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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – IV e ultima parte

di Umberto Mentana

La storia del divismo continua a svilupparsi a Venezia fino a che con Chiarini si comincia a prendere le distanze da questo fenomeno, poi si faranno tutti gli scongiuri possibili con Gambetti e non si vorrà neanche sentir parlare di questo aspetto che verrà considerato deleterio, ma le presenze divistiche sono importantissime, tra divismo cinematografico e divismo politico.
Il divismo politico prende subito la scena a partire dal ‘35 con la presenza di deputati, ministri o Presidenti del Consiglio dagli anni Cinquanta in poi. In questi stessi anni vengono ospitate anche grandi personalità, come ad esempio lo Scià di Persia e, soprattutto, Winston Churchill che ha una presenza al Lido memorabile per due avvenimenti: sia perché va all’Excelsior e finge di fare il bagno rimanendo in accappatoio, sia perché entrò durante la proiezione di un film inglese (a film iniziato) con qualcuno che cercava di aiutarlo mentre faceva le scale del palazzo, e lui reagisce in modo indispettito dicendo: “Sono ancora giovane!” e, quando finalmente entra in sala, avviene qualcosa che non era mai avvenuto in tutte le edizioni precedenti poiché verrà interrotta la proiezione per applaudirlo. Ebbene, c’è quest’aria di protagonismo, c’è una “dolce vita” che comincia al Lido dal Cinquanta in poi e i lidensi incominciano ad andarvi per vedere questa sfilata di attori, di personaggi piccoli o grandi dall’Excelsior alla Mostra, quando questo però non era ancora un red carpet che verrà poi ‘inventato’ negli anni Duemila. Io ho ancora delle compagne di scuola un po’ più grandi di me o della mia età che ricordano che già a dodici anni facevano la fila per vedere Gina Lollobrigida, Sofia Loren e poi quando apparirà Brigitte Bardot…insomma, a me dispiace ancora di non essere stato alla seduta fotografica che le fecero alla spiaggia dell’Excelsior dove c’era un pubblico grandissimo e una cinquantina di fotografi. È stato allora, nel 1958, un evento importante per il divismo che circolava per il Lido.

Poi dagli anni Sessanta i divi diventano i registi, i giovani registi: da Olmi a Rosi, da Pasolini a Pontecorvo, i fratelli Taviani, Ferreri, Bellocchio; passano per il Lido tutti i grandi registi perché il cinema italiano gode di momenti in cui il Festival serve effettivamente come occasione di lancio, di conoscenza di gente all’esordio che è già da consacrare. Gli anni Sessanta sono trionfali per il cinema italiano, Rosi vince nel ‘63 con Le mani sulla città, nel ‘64 vince Antonioni con Deserto Rosso, nel ‘66 c’è La battaglia di Algeri, nel ‘65 vince Vaghe stelle dell’orsa… di Visconti, che era sempre arrivato secondo proprio per via delle giurie politicamente condizionate e riceve il Leone d’oro per uno dei suoi film meno importanti. Però, appunto, quattro Leoni d’oro di seguito sono un evento straordinario.

    Ho cercato di seguire l’andamento dei pubblici e le loro trasformazioni: dai pubblici in prima fila, tutti vestiti per i grandi eventi come se fosse uno spettacolo al Teatro La Fenice, come se fosse un grande spettacolo teatrale, ma i pubblici cambieranno nel corso del tempo. I pubblici che andranno al Festival nei primi anni Quaranta saranno dei pubblici precettati: per esempio, pubblici di marinaretti, di soldati pronti a partire per la Guerra; invece, i pubblici che più mi emozionano, a parte quelli che vanno per le prime volte sia al Giardino delle fontanelle luminose all’Excelsior (che sarà il luogo adibito per le proiezioni) sono quelli che vanno al palazzo che viene costruito nel ‘37 dall’ingegner Quagliata in pochi mesi. Oggi è impensabile questo, sia il palazzo che il casinò vengono costruiti abbattendo delle costruzioni, un forte ottocentesco, in otto mesi o dodici mesi. Poi, nell’immediato dopoguerra viene costruita l’arena, aperta a milleottocento spettatori, e lì confluirà il pubblico popolare del Lido e di Venezia. La Biennale distribuisce gratuitamente tantissimi biglietti, quindi molti vanno al Festival anche legati dal lavoro in amministrazione pubblica ma cominciano anche ad arrivare giovani interessati al Cinema, e anche questa è una grande storia che vidi cambiare. Negli anni Sessanta si aprono posti anche per studenti universitari e con Lizzani anche i professori vengono invitati. I professori sono otto quindi non ci sono grandi costi per la Mostra ma gli studenti ci andranno con i sacchi a pelo: è una cosa straordinaria per quel periodo in cui Lizzani, con Enzo Ungari, inventa le proiezioni di mezzanotte perché a quelle proiezioni dove tentano di andare tre o quattromila persone, creando situazioni da stadio.

Fin qui, sei storie. E poi c’è anche la storia d’Italia nel mondo che si mescola. Il Lido è un’isola, è vero, ma quando la campana della Storia suona ci sono momenti in cui ci si rende conto che stiamo attraversando il Sessantotto; poi il ‘74 con il Cile, il ‘77 con la “Biennale del Dissenso” e poi vari momenti con il 2005 ed il problema del terrorismo con gli stati di tensione: il Comune di Venezia e il Ministero degli Interni mobilitano forze armate proprio perché temevano atti terroristici.

E sono arrivato ai giorni nostri; negli ultimi quindici anni ho recuperato tutti i film che riuscivo a vedere, appoggiandomi moltissimo ai cataloghi, a ciò che scrivevano i direttori e consultando ciò che scriveva la stampa. Avevo la fortuna di avere tanti ritagli di giornali anche di questo periodo, non guardavo ma conservavo molte cose, avevo notevoli materiali a cui appoggiarmi. Alla fine, quando ho fatto vedere al Direttore Barbera il capitolo a lui dedicato chiedendogli se c’erano degli errori, se avevo dimenticato qualcosa di davvero importante, mi disse che non aveva trovato nulla da rivedere e quindi fui molto contento. Avevo lavorato bene, cercando di mantenere una distanza da degli eventi che erano invece per me vicinissimi. 
L’ultima cosa che vorrei dire riguarda gli archivi che ho cercato di consultare e che non ho stimato per niente per molti anni; dovunque andassi, mi dicevano: “Mah, non so neanche dove possa essere questa annata del ’36!”. Pellicole e documenti non si trovavano e, da un certo momento in poi, hanno anche passato il materiale ad altri  – un po’ hanno ragione per i film infiammabili – ma perché non convertire tutta la cineteca (fatta anche di film in copia unica firmati dal regista) che poi, andando sul mercato, prendeva strade diverse? Invece, l’Archivio della Mostra della Biennale non ha i film. Questa è una cosa che, secondo me, va reintegrata con la crescita dell’archivio. Oggi, invece, è del tutto attiva e hanno messo in rete addirittura centomila foto (https://www.labiennale.org/it/asac/collezioni/fototeca).
    Infine, negli anni Ottanta la disorganizzazione era totale, con gente ammassata e schiacciata per vedere il primo Indiana Jones. Questa disorganizzazione continuerà, prima di tutto perché vengono meno i fondi a partire dagli anni Settanta già con la gestione Carlo Ripa di Meana (1974-1978) con dei tagli da circa un miliardo nel budget di Venezia. Contemporaneamente, però, la Mostra è in crescita, quindi come si fa a gestire tutto questo? Viene data possibilità agli studenti di accedere, io cominciavo a mandare qualcuno dei miei studenti di Cinema a partire dall’ ‘80 in poi però la disorganizzazione era totale, ma niente in confronto al ‘74, ‘75 dove la cosa era molto peggio. Poi, anche con Biraghi ci sono problemi. Infatti, quando Alberto Crespi diventerà critico de L’Unità, Biraghi farà delle rubriche dedicate proprio a cosa non funziona nella Mostra di Venezia. Nei primi anni di Gambetti si era tornati quasi a zero con la critica: il primo anno chiedono solamente trenta giornalisti perché era Novembre, perché non c’era niente di interessante, e poi invece con Lizzani ci sono seicento o settecento persone che chiedono di essere accreditate per l’evento. L’ufficio è lo stesso, il personale è lo stesso e quindi le cose non funzionano e non funzioneranno neanche con Laudadio nel ‘97, ‘98. A partire dagli anni Ottanta, i giornali non mandano più solo il critico che parla dei film e che li guarda tutti, iniziano a mandare le giornaliste che fanno i pezzi ‘di colore’, i giornalisti locali riempiono i pezzi di cose che non vanno e quindi, allargando lo sguardo, si troverà in tutto più o meno alti e bassi dell’andamento del Festival. Poi, le cose comunque vanno avanti, con sempre meno soldi e il problema è anche questo; negli anni Ottanta e Novanta la Mostra viene quasi abbandonata, è la figlia minore della Biennale, occupiamocene, sì, ma molto meno rispetto ad altri settori. 

“Il cinema è entrato, fin dall’adolescenza, da protagonista nel cast delle passioni che mi hanno accompagnato e guidato nel mio romanzo di formazione di veneziano del Lido. Ma è proprio grazie al Festival, all’attrazione fatale esercitata su di me dalle sue memorabili retrospettive, o dalle possibilità di scoperte di nuovi autori e tendenze del cinema contemporaneo, regalatemi dalle edizioni dirette da Luigi Chiarini, che ho avvertito, verso la fine dei miei studi universitari, l’esigenza di diventare, a pieno titolo, un cittadino del cinematografo sul modello di Jean Renoir”.


– Gian Piero Brunetta, dall’Introduzione a
La Mostra Internazionale  d’Arte Cinematografica di Venezia 1932-2022

qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/

qui il testo della II parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-ii-parte/

qui il testo della III parte: https://www.letterazero.it/wp-admin/post.php?post=866&action=edit

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – III parte

di Umberto Mentana

Ho deciso di scrivere definitamente di ciò tuffandomi ventiquattro ore su ventiquattro quando ho visto i presidenti Cicutto e Barbera inaugurare l’edizione del 2020 con otto direttori di altri festival internazionali venuti a Venezia, ma che non avevano avuto il coraggio di iniziare un programma. Era l’unico festival che, con limitazioni e difficoltà, faceva questo atto di fiducia riguardo al futuro. Proprio questa mi è sembrata una cosa di cui essere molto orgoglioso e da cui partire per tentare di raccontare questa storia; una storia che, essendo molto complessa, doveva essere pensata anche nella sua singolare modularità: stiamo parlando di diciottomila film che passano per Venezia, novanta giurie e premi. Cosa racconto intanto di questo? Devo selezionare delle cose, però alcune cose sono obbligate. La giuria di quell’anno va in qualche modo definita perché, anche se pessima, deve essere ricordata: ha fatto male il suo mestiere, era manovrata, era eterodiretta e voglio che il mio lettore lo sappia. Le Coppe Volpi e i Leoni d’oro vanno messi, ci sono appunto dei passaggi obbligati. E da un certo momento in poi la Mostra non ha solo il concorso, ha altre cose che si aggiungono e nel corso del tempo i direttori arricchiscono con la loro creatività. Da subito, per esempio, c’è il lavoro di Francesco Pasinetti (1911-1949) che era un giovinetto di ventuno anni che, quando vede la sua prima Mostra, scrive tutti i giorni un articolo per sette giornali contemporaneamente. E lo fa per tutta la Mostra, seguendola, non solo facendo la cronaca giornalistica e inventando ogni giorno qualcosa, ma anche consigliando cosa non va bene e cosa si dovrebbe fare. Pasinetti è il primo laureato in Storia del Cinema: la sua è la prima tesi di Storia del Cinema italiano redatta a Padova, quindi ha avuto un ruolo importante. 

