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Tu con Zero – Le interviste

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“L’isola e il tempo” di Claudia Lanteri: tra scrittura e memoria

Intervista a Claudia Lanteri di Carmen Rampino

– E allora i racconti a cosa servono, se non servono a nulla?  […]

– A cosa servono i racconti non lo so. Vorrei poterti dire che è più sicuro affidarsi alla scienza, ma anche da quella mi sento tradito. A qualche cosa servono: è come se tu potessi metterti un paio di occhiali a fantasia per vedere il mondo in un modo nuovo, che non avevi previsto o calcolato.

– E poi che fai?

– E poi te li levi.

Lanteri 2024, p. 144    

Sicilia, fine anni Cinquanta. Su un’isola senza nome arriva un barchino con a bordo un uomo stremato e il cadavere di una donna: sua moglie. La piccola comunità dell’isola siciliana all’inizio è sconvolta: il naufrago porta con sé una storia misteriosa. Ben presto, però, torna la piatta monotonia della quotidianità per tutti, tranne che per il giovane protagonista de L’isola e il tempo. Per Nonò, in quel giorno la vita si ferma, o forse proprio da lì prende avvio. Per lui si verifica un episodio che rappresenterà per il resto dei suoi giorni una materia da raccontare a chiunque incrocerà il suo percorso, un’ossessione che lo porterà a riflettere su sé stesso, sulla sua anima, sul suo stare al mondo e sul senso della sua stessa esistenza. Può un giallo convertirsi in un giallo dell’animo di chi racconta? Può diventare una lente di accesso per scovare i più reconditi anditi della nostra interiorità? L’esordio narrativo di Claudia Lanteri ci dimostra che è possibile e che una voce potente come la sua, optando per gli ibridismi, per le sfumature, per le intersezioni e gli incroci, può rivoluzionare dall’interno un genere.

Claudia Lanteri con L’isola e il tempo ha scritto un libro che, andando oltre i canoni del giallo, parla del più antico e ancestrale bisogno degli esseri umani: le storie. Che cosa sono le storie? Perché si narra? Quale segreto nascondono? Da sempre le storie hanno rappresentato un’arma di difesa e un modo per spiegarsi la realtà, soprattutto quella apparentemente inspiegabile. E così è anche per Nonò: il racconto gli serve per spiegare la realtà, in modo particolare quella più dolorosa. E allora Nonò diventa una novella Shahrazād che narra e racconta per salvarsi. Il protagonista del romanzo continua a raccontare sempre la stessa storia a svariati interlocutori: ogni versione cerca di avvicinarsi di più alla verità. La raggiugerà mai? Il mistero verrà sciolto? Non ha importanza. L’unica certezza è l’urgenza del narrare. Narrare gli serve, perché solo con le parole si può affrontare un grande dolore. E allora se Nonò è imprigionato in un trauma, la narrazione rimane l’unico rimedio possibile per continuare a stare a galla. Non è solo una questione di volontà, ma di bisogno. Così il racconto diventa salvifico e mistificatorio allo stesso tempo, perché ogni volta che si racconta, si tolgono gli elementi che più turbano e fanno soffrire.

Con una lingua intarsiata di gemme preziose eppure naturale, mai di maniera, Lanteri ci dimostra quanto la scrittura possa avere un potere magico e orfico. Ed è proprio di questo che parla il suo romanzo: del narrare come ultimo baluardo di resistenza e speranza. E alla fine di tutto, spogliati di ogni orpello, denudati del superfluo e di ogni artificio, cosa ci resta? Solo la parola. Così il racconto diventa il faro che illumina le notti buie delle nostre esistenze. Se, però, la scrittura talvolta può rivelarsi anche solitudine, una conversazione può riscattarla e ricordarci l’intrinseca natura sociale della letteratura. Ed è così che è andata con Claudia, a cui siamo infinitamente grati non solo per l’opera che ha scritto animata da infinito amore, ma anche per il tempo che ci ha dedicato.

Ciao Claudia, grazie per la tua disponibilità e complimenti per il libro. Come hai maturato l’idea di questa storia? Qual è la sua genesi?

La storia è stata ispirata da un articolo di cronaca, ma poi il processo immaginativo, che nei casi più felici assume i tratti di una vera ossessione, prende il sopravvento e del fatto non resta che un pretesto. Il nucleo alla base della mia riflessione è questo: una persona dà la sua versione di un incidente, irrefutabile fino al momento in cui entra in scena un’altra persona, sopravvissuta all’incidente, che con la sua sola esistenza corporea smaschera la versione precedente come falsa. Senza quel ritrovamento, la ricostruzione della verità sarebbe stata antitetica rispetto alla realtà fattuale. Questo tema mi affascina molto e mi attira, come autrice: il quantificare col minimo margine di errore che cosa sia e come si determini la verità di un fatto, e cosa accade quando invece questo margine di errore si allarga. Senza la presenza corporea della persona sopravvissuta, la costruzione narrativa messa in atto dalla prima persona – colpevole, e responsabile del fatto tragico – sarebbe stata efficace, sarebbe stata riconosciuta come una verità dalla comunità in ascolto. Quale sarebbe stato lo scenario, in questo caso? Sono arrivata a una storia di giustizia negata, nella quale il personaggio protagonista sente il bisogno di addossare comunque su di sé il carico della colpa, pur essendone relativamente estraneo, e della verità, che intuisce pur non essendo creduto.

Uno degli elementi che colpiscono più a prima vista è la voce narrante: Nonò, che è prima un bambino e poi un adulto. Che personaggio è e dove, nella realtà, hai trovato Nonò, così dolce, tenero e potente? 

I personaggi non sono nella realtà. I personaggi appartengono a un mondo all’incrocio tra le esigenze della narrazione, un tono di voce verso cui andare alla ricerca assecondando la lettura di altre narrazioni, specifiche o frutto di felici incontri casuali, di ricordi d’infanzia, di parti di noi, di stati d’animo e, sopra ogni altra cosa, sono il frutto di una grazia impalpabile che, se fossi capace di definire in coscienza, non verrebbe a visitarmi più.

Che ruolo svolge l’isola in questo romanzo e nella tua vita?

