusto o sbagliato di lavorare. Però di base si parte da questo libro che non era narrativo e si è cercato di dare una continuità. Infatti si presenta come se fosse diviso un po’ in capitoli perché ci sono tante storie che si intrecciano e poi si riuniscono in un cerchio, il bracciale di stelle appunto.

E poi questo storyboard provvisorio viene dato a Giuseppe?

U: Sì, che lo lavora a seconda del suo stile, mantenendo un po’ le mie indicazioni, ma anche inserendovi del suo.

E in questa fase tu hai già scritto i testi definitivi?

U.: In questa fase dipende anche dalle richieste della casa editrice, perché dobbiamo sempre tener conto della sua revisione. Se chiedono già di inviare la sceneggiatura con i testi sì, però di base a Giuseppe potevo anche inviare a scaglioni degli storyboard provvisori.

Forse è anche più difficile svolgendo in due il lavoro?

U.: Sono lavori diversi secondo me, perché il disegnatore ha un suo approccio, che è diverso da quello del narratore. Poi, ovviamente, ci sono anche, pensiamo a Zerocalcare o Gipi, disegnatori che sono pure autori, ma loro hanno un approccio da narratori, nel senso che sì, sono anche bravissimi disegnatori, ma il loro obiettivo è soprattutto narrare la storia. Secondo me chi è realmente narratore si deve veicolare verso la parte narrativa che è anche una parte per immagini, perché lo sceneggiatore a fumetti lavora di sintesi, cioè una immagine deve già narrare qualcosa, non ci deve essere necessariamente il testo che deve spiegare. Affiancando semplicemente una immagine all’altra ci deve essere già una natura di progresso della storia.

Oggi non solo il fumetto ha molta visibilità, ma sempre più sembra quasi l’unico medium in grado di rimanere un cantuccio di sensibilità, impegno, quasi di “militanza”. Quanto è importante il fumetto per diffondere messaggi delicati come questo? La sua ibrida e doppia natura in qualche modo riesce ad essere più incisiva? Perché si sceglie proprio questo medium?

U.: Secondo me è cambiato il modo di recepire proprio la cultura. Siamo nella civiltà delle immagini, del successo della serialità televisiva, che ha un potenziale meno registico ma più da scrittori. Siamo continuamente circondati da immagini in movimento, da disegni, da foto, quindi questo è il modo non solo per avvicinare le nuove generazioni, ma in generale fa più presa perché la cultura del tempo è cambiata. Il cosiddetto Zeitgeist è cambiato perché siamo circondati da immagini.

Se non ho capito male, a voi è stato chiesto di fare questo progetto. Da ciò ci si poteva aspettare che la questione potesse essere affrontata come una sorta di sovrastruttura imposta dall’esterno quasi in modo forzato e soprattutto didascalico, eppure sembra che il tema lo abbiate fatto vostro, diventando a tutti gli effetti un bisogno personale. Dunque, quale rapporto, prima di tutto a livello umano, e poi artistico, vi lega alla causa?

U: Alla fine commissionato o non commissionato, uno è libero sempre di accettare o meno un progetto. Siamo autori, abbiamo una certa sensibilità per alcuni temi e per altri no. Questo progetto, parlo per me personalmente, era interessante, anche al di là del tema trattato, per la sfida di traduzione, traduzione da un libro che non era narrativo a una trasposizione in immagini. Era una nuova sfida che non avevo mai affrontato. Solitamente io scrivo su soggetti totalmente originali, quindi di mia invenzione, in questo caso invece si tratta di un soggetto solo parzialmente di mia invenzione, perché è tutto un gioco di puzzle, di incastri. Però mi piaceva l’idea di fare un riadattamento a fumetti.

G.: Se il progetto è nato è sicuramente perché ci ha emozionati un po’ tutti profondamente. Questo è il mio primo progetto che affronta una tematica così delicata, soprattutto poi nel come è stata interpretata nei disegni: pensiamo alla rappresentazione della morte. Spesso si leggono fumetti fantasy o horror, in cui il tema viene trattato con un’altra metodologia tecnica. In questo caso si è cercata una modalità tale che anche un bambino può avere un approccio emozionante, simpatico e non duro o forte. Aggiungo che il libro sta andando in tournée nelle scuole. Crediamo che questo linguaggio, questo modo di far leggere un fumetto sia un intervento importante e interessante. Dunque siamo orgogliosi di aver potuto realizzare il progetto.

Un’opera del genere presuppone una sorta di asimmetria tra chi deve dare voce all’altro e l’altro che, per quanto interpellato e coinvolto, non parla direttamente. Nel fare questo lavoro avete sentito il peso di una responsabilità? Cioè in un momento in cui tende a prevalere molto l’io nelle narrazioni contemporanee, non solo quelle a fumetti, voi avete scelto di scrivere una storia di tutt’altro tipo: come si fa a dare voce ad altri? In questo caso si tratta, tra l’altro, anche di persone viventi.

U.: È un lavoro complesso. Infatti è strano affrontare dal vivo i personaggi che erano su carta. Oggi, in conferenza stampa, è stata la seconda volta che ho incontrato il dottor Ferrandina (ematologo e presidente AIL Foggia divenuto uno dei protagonisti del fumetto N.d.R.) di persona, a parte una presentazione all’interno di una manifestazione dell’AIL di un paio di anni fa, quando il progetto è partito, ed è particolare vedere queste persone che sono persone reali. È una strana sensazione assistere a questo fenomeno. Ricorda un po’ una sensazione di cui, come ultimamente leggevo, ha parlato Paola Barbato, l’autrice di Dylan Dog e di romanzi thriller. Lei raccontava che adesso è partita la lavorazione per un film, Mani nude,tratto da un suo romanzo e, incontrando gli attori, diceva di provare questa strana emozione nel vederle vivere quelle creature che erano su carta. Nel nostro caso è ancora ulteriore il passaggio, perché sono ritratti di vita reali e non sono personaggi partoriti solo su carta. La responsabilità ovviamente è tanta perché si tratta anche di temi molto delicati. Per noi è stata un’esperienza totalmente immersiva da un punto di vista emotivo, perché si racconta la lotta con la malattia, l’impegno per rendere a volte meno sofferente e a volte sconfiggere questa terribile malattia. Quindi ci siamo sentiti estremamente responsabili nel dare voce a persone che hanno donato questo impegno per riuscire a diffondere le loro voci, perché comunque stiamo parlando delle loro vite, non sto inventando nulla, cioè solo parzialmente.

Negli ultimi anni sempre più persone si interrogano sul fumetto, sul suo successo ma anche sulla sua precarietà, voi che previsioni vi sentite di fare su questa nona arte?

U.: Ahia, altra responsabilità. Sicuramente il fumetto vive di buona salute, perché, sempre ritornando al discorso legato ad una civiltà totalmente dedita alle immagini – immagini in movimento, immagini disegnate e così via – io credo che, anche grazie alle potenzialità del web, il medium possa rinnovarsi e trasformarsi, ma non scomparire. Pensiamo ai web comics che tutti conosciamo: in quel caso è cambiata la loro fruizione, perché anziché sfogliare le pagine, le scrolliamo, si potrebbe dire che è un po’ un ritorno ai papiri, andando nella verticalità e non seguendo il punto di vista orizzontale del voltapagine. Dunque le possibilità sono infinite, ricordiamoci che si tratta di un medium nato alla fine dell’Ottocento, quasi in corrispondenza con il cinema, e che i primi fumetti apparvero sui quotidiani. Io credo, dunque, solo che il fumetto possa prendere nuove strade, come ha fatto anche il cinema e la televisione.

TESI CITATI.

Stefano Calabrese – Elisabetta Zagaglia, 2017, Che cos’è il graphic novel, Roma, Carocci editore.

Michela Magnifico, 2019, Io mi dono, Molfetta, la meridiana.

Umberto Mentana – Giuseppe Guida, 2023, Un bracciale di stelle, Roma, La Ruota Edizioni.

In Sesto Potere

Doctor Who 60th: il viaggio transmediale di una serie senza tempo

di Giovanni Morese

“The first question! The question that must never be answered, hidden in plain sight. The question you’ve been running from all your life: doctor who? Doctor who? Doc… tor… WHO?”