    E quali sono i protagonisti del mio racconto? Come li ho scomposti e poi ricomposti insieme? Intanto, i presidenti e i direttori. Per ognuno ho cercato di delineare a tratti le caratteristiche, dando notevole riconoscimento al Conte Volpi ma anche ai suoi collaboratori; sono dell’idea che grandi meriti debbano essere riconosciuti a De Feo che dirigeva e aveva ideato il Luce in quegli anni (Istituto Luce, ndr) e aveva ideato una rivista di spirito internazionale, la Rivista del Cinema Educatore [La rivista internazionale del cinema educatore, 1929, sic]. Grazie a questa, aveva già stabilito rapporti internazionali: era andato in Russia, aveva visto dei film, aveva instaurato rapporti con registi sovietici. Però, rispetto a ciò che avverrà in seguito in base ai vincoli che la Mostra avrà dal 1935 in poi, si pensa a qualcosa che dia l’impressione al mondo (dal punto di vista diplomatico) che si possa creare un luogo aperto, con minimi condizionamenti religiosi e di censura. Dove non ci sono censure, il pubblico che va a Venezia per i primi anni, e soprattutto il primo anno, ha la possibilità di applaudire un treno sovietico in cui ci sono le bandiere che sventolano, e già nel ‘32 ha la possibilità di vedere un amore tra donne in Ragazze in uniforme (1931), un film tedesco con un amore tra ragazze, nel ‘34 ha la possibilità di vedere Estasi (1933), con un nudo di Hedy Lamarr e una scena di sesso, Lamarr che fa il bagno nuda, che corre nuda tra i boschi e tra i prati. Nei primi anni c’è dunque questa libertà che il pubblico percepisce; dal 1935 in poi c’è un maggior controllo con l’istituzione del Ministero della Cultura fascista, con Luigi Freddi che vorrà avere un controllo sulla Mostra. Dal 1938 in poi, le alleanze con i nazisti si faranno sentire, a partire dalla presenza costante di Joseph Goebbels che viene applaudito più volte negli anni dal ‘37 al ‘38 e ‘42. Abbiamo questo tipo d’insieme di protagonisti; poi, a ruota, ne seguiranno diciotto, diciannove con carature diverse, a cui ho cercato di attribuire meriti e limiti nelle Direzioni. Il direttore che ho stimato più (perché ne ho vissuto l’intensità di presenza a Venezia dal 1963 al 1968) è Luigi Chiarini, non solo perché poi ho dedicato la mia tesi a Barbaro (Umberto Barbaro, ndr) e a lui. Mi sono laureato con una tesi su di lui nel ’66, nello splendore della sua Direzione durante la quale faceva scoprire il nuovo cinema di tutto il mondo e facendo incontrare con conferenze stampe ed incontri i grandi registi, come Dreyer o Bresson, Buñuel o Buster Keaton; lui ha dato l’impressione da subito di prendersi carico del cinema italiano, tanto è vero che nei suoi cinque anni di Direzione, per quattro volte, il cinema italiano ottiene il Leone d’oro, cosa non semplice, se non ci rifacciamo ai tempi del fascismo. 

    Dunque, storia dei direttori, storia dei film e storia dell’evoluzione tecnologica. Diciottomila film che mostrano tutta la sua evoluzione dal momento del sonoro – la Mostra ha la fortuna di nascere all’indomani circa dell’invenzione del sonoro – e quindi di captare da quel momento tutte le grandi trasformazioni tecnologiche: già nel 1936-1937 ci sono i primi esperimenti di cinema a colori e poi di 3D. Memorabile l’articolo di Irene Brin che parla delle meraviglie del 3D, di cosa si vede nel ‘38; poi Cinemascope fino alla Realtà Virtuale nell’Isola del Lazzaretto iniziata da Barbera qualche anno fa. Quindi la Mostra di Venezia partecipa ed è testimone dell’invenzione tecnologica, e la sua intelligenza rispetto anche ad altri Festival è quella di aver aperto anche alle piattaforme; non solo sono entrati in concorso alcuni film nati per le piattaforme ma anche hanno vinto, addirittura, il Leone d’oro. Gli ultimi due direttori sono quelli che, a mio parere, hanno rimesso in corsa il Festival per la riconquista del suo diritto di essere il leader tra i Festival. Oggi come oggi non considero Venezia seconda a nessuno, ha riconquistato in pieno il suo potenziale e quello che è curioso è che il luogo in sé è costituito, in grandezza, da quattro campi da calcio, un luogo minimo. Forse, proprio grazie a questa ristrettezza tutto si svolge tra l’albergo Excelsior, il palazzo e adesso anche il casinò; un tempo, si svolgeva tutto dentro l’albergo Excelsior.

La storia del giornalismo a Venezia parte con venti o trenta giornalisti, anche questa è una storia che cerco di raccontare. Oggi ha più di duemila giornalisti iscritti tra tutte le testate, chi ha giornali in rete, chi organizza festival; all’inizio i “padri pellegrini” che sbarcarono a Venezia furono venti, era presente anche una donna che scrive per Il Lavoro di Genova, si chiamava Guglielmina Setti. Io ho anche privilegiato negli anni alcuni critici per la loro intelligenza, per la passione, per troppa libertà anche che volevano apertamente manifestare negli anni del fascismo fino ai primi anni ‘40. Poi la Guerra Fredda ha diviso la critica e quindi ho studiato le critiche del dopoguerra tenendo conto anche delle divisioni ideologiche, ad esempio: se scrivevi per una testata comunista non potevi dire troppo bene per un film americano che ti era piaciuto e viceversa, i film sovietici venivano duramente stroncati da gran parte della critica, ma non dalla critica comunista che -anzi- accusava critica e pubblico di essere ciechi e sordi di fronte alla bellezza dell’ultimo film di Pudovkin o di altri film che arrivavano a Venezia. Quindi la critica cambia acquisendo strumenti nuovi, adattandosi ai tempi e subendo molti condizionamenti: ho potuto raccontare questo anche grazie a Rondi che era come il Dottor Jekyll e Mr. Hyde, era cioè sdoppiato in due. Il suo compito era quello di scrivere delle recensioni, ma alle volte confidava al suo diario che era costretto a scrivere per il suo datore di lavoro e non ne era completamente convinto. Inoltre, la critica cattolica si irrigidisce moltissimo ma lo fa già negli anni Trenta, poi invece ha delle aperture straordinarie negli anni Sessanta: alcuni critici sembrano imbracciare le armi e le bandiere della Rivoluzione con posizioni più a sinistra della sinistra in certi critici cattolici. Ma poi entra in ballo la Semiologia, lo Strutturalismo, ed ovviamente – ed è il padre di tanta critica – Benedetto Croce, poi entrerà in ballo la Sociologia e i critici cresceranno in misura costante: molto presto cominciano ad arrivare i critici stranieri contestualmente ad un parterre di divi dal ’34, i divi dall’America e dagli altri Paesi.
Dal 1934 al 1938 c’è una forte presenza di divismo americano, mentre la presenza di divismo italiano si accentua dopo Cinecittà e lo vedremo lungo gli anni di Guerra. Questo periodo consente ai divi italiani come Luisa Ferida o Alida Valli di essere presenti, così come qualche regista italiano che viene premiato e riceve appunto il premio per meriti ideologici: la Coppa Mussolini. 

qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/

qui il testo della II parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-ii-parte/

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – II parte

di Umberto Mentana

Il fatto che i vari materiali siano oggi sistemati consente finalmente dei reperimenti che non sono delle “truaie”, tra cui quello delle lettere di Kubrick che per me, kubrickiano di ferro, è stata una vera scoperta perché negavo che ci fosse qualsiasi segno del passaggio di Kubrick per Venezia. Riccardo Triolo, il dottorando in questione, fece un bel lavoro, ma si fermò nel momento in cui bisognava passare da un’attività descrittiva dei materiali che aveva selezionato ad uno sguardo più generale. Perciò si trattava di decidere cosa fare ed organizzarmi, sapendo che recarmi negli archivi che intendevo visitare era impossibile. 

Come sostituire, come trovare delle alternative che rendessero questo lavoro egualmente soddisfacente e motivabile? Intanto mi accordo sulla disponibilità dell’archivio della Biennale, dalla quale mi riferiscono che avrei avuto disponibilità soltanto dopo qualche mese. Passarono i mesi, io costruisco il libro e mi servirò degli archivi per coprire i vuoti, un po’ perché nella tesi di dottorato di Triolo c’erano cinque o sei documenti che erano quelli che cercavo e non conoscevo, e che mi sono stati utili perché andavano dagli anni ‘30 al’68, poi perché ho avuto degli aiuti esterni, disperati, immediati, al di là delle mie attese e previsioni. Uno di questi mi è arrivato dall’archivio della Cineteca Lucana di Gaetano Martino. Avrei voluto recarmi alla Cineteca Lucana perché aveva due archivi importanti: uno di Giacomo Gambetti che è stato direttore della Mostra negli anni peggiori e che ha contribuito ad allontanare la Mostra dal Lido e a precipitarla in una sorta di buco nero per qualche anno; l’altro, l’archivio di Rondi (Gianluigi Rondi, ndr), da cui, imprevedibilmente, Gaetano Martino mi ha mandato oltre che una quantità enorme di materiale spedendoli direttamente a casa mia, circa settantacinque chili di roba. Rondi conservava tutto sia negli anni in cui ha fatto il critico, sia degli anni in cui è stato commissario e poi Direttore Presidente. Quindi un archivio straordinario perché dal momento in cui è arrivato a Venezia giovanissimo è sembrato subito predisposto nel compiere questa sua ascensus sonorum anno dopo anno. Un anno dopo, forse grazie alla sua amicizia con Andreotti, era già parte della giuria ed è rimasto per tre anni.