L’isola è uno spazio in miniatura che racchiude dinamiche universali, è simbolo di confinamento ma anche di libertà. Sull’isola ogni cosa può essere ambivalente: il mare – ricchezza e pericolo mortale; il cibo – accudimento e asfissia; la fauna – simbolo di eterna rinascita come di fragilità e perdita; la comunità – centro di un controllo sociale asfissiante, sanzionatorio, ma anche sistema di relazioni e di accudimento. Per il protagonista del romanzo – Nonò, Nofriu, Onofrio, a seconda dei diversi periodi in cui si svolge la storia – l’isola è uno spazio in cui si può assecondare un grande bisogno di connessione con la comunità circostante, ma, talvolta, anche di esperire la solitudine, amica necessaria. Anche per me l’isolamento è stato il momento in cui ho potuto trovare la determinazione per scrivere, nei mesi del lockdown, quando ho dovuto sospendere il mio lavoro nel marketing. Per me è stata l’occasione di un reset.

Il libro ha un forte sapore metaletterario, quasi un pretesto per parlare dell’arte della narrazione e di come possa essere anche malleabile, fallace, così come la memoria. È così? Che rapporto esiste tra letteratura e memoria?

Sì, è così. Nofriu è un narratore ferito, che sviluppa il suo racconto intorno a una perdita, a un vuoto, di cui a tratti pare consapevole ma che più spesso si rifiuta di riconoscere. Questo significa negare l’interezza di ciò che è accaduto, e aggrapparsi alla speranza che le cose, a furia di essere raccontate, possano giungere a un finale diverso. Quasi riconoscendo un potere salvifico alla parola stessa. Credo che sia questa fiducia ad accomunare la letteratura e la memoria, e a distinguerla da altre forme di intrattenimento: la letteratura non si può ridurre a un punto di vista univoco, si compone sempre di un conflitto tra le parti. La narrazione non è altro che una selezione delle parti del discorso, che preferendone alcune ne esclude inevitabilmente altre.  Anche la memoria si muove sul filo di un simile meccanismo. Questo apre la porta al pericoloso margine di ambiguità di chi si fa custode del passato, della Storia, con la maiuscola. Le storie sono anche di chi è sconfitto, degli esclusi, di chi non può autorappresentarsi.

E in effetti questo discorso di riconfigurazione della verità è confermato dallo stesso Nofriu, il quale stabilisce un parallelo tra la fonte di lavoro della sua famiglia – il padre è uno “sponsaro”, che ripulisce la spugna naturale dei detriti, prima di poterci guadagnare – e il meccanismo attraverso cui con la memoria selezioniamo alcuni dettagli e ne escludiamo altri, per raccontarci una versione del passato meno dolorosa. Per l’organizzazione così complessa dei piani temporali e per i continui giochi tra passato e presente ti sei ispirata ad alcune fonti?

No, al contrario. Questa è la parte del romanzo che a me pare più inedita, una strada stilistica ancora non battuta. Anche rischiosa, come scommessa, dove la posta in gioco è la possibilità di confondere il lettore, di perdere la sua attenzione. La stessa percezione della voce narrante è spesso fraintesa: chi racconta, l’adolescente, l’adulto, più della somma tra i due? Desideravo lasciare al lettore la libertà di percepire lo scorrere degli anni, senza mai dichiaralo esplicitamente, come se anche il tempo fosse un piccolo enigma da risolvere. La pergola di Tina, il cimitero, le calette progressivamente più affollate di turisti, sono tutti luoghi che si trasformano nel corso del romanzo. Anche questo contrasto è voluto: l’isola è un crocevia di persone che vanno e vengono, mentre Nofriu rimane come imprigionato in un eterno presente. Eppure ci sono degli indizi per me inequivocabili del tempo che è trascorso, come quando il “nuovo” maresciallo spiega a Nofriu che suo padre, ammesso che fosse davvero in combutta con lo skipper Surico, non può essere accusato di nulla, perché «per la legge la condizione di defunto è incompatibile con quella d’imputato», o quando, in un rovesciamento del rapporto tra chi accudisce e chi è accudito che ci si aspetterebbe, è il figlio che imbocca la madre Angelina di zuppa di fave, perdendo la pazienza e sgridandola.

In un periodo in cui prevalgono le narrazioni basate su un io ipertrofico, tu scrivi una storia inventata. A pagina 305, sempre assecondando quel discorso metaletterario che porti avanti in tutto il romanzo, scrivi: «le storie sono storie, e se c’entrano con le vite di chi le ha scritte importa poco». Anche se importa poco, ci racconti cosa c’è di te nel romanzo?

Hai ragione, non importa cosa c’è di me. Penso che le storie delle quali non riusciamo a scordarci hanno il dono di dirci qualcosa sul mondo che ancora non sapevamo, o di dirci qualcosa che abbiamo sempre saputo, e dimenticato, con un timbro stilistico fresco. In questo processo è impossibile che l’autore sparisca: lo sguardo di Nonò registra alcuni cortocircuiti del mondo degli adulti che il suo racconto mette in luce come contraddittori, questi dettagli sono io, scrivendo, ad averglieli prestati. E non a lui solo, ma ad Angelina, col suo proto-femminismo, al professor Dalmasso, con il suo sguardo che giudica il meridione e la sua mentalità anti-scientifica, al maresciallo Bonomo e al suo disincanto della prassi, intesa come possibilità di incidere su un reale complesso, intricato, labirintico. Perfino Bruno Surico, con tutta l’avversione che ho cercato di trasmettere a chi legge attraverso lo sguardo sospettoso di Nonò, perfino lui a volte ha finito per incarnare punti di vista e giudizi sul mondo che sono anche miei. In un romanzo corale è limitante sforzarsi di trovare quale parte della storia rispecchi la visione del mondo dell’autore. È l’insieme che la rispecchia; meglio, è il percorso autoriale che si ha (se lo si avrà) la fortuna di intraprendere che costruisce la sua poetica/politica.

È sempre brutto farlo, ma se lo volessimo etichettare, penseremmo al giallo, forse al noir, persino alla storia di un’amicizia/amore estivo tra bambini. Eppure nessuna di queste etichette sarebbe appropriata. Per quanto gli elementi del giallo ci siano tutti, questo è un romanzo che non si lascia imbrigliare facilmente. È un fiume in piena che straripa da ogni margine e chiede libertà. È piuttosto la storia di un trauma e di un senso di colpa. È così? Inizialmente lo avevi partorito proprio come un giallo? Il giallo è un depistaggio?