Nell’infinito cosmico e multiforme dello storytelling contemporaneo, Doctor Who emerge come se fosse una colonna sonora senza tempo, una sinfonia di riscritture che per sessant’anni ha intrecciato passato, presente e futuro in un viaggio perenne attraverso il tempo e lo spazio. Questa odissea epica, così incerta nella sua genesi e nelle sue multiformi strutture si è così ampliata in una danza di rigenerazioni narrative che hanno ridefinito il concetto stesso di serialità televisiva.

Il Dottore, cantore e cuore pulsante di questa epopea, incarna la filosofia del rewriting in modi che hanno sempre sfidato il convenzionale. È un architetto del tempo, un’entità che plasma il proprio racconto attraverso le ere offrendo agli spettatori un’ossimorica emozione, tra l’incertezza di ciò che verrà e la confortevole consapevolezza che ritroveremo, in fin dei conti, lo stesso enigmatico personaggio di sempre.

Tuttavia, la magia della riscrittura non si limita al protagonista solitario. Companions, avversari, addirittura il logo della serie sono tutti parte di questa sinfonia narrativa in cui nulla è statico. Ogni personaggio, ogni elemento visivo, ogni storyline è un tassello mobile in un mosaico narrativo che si adatta e si reinventa; che fa giri pindarici e poi, magari, ritorna. È un franchise che ti consente di rincontrare Ian Chesterton dopo cinquantasette anni di assenza dalla serie poiché “this story is ending, but the story never ends”. È un Whoniverse in cui il temibile Toymaker lancia – nella black & white television targata BBC di un 1966 costellato di serial low budget che hanno posto le basi dell’attuale panorama multimediale – una sfida al Dottore che verrà ripresa solo nel 2023 in simulcast con la piattaforma Disney Plus in tutto il resto del mondo.

La lore del Signore del Tempo è una intricata tela di miti e leggende, una saga che si riscrive assieme a noi. Il comic diventa audiodrama, che a sua volta si trasforma in un memorabile episodio televisivo da cui verrà tratto un avvincente romanzo. La soundtrack, di generazione in generazione, si adatta ai tempi, sottolineando e amplificando le emozioni dell’esperienza di visione sia dei neofiti che dei seguaci del secolo scorso. In questo vortice temporale, Doctor Who ci insegna che la serialità non è semplicemente una forma d’arte; è un viaggio, una costante trasformazione che abbraccia ciò che è stato, ridefinisce l’odierno e getta uno sguardo audace verso mondi ancora inesplorati.

Il Sessantesimo Anniversario è, pertanto, un invito ad immergersi nel turbine di queste riscritture. È un percorso attraverso le ere, un omaggio alla maestria con cui il tempo è stato sfruttato come elemento narrativo, fino a divenire un personaggio a tutto tondo. Per questo gli imminenti speciali The Star Beast, Wild Blue Yonder e The Giggle si inseriscono all’interno del Whoniverse come un ponte tra il vecchio e il nuovo, un confortevole ed elegiaco ritorno che fungerà, forse ancora più del solito, anche da nuovo preludio. Un tuffo nel contesto sociale contemporaneo che ha l’intenzione di ridefinire gli stessi elementi iconografici che rendono questo prodotto la costante companion di decenni di Storia e di rappresentazione mediale. Una trilogia-evento in cui David Tennant, attore della Golden Age delle annate 2005-2010, torna – assieme al suo dream team – nei nostalgici panni del Dottore con lo scopo di aprirci a scenari inediti, ad un trip of a lifetime che rappresenti al meglio lo spirito eterno di queste narrazioni avvolte da un inconfondibile mistero. Da una domanda a cui non bisogna mai rispondere, nascosta in piena vista. Quella che inseguiremo per tutta la vita aspettando il suono della TARDIS, a prescindere da chi la stia guidando. Una blue box della polizia britannica con la quale cercare – attraverso gli occhi meravigliati dell’ennesimo essere umano che incrocerà la strada di quell’alieno che fuggì dal suo pianeta per scoprire se stesso – di mettere luce sul nostro fugace e nebuloso presente.

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«Nessuno può mettere i miti in un angolo»: o di come Orfeo ed Euridice resistono al tempo – Parte II

di Carmen Rampino

La catabasi di Orfeo ha ovviamente continuato a ispirare altre molteplici opere, talvolta pure di nuovo a fumetti. Lo stesso Andrea Pazienza, il più alternativo, radicale e anticonformista tra i fumettisti di tutti i tempi, con Gli ultimi giorni di Pompeo in fondo non ha fatto altro che rielaborare originalmente questo descensus ad inferos. A ben pensarci, anche Pompeo fa un viaggio verso gli inferni, gli inferni della droga, e ne ottiene uno scacco. Proprio come Orfeo, ha violato ciò che non bisognava violare, in questo caso «ha violato l’interdetto più tremendo del nostro secolo, LA DROGA, ha guardato ciò che non doveva vedere e ora non è più la sua Euridice che cerca disperatamente e non potrà mai avere, ma qualcosa di diverso e ugualmente terribile» (Formento 1997, p. 5). 
Inferni, droga, mito di Orfeo ed Euridice… tanti temi diversi che possono incontrarsi e rivivere nel presente, in una modalità particolarmente interessante. Oggi scopriamo infatti che il mito può acquistare nuova linfa persino su Netflix, anche in maniera pop e di fronte a milioni e milioni di spettatori di tutto il mondo. Questo accade proprio al mito di Orfeo o, meglio, di Euridice, nell’ultimo recente successo di Zerocalcare, Questo mondo non mi renderà cattivo. Essendo una serie di animazione, il mito trova ancora una nuova forma, oltre che nuove chiavi di lettura alternative. La serie non certo parla del mitico cantore della Tracia. Infatti si tratta di una storia tutta contemporanea, una storia politica, civile, in cui la vicenda privata di un amico che torna in quartiere dopo tanti anni di assenza si incrocia con quella collettiva di un centro di accoglienza, del “pacco” contenente 35 persone rigettato da tutti. È la storia di come spesso la rabbia, il rancore, la frustrazione di un capitalismo sempre più sfrenato finisca per porci gli uni contro gli altri, creando una guerra orizzontale tra poveri che dovrebbero stare dalla stessa parte e mettere in discussione, come fanno i “dinosauri”, lo stato delle cose. I tre amici Zero, Secco e Sarah in questa avventura si trovano in commissariato e attraverso un flashback, che percorre tutti gli episodi, si capirà cosa è successo. La serie, di grande attualità, mantiene un ritmo intenso, che però richiede almeno una doppia visione. Cosa c’entra, però, il mito in una narrazione come questa? Il primo episodio, che termina con l’arrivo di Cesare dopo 20 anni, si chiude con queste parole: 

E non sapevo bene che domande fargli. Perché, c’hai presente Orfeo e Euridice? Ecco, è come se quel cojone non se girava, riusciva a portà a Euridice fuori dall’inferno e poi je chiedeva… che se fa là il fine settimana? Te sei imparata a giocà a padel? Ma ce sta un bar che proietta la serie A? Boh… e quella giustamente non je vuole risponde, perché chissà che cazzo ha passato. Me pare pure legittimo. Per questo è così difficile pure fa le chiacchiere stupide. Perché io non lo so che se chiede a uno che è appena tornato dall’inferno 

Ritornano, dunque, Euridice e il suo inferno, però in questo caso Cesare è appena tornato da una comunità di riabilitazione per tossicodipendenti. È questo l’inferno a cui si allude. La metafora, poi, viene ripresa anche alla fine del secondo episodio:

È che non ce sta Orfeo dentro a sta storia. Ce sta solo Euridice che va all’inferno, e nessuno che la va a cercà. E dopo vent’anni riesce a tornà da sola quando ormai nessuno se la ricordava più e tu te stupisci pure se non è più la stessa