Successivamente ho chiesto aiuto ad altre cineteche come la Cineteca di Bologna ed infine conoscevo l’archivio di Lizzani che era stato dato alla Lily Library di Bloomington: l’avevo consultato e avevo avuto la fortuna di leggere tre o quattro sue lettere del periodo in cui era stato direttore alla Mostra, e poi c’era il suo libro. Insomma, il periodo mancante erano questi ultimi quindici anni, perciò telefono all’Archivio della Biennale e la direttrice dell’Archivio mi dice: “Ma di cosa ha bisogno?”, e io: “Guardate, io ho tutti i cataloghi della Mostra, da quando hanno iniziati a farli fino al 2002, 2003. Me ne manca uno e poi non li ho più, dal 2003 ad oggi”. Esattamente due giorni dopo avevo tutti i cataloghi della Mostra, una ventina di cataloghi dal 2003 al 2019. A quel punto diventò difficile trovare delle scuse con me stesso per non andare avanti e mi sono tuffato. Ho avuto anche spinte da amici che mi dicevano continuamente che dovevo fare questo lavoro e poi, dentro di me, la presi soprattutto anche come una chiamata, un atto di amore e di riconoscenza verso un posto che è stato importante per la mia formazione e che mi ha indicato la strada da prendere nella vita. 

    Ho cercato fin da subito di pensare al luogo tenendo dentro la mia ego-storia che tuttavia non trapela fino in fondo in quei momenti in cui la mescolo, ma essa c’è, e quindi nella scrittura di questo libro sono molto coinvolto autobiograficamente perché ancora oggi, a cinquanta o sessant’anni di distanza, ascoltare in questa sede una delle dottorande che si occupa di Pasolini è bello; io sono diventato amico di Pasolini col tempo, ho avuto varie occasioni di incontrarlo, di presentare i suoi libri, ma i primi veri traumi che ho avuto da spettatore fu vedere come era accolto all’arena del Lido: sentire il pubblico che al solo nome di un film di Pasolini iniziava a fischiare perché c’erano pubblici già costituiti. Quindi anche questo, il pubblico, lo voglio assolutamente raccontare e allora, quando ho iniziato a pensare a questo libro, mi son detto: “Va bene, vado avanti, ma come costruisco questa storia? Come la articolo?” 

È entusiasmante quella fase confusionale in cui, non sapendo quale strada intraprendere, ti senti facilmente perso nei materiali e ti ritrovi a pensare: “Beh, che storia racconto?”. Da veneziano, avevo anche una discreta fortuna per aver avuto in mente un modello che mi piaceva molto: quello di pensare a dei capitoli che fossero perfettamente autonomi come I teleri di Tintoretto, in cui quaranta teleri raccontano una storia unica, sono tra loro indipendenti ma pur sempre connessi. 

L’altra cosa che volevo far avvertire al lettore è la sacralità del luogo. Il Lido ha avuto questa fortuna: ha alle spalle Venezia e questa è la sua forza (rispetto anche a Cannes, che alle spalle non ha niente); la Mostra del Cinema di Venezia ha alle spalle la Biennale, la più grande manifestazione culturale italiana, ed ha avuto la fortuna di essere chiamata “Mostra d’Arte Cinematografica” dai suoi padri ideatori, i quali le hanno attribuito sin da da subito la connotazione di arte (cosa che nel 1932 non era così ovvia) in un luogo che all’inizio che non era nemmeno deputato al Cinema: è questo albergo nato nel 1907 che era diventato, negli anni di Guerra e subito dopo, un luogo d’attrazione per le élite internazionali. Il Lido attraeva la grande aristocrazia ma anche i magnati americani, Ford era amico di Volpi e gli chiese: “Ma come? Sono andato al Lido con le mazze da golf e non c’è un campo da golf?”, e Volpi gli farà un campo da golf un anno dopo. Il Lido cresce dentro questa grande logica di Giuseppe Volpi di Misurata di far diventare Venezia di nuovo città capitale della modernità e affermarsi anche come luogo di diplomazia culturale. I suoi padri fondatori sono persone che pensano con uno sguardo internazionale fin da subito e ciò è curioso, visto che la Mostra è nata e ospitata in questo luogo che è molto amato dall’élite, ma le proiezioni avverranno nella terrazza dell’Excelsior e la prima edizione registra venticinquemila persone. Anche facendo l’elenco di tutte le teste coronate, di tutti i nobili, di tutti i ricchi e gli imprenditori, non si raggiungono i venticinquemila spettatori. Quel pubblico di venticinquemila spettatori è anche un pubblico di persone qualunque, che non vestono in smoking ma con abiti di tutti i giorni. E dunque è vero che il pubblico che attrae, il pubblico che fa notizia, il pubblico che è il vero protagonista sono questi personaggi importanti, ma sin da subito ho percepito che la gente di Venezia c’è, ed è anche un pubblico incuriosito: si crea perciò un rito sulla terrazza dell’Excelsior, con un proiettore mobile dentro un capannino dell’albergo perché, se piove, ci si sposta rapidamente nello showroom. Ciò che voglio dire è che sin dal primo anno questo luogo acquista sacralità e ritualità poiché chi ci è stato desidera tornarci; è un luogo definito da Tullio Kezich come: “Un’isola ad alto potenziale di utopia” perché la gente va per coltivare sogni, visto che da subito i suoi tre ideatori Volpi, Antonio Maraini (segretario) e Luciano De Feo (organizzatore-direttore culturale), riescono in pochi mesi ad organizzare questo programma con quindici, sedici, diciassette nazioni che vi partecipano. E partecipano dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica con i propri rappresentanti, con un messaggio di auguri di Auguste Lumière che si trova nell’Archivio, ed è una delle cose che l’Archivio regala e che questo luogo mantiene nel tempo.

(qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/)

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – I parte

di Umberto Mentana

In occasione dei seminari di dottorato Film and Media Studies dell’a.a. 2022/2023 dell’Università degli Studi di Bari “A. Moro” a cura dei Proff. Federico Zecca, Angela Bianca Saponari e ricercatori Andrea Gelardi, Gabriele Landrini, ho avuto la possibilità di partecipare all’incontro con Gian Piero Brunetta (Università degli studi di Padova) che ha tenuto una vera e propria masterclass-presentazione della sua ultima pubblicazione dedicata ai Novant’anni del Festival del Cinema di Venezia per i tipi di Marsilio (https://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/2971504/la-mostra-internazionale-d-arte-cinematografica-di-venezia-1932-2022), un viaggio monumentale di oltre mille pagine tra ricerca storica, archivi e memorie da parte di uno dei più importanti storici del cinema attualmente viventi. 

Quello che segue è il resoconto dell’incontro, tenutosi online il 5 Maggio 2023.

“Questa monumentale storia della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (una coedizione La Biennale di Venezia – Marsilio), che vede la luce in concomitanza con le celebrazioni per il suo novantesimo anniversario e, in maniera un po’ paradossale, grazie alla lunga pausa indotta dal confinamento imposto dal perdurare della recente pandemia, è di gran lunga la riflessione più articolata, ampia ed esaustiva mai tentata sinora. Un tentativo di riordinare i ricordi, dare un senso compiuto all’infinità di suggestioni e stimoli suscitati dal susseguirsi implacabile e nondimeno caotico delle edizioni, riportare alla luce fatti, personaggi e soprattutto film di cui si era persa la memoria […] Un atto d’amore, infine, da parte di Gian Piero Brunetta che della Mostra è stato per moltissimi anni spettatore assiduo e, a tratti, protagonista: consapevole della grandezza dell’impresa avviata in quel lontano agosto di molti anni fa, […] Di certo, chiunque si accinga in futuro a ritentare l’impresa, non potrà non avere come punto di riferimento il lavoro, d’ora in avanti imprescindibile, di Gian Piero Brunetta”.

– Roberto Cicutto, Alberto Barbera, dalla Prefazione de La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 1932-2022.

    Il prossimo anno si festeggeranno i novant’anni della Mostra di Venezia e nessuno ne ha mai scritto.

Avrei sempre desiderato guidare un gruppo di laureandi nello scrivere questa storia e mobilitarli in vari archivi: non ci sono mai riuscito perché fino ai primi anni del Duemila l’archivio della Biennale era qualcosa di disastroso. Io ci ho lavorato per la Mostra “Cinetesori della Biennale” del 1996 e dopo aver realizzato questa retrospettiva, dopo aver visto tutti i film della Mostra, dopo aver avuto vari contatti con l’archivio, mi ero ripromesso che mai più sarei entrato negli archivi della Biennale, tanto erano disorganizzati e impossibili da consultare. Per fortuna le cose sono cambiate col tempo e, proprio durante il Covid, quando ero incerto sul parto o non parto, sul ‘chi me lo fa fare’ e così via, ho capito di aver fatto sempre passi più lunghi della mia gamba. Quando, ad esempio, ho scritto la Storia del Cinema Italiano non c’era niente di simile e sono andato in giro per gli archivi del mondo a cercare, a vedere i film muti e gli archivi dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Italia; quando ho pensato alla storia dello spettatore (Buio in sala. Cent’anni di passione dello spettatore cinematografico, Marsilio, Venezia 1997, ndr) nessuno si era mai avventurato in questo tipo di storie. Allo stesso modo, quando ho incominciato a viaggiare sulla storia dell’icononauta (Il viaggio dell’icononauta. Dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumière, Marsilio, Venezia 2009, ndr).

Quindi mi son detto: del tempo c’è, tutto è difficile, però proviamoci. Cos’ho di favorevole da parte mia? Ho tenuto numerosi corsi sulla Mostra del Cinema nel corso del tempo, ho scritto un sacco di articoli e saggi, quindi nell’insieme, salvo gli ultimi quindici anni, ne ho scritto e qualcosa ne ho detto. Infine, io sono lidense e sono cresciuto accanto alla Mostra con una casa a cinquecento metri da essa, e ad un certo punto della mia vita ho abbandonato il campo da calcio in spiaggia e ho cominciato ad entrarvi. I ragazzi lidensi per principio decidevano tutti insieme che si entrava gratuitamente alla Mostra, non si doveva pagare, e quindi con i miei amici ho incominciato a frequentare la Mostra dal ‘58. I primi momenti in cui ricordo di volervi entrare per vedere un film di Erich Von Stroheim erano prima dei miei diciott’anni, ma i primi veri ricordi incominciano nel ‘60 quando c’erano i film dei grandi registi italiani e, a seguire, le retrospettive. Dunque, dal Sessanta in poi ho cercato in tutti i modi e con tutti i mezzi di seguire tutto, proprio perché in quei quindici giorni la Mostra prendeva me ed alcuni miei compagni di scuola come una specie di febbre; facevamo anche un giornaletto locale in cui ci battevamo affinché la popolazione lidense fosse più coinvolta nella storia della Mostra. Quindi avevo un’esperienza personale di vari anni in cui avevo visto tutto, poi quaranta-quarantacinque anni di esperienza sulle retrospettive, ne scrivevo su Repubblica ma poi ho smesso.