Tutta la narrativa più interessante “straripa” e “chiede libertà”, come dici tu. Il genere è sempre un pretesto, e se c’è uno steccato, un libro riuscito deve cercare di superarlo, ricontestualizzarlo. L’isola e il tempo è un giallo nella misura in cui ci sono dei morti, delle piste, scienziati e inquirenti all’opera per giungere a una ricostruzione dei fatti. Io non l’ho mai considerato un libro di genere: e d’altra parte tutta la narrativa che mi interessa di più è ibrida, mescola i confini, gioca con sé stessa. In un certo senso il libro è anche un romanzo di formazione, sebbene fallita. L’intensità del rapporto con il personaggio di Mattia, la bambina che, con la sua fragilità e il candore del suo sguardo, insegna a Nonò l’alfabeto dei sentimenti potrebbe renderlo un romance. D’altra parte, io sono uno scrittore femmina, per qualcuno sarebbe una considerazione appropriata.

Interessante è anche l’idea di far parlare il protagonista con diversi interlocutori. Questo mi ha fatto pensare al teatro. Durante la lettura mi è sembrato proprio di avere tra le mani un monologo che poi di volta in volta si trasformava in dialogo con vari interlocutori. Mentre lo si legge pare di ascoltare direttamente Nonò parlare, anche il tono è colloquiale. Non hai pensato ad una trasposizione teatrale?

Non è ancora un progetto a cui qualcuno abbia cominciato a lavorare, ma di certo mi farebbe felice. I miei genitori erano attori per passione, vederli muovere sul palco fin da piccolissima è stato il mio addestramento nella gestione dei dialoghi: senza barriere di genere, anche lì, da Scarpetta a Pirandello a Verga. Il dialetto è una forma espressiva che concede molte libertà: affettive, sociali, etnologiche, ritmiche e musicali. Credo che dipenda da questo l’effetto mesmerico della lettura: il racconto di Nofriu è fatto di descrizioni immaginifiche, in equilibrio tra vividezza e ricordo, ma che ho sempre costruito affidandomi al senso del ritmo, attorno a nuclei sillabici, con un orecchio teso alla parola poetica. Quando scrivo sono immersa in questa ricerca di suono, mi isolo dalla realtà che ho intorno. Conta solo il ritmo da scegliere, la musicalità delle parole, e tutto il resto è distante, come fossi sott’acqua.

E la lingua è davvero un pregio notevole del libro. Grazie alle molteplici parole siciliane e ad una ricchissima proprietà di linguaggio, il lettore riesce a immergersi nella mente di Nonò e ad indossare le sue lenti, quelle che ti permettono di guardare il mondo solo come lo guarda lui e nessun altro. Senza poi parlare di espressioni meravigliose come «i suoi occhi sono colore dei ricci di mare» (p. 11) o «i suoi capelli del color di pozzolana» (p. 24) o ancora «i bei capelli lunghi che hanno il colore delle bacche di lentisco» (p. 37), perché lui conosce quella lingua là, quella dell’isola, del mare. Come hai lavorato sulla lingua?

Credo che lo stile del racconto influenzi i fatti di trama in modo strettissimo: la voce di Nofriu aveva esigenze specifiche, dovendo sottolineare, col suo mutare di tono, lo scorrere degli anni. In un presente che in apparenza tutto livella, si aprono qualche volta degli squarci di consapevolezza che il tempo è passato, con frasi all’imperfetto, al trapassato prossimo. Anche la lingua che ho cercato di costruire nel romanzo è mobile, prova a mescolare continuamente alto e basso, ma la vicenda è ambientata in un contesto molto umile, così frequenti sono i calchi o i prestiti dal dialetto, le varietà regionali, i racconti registrati dalla viva voce degli isolani, la saggezza di proverbi, preghiere, scongiuri, i miei stessi ricordi d’infanzia. Poi c’è la tradizione letteraria che più ho fatto mia: tra i conterranei, Consolo, Sciascia, Bufalino; tra i singoli testi, L’isola di Arturo di Morante, l’Horcynus Orca di D’Arrigo, Conversazione in Sicilia di Vittorini; ho cercato di ricordare l’opera di grandi autrici mai abbastanza lette Ortese, Deledda, Loy, Ramondino, tra le altre.

Si dice spesso che in un libro, soprattutto in un buon libro, ognuno ha il diritto di riconoscersi anche solo in una frase, un passaggio, una parola. Nel tuo libro a me è successo in maniera eclatante a pagina 30, dove ho trovato un’immagine che io applico sempre quando parlo del mio paesino collocato alle pendici degli Appennini. Scrivi: «Il paese era come una casa, una volta: lo sbarcatoio faceva da balcone, la strada grande da corridoio, a destra e a sinistra le camerette, tutte di un piano, con le tende di cannucciato alle porte e un piede di geranio che cresce nelle latte, né scontento né allegro. Cammino per le stanze del paese di quand’ero ragazzino e potrei andarci a occhi chiusi come di notte, tanto lo so a memoria; troverei anche a tentoni la porta per il bagno o il bicchiere sul comodino». I paesi, soprattutto quelli del Mezzogiorno, molte volte li abbandoniamo. Quando lo facciamo ci sentiamo sempre divisi a metà, tra il lì e il qui e si finisce per non ritrovare più la pienezza. Ma anche chi resta, come Nonò, in fondo rimane incompleto. È questo il destino di chi nasce in un piccolo borgo? Che ruolo hanno i paesi nel tuo immaginario?

Il bisogno di mettersi in movimento è un sentimento ben radicato in chiunque nasca al sud. Il paradosso è che oggi assistiamo a un processo di rimozione collettiva: dimenticando di essere stati poveri, dimenticando di essere stati migranti, molti membri dell’attuale classe politica vogliono serrare le porte della mobilità sociale, criminalizzando chi preme alle frontiere, tralasciando di rimuovere gli ostacoli che impediscono di esplorare differenti possibilità di futuro anche a chi non è nato nel migliore degli scenari possibili. Per questo collegamento, credo che l’aver scelto un’isola piccolissima per la narrazione che avevo in testa possa fugare eventuali accuse di retroguardia.