A queste parole si sovrappone l’alternarsi di immagini di Euridice in tunica che torna a casa e chiede prosaicamente un passaggio in macchina a quelle di Cesare che a sua volta torna a casa. Sembra che i due si vadano in contro sulla stessa strada, fino a sovrapporsi del tutto. Ad essere persa negli inferi, dunque, non è Euridice o, meglio, non solo lei, ma un ragazzone alto e grosso di nome Cesare. Con il suo volto corrucciato e inquieto, lo stesso Cesare diventa Euridice. Come sottofondo di questo momento così intenso si ascolta Bits of Kids degli Stiff Little Fingers. È questa la novità di tale riscrittura: non si tratta solo di parole, ma di un intreccio di parole, disegni in movimento, musica, espressioni indelebili dei volti. La metafora, in questo modo, è vivida e si aggrappa agli spettatori, senza abbandonarli mai. Sebbene nella serie non verrà ripresa più apertamente, anche alla fine ritornerà alla mente quell’immagine di Euridice. Perché in fondo il senso è tutto racchiuso qui dentro, in queste note mitiche, malinconiche e agrodolci, come malinconico e agrodolce sarà il finale della serie. In questa circostanza il mito, che compare in una piccola parte, e che ha alle sue spalle secoli di storia, diventa una chiave di accesso, addirittura un pertugio per introdursi in una storia tutta contemporanea. E non è l’unica volta in cui nella serie il materiale mitico viene sfruttato. Infatti, interessante è poi scoprire che ancora prima di questo mito, sempre nel primo episodio, ne compare un altro. Zero, sicuro di non essere arrestato perché ormai ha fatto una serie per Netflix e può fare quello che vuole, viene rimproverato dalla mamma Lady Cocca che gli dice al telefono: 

vabbè sei troppo securo de te. Ricordate sempre il figlio de Dedalo, coso, come se chiama, Icaro, che stava in fissa de volà sempre più in alto senza mai mette ‘na sciarpetta per riparasse la gola che fine ha fatto. 

Contemporaneamente scorrono le immagini di Zero vestito da Icaro con la tunica greca bianca, ma con il riconoscibilissimo teschio sul petto, e le ali e infine si legge l’epitaffio: Icaro portato via da una brutta bronchite. Questa divertente commistione alto-basso oltre a suscitare il riso, ci permette di riflettere ancora su quanto terribilmente popolari possano essere i miti. Molte volte il fumetto, didascalicamente, è stato usato per trasmettere in modo accessibile dei miti o i grandi classici della letteratura, altre volte, però, può accadere il contrario: il mito è talmente popolare da poter facilitare la comprensione di una storia. 

TESI CITATI.
Brian Michael Bendis – Mark Bagley, 2004, L’uomo ragno. Identità segreta, in “I classici del fumetto di Repubblica. Serie oro”, Modena, Panini.
Dino Buzzati, 2017 (1° ed. 1969), Poema a fumetti, Milano, Oscar ink.
Giovanni Formento, 1997, Il mito in Buzzati e Pazienza, un parallelo impossibile o una staffetta riuscita?, in «Bolle», n. 27, dicembre.

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«Nessuno può mettere i miti in un angolo»: o di come Orfeo ed Euridice resistono al tempo – Parte I –

di Carmen Rampino

«Ti interessi di mitologia greca, Justin?»
«Non proprio signore».
«Mai sentito parlare del mito di Aracne?»
«Direi di no, Mr. Osborn».
«Secondo la leggenda, Atena – conosci Atena, vero? – sentì parlare di questa donna sulla terra – una semplice mortale, come te e me – che era una tessitrice migliore di lei». 
[…]
«Atena non fu affatto felice di questo, e scese sulla Terra per distruggere le creazioni della donna. Quando la ragazza si rese conto di quel che era successo – cioè che aveva offeso gli dei e che tutti i suoi lavori erano stati distrutti si impiccò. Atena ebbe pietà della povera ragazza, le bagnò la fronte con un liquido magico e disse: “tu non morirai, Aracne. Sarai invece trasformata e tesserai per sempre la tua tela”. Alle parole di Atena, Aracne si rimpicciolì e divenne nera. Prima le caddero il naso e le orecchie, poi le sue dita si trasformarono in zampe. Quel che restava di lei divenne il corpo e da esso iniziò a tessere la sua tela» (Bendis-Bagley 2004, p. 23). 

Abbiamo appena letto l’incipit – una sorta di proemio – di un recente remake del più famoso tra i supereroi Marvel, l’Uomo Ragno, ideato nel 1962 da Stan Lee e Steve Ditko. Tale riscrittura è Ultimate Spider-Man, scritto da Brian Michael Bendis e disegnato da Mark Bagley a partire dall’ottobre del 2000. Questa si presentava come una rilettura contemporanea del celebre supereroe, rilettura che mirava a far emergere anche le sfumature più complesse, contraddittorie e umane del personaggio: un adolescente alle prese con i superpoteri, ma anche con costanti sensi di colpa, rimorsi, la crescita, e l’amore. Che Spider-Man sia uno dei miti della storia del fumetto mondiale – intendendo per mito un simbolo universale che concentra i sogni e i desideri di una intera comunità – è cosa certa, ma che esso stesso possa prendere le mosse da quelle gesta di dei e semidei che altrettanto chiamiamo miti è cosa ancor più interessante e affascinante. In ogni poema che si rispetti la prima soglia di accesso è data da un proemio, quella parte in cui vengono condensati i temi dell’opera e in cui non si manifesta una vera e propria azione. Nel caso in esame questa parte così delicata e importante è occupata proprio dal mito di Aracne, perché è proprio da qui che tutto trae origine. La capacità del mito di travalicare i secoli è senza dubbio uno dei suoi più peculiari caratteri. Tra i materiali mitici più sfruttati nella storia della letteratura vi è senz’altro quel vecchio ma mai logoro archetipo di Orfeo ed Euridice. Solo in ambito letterario e solo in ambito italiano, si potrebbero citare Orfeo e Proserpina  (1929) di Sem Benelli, il racconto L’inconsolabile tratto dai Dialoghi con Leucò  (1947) di Cesare Pavese, l’Orfeo vedovo  (1950) di Alberto Savinio, L’altra Euridice (1971) che oggi si può leggere in Tutte le cosmicomiche  di Italo Calvino, Il ritorno di Euridice in L’uomo invaso  (1986) di Gesualdo Bufalino e molti altri, e questi solo nel Novecento, altrimenti l’elenco potrebbe estendersi fino a comprendere la Fabula di Orfeo di Angelo Poliziano, scritta fra il 1479 e il 1480, l’Orfeo di Monteverdi (1607) fino all’Orfeo ed Euridice di Gluck (1762). Ovviamente le riscritture di miti classici comportano delle novità e dei nuovi spunti di lettura e a volte anche delle reinterpretazioni che possono risultare esagerate, fastidiose, se non addirittura scandalose. Ed è parzialmente questo ciò che accadde nel 1969 quando fu pubblicato Poema a fumetti da Dino Buzzati. In questo caso il disagio e il turbamento degli intellettuali derivava in gran parte dalla forma scelta da Buzzati: il fumetto. Come era possibile che uno scrittore così “serio” come il bellunese potesse dedicarsi ad un divertissement come il fumetto? Eppure la lettura di questo capolavoro si rivela un’esperienza di autentica poesia e come le altre riscritture permette di affrontare questioni universali, come l’apparente assurdo gioco della vita e della morte. Qui Orfeo è diventato Orfi ed è un cantante, anzi un cantautore, che vive nella Milano industrializzata degli anni Sessanta, figlio di una famiglia di nobili decaduti. Canta e suona la chitarra nel locale notturno Polypus, dove ogni notte manda in estasi tanti minorenni. Una sera, dalla finestra della sua casa in via Saterna, vede scendere da un’auto e entrare in un edificio attraverso una porta chiusa Eura, giovane ragazza di cui è innamorato. Il giorno dopo scopre che Eura è morta per un male misterioso. Così decide di andare presso quella porticina in cui l’aveva vista passare, perché vuole scoprire a tutti i costi dov’è Eura. Qui gli viene detto da uno strano uomo verde che non può passare, perché non è morto. Orfi, però, non si ferma, inizia a suonare la chitarra che ha portato con sé e alla fine la porta finalmente si apre. Non si trova in un giardino, come immaginava, ma in una stanza chiusa. Il primo essere che vede è una donna. È questo l’Ade e a guardia di esso non ci sono mostri, ma donne, le creature orribili che rappresentano una tentazione costante per il protagonista e che dovrebbero far desistere Orfi dalla sua impresa. Inizia il descensus ad inferos, ma per poter incontrare Eura deve cantare e suonare per i dannati ricordando loro le bellezze della vita alle quali essi guardano in modo nostalgico. Dopo aver superato la prova, riuscirà a rincontrare Eura. Quando la vede lui vuole fare di tutto per riportarla nel mondo dei vivi e con il suo orologio le ricorda ossessivamente che il tempo sta per scadere e devono affrettarsi. Lei, però, sa benissimo che non potrà in ogni caso seguirlo, perché non è possibile farlo. Richiede solo un abbraccio, ma lui non riesce neanche a fare questo, pensa di potere tutto con la sua chitarra, ma questa volta non è così, anche il canto ha un limite: «povera favola di Orfeo. Anche se tu non ti volterai indietro, non servirebbe lo stesso. Adagio, ti prego, Orfi, io sono stanca. Tutti qui siamo stanchi» (Buzzati 2017, p. 205). È la rottura della quarta parete, è il momento metaletterario per eccellenza, in cui si esce dalla finzione e ci si richiama per la prima ed unica volta alla favola di Orfeo, quel buon vecchio mito che, però, proprio in questo punto cambia radicalmente forma. Lei sa bene che i miti non esistono e che non si può sfuggire dalla morte. La colpa non è di Orfi o di Eura. A prescindere dalle loro azioni, l’ineluttabilità della morte che non si può sconfiggere prevale. Eppure quando Orfi, preso da una forza invincibile, si ritrova in via Saterna e l’uomo verde, che ricompare, gli dice che tutto è solamente un sogno ed Eura dorme un sonno eterno sottoterra, si accorge di stringere tra le mani l’anello di lei, l’unico oggetto posseduto dal suo corpo nudo che Orfi, fuggendo, aveva rimosso. «E allora, questo anello? Ma lo sconosciuto non c’era più. La strada era completamente deserta» (Buzzati 2017, p. 219). Tutto rimane così, sospeso tra la tormenta di anime in pena (cfr. Buzzati 2017, p. 220), gli ultimi re delle favole che vanno in esilio (cfr. Buzzati 2017, p. 221) e le nubi dell’eternità che passavano lentamente (cfr. Buzzati 2017, p. 222). 