Come mai ad un certo punto ho smesso di andare alla Mostra? Con gli attentati del 2005 sono comparse delle guardie armate sul tetto del casinò e la mostra si è militarizzata: questo non mi è più piaciuto, così come non mi è più piaciuto il fatto che per poter entrare dovevo passare, come negli aeroporti, attraverso le scannerizzazioni; in più, poco tempo dopo è stato praticato un buco per avviare la costruzione di un nuovo palazzo. Ci fu una gara tra architetti con la proclamazione di un vincitore, ma questo palazzo non è mai stato costruito perché una volta iniziati i lavori fu trovato dell’amianto, una quantità di amianto spaventosa che era poi l’amianto di cui tutti i lidensi erano a conoscenza, quell’amianto buttato dalle tettoie delle capanne di tutti gli stabilimenti dopo la grande alluvione del ‘66. E su questo fu strano che non ci fosse memoria, si doveva sapere, e perciò quando si è trovato l’amianto si vide che i costi di pulizia erano enormi e quindi per sette anni questo buco non venne chiuso.

Poi, il problema che si poneva era il seguente: io ne so poco del Festival di Venezia dal 2005 al 2020. Pensai che avrei potuto scrivere fino al 2000, fino alla nascita della Fondazione e poi finire rapidamente. Insomma, quando ho cominciato a pensare a questa storia ho iniziato a capire cosa possedessi di pratico, e di sicuro avevo nella mia memoria molto materiale: sapevo di avere raccolto – non sapevo in che misura – tanti ritagli di giornali degli anni Sessanta, sapevo che oltre ad averne scritto in varie sedi e aver seguito varie tesi, inclusa una tesi di dottorato di uno studente che dentro di me avevo eletto come ideale scrittore di questa storia con me affianco come guida. Lui fece un bel lavoro, però ha cercato di sistemare l’archivio nella fase ancora molto difficile in cui i materiali non erano ben schedati, quindi ha perso tanto tempo cercando di dare una mano nella sistemazione.  

In Sesto Potere

E a te, se sei rimasto con Harry fin proprio alla fine: sulla riscrittura seriale del maghetto di J.K. Rowling

di Giovanni Morese

“After all this time?”

“Always”.

L’iconico Hedwig’s Theme di John Williams risuona, le nuvole si addensano. Un castello illuminato dal tramonto settembrino si intravede dietro ad un logo scintillante, inconfondibile. È il logo del reboot seriale di casa Hbo Max – rinominata, in occasione dell’unione tra Warner Bros. Television e Discovery, semplicemente Max – di Harry Potter.

Harry è tornato. Esattamente come aveva fatto la sua nemesi, letteraria prima e cinematografica poi. Eppure, in questi dodici anni di assenza dal grande schermo, il suo nome lo abbiamo sentito pronunciare, senza timore alcuno, in ambito cinematografico, ludico, letterario, teatrale, perfino sociale. La fame di Harry Potter i fan della generation Z l’hanno trasferita a quella Alpha senza che ci fosse bisogno di reinterpretazioni, riscritture o rivisitazioni. La storia del maghetto di Hogwarts ha semplicemente continuato ad appassionare grandi e piccoli con l’ausilio di tutti i media di cui usufruisce. Tutti, è fondamentale precisarlo, figli di un franchise che ha fatto dell’iconografia cinematografica il motivo del suo successo tanto quanto, e osiamo dire ancor di più, della controparte letteraria. Non a caso il progetto di Fantastic Beasts, nato come uno spin-off e proseguito fallimentarmente trasformandosi in uno strampalato prequel, ha avuto come obiettivo quello di proseguire le storie del rinomato Wizarding World attraverso cineprese ed effetti speciali, lasciando così in disparte la carta e l’inchiostro. E questo, la Warner lo sa benissimo. Lo sa talmente bene da scegliere l’estetica dei film per presentare una storia serializzata che dovrebbe sostituirsi alla sua trasposizione precedente. Una storia, quella della Rowling, che in realtà ben si presta alla narrazione televisiva. Si potrebbe dire, addirittura, che il piccolo schermo sarebbe stato fin dall’inizio il medium più adatto a riscrivere in maniera efficace la complessa trama intessuta dalla scrittrice inglese dai primi anni Novanta a fine anni Duemila. In fondo, ricordiamo ancora lucidamente – e forse con un barlume di dolce infantilità – le ingiurie verso il regista “mestierante” delle ultime pellicole David Yates, oppure la superficialità con cui il capitolo dell’oggi pluripremiato Cuarón ha trattato la storyline incentrata sui Malandrini, per non parlare delle deludenti svolte teen di un Half-Blood Prince che tutto sembra voler fare fuorché trasporre attraverso l’audio-visivo il cuore pulsante di uno dei volumi più riusciti della saga libresca. Eppure no, questo non basta per giustificare la visione e l’intento di questo nuovo progetto decennale. Soprattutto – è importante sottolinearlo – se vincolato dal peso di un immaginario che limiterà la libertà artistica di chi dovrà occuparsi di convertire in series un fenomeno editoriale ancora nel pieno della sua fioritura e da sempre affiancato da un blockbuster capace di risollevare perfino le sorti del cinema post-covid con l’ennesima distribuzione del suo primo film targato 2001. Con tutte le modalità e i linguaggi a nostra disposizione per poter godere della magia potteriana, una struttura seriale basata sull’emulazione del passato non solo rischia di risultare povera dal punto di vista strutturale, bensì di ingannare anche chi queste vicende ha amato leggerle ed ammirarle sul grande schermo. Per quanto dare giustizia alla vera origin story di Tom Riddle possa, quindi, far sognare ad occhi aperti i fan più puristi, non possiamo dopotutto non giungere alla conclusione che tale esperimento contraddica i principi fondanti della serialità. In cosa trasformeremo le serie tv, se queste non potranno più nutrirsi di plot twist inaspettati e dell’hype crescente verso il season finale? Crediamo davvero che quella che già sembra essere diventata una nuova tendenza di chi detiene i diritti di saghe che solo fino a qualche anno fa si sono scontrate al box office sia il giusto modo di riportare in auge universi narrativi amati così incondizionatamente ancora oggi? Noi, che siamo già rimasti con Harry fin proprio alla fine, saremo pertanto disposti a farlo di nuovo? Lo scopriremo, quando miriadi di gufi giungeranno a Privet Drive, un ragazzino occhialuto incontrerà un gigante buono con una magica lettera in mano e la lotta tra the boy who lived e colui-che-non-deve-essere-nominato sarà pronta per essere raccontata, ancora una volta.

In Sesto Potere

Format “Scrivere le Serie TV”. Incontro con Cristiana Farina, headwriter di “Mare fuori”

a cura di Umberto Mentana

Come si scrive una grande storia è una scuola di scrittura creativa basata sulla solidarietà fondata dallo scrittore e sceneggiatore romano Francesco Trento che nel 2020 decide di spostare online e che offre settimanalmente lezioni gratuite in cambio di volontariato. Ad oggi gli introiti per le numerose associazioni coinvolte dalla scuola ha generato donazioni per oltre 115.000 euro (https://francescotrento.it/).

         All’interno del ricchissimo programma di seminari, a partire da Novembre 2022, viene presentato il format Scrivere le serie TV, curato da Marina Pierri (autrice, critica televisiva e direttrice artistica del FeST – Il Festival delle Serie TV di Milano) e Mary Stella Brugati, sceneggiatrice. Tra i numerosi incontri con le personalità più importanti della serialità televisiva italiana (https://francescotrento.it/blog/corso/moduli/scrivere-le-serie-tv/) venerdì 17 Marzo 2023 si è svolto tramite la piattaforma Zoom l’incontro con Cristiana Farina, headwriter e ideatrice di Mare Fuori (Rai 2020 – in produzione), lo show che soprattutto in questi ultimi mesi è diventato un vero e proprio fenomeno di massa, è sulla bocca di tutte e tutti, e non solo tra gli adolescenti. Quello che segue è il resoconto dell’incontro con Cristiana Farina, a cui ho partecipato personalmente.

Cristiana Farina Le aspettative sono state più che superate, è stato uno tsunami più che un Mare Fuori. Questa è una storia che mi porto dietro da tanti anni, dalla prima volta che sono entrata nel carcere minorile di Nisida (Napoli), sono passati vent’anni da allora ed è stato amore a prima vista.

         Io ero lì perché fui chiamata per un seminario e avevo ovviamente un immaginario molto distante da quello che poi in realtà ho scoperto; i ragazzi che erano detenuti scontavano dei reati molto gravi, anche feroci, e quindi mi aspettavo di trovare più degli uomini che dei ragazzi. In realtà poi mi sono confrontata con dei ragazzi, con degli adolescenti che ancora cercavano un’approvazione da parte degli adulti, da chi è un riferimento per loro a quell’età.

         Quindi Mare Fuori è stato un progetto fin dall’inizio pieno d’amore, perché era come se quella dimensione della detenzione fosse davvero un’occasione per aprire una finestra che non avevano mai aperto. Ed erano curiosi, erano instabili, come tutti i ragazzi a quell’età, e dunque quest’alternanza di sentimenti forti ed opposti, espressi anche in maniera così violenta è arrivata con tutta la sua forza.

         L’immagine che ho avuto entrando all’IPM (Istituti Penali per Minorenni, ndr) di Nisida per la prima volta fu durante un saggio, c’era un saggio teatrale. Quella di Nisida è una location particolarmente bella, si trova sulla cima di questa penisola, appunto Nisida, e si affaccia sul Golfo di Napoli. C’è tutta una salita, che una volta che si chiude il cancello, passa attraverso diversi edifici e io ero in cima alla salita insieme ad un pubblico perché stava avvenire quest’happening messo su da una compagnia teatrale e vedo arrivare due ragazze altissime, vestite di celeste, erano su dei trampoli. Fu una visione quasi angelica, queste due figure altissime che passeggiavano sopra le nostre teste. Erano due ragazze bellissime: una era quella che oggi è diventata nella serie Viola e l’altra era quella che è diventata Naditza, una zingara e una ragazza psicopatica, fondamentalmente. Lei aveva realmente un problema mentale.

         Uno dei problemi dell’IPM è proprio questo, molto spesso ci finiscono ragazzi minorenni con problemi psichiatrici. Ora però finalmente si parla di reati minorili, di salute mentale proprio cavalcando l’onda di Mare Fuori, anche le notizie sul Beccaria, ad esempio. Prima le evasioni sono sempre accadute nel minorile perché il minorile non è un istituto di massima sicurezza, è un istituto detentivo ma i ragazzi escono con il permesso, non stanno chiusi nelle celle con un’ora d’aria al giorno. Stanno sempre in cortile quindi volendo riescono a scappare, e difatti succede soprattutto durante i permessi che capita che non rientrano. Ma nessuno non se ne è mai occupato del problema a livello nazionale, sulle prime pagine dei giornali, invece adesso l’attenzione comincia ad esserci. Il passo successivo, spero, che ci sia qualcuno che si preoccupi di creare un link tra il dentro e il fuori perché pur se lì dentro ci siano persone per quanto illuminate, capaci a recuperare quei ragazzi o comunque a dar loro un punto di vista diverso sul mondo, una volta però che valicano quel portone non c’è più nessuno, non c’è un pensiero, un progetto che possa accompagnarli anche fuori. Alla fine vengono riconsegnati al territorio, alle loro famiglie che spesso sono il problema di partenza e quindi non c’è nessun progetto di recupero e questo dispiace.