Ho lavorato quasi immediatamente sulla comunità: i paesi sono stratificazioni di dinamiche ancestrali, di cui siamo imbevuti. Peraltro, mi è capitato di vivere ovunque, dalle megalopoli alle frazioni: posso dire che oggi la prospettiva del rapporto centro-periferie è saltata del tutto: la mentalità più provinciale e bigotta è stata fatta propria dai poli di governo, perlomeno in Occidente, mentre nei luoghi più decentrati c’è spesso più spazio, tempo e energie per l’innovazione.

In conclusione, puoi raccontarci quindi qual è il tuo rapporto con la scrittura?

Per molto tempo scrivere, pensare il mondo in termini narrativi, mi è sembrato un modo naturale di essere, una seconda pelle: un vestito che tirava lo stesso, perché il mio modo di concepire la realtà –

testuale, linguistica – qualche volta assomiglia a una prigione. Nelle relazioni, affettive come professionali, mi sono spesso trovata a sovrainvestire energie, o sbaragliata dalla mancanza di risposte di senso credibili, o insoddisfatta dall’assenza di risposte non univoche o banalizzanti a sistemi complessi, inediti. In breve, ho a lungo cercato di riporre la mia capacità immaginativa in contesti che non la volevano. Quando ho avuto – o preso – la possibilità di convogliarla su un progetto di scrittura, ho sentito che l’attrito svaniva, che padroneggiare un universo complesso diventava un divertimento. Lavorare a una storia corale ti fa mettere in scena un teatro di punti di vista opposti, contraddittori. È una sfida, si rischia di essere fraintesi. Ma il rapporto di ascolto che si è creato con tutte le persone che nelle diverse fasi mi hanno dato uno spunto di riflessione, un consiglio di lettura, o indicato una svista, mi ha permesso di definire meglio i miei processi e i miei obiettivi, anche quando questi erano ancora a livello di fragili intuizioni. Scrivere è un atto molto solitario, ma non si può restare soli, scrivendo. La letteratura è un sistema di relazioni.

TESTI CITATI.

Claudia Lanteri, 2024, L’isola e il tempo, Torino, Einaudi.

In Tu con Zero - Le interviste

FALLA TU L’EROTICA A FOGGIA. La prima fanzine fotografica di Giuseppe Petrilli. Conversazioni e disquisizioni su vent’anni di Arte Erotica e passione per la provocazione.

di Umberto Mentana

Giuseppe Petrilli è nato a Lucera (Fg) nel 1970 dove vive e lavora. La sua attività artistica si sviluppa in una doppia produzione, tra arte figurativa e fotografia. In particolare la serie erotica “Piante Carnivore” è il risultato di una personale ricerca volta a trovare la giusta alchimia tra il gesto artistico più classico, il disegno, e le nuove tecniche digitali, al fine di utilizzare e sviluppare le numerose soluzioni espressive che esse offrono. Ha partecipato a diverse mostre collettive e personali a Miami, Chicago, Los Angeles, San Francisco, Montreal, Berlino, Zurigo, Roma, Milano, Firenze, Verona, Napoli, Salerno, Catania, Bari, Lecce, Taranto, Foggia.

            Giuseppe Petrilli e io condividiamo le origini, siamo entrambi lucerini e questo per noi è stato spesso motivo di confronto. La nostra affinità va però oltre. Da sempre, infatti, sono  affascinato dalla sua Arte Erotica che è mutaforme, provocatoria, trasgressiva ed estremamente poetica e sinceramente interessato a comprendere i meccanismi che la muovono. In passato ho avuto la possibilità, e la fortuna, di realizzare con lui un progetto di illustrazione dedicato alla Valentina di Crepax, basato su un mio racconto. Da qui  il titolo  Oplà_A Tribute to a Valentina. (https://www.frammentirivista.it/cara-valentina-il-tempo-non-fa-il-suo-dovere/). Così, quando ho appreso che in questi giorni è stata pubblicata una fanzine dedicata interamente alla sua produzione fotografica, edita da CAVIE PROJECT (https://www.instagram.com/cavie_project/)

 ho ritenuto importante, condurvi nello “studio dell’artista. Cavie Project è il nome del collettivo di editoria indipendente nato a Milano. Paolo Coppolella e Milo Mussini, i due fondatori, hanno deciso di dedicare un intero numero ad una selezione di scatti provocatori di Giuseppe con il titolo, anche questo provocatorio, “Falla tu l’erotica a Foggia”. I due editori tengono a specificare però che: “Il titolo ha un senso ironico, è come per dire la provincia è viva, viva la provincia! Non ha un’accezione denigratoria, anzi tutt’altro. Giuseppe ci vive e lavora lì e il fatto che degli editori di Milano come noi vogliano collaborare e sviluppare un progetto con lui è una cosa bella anche per il territorio ma è un modo per parlare in modo positivo della provincia.”

Di seguito vi riporto la mia lunga chiacchierata con Giuseppe, decisamente informale, rilassata e rock and roll.

U.M. Insomma, Giuseppe. Come e dove sta andando questa fanzine?

G.P. Di sicuro c’è molto entusiasmo da parte di Paolo e Milo, i due editori. Tant’è che di solito per CAVIE si stampano trenta copie a tiratura limitata e invece per la mia hanno fatto un’eccezione, partendo da una tiratura di cinquanta copie. Io stesso ho dedicato molta dedizione per questa fanzine, soprattutto perché si tratta della mia prima pubblicazione fotografica. Quindi ho inviato a CAVIE all’inizio un bel po’ di scatti, più di un centinaio, anche foto molto vecchie. E non ho voluto interferire nella scelta di cosa doveva esserci e cosa no nella pubblicazione finale. Dopodiché loro hanno scelto le prime sessanta fotografie ed infine le trenta finali che sono finite in pubblicazione; il principio scelto da Paolo e Milo per la fanzine è stato quello di creare una sorta di racconto unitario, uno storytelling che attraversa tutte le pagine, insieme naturalmente alla continuità cromatica, un’altra scelta importante per la selezione delle opere.

U.M. Loro di Cavie Project trattano esclusivamente fotografia, giusto?

G.P. Sì, anche perché professionalmente appartengono al mondo della fotografia e il fatto di essere entrato con la Fotografia in una realtà artistica qual è quella di Milano per me è una grande soddisfazione perché è molto complicato come contesto, a differenza dell’arte figurativa, con la quale è stato più facile essere introdotto in determinati ambienti. Il mondo dell’arte figurativa è più inclusivo secondo me, quello della fotografia lo è molto meno.