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Oppenheimer. Visione e cameo di una distruzione

di Francesca Bellucci

Oppenheimer é un film sorprendente, anche per chi crede di aver interiorizzato le dinamiche illusorie, fisiche e metafisiche di Nolan.

É una biografia, pur non essendolo. Non si limita a raccontare la storia dell’inventore della bomba atomica, a tirarne su un’effigie ripulita dal peccato, come spesso avviene nelle produzioni americane, né a demonizzarne eticamente lo sviluppo. Oppenheimer è la storia di un uomo che appartiene a una specifica categoria di esseri umani, casualmente impressi nel flusso di un periodo storico ben determinato che schematizza irreversibilmente la loro vita. Non c’é etica o morale che valga la pena di essere posta in esame sul banco degli imputati, non è ciò che realmente preme a Nolan. É la rappresentazione umana in sé, il peccato di sapersi superiori, a veicolarne maggiormente gli interessi. 

Oppenheimer è un film monolitico, che scopre il velo di un uomo complesso, dannato e condannato. E questa dannazione la manifesta in modo sublime, con la rappresentazione di un corpo, quello di Cillian Murphy, asciutto, inadatto a indossare qualunque divisa che non sia quella del fisico imprigionato dalla fisica stessa, solo apparentemente attratto da qualcosa che non sia dimostrare che i calcoli delle sue visioni sono la realtà quantica di un mondo troppo ottuso per andare oltre la materia concreta di un fuoco che divampa e distrugge parte dell’umanità.

É il corpo fintamente nudo posto a interrogatorio, spogliato, davanti all’amante, dei dettami morali che ha scelto di sposare e che pure mantiene nelle cosce accavallate, nella mano delicata che si poggia sul bracciolo della poltrona.

Oppenheimer é monografia e dialogo, un parlare serrato e inarrestabile, che senza i tempi fermi del punto procede accavallando le frasi, le nozioni dei fisici, le accuse dell’illegittimo processo mosso al protagonista, le risposte repentine e inarrestabili della moglie Kitty, interpretata da Emily Blunt, durante il suo ascolto dei fatti.

Il film può essere scisso in due sezioni principali: la causa e l’effetto.

Le cause della narrazione seguono la strada tracciata da due perpendicolari: la prima è la storia della fisica. Un giovane  Oppenheimer che incontra nel suo percorso di vita le grandi menti del ‘900 con le quali cambierà le sorti della scienza. La seconda è la storia dei popoli mondiali. Lo schermo posto sulla parete su cui sono proiettate guerre, trattati di pace, altre guerre ancora, un incessante correre verso e contro la morte, nella convinzione di poterne controllare il flusso, di avere il diritto di credere quale sia la direzione corretta verso cui piegarla.

Quando il potere materiale dell’uomo fa appello a quello della scienza, le due rette si incontrano, segnando eternamente la Storia. Dal colloquio tra il generale Groves e Oppenheimer il film aumenta il proprio ritmo e le sequenze narrative diventano sempre più incalzanti.

La costruzione di Los Alamos, il reclutamento degli scienziati, le riunioni e i momenti di discussione sono mossi da uno spirito che agli occhi dello spettatore appare puro. La bellezza di menti che vedono oltre il monolite materico del mondo, che sono in grado di scinderlo e da quella “fissione” creare qualcosa di nuovo. É quando la ricerca raggiunge il suo scopo che la narrazione, pur procedendo inarrestabile, si frammenta in visioni e camei, attraverso i quali gli effetti di quell’atto creativo si scatenano nella loro potenza più disarmante.

Visione é l’esplosione, cameo é la fotografia del gruppo di lavoro che si appresta a vedere la sua creazione assumendo la posa di bagnanti indolenti di fronte a una luce dolorosa.

Cameo é l’invocazione da tifoseria fatta ad Oppenheimer dai suoi collaboratori, visione é la brutalità che solo gli occhi del fisico riescono a scorgere in quelle grida di gioia, pronte a consumarsi in corpi putrefatti. Creazione e distruzione, gioia e dolore.

Terminati i flashback in cui si ripercorrono gli eventi legati alla costruzione della bomba e all’esplosione del 6 agosto del ‘45, l’obiettivo cessa la sua corsa alle spalle di Oppenheimer, ma si ferma in un punto, mirando al volto del fisico e di tutti coloro che, mentre lui percorreva la sua retta, hanno lavorato al di sotto di questa. É come se a fissione fosse sottoposta anche la sua vita. Un evento precipita sulla sua storia, provocandone altri e altri ancora. Ma non c’è alcuna epicità, tutto si riduce a qualcosa di piccolo, come gli atomi, ma più infimo: la bassezza dell’uomo, il suo ego, la sua invidia, uniti al senso di colpa e al desiderio di perdono.

La storia si cala nelle mani degli uomini e sono quelle stesse mani a scegliere se rigettare il caso o farne azione irreversibile.

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – IV e ultima parte

di Umberto Mentana

La storia del divismo continua a svilupparsi a Venezia fino a che con Chiarini si comincia a prendere le distanze da questo fenomeno, poi si faranno tutti gli scongiuri possibili con Gambetti e non si vorrà neanche sentir parlare di questo aspetto che verrà considerato deleterio, ma le presenze divistiche sono importantissime, tra divismo cinematografico e divismo politico.
Il divismo politico prende subito la scena a partire dal ‘35 con la presenza di deputati, ministri o Presidenti del Consiglio dagli anni Cinquanta in poi. In questi stessi anni vengono ospitate anche grandi personalità, come ad esempio lo Scià di Persia e, soprattutto, Winston Churchill che ha una presenza al Lido memorabile per due avvenimenti: sia perché va all’Excelsior e finge di fare il bagno rimanendo in accappatoio, sia perché entrò durante la proiezione di un film inglese (a film iniziato) con qualcuno che cercava di aiutarlo mentre faceva le scale del palazzo, e lui reagisce in modo indispettito dicendo: “Sono ancora giovane!” e, quando finalmente entra in sala, avviene qualcosa che non era mai avvenuto in tutte le edizioni precedenti poiché verrà interrotta la proiezione per applaudirlo. Ebbene, c’è quest’aria di protagonismo, c’è una “dolce vita” che comincia al Lido dal Cinquanta in poi e i lidensi incominciano ad andarvi per vedere questa sfilata di attori, di personaggi piccoli o grandi dall’Excelsior alla Mostra, quando questo però non era ancora un red carpet che verrà poi ‘inventato’ negli anni Duemila. Io ho ancora delle compagne di scuola un po’ più grandi di me o della mia età che ricordano che già a dodici anni facevano la fila per vedere Gina Lollobrigida, Sofia Loren e poi quando apparirà Brigitte Bardot…insomma, a me dispiace ancora di non essere stato alla seduta fotografica che le fecero alla spiaggia dell’Excelsior dove c’era un pubblico grandissimo e una cinquantina di fotografi. È stato allora, nel 1958, un evento importante per il divismo che circolava per il Lido.