         Il successo di Mare Fuori ci fa ovviamente sentire ancor più responsabili perché se uno scrive una cosa tanto per riempire la pagina e trovare un momento di svolta che possa agganciare lo spettatore è un discorso, ora invece tanti giovani veramente lo stanno considerando qualcosa di grande, ed è decisamente una cosa diversa. Persone che ti scrivono cose del tipo: “Mi ha salvato la vita”, ti accorgi quindi che c’è proprio bisogno di una guida. Mare Fuori ha acquisito, volente o nolente, questo ruolo di faro, di faro nel buio. E di conseguenza bisogna essere molto responsabili perché la presa è tanta e nel nostro piccolo dobbiamo cercare anche eticamente di essere corretti e di attribuirgli un valore effettivamente positivo che possa dare speranza, perché il messaggio credo abbia in qualche modo perforato il tessuto degli adolescenti che molto spesso sono in difesa, hanno una barriera protettiva rispetto al mondo degli adulti, soprattutto. Mare Fuori è riuscito a sfondare questa barriera perché ha dato a tutti una possibilità di speranza. Anche dietro lo sbaglio più grave c’è la possibilità di una nuova vita se si guarda nella direzione giusta, se si affronta con responsabilità la propria responsabilità, perché non voglio parlare di colpa, e se si capisce quanto si è responsabili di quello che si è fatto poi si può tranquillamente ricominciare se c’è qualcuno che non ti giudica ma ti tende la mano e cerca di tirare fuori il bello che c’è in te.

            Per tutta questa serie di motivi, quindi, tutte queste storie in qualche modo sono rientrate dentro Mare Fuori proprio perché partivano da realtà non universali ma sicuramente molto più larghe di quello che si pensi. La cosa di cui mi sono appassionata particolarmente è la possibilità di recupero effettiva che c’è all’interno dell’IPM, una possibilità di recupero però che è molto delegata all’iniziativa personale di chi ci lavora.

La genesi di Mare Fuori: gli step di scrittura della serie

            Cristiana Farina È iniziato tutto quanto con questa presentazione alla Rai del progetto, un conceptdi dieci pagine e a loro è interessata molto l’idea dopodiché per lavorarci mi sono affiancata a Maurizio Careddu, con lui abbiamo strutturato diversi soggetti di serie e dalla seconda stagione facciamo anche insieme gli headwriters, perché è un lavoro decisamente impegnativo. Abbiamo fatto tantissima ricerca, siamo andati tante volte a Nisida, abbiamo conosciuto molteplici realtà locali che organizzano attività per i detenuti anche all’esterno del carcere, come la “Pizzeria dell’Impossibile”: si tratta di un’associazione che praticamente si occupa di insegnare ai ragazzi di Nisida ma anche di altre comunità, di Airola e di altri istituti campani, di fare la pizza. E in questa pizzeria, che sta ai Decumani, proprio al centro di Napoli, loro offrono la pizza a chi non può pagarla. Si può andare lì, prendere una pizza e una Fanta senza pagare, e questo succede a pranzo tre, quattro volte a settimana e i ragazzi imparano un mestiere, fondamentalmente. Ho conosciuto lì tanti ragazzi e ho avuto modo di parlare con loro in maniera libera, forse anche più libera che all’interno dell’istituto. Da tutti questi racconti, io e Maurizio abbiamo raccolto molte idee e anche molti modi di pensare che sono poi naturalmente confluiti dentro Mare Fuori.

         Con Maurizio, quindi, abbiamo fatto prima il soggetto di serie, dopodiché ci dividiamo i soggetti di puntata e sviluppiamo un soggetto io e un soggetto lui, poi lui passa a me quello che ha fatto lui e viceversa, ci scambiamo, ci rimpalliamo continuamente il lavoro e, una volta scritti, i dodici soggetti vengono spediti alla produzione della Rai che ci dà il feedback in base a quello che a livello produttivo si può ottimizzare piuttosto che a livello di contenuto migliorare; abbiamo un referente, un capostruttura Rai che si chiama Michele Zatta il quale anche lui si è calato in questo progetto con tutto se stesso e quindi insieme si fa un vero e proprio lavoro di gruppo. Poi, dopo i soggetti si passa alle scalette, che scriviamo sempre io e Maurizio, dove le nostre scalette sono in realtà dei trattamenti, noi scriviamo scena per scena e consegniamo scalette di trenta pagine per un episodio da 50’, quindi sono molto dettagliate. Successivamente io e Maurizio scriviamo quattro sceneggiature ciascuno e quattro di anno in anno vengono assegnate a diversi sceneggiatori. Dal primo anno c’è Luca Monesi, per le altre invece ogni anno sperimentiamo qualcuno di diverso. Poi ritorna tutto a noi e rileggiamo tutto io e Maurizio e diamo una continuità finale. È un lavoro a step: soggetto di serie, soggetti di puntata, scaletta di puntata e sceneggiatura, e poi c’è l’edizione finale. Per fare un esempio attuale, ad oggi siamo in fase di sceneggiatura ed entro metà Aprile dovremmo consegnare tutto per poter poi iniziare a girare a metà Maggio.

La genesi di Mare Fuori: il cast

            Cristiana Farina Il merito di questo cast è innanzitutto del primo regista, perché i registi si sono alternati mentre  noi siamo rimasti sempre. Il primo regista, Carmine Elia ha fatto un lavoro di casting insieme a Marita D’Elia (casting director, ndr)straordinario. Marita ha fatto un lavoro di cast incredibile perché è riuscita in ogni caso, anche essendo ragazzi molto giovani, a trovare dei professionisti. Non ci sono improvvisati tra di loro: sono tutti giovani attori e che comunque c’è chi ha fatto il Centro Sperimentale, chi aveva già fatto qualche film, chi veniva dal teatro, chi da una famiglia di teatranti, avevano tutti già studiato e sono tutte persone molto preparate e anche intellettualmente molto sensibili e argute rispetto alle tematiche trattate.

         Io a volte rimango molto affascinata dall’ascoltarli perché dicono cose che travalicano e che superano anche le intenzione delle parole scritte. Fanno delle analisi sui loro personaggi che lasciano veramente a bocca aperta me per prima, che ho scritto il personaggio. E questa è una ricchezza aggiunta   sicuramente all’idea originale innegabile ed è una sorta di alchimia fortunata quella di Mare Fuori, perché questi ragazzi tra di loro poi hanno sviluppato anche un’amicizia, una collaborazione, sono diventati proprio una famiglia. E tutta questa passione, tutto questo amore, tutta quest’anima alla fine ha dato corpo a qualcosa di unico.

            Nella serie, poi, naturalmente ci sono anche personaggi, come quello di Carolina Crescentini, che poi avvertono l’esigenza di uscire da quel ruolo, è una serie lunga perciò magari un attore ad un certo punto ha altri interessi e altre proposte e dunque dobbiamo trovare un modo per farli uscire, è un mix di tutto questo e non dipende perciò solo da noi, da semplici scelte narrative. Penso anche ai personaggi di Filippo (Nicolas Maupas) e Naditza (Valentina Romani) che poi hanno avuto altre proposte e hanno pensato che il loro contributo a Mare Fuori fosse terminato, ed è rispettabile alla loro età perché chiudersi in un ruolo può cominciare a diventare stretto.

La genesi di Mare Fuori: i riferimenti

            Cristiana Farina Le storie in sé presenti in Mare Fuori non provengono guardando altri prodotti ma la struttura e il genere ovviamente sì: Orange is the New Black, Oz, Vis-a-vis, io ho sempre avuto il pallino del carcere. È un luogo che evidentemente da bambina mi porto dietro. La Rai, ricordo, faceva dei film la mattina tipo di Sabato o di Domenica e io li guardavo tutti e tra questi c’era Sciuscià di De Sica che mi colpì proprio al cuore, perché forse la libertà negata su un bambino era per me l’innocenza violata per antonomasia. Ed è una cosa che mi ha sempre colpito nel profondo proprio perché mi spaventava e in qualche modo la indagavo. E sicuramente il carcere è sempre stato un ambito che mi ha affascinato, quindi me le sono viste tutte quelle serie, dalla prima ora. Detto questo, poi si tratta di serie corali e anche questo è ricorrente in Mare Fuori, però le storie, come dicevo, si sono sviluppate molto autonomamente, anche a livello strutturale, come l’idea dei flashback, dei personaggi, perché noi del reato fondamentalmente non parliamo mai, ne parliamo solo nel flashback dove questi hanno sempre un intento salvifico, cioè cercano in qualche modo di far capire cosa c’è dietro quel reato, e ti fa chiudere alla fine il cerchio su quel dato personaggio che fino a quel momento non avevi ancora inquadrato perfettamente o lo avevi inquadrato in un’altra direzione.

            Un’altra considerazione che non è solita come abitudine seriale è quella di compiere gli archi narrativi, cioè noi abbiamo come regola la seguente: abbiamo chi sbaglia e decide di sbagliare e fa una scelta, compie una scelta e quindi non ha nessuna possibilità di recupero perché non si responsabilizza e per noi chi ha scelto di essere un criminale è già un adulto, non è più un ragazzo ed è una persona che con questa scelta è già al di fuori del nostro raggio. E a quel punto se continui a perpetuare il male non c’è possibilità di salvezza, per cui un Ciro Ricci muore. Se invece c’è qualcosa dentro di te che si è acceso, allora ci lavoriamo e continuiamo su questa direzione. E ci sono stati anche addii, tipo quello di Viola (Serena de Ferrari) che soltanto sul finale noi capiamo chi era e perché. Fino a quel momento era odiatissima Viola perché era un personaggio psicopatico che aveva ucciso senza un motivo comprensibile e che continuava a comportarsi in maniera provocatoria verso tutte e tutti e non provava empatia e, di conseguenza, era un personaggio respingente. Ma io Viola l’ho sempre amata perché l’ho conosciuta e so da dove proveniva quella mancanza di empatia, non perché conoscessi la sua storia ma perché conoscevo lei e quindi avevo accettato questa sua diversità in qualche modo. E proprio perché c’era una diversità diventava per me fonte di interesse, perché tutto quello che non capisco mi appassiona molto di più di quello che invece già conosco. E il finale di Viola per quanto sia straziante è anche in un certo senso rivelatore, proprio in quel momento infatti lei prende coscienza di chi è e che cosa ha fatto.

            La serie è iniziata al maschile perché le storie di entrata sono quelle di Carmine (Massimiliano Caiazzo) e Filippo e, di conseguenza, con loro e con la loro amicizia speculare, entriamo dentro l’IPM e parliamo più che altro al maschile perché loro sono al maschile. Le ragazze sono personaggi sì interessanti ma solo sullo sfondo, diciamo che nella prima stagione sicuramente emerge Naditza. Lei è un vero portento sia come attrice che come personaggio, rompe proprio le righe con la sua vitalità eccessiva che fa saltare tutti gli schemi. Nella prima stagione, dunque, i personaggi femminili erano presenti ma sicuramente le storie portanti erano quelle del maschile.