U.M. Questa cosa la riscontro anche io con il Fumetto e il Cinema. Con il primo ho avuto meno difficoltà a introdurmi e farmi conoscere.

G.P. Sì, ci sono dei circoletti, c’è molta competizione.

Sono molto contento perché quello di produrre una fanzine era uno dei miei progetti in cantiere, ne ho una pronta che volevo autoprodurre o proporre ad una di queste case editrici che trattano fanzine e neanche a farlo apposta sono venuti loro da me.

U.M. Volevo chiederti, visto che la tua arte e il tuo nome sono sempre stati legati all’illustrazione e all’arte figurativa, come mai questo “passaggio” alla fotografia?

G.P. Il passaggio è stato molto naturale, nel senso che io ho sempre utilizzato la fotografia nelle mie opere, perché il mio obiettivo è ed è sempre stato realizzare le mie opere da zero, utilizzando sempre immagini esclusive come riferimenti. Quindi ho sempre usato la fotografia come medium per realizzare le immagini finali, come reference. E il passaggio perciò è stato naturale perché realizzando gli scatti certe volte mi rendevo conto che alcuni dovevano rimanere così  e non essere trasformati in disegni o in dipinti. Ho iniziato così a pensare di fare una produzione parallela a quella figurativa formata da scatti fotografici. È nata così.

U.M. Perché dici che alcuni scatti devono rimanere “solo” fotografia e non essere trasformati in illustrazioni?

G.P. Ci sono alcuni scatti che hanno una forza espressiva, delle ombre, un contrasto tra chiari e scuri.. Ci sono delle foto che devono rimanere così, non riuscirei a ritrovare la stessa tensione ed energia incastonandola in un disegno. C’è una cosa che tengo particolarmente a precisare e cioè che io non mi ritengo un fotografo ma mi considero un creatore di immagini e per me la fotografia è un modo alternativo di disegnare. Il mio approccio alla foto è molto più istintivo che tecnico, anche se ho fatto dei corsi base di fotografia non ci tengo particolarmente ai costrutti tecnici come le regolazioni di ISO, il diaframma e così via. Mi piace più fare degli esperimenti strani con le luci, gli effetti. Mi piace sperimentare ogni aspetto perché, ribadisco, io sono un creatore di immagini e non un fotografo.  Quello a cui anche tu facevi riferimento prima, ossia  che il pubblico mi conosce più per l’arte figurativa che per le fotografia non nego che per me, ad un certo punto della mia carriera, è stato motivo di crisi. Mi sono sentito come un pesce fuor d’acqua, fino a qualche tempo fa, quando, nel 2020, ho dato vita ad un progetto in collaborazione Creo Gallery di Foggia e decidemmo di fare una mostra con opere di piccolo formato così da venderle anche ad un prezzo abbordabile per chiunque e in quell’occasione mi sono inventato questa nuova serie che ha unito la fotografia con la pittura: praticamente ho stampato delle mie foto in bianco e nero e le ho colorate a mano, si chiama Ex Voto ed ha riscosso molto successo, devo dire. Stava andando benissimo, era il Febbraio 2020 e avevamo intenzione di fare esperimenti interessanti, come fare interagire gli spettatori ma poi ovviamente c’è stato il lockdown e tutto si è bloccato. Quell’esperienza è rimasta sospesa nel limbo però ho sempre un pensiero di tornarci su.

Ritornando invece a quel mio “passaggio” fra arte figurativa e fotografia, c’è il fotografo praghese Jan Saudek che indirettamente mi aiutato in un certo senso a fare pace con me stesso, poiché anche lui è un artista in questo senso perché le sue fotografie le dipinge poi a mano e questa tecnica mi ha messo il cuore in pace. E il fatto che Cavie Project hanno voluto realizzare questa fanzine è la prova che sono sulla buona strada, è un grande piccolo traguardo per me!

U.M. Certo, alla fine quello di arrivare ad una pubblicazione che venga distribuita su un certo tipo di circuiti e in un certo tipo di realtà, principalmente come quella di Milano, molto attenta all’arte erotica, è motivo di orgoglio.

G.P. Senti, per me l’arte erotica è un processo nato vent’anni fa e che continua ad andare avanti. Ogni step raggiunto è importante, ogni traguardo nuovo è solo un passo per andare avanti, progredendo in altre direzioni. Io non sono uno a cui dire che in vent’anni ha fatto sempre le stesse cose, no. Io in vent’anni ho lavorato e creato sullo stesso genere ma mai le stesse cose, uso mille stili, mille tecniche, come il digitale, lapittura, la fotografia. Cerco sempre di diversificarmi.

U.M. E qual è secondo te il tuo racconto? Qual è il racconto globale che porti avanti nella tua arte, se lo sai?

G.P. Se qualcuno mi chiedesse, come spesso lo fanno, perché faccio arte erotica, mi andrebbe di rispondere per il gusto della provocazione. A me piace che la gente rimanga scandalizzata, di rompere un po’ le regole di una società un po’ ingessata come può essere la nostra. Forse adesso siamo un po’ più aperti ma vent’anni fa, più o meno nel 2006, la mia arte è stato un fulmine a ciel sereno. Ma anche io stesso non pensavo di intraprendere questa cosa, ho iniziato in maniera del tutto naturale con la serie Piante Carnivore ma non avrei mai avuto mai il coraggio di espormi, soprattutto in una realtà di provincia come la nostra, a Lucera. Ciononostante la mia prima mostra fu nel 2007 nell’ambito del Festival della Letteratura Mediterranea in città perché quell’anno il tema era l’eros. Quindi qualcuno sapeva di questa cosa che stavo facendo e mi chiese di realizzare una mostra e perciò fui anche fortunato perché entrai dalla “porta principale” perché, immagina, un Festival di letteratura è  una cornice interessante. Devo dire tuttavia che ho sempre avuto ottimi riscontri, anche in zona, nonostante c’è chi mi dice: “Le tue cose mi piacciono molto ma non le metterei mai in casa”. Questo ragionamento lo posso capire magari sulle mie fotografie che sono molto esplicite ma non credo che i miei disegni siano più trasgressivi di quelli di un Milo Manara o anche di artisti classici, il nudo è sempre esistito e in varie forme. Questa è insomma un po’ la lettera scarlatta che mi porto dietro, però devo dire che ho sempre avuto degli ottimi riscontri.