Poi dagli anni Sessanta i divi diventano i registi, i giovani registi: da Olmi a Rosi, da Pasolini a Pontecorvo, i fratelli Taviani, Ferreri, Bellocchio; passano per il Lido tutti i grandi registi perché il cinema italiano gode di momenti in cui il Festival serve effettivamente come occasione di lancio, di conoscenza di gente all’esordio che è già da consacrare. Gli anni Sessanta sono trionfali per il cinema italiano, Rosi vince nel ‘63 con Le mani sulla città, nel ‘64 vince Antonioni con Deserto Rosso, nel ‘66 c’è La battaglia di Algeri, nel ‘65 vince Vaghe stelle dell’orsa… di Visconti, che era sempre arrivato secondo proprio per via delle giurie politicamente condizionate e riceve il Leone d’oro per uno dei suoi film meno importanti. Però, appunto, quattro Leoni d’oro di seguito sono un evento straordinario.

    Ho cercato di seguire l’andamento dei pubblici e le loro trasformazioni: dai pubblici in prima fila, tutti vestiti per i grandi eventi come se fosse uno spettacolo al Teatro La Fenice, come se fosse un grande spettacolo teatrale, ma i pubblici cambieranno nel corso del tempo. I pubblici che andranno al Festival nei primi anni Quaranta saranno dei pubblici precettati: per esempio, pubblici di marinaretti, di soldati pronti a partire per la Guerra; invece, i pubblici che più mi emozionano, a parte quelli che vanno per le prime volte sia al Giardino delle fontanelle luminose all’Excelsior (che sarà il luogo adibito per le proiezioni) sono quelli che vanno al palazzo che viene costruito nel ‘37 dall’ingegner Quagliata in pochi mesi. Oggi è impensabile questo, sia il palazzo che il casinò vengono costruiti abbattendo delle costruzioni, un forte ottocentesco, in otto mesi o dodici mesi. Poi, nell’immediato dopoguerra viene costruita l’arena, aperta a milleottocento spettatori, e lì confluirà il pubblico popolare del Lido e di Venezia. La Biennale distribuisce gratuitamente tantissimi biglietti, quindi molti vanno al Festival anche legati dal lavoro in amministrazione pubblica ma cominciano anche ad arrivare giovani interessati al Cinema, e anche questa è una grande storia che vidi cambiare. Negli anni Sessanta si aprono posti anche per studenti universitari e con Lizzani anche i professori vengono invitati. I professori sono otto quindi non ci sono grandi costi per la Mostra ma gli studenti ci andranno con i sacchi a pelo: è una cosa straordinaria per quel periodo in cui Lizzani, con Enzo Ungari, inventa le proiezioni di mezzanotte perché a quelle proiezioni dove tentano di andare tre o quattromila persone, creando situazioni da stadio.

Fin qui, sei storie. E poi c’è anche la storia d’Italia nel mondo che si mescola. Il Lido è un’isola, è vero, ma quando la campana della Storia suona ci sono momenti in cui ci si rende conto che stiamo attraversando il Sessantotto; poi il ‘74 con il Cile, il ‘77 con la “Biennale del Dissenso” e poi vari momenti con il 2005 ed il problema del terrorismo con gli stati di tensione: il Comune di Venezia e il Ministero degli Interni mobilitano forze armate proprio perché temevano atti terroristici.

E sono arrivato ai giorni nostri; negli ultimi quindici anni ho recuperato tutti i film che riuscivo a vedere, appoggiandomi moltissimo ai cataloghi, a ciò che scrivevano i direttori e consultando ciò che scriveva la stampa. Avevo la fortuna di avere tanti ritagli di giornali anche di questo periodo, non guardavo ma conservavo molte cose, avevo notevoli materiali a cui appoggiarmi. Alla fine, quando ho fatto vedere al Direttore Barbera il capitolo a lui dedicato chiedendogli se c’erano degli errori, se avevo dimenticato qualcosa di davvero importante, mi disse che non aveva trovato nulla da rivedere e quindi fui molto contento. Avevo lavorato bene, cercando di mantenere una distanza da degli eventi che erano invece per me vicinissimi. 
L’ultima cosa che vorrei dire riguarda gli archivi che ho cercato di consultare e che non ho stimato per niente per molti anni; dovunque andassi, mi dicevano: “Mah, non so neanche dove possa essere questa annata del ’36!”. Pellicole e documenti non si trovavano e, da un certo momento in poi, hanno anche passato il materiale ad altri  – un po’ hanno ragione per i film infiammabili – ma perché non convertire tutta la cineteca (fatta anche di film in copia unica firmati dal regista) che poi, andando sul mercato, prendeva strade diverse? Invece, l’Archivio della Mostra della Biennale non ha i film. Questa è una cosa che, secondo me, va reintegrata con la crescita dell’archivio. Oggi, invece, è del tutto attiva e hanno messo in rete addirittura centomila foto (https://www.labiennale.org/it/asac/collezioni/fototeca).
    Infine, negli anni Ottanta la disorganizzazione era totale, con gente ammassata e schiacciata per vedere il primo Indiana Jones. Questa disorganizzazione continuerà, prima di tutto perché vengono meno i fondi a partire dagli anni Settanta già con la gestione Carlo Ripa di Meana (1974-1978) con dei tagli da circa un miliardo nel budget di Venezia. Contemporaneamente, però, la Mostra è in crescita, quindi come si fa a gestire tutto questo? Viene data possibilità agli studenti di accedere, io cominciavo a mandare qualcuno dei miei studenti di Cinema a partire dall’ ‘80 in poi però la disorganizzazione era totale, ma niente in confronto al ‘74, ‘75 dove la cosa era molto peggio. Poi, anche con Biraghi ci sono problemi. Infatti, quando Alberto Crespi diventerà critico de L’Unità, Biraghi farà delle rubriche dedicate proprio a cosa non funziona nella Mostra di Venezia. Nei primi anni di Gambetti si era tornati quasi a zero con la critica: il primo anno chiedono solamente trenta giornalisti perché era Novembre, perché non c’era niente di interessante, e poi invece con Lizzani ci sono seicento o settecento persone che chiedono di essere accreditate per l’evento. L’ufficio è lo stesso, il personale è lo stesso e quindi le cose non funzionano e non funzioneranno neanche con Laudadio nel ‘97, ‘98. A partire dagli anni Ottanta, i giornali non mandano più solo il critico che parla dei film e che li guarda tutti, iniziano a mandare le giornaliste che fanno i pezzi ‘di colore’, i giornalisti locali riempiono i pezzi di cose che non vanno e quindi, allargando lo sguardo, si troverà in tutto più o meno alti e bassi dell’andamento del Festival. Poi, le cose comunque vanno avanti, con sempre meno soldi e il problema è anche questo; negli anni Ottanta e Novanta la Mostra viene quasi abbandonata, è la figlia minore della Biennale, occupiamocene, sì, ma molto meno rispetto ad altri settori. 

“Il cinema è entrato, fin dall’adolescenza, da protagonista nel cast delle passioni che mi hanno accompagnato e guidato nel mio romanzo di formazione di veneziano del Lido. Ma è proprio grazie al Festival, all’attrazione fatale esercitata su di me dalle sue memorabili retrospettive, o dalle possibilità di scoperte di nuovi autori e tendenze del cinema contemporaneo, regalatemi dalle edizioni dirette da Luigi Chiarini, che ho avvertito, verso la fine dei miei studi universitari, l’esigenza di diventare, a pieno titolo, un cittadino del cinematografo sul modello di Jean Renoir”.