         Il momento in cui Ciro (Giacomo Giorgio) viene a mancare si avverte la sua mancanza, la proviamo anche noi proprio perché era un antagonista meraviglioso ma noi tuttavia non volevamo fare una storia incentrata soltanto sull’antagonismo e sulle forze camorriste, per cui quando Ciro viene a mancare ci siamo detti: che cosa c’è di meglio se non ricalcare un archetipo che conosciamo tutti, come è quello di Romeo e Giulietta? E perciò abbiamo i Di Salvo contro i Ricci e quindi arriva Rosa (Maria Esposito) che si innamora del Di Salvo, anzi viceversa, è lui che prima ancor di lei mostra interesse perché l’intento di Carmine, molto più consapevole da sempre, è quello di disinnescare questa lotta, questa guerra, questo odio, questa violenza con cui è cresciuto ed è l’origine di tutti i mali. Per cui dice: l’amore è sicuramente la cosa che potrebbe far finire tutto questo, e ci prova disperatamente.

La genesi di Mare Fuori: i processi produttivi e l’importanza dello showrunner

            Cristiana Farina Io non faccio differenze tra serie e fiction, essendo che poi la fiction si basa su diversi generi e sottogeneri che possiamo poi chiamare soap, drama, comedy, comedy-drama, avventura però di fatto sempre di fiction si tratta. Nel senso che nel momento in cui fai recitare qualcuno e scrivi un testo da far recitare diventa una fiction, non è che può essere un’altra cosa. Altro discorso è una docuserie, lì prendi dei ragazzi magari in base a degli archetipi e li metti in una stanza e li fai interagire tra di loro senza uno script di riferimento.

            Per quanto riguarda le serie italiane, in particolare, c’è molto da dire secondo me perché in Italia la vera serialità è trattata in maniera diversa da come si produce nei Paesi che ne hanno fatto un mercato anche redditizio, come negli Stati Uniti, lì è di carattere industriale in qualche modo. Anche quando è autoriale ha dei sistemi di preparazione, produzione e postproduzione che sono dettati da un calendario che rende tutto verificabile e ciascun momento è imputabile ad un ruolo preciso. Un ruolo preciso che ha un compito in un tempo preciso. Qui in Italia, invece, è diverso, nel senso che sembra che ancora oggi si producano le fiction, e quindi le serie TV, con le modalità e un piano di produzione di stampo cinematografico, non seriale. E su questo ci scontriamo anche noi autori perché anche nel caso di Mare Fuori, una serie di cui siamo ovviamente tutti orgogliosi, però di fatto per noi autori a volte è frustrante poiché nel momento in cui tu interrompi la comunicazione perché appunto la produzione non ha questo tipo di impostazione, ed interrompi la comunicazione tra scrittura e regia, tra regia e montaggio, crei un danno perché la continuità di una serie non ce l’ha in mano il regista che non l’ha scritta, non ce l’ha in mano l’attore che improvvisa. Possono avere un ruolo autoriale tutte queste figure ma si deve avere un controllo editoriale dal minuto uno alla fine. Perché infatti esiste in America la figura dello showrunner, del producer creativo, in generale del creatore della serie che è presente in tutti gli step di produzione perché deve controllare la continuità, l’anima. In qualche modo è il termometro della serie, proprio perché ha più stagioni e non è scritta dall’inizio per più stagioni, la direzione la deve avere una persona. E comunque la deve avere la scrittura, perché la scrittura è quel processo che guarda più lontano. Poi l’approfondimento lo può avere in mano in regista, lo può avere in mano l’attore perché magari l’approfondimento del personaggio sicuramente non si può pensare che non sia delegato all’attore, perché l’attore ha una visione solo del suo personaggio e può andare solo che a fondo rispetto alla scrittura, però tutto questo deve essere verificato e valutato da chi ha in mano la scrittura della serie.

E questo non è semplice da attuare in Italia, non è semplice affatto. Io ho avuto fortuna perché in Amiche mie (2008, ndr), un’altra serie che ho fatto ho avuto questo specifico ruolo, in Mare Fuori invece non è stato così, però di fatto tra una cosa e l’altra alla fine siamo riusciti anche con il montaggio a rimettere a pari un po’ di pasticci che erano accaduti durante la fase di registrazione rispetto a quello che era stato scritto. È tutto un po’ più pasticciato, meno codificato. Io ho lavorato con gli inglesi, con gli americani, con gli australiani e non c’è questo margine di sbaglio, non è proprio possibile perché ci sono dei sistemi di verifica che permettono di scrivere e ad andare in onda con uno scarto minimo. Addirittura lì si va in onda con episodi ancor quando si sta scrivendo: ad esempio io sono in onda con l’episodio 4 e sto scrivendo l’episodio 8, per cui riesco anche a cambiare le cose – questo succede in America – in funzione del feedback che mi torna dalla registrazione e anche dal pubblico. È un sistema molto più evoluto di come invece noi lo stiamo intendendo.

La genesi di Mare Fuori: storylines multiple e il confronto con Gomorra     

            Cristiana Farina Ho lavorato a Un posto al sole quando ero una ragazzina, era il 1997 e conosco bene come far ruotare bene più personaggi e più storytelling all’interno di un episodio. Detto questo, il consiglio che posso dare ai giovani scrittori e scrittrici se si hanno diverse linee narrative è scrivere sempre intorno ad un tema. Ad esempio, tutte e tre le storylines dovrebbero ruotare tutte intorno allo stesso tema: se il tema è la vendetta piuttosto che la gelosia, adesso io vi parlo di grandi sentimenti, tutte e tre le storie ruoteranno intorno a questo tema. Per cui pur se non si incrociano, risuonano nel pubblico perché è come se tu costruissi un prisma, ogni faccia ti restituisce una luce dello stesso argomento, un aspetto.             Il confronto con Gomorra può venire molto naturale parlando di Mare Fuori, nonostante non sono assolutamente io a dare le definizioni e a fare paragoni, ma si tratta di storie e di serie molto diverse. Io parlo proprio di tecnica del racconto: Gomorra ha un punto di vista unico, è un punto di vista che non prevede il bene e il male ma prevede solo il male. C’è solo un racconto ed è un racconto senza speranza. L’intento penso di chi l’ha scritto è proprio questo, ossia quello di dire che se prendi quella strada, se fai quello che fanno loro è la fine, non è che ce ne sia un’altra di possibilità. O finisci in galera o finisci ammazzato. Puoi essere ricco per un giorno, per un anno, per dieci anni ma poi alla fine il nodo arriva al pettine e quindi non c’è speranza, è un racconto senza speranza quello di Gomorra. Invece in Mare Fuori i punti di vista ne sono tanti, non ce ne è solo uno, non sono neanche due, sono molti ed è anche contraddittorio molto spesso. Mentre Gomorra è come un Far West, un po’ bidimensionale, anche come regia, come impianto tecnico, è tutto molto bidimensionale, ci sono queste inquadrature molto statiche, tutto molto studiato, precisissimo. È un gran lavoro, io sono una fan di Gomorra. In Mare Fuori, invece, è tutto molto scombinato: è anima, magma, pancia, è una roba più che si ride e si piange. Lo stesso ragazzo che ha compiuto un delitto lo puoi veder piangere perché ha fame o perché non gli va di svegliarsi alle sette di mattina, è un po’ così: è il racconto di un’umanità molto più complessa e che non ha fatto una scelta come in Gomorra ma che si ritrova in prigione per pagare per degli sbagli che ha fatto senza neanche pensarci più di tanto perché è un ragazzino e perché a quell’età si sbaglia e si deve sbagliare perché dagli sbagli si impara…anche se li hanno fatti un po’ grossi

In Sesto Potere

Su The Mandalorian, The Book of Boba Fett e la riscrittura del concetto di spin-off nel panorama trans-mediale contemporaneo

di Giovanni Morese

This Is The Way”

Mai citazione fu più profetica. Parliamo di The Mandalorian, prodotto live-action di punta della piattaforma streaming Disney+ fin dal suo lancio sul mercato internazionale, giunto il 1° marzo al terzo ciclo di programmazione con il rilascio dell’attesissima premiere. Oltre all’indubbia bellezza di un episodio che riporta la qualità in queste storie dopo lo scricchiolante esperimento di Obi Wan Kenobi, ciò che salta immediatamente agli occhi dello spettatore è la conferma di una tendenza rivoluzionaria nella costruzione della lore ultra-quarantennale dell’universo Star Wars. Difatti la puntata, denominata Chapter 17, non figura minimamente come il naturale proseguimento del capitolo precedente. Chi credeva di ritrovarsi dinnanzi allo status quo del finale – andato in onda il 18 dicembre 2020 – che vedeva il Mandaloriano protagonista separarsi apparentemente per sempre dal suo fido amico Grogu, non solo rimarrà sorpreso, bensì anche profondamente perplesso e disorientato. Questo perché la storyline orizzontale della serie è proseguita ed ha anche avuto risvolti narrativi di fondamentale importanza all’interno dello spin-off The Book Of Boba Fett, show andato in onda lo scorso anno, proprio a cavallo tra Season Two e Season Three. La trama, incentrata sul personaggio incontrato per la prima volta in The Empire Strikes Back del 1980 e interpreto sul piccolo schermo da Temuera Morrison a partire dal 2020, ha di fatto riscritto il concetto di serial storytelling, fungendo sia da contenitore delle vicende di questo personaggio che da diretto sequel del Mandaloriano. Se i primi quattro episodi avevano posto quindi le basi per una storia in salsa western focalizzata sui giochi di potere relativi alla gestione del noto pianeta desertico Tatooine da parte del cacciatore di taglie e della mercenaria Fennec Shand, a partire dal quinto non solo ci siamo ritrovati di fronte ad un prodotto totalmente diverso, in cui il protagonista viene da un momento all’altro messo da parte a favore di personaggi che, al massimo, avrebbero dovuto fare un’apparizione crossover in funzione della trama della serie, bensì ad una storia che nel Season Finale non fa assolutamente brillare il suo lead character, a favore di un Grogu deus ex machina che si sostituisce prepotentemente e insensatamente sulla scena. Emblematica anche l’ultima scena, che non vede la presenza di Boba ma del duo della serie principale riuniti per nuove avventure, collegandosi ad un opener episode della terza stagione che evita così di fornire al teleutente un doveroso recap di quanto accaduto ai due all’interno di un prodotto diverso che si dà, quindi, per scontato essere stato seguito. E la situazione non potrà che peggiorare, con le nuove serie tv spin-off Ahsoka e Skleton Crew in arrivo tra questo e il prossimo anno. Che cosa stiamo guardando, quindi? A cosa sta andando incontro esattamente il panorama trans-mediale contemporaneo? Siamo di fronte ad un nuovo format che presto riusciremo a collocare in maniera puntuale all’interno dei complessi e mutevoli linguaggi cine-televisivi? Effettivamente il messaggio della major parla chiaro, considerando anche il caso Marvel di Doctor Strange – In the Multiverse of Madness, film uscito a maggio dello scorso anno e sostanziale sequel non del primo capitolo sul personaggio, bensì della serie televisiva Wanda Vision del 2021, senza la quale la visione di questo prodotto risulta alquanto incomprensibile: questa nuova modalità di interconnessione mediale pare non tener conto della nostra libertà in qualità di fruitori di storie. E così, schiavi di strategie di marketing che ledono la narrativa seriale e cinematografica attraverso la creazione di micro-universi frammentari e mutilati, potremo decidere se impelagarci sempre di più nella visione di percorsi quasi orgogliosamente privi di una loro identità o se, forse in maniera più dignitosa, decidere di premere il tasto play altrove.