U.M. Il rapporto con le modelle ha sempre affascinato un po’ tutti, ci racconti qualcosa?

G.P. Quando ho iniziato a fare Piante Carnivore ovviamente non c’erano modelle per me che posassero dal vivo, era impossibile trovare modelle che posassero nude vent’anni fa. Poi non esisteva neppure Facebook e i social in generale non esistevano.

U.M. Sì, è vero. C’era MySpace.

G.P. C’era MySpace e c’erano dei siti che potevano essere antesignani di Facebook, però di settore. Tipo, nell’arte c’era MySpace che era arte e musica ma anche Equilibriarte, che era un sito, non era fatto con chat ma c’erano forum dove poter entrare in contatto con altre artiste.

Le mie prime modelle infatti erano altre artiste che si fotografavano, mi mandavano gli autoscatti e io così ho realizzato la mia prima serie di disegni per Piante Carnivore.

U.M. Quindi il progetto ed il rapporto con le modelle era tutto “consumato” a distanza?

G.P. Sì, sì. E infatti una persona affascinata da questa cosa fu un noto editore del territorio che era solito dirmi: “Giuseppe, dobbiamo fare una cosa.” E l’idea infatti era molto bella e magari, perché no, la riprendiamo! Voleva che pubblicassi gli stralci delle email tra me e le modelle dove io in un certo senso le dirigevo a distanza per lo scatto che poi loro si scattavano da sole. Lui mi diceva di mettere oltre a questi stralci anche poi i disegni che io ho realizzato partendo da quelle indicazioni. Poi purtroppo questa cosa non si è mai realizzata.

U.M. È molto interessante perché in questa maniera metti in mostra tutto il processo creativo di quelle opere.

G.P. È vero, perché ora  ho iniziato a fare le foto,  le faccio io di persona in studio, invece per i disegni sono ritornato al vecchio metodo, nel senso che i disegni che realizzo li faccio sugli autoscatti delle modelle, perché a me piace rappresentare la sensualità nel suo lato più naturale possibile. Mi piace che la modella si mostri come si piace mostrarsi.

U.M. Certo, senza un occhio e un intervento esterno. Ed è importante questo, anche da un punto di vista, se vogliamo, dei gender studies visto che si parla molto del fatto che l’erotismo viene trattato molto e quasi esclusivamente da un punto di vista di un occhio maschile, mentre quello che stai dicendo è molto interessante e democratico.

G.P. Sì, esatto. Io devo solo rappresentare la realtà, quindi il mio unico compito è quello di dare delle dritte dal punto di vista tecnico per una rappresentazione quanto più corretta, come ad esempio: “Se fai un autoscatto in piedi mostrati in piano americano” e cose così, anche perché è complesso farsi degli autoscatti. Un’altra metodologia utilizzata è quella di inviarmi dei video dove io poi scelgo dei fotogrammi per renderli in disegno. Io dico loro sempre di indossare quello che vogliono, di mostrarsi come vogliono. Comunque sia anche oggi è sempre difficile trovare modelle anche perché in questo tipo di opere la nudità è sempre uno scoglio complesso da superare, soprattutto sul nostro territorio. E infatti le mie modelle decidono di mantenere l’anonimato e quindi nelle foto purtroppo posano con passamontagna, maschere. Ed i motivi che spingono ad una ragazza a posare nuda sono diversi, ad esempio perché lei sta uscendo da un momento difficile e vuole ritrovarsi…io in tutto questo ho avuto quasi una funzione da psicologo, molte volte. Questa cosa dell’arte è che è catartica, alcune di loro hanno ritrovato se stesse, si sono viste sotto una luce diversa; una ragazza che fa una dieta rigorosa ad esempio e poi si vede per la prima volta, per la sua scala di valori, bella e vuole mostrarsi in un certo modo. È molto importante.

U.M. Quindi possiamo dire che l’arte erotica fa bene, da vari punti di vista.

G.P. Certo, perché l’arte erotica va maneggiata con cura anche da un punto di vista psicologico. Non è quella cosa frivola come di solito si pensa, è tutto legato alla natura umana e quindi è qualcosa di normalissimo. E per me, il valore e il ruolo che ha la modella riesce a dare per la realizzazione dell’opera finale è importantissimo.

U.M. Poi io credo che rispetto ad altre forme d’arte come il Cinema, nella fotografia il rapporto fra fotografo/a e modella/o è quasi individuale, molto intimistico e stretto.

G.P. È proprio come lo psicologo, di solito le pazienti rimangono legate al proprio psicoterapeuta. Lo stesso vale per me, si crea un rapporto di amicizia.

U.M. E infatti nelle tue opere c’è spesso la riproposizione di alcune tue modelle storiche, sono tornate spesso ad essere protagoniste dei tuoi lavori.

G.P. Certo, anche quelle dei primi lavori, nonostante la vita poi le abbia portate a seguire altri percorsi, continuano a supportarmi, a seguirmi. Per me questa è una cosa importantissima perché sì, io scatto ma a me piace che la modella senta che quello che sta facendo è anche qualcosa di suo. Deve trasmettere attraverso la fotografia la sua personalità. A me non interessa che la modella si sieda lì, in un angolo e rimanga lì. Deve partecipare alla creazione dello scatto. Quella cosa che sta facendo la deve sentire propria. Ci sono poi altri elementi che entrano in gioco, come l’aspetto ludico e l’aspetto ironico che per me sono fondamentali nell’erotismo e quindi quando si crea quel rapporto con le modelle dove ci si chiede: “Dai, ora cosa facciamo? Inventiamoci qualcosa di divertente.” Cerchi quindi quell’abito particolare, quella posa particolare e così via.

U.M. E infatti poi in alcune tue opere ho notato che c’è anche più di una modella in campo.  Una sorta di gioco tra le parti.

G.P. A me piace particolarmente il coinvolgimento, la partecipazione attiva tra i modelli e le modelle durante la realizzazione degli scatti. Infatti, ad esempio la prima volta che ho scattato con un ragazzo è stato grazie ad un’altra modella che venne da me e mi propose un suo amico con cui si stava frequentando in quel periodo ed entrambi avevano intenzione di fare uno scatto di coppia.