– Gian Piero Brunetta, dall’Introduzione a
La Mostra Internazionale  d’Arte Cinematografica di Venezia 1932-2022

qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/

qui il testo della II parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-ii-parte/

qui il testo della III parte: https://www.letterazero.it/wp-admin/post.php?post=866&action=edit

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – III parte

di Umberto Mentana

Ho deciso di scrivere definitamente di ciò tuffandomi ventiquattro ore su ventiquattro quando ho visto i presidenti Cicutto e Barbera inaugurare l’edizione del 2020 con otto direttori di altri festival internazionali venuti a Venezia, ma che non avevano avuto il coraggio di iniziare un programma. Era l’unico festival che, con limitazioni e difficoltà, faceva questo atto di fiducia riguardo al futuro. Proprio questa mi è sembrata una cosa di cui essere molto orgoglioso e da cui partire per tentare di raccontare questa storia; una storia che, essendo molto complessa, doveva essere pensata anche nella sua singolare modularità: stiamo parlando di diciottomila film che passano per Venezia, novanta giurie e premi. Cosa racconto intanto di questo? Devo selezionare delle cose, però alcune cose sono obbligate. La giuria di quell’anno va in qualche modo definita perché, anche se pessima, deve essere ricordata: ha fatto male il suo mestiere, era manovrata, era eterodiretta e voglio che il mio lettore lo sappia. Le Coppe Volpi e i Leoni d’oro vanno messi, ci sono appunto dei passaggi obbligati. E da un certo momento in poi la Mostra non ha solo il concorso, ha altre cose che si aggiungono e nel corso del tempo i direttori arricchiscono con la loro creatività. Da subito, per esempio, c’è il lavoro di Francesco Pasinetti (1911-1949) che era un giovinetto di ventuno anni che, quando vede la sua prima Mostra, scrive tutti i giorni un articolo per sette giornali contemporaneamente. E lo fa per tutta la Mostra, seguendola, non solo facendo la cronaca giornalistica e inventando ogni giorno qualcosa, ma anche consigliando cosa non va bene e cosa si dovrebbe fare. Pasinetti è il primo laureato in Storia del Cinema: la sua è la prima tesi di Storia del Cinema italiano redatta a Padova, quindi ha avuto un ruolo importante. 

    E quali sono i protagonisti del mio racconto? Come li ho scomposti e poi ricomposti insieme? Intanto, i presidenti e i direttori. Per ognuno ho cercato di delineare a tratti le caratteristiche, dando notevole riconoscimento al Conte Volpi ma anche ai suoi collaboratori; sono dell’idea che grandi meriti debbano essere riconosciuti a De Feo che dirigeva e aveva ideato il Luce in quegli anni (Istituto Luce, ndr) e aveva ideato una rivista di spirito internazionale, la Rivista del Cinema Educatore [La rivista internazionale del cinema educatore, 1929, sic]. Grazie a questa, aveva già stabilito rapporti internazionali: era andato in Russia, aveva visto dei film, aveva instaurato rapporti con registi sovietici. Però, rispetto a ciò che avverrà in seguito in base ai vincoli che la Mostra avrà dal 1935 in poi, si pensa a qualcosa che dia l’impressione al mondo (dal punto di vista diplomatico) che si possa creare un luogo aperto, con minimi condizionamenti religiosi e di censura. Dove non ci sono censure, il pubblico che va a Venezia per i primi anni, e soprattutto il primo anno, ha la possibilità di applaudire un treno sovietico in cui ci sono le bandiere che sventolano, e già nel ‘32 ha la possibilità di vedere un amore tra donne in Ragazze in uniforme (1931), un film tedesco con un amore tra ragazze, nel ‘34 ha la possibilità di vedere Estasi (1933), con un nudo di Hedy Lamarr e una scena di sesso, Lamarr che fa il bagno nuda, che corre nuda tra i boschi e tra i prati. Nei primi anni c’è dunque questa libertà che il pubblico percepisce; dal 1935 in poi c’è un maggior controllo con l’istituzione del Ministero della Cultura fascista, con Luigi Freddi che vorrà avere un controllo sulla Mostra. Dal 1938 in poi, le alleanze con i nazisti si faranno sentire, a partire dalla presenza costante di Joseph Goebbels che viene applaudito più volte negli anni dal ‘37 al ‘38 e ‘42. Abbiamo questo tipo d’insieme di protagonisti; poi, a ruota, ne seguiranno diciotto, diciannove con carature diverse, a cui ho cercato di attribuire meriti e limiti nelle Direzioni. Il direttore che ho stimato più (perché ne ho vissuto l’intensità di presenza a Venezia dal 1963 al 1968) è Luigi Chiarini, non solo perché poi ho dedicato la mia tesi a Barbaro (Umberto Barbaro, ndr) e a lui. Mi sono laureato con una tesi su di lui nel ’66, nello splendore della sua Direzione durante la quale faceva scoprire il nuovo cinema di tutto il mondo e facendo incontrare con conferenze stampe ed incontri i grandi registi, come Dreyer o Bresson, Buñuel o Buster Keaton; lui ha dato l’impressione da subito di prendersi carico del cinema italiano, tanto è vero che nei suoi cinque anni di Direzione, per quattro volte, il cinema italiano ottiene il Leone d’oro, cosa non semplice, se non ci rifacciamo ai tempi del fascismo. 

    Dunque, storia dei direttori, storia dei film e storia dell’evoluzione tecnologica. Diciottomila film che mostrano tutta la sua evoluzione dal momento del sonoro – la Mostra ha la fortuna di nascere all’indomani circa dell’invenzione del sonoro – e quindi di captare da quel momento tutte le grandi trasformazioni tecnologiche: già nel 1936-1937 ci sono i primi esperimenti di cinema a colori e poi di 3D. Memorabile l’articolo di Irene Brin che parla delle meraviglie del 3D, di cosa si vede nel ‘38; poi Cinemascope fino alla Realtà Virtuale nell’Isola del Lazzaretto iniziata da Barbera qualche anno fa. Quindi la Mostra di Venezia partecipa ed è testimone dell’invenzione tecnologica, e la sua intelligenza rispetto anche ad altri Festival è quella di aver aperto anche alle piattaforme; non solo sono entrati in concorso alcuni film nati per le piattaforme ma anche hanno vinto, addirittura, il Leone d’oro. Gli ultimi due direttori sono quelli che, a mio parere, hanno rimesso in corsa il Festival per la riconquista del suo diritto di essere il leader tra i Festival. Oggi come oggi non considero Venezia seconda a nessuno, ha riconquistato in pieno il suo potenziale e quello che è curioso è che il luogo in sé è costituito, in grandezza, da quattro campi da calcio, un luogo minimo. Forse, proprio grazie a questa ristrettezza tutto si svolge tra l’albergo Excelsior, il palazzo e adesso anche il casinò; un tempo, si svolgeva tutto dentro l’albergo Excelsior.

La storia del giornalismo a Venezia parte con venti o trenta giornalisti, anche questa è una storia che cerco di raccontare. Oggi ha più di duemila giornalisti iscritti tra tutte le testate, chi ha giornali in rete, chi organizza festival; all’inizio i “padri pellegrini” che sbarcarono a Venezia furono venti, era presente anche una donna che scrive per Il Lavoro di Genova, si chiamava Guglielmina Setti. Io ho anche privilegiato negli anni alcuni critici per la loro intelligenza, per la passione, per troppa libertà anche che volevano apertamente manifestare negli anni del fascismo fino ai primi anni ‘40. Poi la Guerra Fredda ha diviso la critica e quindi ho studiato le critiche del dopoguerra tenendo conto anche delle divisioni ideologiche, ad esempio: se scrivevi per una testata comunista non potevi dire troppo bene per un film americano che ti era piaciuto e viceversa, i film sovietici venivano duramente stroncati da gran parte della critica, ma non dalla critica comunista che -anzi- accusava critica e pubblico di essere ciechi e sordi di fronte alla bellezza dell’ultimo film di Pudovkin o di altri film che arrivavano a Venezia. Quindi la critica cambia acquisendo strumenti nuovi, adattandosi ai tempi e subendo molti condizionamenti: ho potuto raccontare questo anche grazie a Rondi che era come il Dottor Jekyll e Mr. Hyde, era cioè sdoppiato in due. Il suo compito era quello di scrivere delle recensioni, ma alle volte confidava al suo diario che era costretto a scrivere per il suo datore di lavoro e non ne era completamente convinto. Inoltre, la critica cattolica si irrigidisce moltissimo ma lo fa già negli anni Trenta, poi invece ha delle aperture straordinarie negli anni Sessanta: alcuni critici sembrano imbracciare le armi e le bandiere della Rivoluzione con posizioni più a sinistra della sinistra in certi critici cattolici. Ma poi entra in ballo la Semiologia, lo Strutturalismo, ed ovviamente – ed è il padre di tanta critica – Benedetto Croce, poi entrerà in ballo la Sociologia e i critici cresceranno in misura costante: molto presto cominciano ad arrivare i critici stranieri contestualmente ad un parterre di divi dal ’34, i divi dall’America e dagli altri Paesi.
Dal 1934 al 1938 c’è una forte presenza di divismo americano, mentre la presenza di divismo italiano si accentua dopo Cinecittà e lo vedremo lungo gli anni di Guerra. Questo periodo consente ai divi italiani come Luisa Ferida o Alida Valli di essere presenti, così come qualche regista italiano che viene premiato e riceve appunto il premio per meriti ideologici: la Coppa Mussolini. 

qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/

qui il testo della II parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-ii-parte/

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – II parte

di Umberto Mentana

Il fatto che i vari materiali siano oggi sistemati consente finalmente dei reperimenti che non sono delle “truaie”, tra cui quello delle lettere di Kubrick che per me, kubrickiano di ferro, è stata una vera scoperta perché negavo che ci fosse qualsiasi segno del passaggio di Kubrick per Venezia. Riccardo Triolo, il dottorando in questione, fece un bel lavoro, ma si fermò nel momento in cui bisognava passare da un’attività descrittiva dei materiali che aveva selezionato ad uno sguardo più generale. Perciò si trattava di decidere cosa fare ed organizzarmi, sapendo che recarmi negli archivi che intendevo visitare era impossibile. 

Come sostituire, come trovare delle alternative che rendessero questo lavoro egualmente soddisfacente e motivabile? Intanto mi accordo sulla disponibilità dell’archivio della Biennale, dalla quale mi riferiscono che avrei avuto disponibilità soltanto dopo qualche mese. Passarono i mesi, io costruisco il libro e mi servirò degli archivi per coprire i vuoti, un po’ perché nella tesi di dottorato di Triolo c’erano cinque o sei documenti che erano quelli che cercavo e non conoscevo, e che mi sono stati utili perché andavano dagli anni ‘30 al’68, poi perché ho avuto degli aiuti esterni, disperati, immediati, al di là delle mie attese e previsioni. Uno di questi mi è arrivato dall’archivio della Cineteca Lucana di Gaetano Martino. Avrei voluto recarmi alla Cineteca Lucana perché aveva due archivi importanti: uno di Giacomo Gambetti che è stato direttore della Mostra negli anni peggiori e che ha contribuito ad allontanare la Mostra dal Lido e a precipitarla in una sorta di buco nero per qualche anno; l’altro, l’archivio di Rondi (Gianluigi Rondi, ndr), da cui, imprevedibilmente, Gaetano Martino mi ha mandato oltre che una quantità enorme di materiale spedendoli direttamente a casa mia, circa settantacinque chili di roba. Rondi conservava tutto sia negli anni in cui ha fatto il critico, sia degli anni in cui è stato commissario e poi Direttore Presidente. Quindi un archivio straordinario perché dal momento in cui è arrivato a Venezia giovanissimo è sembrato subito predisposto nel compiere questa sua ascensus sonorum anno dopo anno. Un anno dopo, forse grazie alla sua amicizia con Andreotti, era già parte della giuria ed è rimasto per tre anni.

Successivamente ho chiesto aiuto ad altre cineteche come la Cineteca di Bologna ed infine conoscevo l’archivio di Lizzani che era stato dato alla Lily Library di Bloomington: l’avevo consultato e avevo avuto la fortuna di leggere tre o quattro sue lettere del periodo in cui era stato direttore alla Mostra, e poi c’era il suo libro. Insomma, il periodo mancante erano questi ultimi quindici anni, perciò telefono all’Archivio della Biennale e la direttrice dell’Archivio mi dice: “Ma di cosa ha bisogno?”, e io: “Guardate, io ho tutti i cataloghi della Mostra, da quando hanno iniziati a farli fino al 2002, 2003. Me ne manca uno e poi non li ho più, dal 2003 ad oggi”. Esattamente due giorni dopo avevo tutti i cataloghi della Mostra, una ventina di cataloghi dal 2003 al 2019. A quel punto diventò difficile trovare delle scuse con me stesso per non andare avanti e mi sono tuffato. Ho avuto anche spinte da amici che mi dicevano continuamente che dovevo fare questo lavoro e poi, dentro di me, la presi soprattutto anche come una chiamata, un atto di amore e di riconoscenza verso un posto che è stato importante per la mia formazione e che mi ha indicato la strada da prendere nella vita. 

    Ho cercato fin da subito di pensare al luogo tenendo dentro la mia ego-storia che tuttavia non trapela fino in fondo in quei momenti in cui la mescolo, ma essa c’è, e quindi nella scrittura di questo libro sono molto coinvolto autobiograficamente perché ancora oggi, a cinquanta o sessant’anni di distanza, ascoltare in questa sede una delle dottorande che si occupa di Pasolini è bello; io sono diventato amico di Pasolini col tempo, ho avuto varie occasioni di incontrarlo, di presentare i suoi libri, ma i primi veri traumi che ho avuto da spettatore fu vedere come era accolto all’arena del Lido: sentire il pubblico che al solo nome di un film di Pasolini iniziava a fischiare perché c’erano pubblici già costituiti. Quindi anche questo, il pubblico, lo voglio assolutamente raccontare e allora, quando ho iniziato a pensare a questo libro, mi son detto: “Va bene, vado avanti, ma come costruisco questa storia? Come la articolo?” 

È entusiasmante quella fase confusionale in cui, non sapendo quale strada intraprendere, ti senti facilmente perso nei materiali e ti ritrovi a pensare: “Beh, che storia racconto?”. Da veneziano, avevo anche una discreta fortuna per aver avuto in mente un modello che mi piaceva molto: quello di pensare a dei capitoli che fossero perfettamente autonomi come I teleri di Tintoretto, in cui quaranta teleri raccontano una storia unica, sono tra loro indipendenti ma pur sempre connessi. 

L’altra cosa che volevo far avvertire al lettore è la sacralità del luogo. Il Lido ha avuto questa fortuna: ha alle spalle Venezia e questa è la sua forza (rispetto anche a Cannes, che alle spalle non ha niente); la Mostra del Cinema di Venezia ha alle spalle la Biennale, la più grande manifestazione culturale italiana, ed ha avuto la fortuna di essere chiamata “Mostra d’Arte Cinematografica” dai suoi padri ideatori, i quali le hanno attribuito sin da da subito la connotazione di arte (cosa che nel 1932 non era così ovvia) in un luogo che all’inizio che non era nemmeno deputato al Cinema: è questo albergo nato nel 1907 che era diventato, negli anni di Guerra e subito dopo, un luogo d’attrazione per le élite internazionali. Il Lido attraeva la grande aristocrazia ma anche i magnati americani, Ford era amico di Volpi e gli chiese: “Ma come? Sono andato al Lido con le mazze da golf e non c’è un campo da golf?”, e Volpi gli farà un campo da golf un anno dopo. Il Lido cresce dentro questa grande logica di Giuseppe Volpi di Misurata di far diventare Venezia di nuovo città capitale della modernità e affermarsi anche come luogo di diplomazia culturale. I suoi padri fondatori sono persone che pensano con uno sguardo internazionale fin da subito e ciò è curioso, visto che la Mostra è nata e ospitata in questo luogo che è molto amato dall’élite, ma le proiezioni avverranno nella terrazza dell’Excelsior e la prima edizione registra venticinquemila persone. Anche facendo l’elenco di tutte le teste coronate, di tutti i nobili, di tutti i ricchi e gli imprenditori, non si raggiungono i venticinquemila spettatori. Quel pubblico di venticinquemila spettatori è anche un pubblico di persone qualunque, che non vestono in smoking ma con abiti di tutti i giorni. E dunque è vero che il pubblico che attrae, il pubblico che fa notizia, il pubblico che è il vero protagonista sono questi personaggi importanti, ma sin da subito ho percepito che la gente di Venezia c’è, ed è anche un pubblico incuriosito: si crea perciò un rito sulla terrazza dell’Excelsior, con un proiettore mobile dentro un capannino dell’albergo perché, se piove, ci si sposta rapidamente nello showroom. Ciò che voglio dire è che sin dal primo anno questo luogo acquista sacralità e ritualità poiché chi ci è stato desidera tornarci; è un luogo definito da Tullio Kezich come: “Un’isola ad alto potenziale di utopia” perché la gente va per coltivare sogni, visto che da subito i suoi tre ideatori Volpi, Antonio Maraini (segretario) e Luciano De Feo (organizzatore-direttore culturale), riescono in pochi mesi ad organizzare questo programma con quindici, sedici, diciassette nazioni che vi partecipano. E partecipano dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica con i propri rappresentanti, con un messaggio di auguri di Auguste Lumière che si trova nell’Archivio, ed è una delle cose che l’Archivio regala e che questo luogo mantiene nel tempo.

(qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/)

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – I parte

di Umberto Mentana

In occasione dei seminari di dottorato Film and Media Studies dell’a.a. 2022/2023 dell’Università degli Studi di Bari “A. Moro” a cura dei Proff. Federico Zecca, Angela Bianca Saponari e ricercatori Andrea Gelardi, Gabriele Landrini, ho avuto la possibilità di partecipare all’incontro con Gian Piero Brunetta (Università degli studi di Padova) che ha tenuto una vera e propria masterclass-presentazione della sua ultima pubblicazione dedicata ai Novant’anni del Festival del Cinema di Venezia per i tipi di Marsilio (https://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/2971504/la-mostra-internazionale-d-arte-cinematografica-di-venezia-1932-2022), un viaggio monumentale di oltre mille pagine tra ricerca storica, archivi e memorie da parte di uno dei più importanti storici del cinema attualmente viventi. 

Quello che segue è il resoconto dell’incontro, tenutosi online il 5 Maggio 2023.

“Questa monumentale storia della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (una coedizione La Biennale di Venezia – Marsilio), che vede la luce in concomitanza con le celebrazioni per il suo novantesimo anniversario e, in maniera un po’ paradossale, grazie alla lunga pausa indotta dal confinamento imposto dal perdurare della recente pandemia, è di gran lunga la riflessione più articolata, ampia ed esaustiva mai tentata sinora. Un tentativo di riordinare i ricordi, dare un senso compiuto all’infinità di suggestioni e stimoli suscitati dal susseguirsi implacabile e nondimeno caotico delle edizioni, riportare alla luce fatti, personaggi e soprattutto film di cui si era persa la memoria […] Un atto d’amore, infine, da parte di Gian Piero Brunetta che della Mostra è stato per moltissimi anni spettatore assiduo e, a tratti, protagonista: consapevole della grandezza dell’impresa avviata in quel lontano agosto di molti anni fa, […] Di certo, chiunque si accinga in futuro a ritentare l’impresa, non potrà non avere come punto di riferimento il lavoro, d’ora in avanti imprescindibile, di Gian Piero Brunetta”.

– Roberto Cicutto, Alberto Barbera, dalla Prefazione de La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 1932-2022.

    Il prossimo anno si festeggeranno i novant’anni della Mostra di Venezia e nessuno ne ha mai scritto.

Avrei sempre desiderato guidare un gruppo di laureandi nello scrivere questa storia e mobilitarli in vari archivi: non ci sono mai riuscito perché fino ai primi anni del Duemila l’archivio della Biennale era qualcosa di disastroso. Io ci ho lavorato per la Mostra “Cinetesori della Biennale” del 1996 e dopo aver realizzato questa retrospettiva, dopo aver visto tutti i film della Mostra, dopo aver avuto vari contatti con l’archivio, mi ero ripromesso che mai più sarei entrato negli archivi della Biennale, tanto erano disorganizzati e impossibili da consultare. Per fortuna le cose sono cambiate col tempo e, proprio durante il Covid, quando ero incerto sul parto o non parto, sul ‘chi me lo fa fare’ e così via, ho capito di aver fatto sempre passi più lunghi della mia gamba. Quando, ad esempio, ho scritto la Storia del Cinema Italiano non c’era niente di simile e sono andato in giro per gli archivi del mondo a cercare, a vedere i film muti e gli archivi dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Italia; quando ho pensato alla storia dello spettatore (Buio in sala. Cent’anni di passione dello spettatore cinematografico, Marsilio, Venezia 1997, ndr) nessuno si era mai avventurato in questo tipo di storie. Allo stesso modo, quando ho incominciato a viaggiare sulla storia dell’icononauta (Il viaggio dell’icononauta. Dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumière, Marsilio, Venezia 2009, ndr).

Quindi mi son detto: del tempo c’è, tutto è difficile, però proviamoci. Cos’ho di favorevole da parte mia? Ho tenuto numerosi corsi sulla Mostra del Cinema nel corso del tempo, ho scritto un sacco di articoli e saggi, quindi nell’insieme, salvo gli ultimi quindici anni, ne ho scritto e qualcosa ne ho detto. Infine, io sono lidense e sono cresciuto accanto alla Mostra con una casa a cinquecento metri da essa, e ad un certo punto della mia vita ho abbandonato il campo da calcio in spiaggia e ho cominciato ad entrarvi. I ragazzi lidensi per principio decidevano tutti insieme che si entrava gratuitamente alla Mostra, non si doveva pagare, e quindi con i miei amici ho incominciato a frequentare la Mostra dal ‘58. I primi momenti in cui ricordo di volervi entrare per vedere un film di Erich Von Stroheim erano prima dei miei diciott’anni, ma i primi veri ricordi incominciano nel ‘60 quando c’erano i film dei grandi registi italiani e, a seguire, le retrospettive. Dunque, dal Sessanta in poi ho cercato in tutti i modi e con tutti i mezzi di seguire tutto, proprio perché in quei quindici giorni la Mostra prendeva me ed alcuni miei compagni di scuola come una specie di febbre; facevamo anche un giornaletto locale in cui ci battevamo affinché la popolazione lidense fosse più coinvolta nella storia della Mostra. Quindi avevo un’esperienza personale di vari anni in cui avevo visto tutto, poi quaranta-quarantacinque anni di esperienza sulle retrospettive, ne scrivevo su Repubblica ma poi ho smesso.

Come mai ad un certo punto ho smesso di andare alla Mostra? Con gli attentati del 2005 sono comparse delle guardie armate sul tetto del casinò e la mostra si è militarizzata: questo non mi è più piaciuto, così come non mi è più piaciuto il fatto che per poter entrare dovevo passare, come negli aeroporti, attraverso le scannerizzazioni; in più, poco tempo dopo è stato praticato un buco per avviare la costruzione di un nuovo palazzo. Ci fu una gara tra architetti con la proclamazione di un vincitore, ma questo palazzo non è mai stato costruito perché una volta iniziati i lavori fu trovato dell’amianto, una quantità di amianto spaventosa che era poi l’amianto di cui tutti i lidensi erano a conoscenza, quell’amianto buttato dalle tettoie delle capanne di tutti gli stabilimenti dopo la grande alluvione del ‘66. E su questo fu strano che non ci fosse memoria, si doveva sapere, e perciò quando si è trovato l’amianto si vide che i costi di pulizia erano enormi e quindi per sette anni questo buco non venne chiuso.

Poi, il problema che si poneva era il seguente: io ne so poco del Festival di Venezia dal 2005 al 2020. Pensai che avrei potuto scrivere fino al 2000, fino alla nascita della Fondazione e poi finire rapidamente. Insomma, quando ho cominciato a pensare a questa storia ho iniziato a capire cosa possedessi di pratico, e di sicuro avevo nella mia memoria molto materiale: sapevo di avere raccolto – non sapevo in che misura – tanti ritagli di giornali degli anni Sessanta, sapevo che oltre ad averne scritto in varie sedi e aver seguito varie tesi, inclusa una tesi di dottorato di uno studente che dentro di me avevo eletto come ideale scrittore di questa storia con me affianco come guida. Lui fece un bel lavoro, però ha cercato di sistemare l’archivio nella fase ancora molto difficile in cui i materiali non erano ben schedati, quindi ha perso tanto tempo cercando di dare una mano nella sistemazione.