In Sesto Potere

Audiolibri: i pro e i contro di questo nuovo modo di fruire la lettura

di Ilaria Orzo

Come abbiamo già potuto vedere, gli audiolibri sono ormai più che diffusi. Nonostante questo, non tutti sono ancora realmente convinti che utilizzarli possa essere vantaggioso. Infatti, sebbene siano sempre di più i lettori che si affidano a piattaforme come Storytell e Audible, per citare le più famose, sono tanti anche quelli che continuano ad accostarsi a questa modalità di lettura con diffidenza e, talvolta, ostilità.

Da che parte sta la ragione? Ovviamente, non può esistere una risposta valida in termini assoluti: le esperienze di lettura sono assolutamente personali e individuali. Possiamo, però, provare a individuare i pro e i contro della “lettura ascoltata” per avere un quadro generale più completo e capire se può fare al caso nostro o no.

Indubbiamente, i vantaggi che si traggono dall’audiolettura sono numerosi e molto significativi.

Per prima cosa, sfruttare gli audiolibri significa ottenere un notevole risparmio da due punti di vista: lo spazio e il denaro. Materialmente parlando, gli audiolibri non sono voluminosi, tutto ciò che occupano è una parte di memoria dello smartphone o tablet, su cui è necessario scaricare l’applicazione associata alla piattaforma. Dunque, non si corre il rischio di ritrovarsi sepolti in casa a furia di comprare libri; siate onesti: sebbene il sogno di tutti i più accaniti lettori sia quello di avere una casa che ricordi anche solo vagamente quella di Umberto Eco, la realtà può essere ben diversa. Ma anche dal punto di vista economico il risparmio è palese: un abbonamento mensile ad una piattaforma per audiolibri ha, in media, il costo di un libro cartaceo in versione economica. Allo stesso prezzo, quindi, si potrà accedere ad un numero infinitamente superiore di titoli: non male.

Ma non è tutto. Gli audiolibri consentono di leggere in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, come si fa quando si ascolta la radio o un album musicale: che ci si trovi a letto, ai fornelli, in auto, sull’autobus, al parco o sotto la doccia, non è importante. Questo punto a favore convince soprattutto i pendolari e coloro che, per un motivo o per un altro, non riescono a fermarsi se non alla fine della giornata, quando ormai sono troppo stanchi per leggere e possono dire addio ai libri abbandonati per mesi e mesi sul comodino prima di essere conclusi.

C’è poi un vantaggio assai pratico. Quando si hanno uno spazio limitato a disposizione e un portafoglio con cui dover fare i conti, si è costretti a scegliere quali volumi acquistare e quali no. Potendo accedere a una libreria virtuale molto vasta e potendolo fare ad un costo fisso, invece, ci si può concedere di ascoltare anche quei libri che sappiamo destinati a non stravolgere i nostri interessi e non avranno un posto speciale nel nostro cuore, ma che comunque suscitano la nostra curiosità: l’abbonamento è comunque pagato, tanto vale approfittarne.

L’ultimo vantaggio che abbiamo individuato, invece, colpirà sicuramente i lettori più romantici e sognatori. Se è vero che c’è un libro giusto per ogni umore e ogni situazione, infatti, è anche vero che non è possibile avere la propria libreria fisicamente sempre con sé e, quindi, ci sono delle situazioni in cui la lettura da fare potrebbe rivelarsi obbligata e, per questo, poco piacevole e partecipata. Pensiamo, ad esempio, ad un viaggio: la scelta delle letture da portare con sé viene fatta con anticipo, ma chi ci assicura che i libri che al momento del fare la valigia ci sembrano interessanti e adatti siano gli stessi che vorremo leggere anche una volta giunti a destinazione? Certo, si può sempre correre ai ripari provando a raggiungere una libreria e comprando qualcosa di nuovo, ma non è detto che questo sia possibile. Sfruttando gli audiolibri, invece, il problema non si pone: basterà sfogliare il catalogo e scegliere la lettura che ispira il momento, senza neanche il rammarico di aver occupato invano spazio in valigia.

Insomma, i punti a favore sono davvero tanti e tutti molto importanti. Ma, se qualcuno non è ancora del tutto convinto, un motivo forse c’è. Anzi, più di un motivo.

I primi “contro” individuati sono di carattere pratico. Innanzitutto, bisogna tenere conto del fatto che il telefonino e il tablet possono scaricarsi in qualsiasi momento, e non è detto che si sia nelle condizioni di poter ricaricare il dispositivo; in quel caso, si dovrebbe forzatamente interrompere la lettura in ascolto, magari proprio sul più bello. Un libro cartaceo, invece, è sempre pronto all’uso.

Inoltre, mentre con un volume tra le mani è semplice ritrovare l’eventuale segno perso o una frase che ha colpito particolarmente, con un audiolibro è un qualcosa di meno immediato; non impossibile, certo, ma meno immediato. Anche rimandando indietro l’audio, infatti, ci potrebbe volere un po’ di tempo prima di individuare il punto esatto che si sta cercando: questo significa che la soglia dell’attenzione durante l’ascolto deve essere sempre alta.

Le altre perplessità, invece, sono più “romantiche” e legate al valore che l’esperienza della lettura ha per ciascun individuo.

Un audiolibro non permette di sottolineare le citazioni più belle e i passaggi che si ritengono più significativi. Tra i lettori, quella della sottolineatura è una pratica molto comune e spontanea, l’espressione di un legame con il libro che si ha tra le mani e del processo di empatia. E questa, per qualcuno, è una pecca da non poter ignorare.

Altri, invece, puntano il dito contro l’influenza che si può subire concentrandosi sul tono di voce del lettore. Chi legge il libro conosce già la storia che sta per raccontare e, dunque, adegua il tono di voce non solo al personaggio che interpreta, ma anche ai fatti narrati. Questo, sebbene aiuti a sentirsi coinvolti, a volte può fungere da rivelazione circa ciò che sta per accadere: un tono di voce che diventa improvvisamente più grave, ad esempio, non lascia presagire nulla di buono. Insomma, più che una lettura, ci si sente quasi di fronte ad film di cui si può ascoltare solo l’audio.

Infine, quello di cui i lettori più incalliti sentono più la mancanza quando approcciano agli audiolibri è la possibilità di vivere in prima persona i loro amici più preziosi: l’odore della carta, la delicatezza delle pagine a contatto con i polpastrelli, il vedere i volumi posizionati l’uno accanto all’altro in quell’ordine che si è scelto con tanta cura e quella sensazione di sicurezza che riescono a trasmettere sanno essere insostituibili.

Come dicevamo all’inizio, è impossibile schierarsi da una parte o dall’altra: tutte le motivazioni per apprezzare o disdegnare gli audiolibri sono valide e assolutamente soggettive, proprio perché soggettiva è l’esperienza della lettura. E, comunque, è bene tenere a mente che una cosa non esclude l’altra: i cartacei e gli audiolibri possono essere alternati in base alle necessità e alle voglie del momento, nessuno ci obbliga a fare una scelta. L’importante è leggere, in qualsiasi modo si preferisca farlo.

In Sesto Potere

Siamo ancora nazionalpopolari (ma Gramsci non c’entra: c’entra Pippo Baudo) – II e ultima parte

di Antonio R. Daniele

Con gli ultimi mondiali Mamma Rai ha tentato di giocarsi il jolly, anzi due, e ha portato al microfono e dietro le telecamere due prodotti eccentrici rispetto alla tradizione, nella persuasione – evidentemente – che ormai il racconto del calcio debba andare in una certa direzione. Ed ecco Daniele Adani e la BoboTV, il primo portabandiera della narrazione da bar sport (per quanto mescolata a un atteggiamento da nerd della materia), la seconda frutto dell’autogestione nella giungla della rete che, come tutte le giungle, ha la propria scimmia urlatrice e sulla quale parole non ci appulcro. Quanto ad Adani, invece, è accaduto qualcosa di strano, ma fino a un certo punto: l’Italia calcistica e non solo lo ha messo sotto processo, rimproverandogli il fanatismo del calcio sudamericano, soprattutto quello di lingua ispanica, nell’incrocio tra Argentina e Uruguay. Il neopaganesimo adanico – lo sappiamo – si traduce nella commossa idolatria per Messi e per tutto quel che con lui ha a che fare. Più estesamente, con tutto ciò che viene dall’altezza cosmogonica del Rio de la Plata. E così, ad ogni alito platense, si udiva al microfono il ruggito del nostro eroe, nelle pasticciate (e spesso inventate) catene semantiche di una millantata e improbabilissima cultura argentino-uruguaiana (“uruguagia!”, mi rimbrotterebbe Danielito da Correggio, dall’alto del suo culatello della Pampa). E, per quella approssimazione che solo i governativi della tv sanno avere, gli strepiti virulenti e naïf di Adani sono stati accostati alla sobrietà asburgica del bolzanino Bizzotto, il quale ha dovuto sacrificare la sua notevole competenza nell’arte della telecronaca per non apparire troppo fuori luogo rispetto ai fragori di Adani che intanto latrava dalla sua cabina-barrio. Dopo le prime telecronache, è scoppiata la polemica: Adani è inascoltabile, è troppo “tifoso”; è inaccettabile che faccia telecronache sulla rete di Stato, ha sentenziato il popolo del web, tra un post e l’altro. Cosa davvero curiosa, a pensarci. Prima di tutto perché l’Adani che i nostri timpani hanno udito nelle settimane passate è lo stesso Adani che ha imperversato su Sky per anni e anni; in secondo luogo perché il popolo del web – che si presume non avere l’età media di coloro che sono nati alla tv con Pippo Baudo e Mike Bongiorno – non solo dovrebbe conoscere i vezzi di certi commentatori, ma con buona probabilità ha un abbonamento a una delle piattaforme dello sport a pagamento. Dunque, da dove vengono tanta meraviglia e tanta insofferenza?