E a tal proposito ho un altro aneddoto che può essere interessante. Da sempre il mio soggetto preferito è quello femminile e navigando su Instagram sono entrato in contatto con Jerry Saltz, critico e scrittore d’arte che scrive per il New Yorker. Io gli inviai un messaggio privato su Instagram dove gli chiesi di andare a visionare le mie cose, non pensando assolutamente che mi potesse rispondere. E invece lo fece! E mi disse, in maniera molto laconica: “I tuoi lavori sono molto interessanti ma perché solo donne?” E basta. Da lì mi è scattato qualcosa, alla fine pensai: “Quello è Jerry Saltz, non è uno qualunque che me lo sta dicendo”. E quindi ho iniziato a macinare qualcosa. Sono un artista, non sono uno che scatta o disegna perché gli piacciono le donne, è troppo scontato. Un artista deve sperimentare e l’erotismo non è solo femminile ma anche maschile e perché non dovrei presentare anche il corpo maschile? Però non avevo avuto mai la possibilità di sperimentare questo tipo di lavori finché non è arrivata questa ragazza e mi ha proposto di fare degli scatti di coppia. E naturalmente non mi sono tirato indietro anche se c’è la necessità per il corpo maschile di poterlo inserire solo in un certo tipo di contesti quali mostre o pubblicazioni editoriali, visto che non posso postare questo tipo di lavori sui social media, soprattutto perché sono otto volte che mi chiudono il profilo Instagram! Infatti, la prima cosa che mi ha detto Paolo di Cavie Project è stata : “Sì, Giuseppe facciamo questa cosa ma non farti bannare più, altrimenti dobbiamo ripartire da zero.” Proprio riguardo ai nudi maschili, fu davvero una delle condizioni della fanzine, perché mi chiesero espressamente foto esplicite e nudi maschili e se non li avessi avuti sarebbe stato, non dico un problema ma una forte mancanza nel mio corpus di opere.

Infatti dopo la prima tranche di opere che inviai loro, volevano più nudi maschili e foto esplicite perché, per essere notati oggi non ci può essere un tipo di erotismo vedo-non-vedo. L’erotismo deve essere provocatorio: il nudo artistico non esiste ed è una balla, come convengono anche i più importanti artisti del settore e io sono assolutamente d’accordo.

I miei maestri sono artisti come Araki, Eric Kroll, Robert Mapplethorpe…bisogna creare una poetica anche nella figura esplicita, mettere il bello anche in una immagine esplicita. Ed è questa la difficoltà. E non so se il nostro ambiente è pronto.

U.M. Vero, anche perché io personalmente credo che l’erotismo in generale nelle sue forme artistiche sia mutato radicalmente perché è mutata la società, anche rispetto a vent’anni fa.

G.P. Anche i maestri che seguo io, come Mapplethorpe ora si dedica ad un sacco di nudi maschili e anche Terry Richardson, il fotografo americano delle star, anche lui. Oppure Ren Hang, fotografo cinese morto giovanissimo che però è diventato famosissimo in poco tempo scattando con quelle prime macchinette digitali con il flash. Lui pure scattava nudi maschili, femminili, non esiste più oggi una distinzione, è tutto più fluido ed è cambiato l’approccio rispetto al passato. Non ricordo, infatti, dei nudi maschili di Helmut Newton, scattava uomini ma solo per i ritratti.

E infatti dire una cosa del tipo: “io gli uomini non li scatto” è sintomo di una mentalità molto provinciale, e invece si deve puntare oltre. Io quello che faccio lo faccio guardando altrove e non cosa accade nella piccola realtà.

Questa fanzine infatti è la dimostrazione del fatto che dello scatto perfettino, realizzato in studio con la luce perfetta, lo sfondo nero, la modella sullo sgabello non importa assolutamente a nessuno. Ce ne sono milioni sulla rete, invece lo scatto deve essere esplicito perché si deve far notare.

Una vera sublimazione del fatto che deve essere la modella a farsi notare e a mostrarsi come vuole mostrarsi è la serie In the Mirror. Nel mio studio ho uno specchio e io ad un certo punto metto lo specchio a terra, porgo la macchinetta alla modella e lei inizia a fotografarsi allo specchio. Loro perciò si fotografano allo specchio come vogliono, io mi limito a dirigere l’illuminazione sulla figura, sono a loro a scattare e a farsi questi “selfie”, in completa autonomia.

U.M. In questa serie, In the Mirror, dunque è proprio l’assenza dell’artista a farla da padrone. Tu guidi quindi esclusivamente il concept, è l’artista che scompare dietro la prevalenza del soggetto fotografato.

G.P. Sul mio profilo Instagram infatti troverai degli scatti proveniente da questa serie.

U.M. Non mancherò di farlo e invito infatti a tutti di seguirti sui tuoi canali e ovviamente a recuperare online la fanzine FALLA TU L’EROTICA A FOGGIA!

Per seguire il lavoro di Giuseppe Petrilli rinvio al sito internet www.petrilliartworx.it e alle seguenti pagine social: https://www.instagram.com/giuseppepetrilliart/ (per l’arte figurativa) e https://www.instagram.com/petrilliartworx_shots8/ (per la fotografia).

In Tu con Zero - Le interviste

Un’età à la recherche – Lettera Zero intervista Rosa Elenia Stravato sul suo “Il profilo del tempo”

di Valentina di Corcia

Una storia raccontata con un registro pop, ricco di citazioni cinematografiche e richiami alla musica, che ben si presta a descrivere gli anni della vita universitaria. Quel primo abbozzo di vita adulta che ci concede il privilegio di rimescolare le carte e iniziare a prendere le distanze da ciò che siamo stati. Una terra di mezzo, in cui abbiamo provato a diventare ciò che avremmo voluto, e spesso ci siamo riusciti.

L’ ultimo sprazzo di compiaciuta incoscienza che ci è concesso, il periodo al quale ripenseremo con tenerezza e la giusta dose di nostalgia. Protagonista è Sara, studentessa fuori sede che, insieme al suo gruppo di amici si muove dentro una città cangiante, da millenni scena e spettatore di imprese incredibili e quotidianità disarmante: Roma.Al centro della storia, il tempo. Lo ritroviamo già nel titolo e ripetuto o invocato lungo la trama , fino alla sua rappresentazione plastica, la fontanella di villa Borghese. Il romanzo che vogliamo presentarvi oggi  è Il profilo del Tempo, edito dai tipi di Les Flaneurs. A raccontarcelo è la sua autrice, Rosa Elenia Stravato.