Forse il popolo del web non è poi così piegato alle regole dell’odierno calcio mediatico e, magari, nonostante la passione, dovendo scegliere preferisce comprare un maglione in più ai propri figli che pagare per vedere pettinatissimi damerini appresso a un pallone; forse c’è chi pensa che quel che vale in un contesto non possa o non debba valere in un altro e si reagisce come con l’amico compagnone che in casa di estranei condivide le stesse gag che usa con i suoi amici di sempre: scatta la gelosia e se ne parla male. Forse c’è ancora una discreta fetta di pubblico legata alla tv di Pippo Baudo o cresciuta sulla base di certi fenomeni culturali: sono quelli che passano più tempo davanti al teleschermo, che affondano col corpo nella poltrona e cercano il telecomando che si è andato a infilare tra il cuscino e la mantella. Ed è accaduto che una delle più note voci del commento tecnico italiano – a torto o a ragione –, uno dei nomi mediaticamente più sfruttati e celebrati, è stato ripudiato dal pubblico della tv in chiaro, che è ancora quello che genera “l’opinione pubblica”, perché non è volatile e liquido come quello che paga gli abbonamenti o smanetta in rete. Il pubblico dei ballerini sotto le stelle e delle cronache in diretta, degli “accendiamo”, dei pacchi, doppi pacchi e delle ghigliottine è ancora vasto. Ed è ancora quello che decreta i destini di dirigenti e direttori di rete. E non è bastato il clamore sorto attorno a certe telecronache per far sì che le ragioni del richiamo reclamistico (“chissà cosa dirà Adani in finale commentando Messi”, si chiedevano in molti) avessero la meglio sul profilo dell’azienda e sugli accordi fatti a monte: nessuno se l’è sentita di negare ad Alberto Rimedio e Antonio Di Gennaro la telecronaca della finale per promuovere i ringhiosi rintroni di Adani, specie dopo che i due dovettero dare forfait per quella degli europei, vittime del Covid proprio alla vigilia. Certo, altrove se ne sarebbero infischiati. Anzi, altrove Rimedio e Di Gennaro non potrebbero sperare di commentare nemmeno la finale di un torneo di scopetta. Non ce ne vogliano: Adani è certamente improponibile nelle sue arringhe calienti ad ogni mossetta di Messi, ma la coppia di punta della Rai è coinvolgente quanto due cacciatori di iceberg. Sta di fatto che certi fenomeni non sfondano sulla tv di Stato, dove va ancora molto di moda il “popolare” inteso esattamente come quello che Enrico Manca credette di rimproverare agli italiani più di trent’anni fa, quando si lamentava del fatto che amassero Baudo e la Carrà. Chiamò “nazionalpopolare” quel fenomeno (scatenando le ire del presentatore siciliano) e qualcuno pensò a Gramsci, a finissime analisi di ordine socio-storico. No: era solo la constatazione che la fiamma resta più facilmente accesa quando è lenta ma costante, piuttosto che alta e guizzante. Che il modello Baudo tira ancora più di Adani: appiattire, modellare, livellare su comode certezze, rassicuranti come una balia. In barba a tutte le garre charrue e a tutti i cammelli dribblati nel deserto.

(qui la I parte: https://www.letterazero.it/siamo-ancora-nazionalpopolari-ma-gramsci-non-centra-centra-pippo-baudo/

In Sesto Potere

Siamo ancora nazionalpopolari (ma Gramsci non c’entra: c’entra Pippo Baudo) – I parte –

di Antonio R. Daniele

Mentre al cospetto di un emiro sbalordito non più che compiaciuto Emiliano Martínez compiva le sue prodezze priapee (Mérimée diceva che “la storia, come un idiota, meccanicamente si ripete”: ecco, se Messi è il predestinato come Maradona, di questa massima il portiere argentino è solo l’idiota), pensavo che quasi trent’anni di tentata rivoluzione mediatica, di sconvolgimenti televisivi, di albe di nuovi giorni, in Italia non sono serviti a nulla: dalle nostre parti è ancora la terna poltrona-pantofola-telecomando a dettare legge. E il telecomando che va per la maggiore è ancora quello cantato da Arbore molti anni fa. Il “popolare” sta ancora lì: tra il telegiornale e il quiz. E tutto quello che prova a mettersi in mezzo finisce come nelle crisi di rigetto di una operazione chirurgica mal riuscita. I recenti mondiali televisivi Rai ne sono stati l’ultima e, forse, definitiva conferma (per inciso, avrete notato che, quando l’Italia non si qualifica, Mamma Rai ci offre il pacchetto intero; altrimenti un malloppetto di partite scelte, chiaramente le più noiose, tra le quali quelle della Nazionale. Tuttavia, c’è di buono che, con questi chiari di luna, possiamo legittimamente sperare nella All Inclusive anche per il 2026). Siamo televisivamente conservativi, anzi retrogradi. E lo siamo con un certo grado di orgogliosa fierezza. Quando nella primavera del 2012 il Digitale Terrestre si spalmò su tutto il territorio nazionale, completammo il celebre “switch-off” con soddisfatto slancio tecnologico: mai più interferenze, una offerta molto più ampia, un palinsesto infinito. Soprattutto, giungeva la grande novità del canale tematico: chi ama il cinema avrà i suoi canali, chi ha bimbi in casa (anche di 40 anni) ne avrà altri e i fanatici dello sport potranno passare 24 ore al giorno su spazi televisivi appositamente dedicati. E così la Rai, che misurava il polso del Paese e sapeva che siamo un popolo di poeti, di navigatori, di santi, di eroi ma anche di lettori della Gazzetta dello Sport che fingono di leggere Proust, aprì non uno ma due canali per lo sport, al 57 e al 58 del Digitale Terrestre. E sembrò a tutti l’inizio di un’altra era: finalmente coloro che consideravano una seccatura dover aspettare un film, un varietà, un quiz, le previsioni del tempo e il telegiornale prima di vedere il grande evento sportivo avevano non uno ma addirittura due canali sui quali la nostra tv di Stato ci avrebbe garantito tutto lo sport in diretta e in chiaro. Quello che vedevamo a spizzichi e bocconi tra un canale e l’altro, quello che intercettavamo tra le pieghe del palinsesto stantio della vecchia tv generalista sarebbe stato spazzato via dalla mirabolante offerta televisiva del 57 e del 58. Ebbene, a dieci anni di distanza si può dire che la rivoluzione è stata mancata. Del tutto. E non soltanto perché coloro che ingenuamente credevano che il 57 e il 58 sarebbero stati il faro di fatti sportivi destinati ad entrare nella storia hanno ben presto capito che la maggior parte del palinsesto sarebbe stato occupato dal curling, dal biliardo (nelle funamboliche varianti della carambola o del pool o dello snooker) e dalle repliche della Domenica Sportiva dei tempi di Alfredo Pigna, ma anche perché gli eventi di maggior richiamo avrebbero riguardato al massimo il calcio della serie C e, quando andava di lusso, un po’ di pallavolo e di pallacanestro. E soprattutto, perché i dati Auditel dicevano che gli italiani non si abituavano e non si volevano abituare al criterio del canale tematico, che riscuoteva un successo modesto, tanto che un paio di anni fa Rai Storia, Rai Movie e Rai Premium hanno rischiato il taglio. Quanto allo sport, lo scarso appeal dei nuovi canali ha riguardato non soltanto il tempo, diciamo così, “ordinario”, ma anche le occasioni dei grandi appuntamenti sportivi. Da quando esiste il DT, abbiamo avuto – solo per restare al calcio – tre campionati del mondo e tre campionati europei: nessuno di essi è stato trasmesso sui canali tematici. La Rai ha preferito offrirli sulle reti ammiraglie/generaliste. O, forse, col tempo ha compreso che i suoi utenti più fedeli, quelli che garantiscono gli ascolti e, quindi, gli inserzionisti che pagano meglio, non stanno sul 57 e sul 58, ma ancora sul “primo” e sul “secondo”. E anche un po’ sul “terzo”. Col risultato, però, che con gli anni Rai Sport 2 è diventato il canale SD rispetto all’altro, passato in alta definizione, fin quando è servito soltanto come riempitivo, per repliche di repliche o per il freestyle e il ciclocross (con tutto il rispetto che si deve, non proprio eventi di portata mondiale) e ora non esiste più: nel piano di riorganizzazione, l’azienda ha dovuto alzare bandiera bianca e riconoscere che quei due canali tematici per lo sport, nati dal convincimento di poter sollecitare la passionaccia degli italiani, creduti esperti di pallone come di polo e di cricket, erano troppi ed erano una spesa inutile. Per cui ora ne abbiamo uno solo che, nel momento in cui scrivo (e da stamattina), sta trasmettendo in esclusiva le repliche del mondiale senza soluzione di continuità. Naturalmente in tutto questo hanno pesato trent’anni di pay tv, da Tele+ a Sky a Dazn, che hanno inciso sia sulle dinamiche di fruizione dello sport più popolare sia sulla sua narrazione. Hanno inciso anche su alcune abitudini degli italiani che parevano eterne: se oggi un ventenne non sa e non è in grado nemmeno di immaginare cosa sia stato il Totocalcio e la “schedina”, cosa volesse dire “montepremi” e fare un “tredici”, lo si deve al fatto che i diritti televisivi ci hanno privato di uno dei cardini della storia mediatica del nostro calcio, ossia la simultaneità dell’intera giornata di campionato. Il 29 agosto del 1993 il primo posticipo ci parve un po’ una bestemmia, un po’ un fenomeno destinato a non durare e al massimo la concessione fatta dalla intoccabile domenica pomeriggio. Fu, invece, uno scisma. Perché a quel primo dogma infranto seguirono molti altri fino alla situazione attuale in cui praticamente si gioca tutti i giorni e a tutti gli orari tranne la domenica pomeriggio. Così il Totocalcio, che fondava la sua fortuna sulla possibilità di incolonnare 13 pronostici esatti fino al sabato sera e all’ultima ricevitoria aperta, è affogato nello spezzatino delle piattaforme. E sono sparite (o sono in forte declino o si sono dovute “ripensare” se non proprio rivoluzionare) anche storiche trasmissioni. “Quelli che il calcio” ha resistito finché ha potuto: già molto cambiata rispetto alla rutilante versione di Fazio (indubbiamente la migliore) e passata a essere un varietà in cui il calcio era un pretesto (ma in cui il calcio esisteva ancora), è diventato un programma non più collocabile nel palinsesto perché anche quel minimo pretesto (almeno tre o quattro partite in programma la domenica pomeriggio) è venuto meno. “90° minuto” da tempo non è più il programma che dava le prime immagini e le prime trepidazioni agli italiani. Anche Mediaset ha dovuto rinunciare alla simpatica “corrida” di Piccinini e Mughini perché ben presto non ha avuto più senso allestire un salotto per parlare di partite giocate tre giorni prima e sulle quali avevano già detto tutto Caressa e i suoi accoliti, con giacca e senza giacca. E poi Mangiante, Trevisani, Marchegiani, Adani. E tutta la corte dei miracoli dei “Dilettanti” Dazn (intesi come Diletta e i suoi colleghi, ça va sans dire…), tra una storia e un reel.

(qui la II parte: https://www.letterazero.it/siamo-ancora-nazionalpopolari-ma-gramsci-non-centra-centra-pippo-baudo-ii-e-ultima-parte/)