1 Come nasce Sara e da dove nasce il desiderio di raccontare proprio quel preciso periodo della vita?

Scrivere per me significa essere al mondo. È uno spazio che dedico a me stessa e mi rappresenta, guida le mie scelte ed orienta i miei progetti. Il desiderio di raccontare la vita universitaria mi affascinava per varie ragioni che andavano dalla passione per lo studio, dall’amore incondizionato per Roma, dal desiderio di lasciare un messaggio positivo ma sopratutto per connettere i lettori. Del resto la parola “desiderio” contiene la motivazione di questo romanzo: “sentimento di ricerca appassionata” di una verità possibile, di una strada sconnessa ma avvincente e capace di raccontare altro da sé. Scrivere per creare connessioni tra i lettori. Ognuno con le proprie storie e vissuti, pronti a specchiarsi con il mondo chiuso tra queste pagine. Avvertivo, lavorando in quel periodo in una scuola superiore, l’esigenza di invogliare le giovani generazioni di studenti a imbattersi nelle sfide che spesso definiamo “sogni”, lasciando da parte quella fredda razionalità che, sovente, racconta che esistono “piani di studio di serie A” e di “serie B”. Volevo, altresì, raccontare una Roma meno onirica e più verace, capace di essere tangibile, visibile e riconoscibile nelle vite di ognuno di noi. Inconsciamente, forse anche non troppo, immaginavo di dovere un “grazie” autentico a quella Roma lì. E così è nata Sara; dall’osservazione dei passanti, dal respiro dei commenti sussurrati nelle metro affollate e anche dagli inganni che la vita ci sgancia. Sara è una ragazza dalla quale prendo nettamente le distanze, lungi dall’essere il mio alter ego, ma riesco a vedere in lei la bellezza delle contraddizioni, l’eccessiva premura di appartenere a un mondo ed anche la capacità di frantumarlo per uno sguardo. Penso sia affascinante il suo modo di vivere la storia, devo ammettere che mi sono interrogata spesso sul perché io le stessi propinando quella strada da percorrere ma è stata lei a guidare i suoi passi. Le ho dato spazio e tempo. Tanto tempo. Ho lasciato questo manoscritto per anni nel cassetto, aggiungendo e togliendo parti. Poi, ad un certo punto, ho scelto di presentarlo alla casa editrice Les Flaneurs. È stato un lavoro minuzioso che mi ha permesso di vivere la scrittura in maniera differente e dal quale ho tratto tanti insegnamenti. Forse non lo si dice abbastanza, no? Scrivere è un’arte che ha bisogno di studio e di professionisti per poter brillare. Quindi, accanto alla voglia di raccontare questo pezzo di vita umana, più o meno universale, c’era l’esigenza di mettermi alla prova come scrittrice e di maturare.

Sara è una ma, accogliendo taluni feedback dei lettori, è stata capace di essere molte ragazze; è entrata a gamba tesa nella vita di alcune persone sia spronandole in maniera costruttiva che

invogliandole a fare qualche errore. Sara è un essere umano nato con le proprie debolezze ma che mi ha permesso di investigare quel limbo di incertezze che caratterizza molte vite umane.

2 La necessità di scrivere di questa età dell’oro, nasce da una malinconia di echi mnemonici, rimpianto di un tempo che non tornerà?

Tutti viviamo nella danza oscillatoria della malinconia che ci permette, tuttavia, di assaporare gli attimi di felicità. Che ci restituisce alla bellezza imprevista quella che, malgrado le parole taciute, i treni persi, ci permette di dire sempre “ne vale la pena”. Sono del parere che bisogna fare in modo di non avere rimpianti anche se questo può sembrare una lotta contro i mulini a vento, vi giuro, che non è così. Pensateci bene. Quante volte ci siamo detti una bugia per poi cascarci dentro e accorgerci che sarebbe stato più semplice vivere quell’impresa? La vita, a mio avviso, va vissuta ingordamente. È una, preziosa e non torna. Perciò bisogna viverla con tutti i suoi colori.

Hermann Hesse sosteneva che “I dolori, le delusioni e la malinconia non sono fatti per renderci scontenti e toglierci valore e dignità, ma per maturarci” ed io sposo la sua visione. Scrivere per me è lasciare traccia, passare il testimone, dare un messaggio che possa essere letto a più livelli. Ognuno, a mio avviso, vede qualsiasi cosa nelle parole. Il bisogno di scrivere di questa età dell’oro, dunque, si palesa quale strumento per leggere la società e le sue trasformazioni, lavorare con le analogie, con le divergenze. È stato un processo naturale, quasi dovuto: probabilmente ha inciso, nella mia scrittura, quel senso di responsabilità verso i miei studenti e i miei lettori. Volevo tratteggiare gli anfratti più reconditi della vita con l’incanto fresco della scoperta, evidenziandone il peso ed anche i pericoli che si possono vivere. E volevo, anche, raccontare l’autenticità in un mondo che urla alla pluralità l’esigenza di restare in contatto ma lo fa nella maniera più becera. In fondo, quante volte restare connessi significa un pò snaturarsi per essere accolti dalla platea web? Questo testo, in fondo, racconta la bellezza di essere ciò che si è.

Io ho avuto la fortuna di vivere un’esperienza illuminante, ricca di stimoli e positiva all’interno dell’Università ma mi sono sempre guardata attorno. Le mie occasioni, spesso, sono state veicolate dal senso di giustizia, meritocrazia e dignità e non tutti ragioniamo in questo modo. Credo che questa pluralità di punti di vista sia ben chiara all’interno del testo laddove ogni personaggio porta avanti i propri demoni come i propri sogni e si presenta nudo e crudo, nel bene e nel male.

3 Sara e Roma, un rapporto simbiotico. Un filo invisibile le lega e le ricongiunge a distanza di anni, riportando la storia esattamente dove tutto è cominciato, offrendo la possibilità di un finale diverso. Una storia da “film”, un’architettura composta di immagini e parole che si incastrano alla perfezione. Le piacerebbe se diventasse, appunto, un film?

Sfondate una porta aperta, così! Il mondo del cinema mi affascina, di qui l’esigenza di renderlo co- protagonista del romanzo. È come se avessi dato al cinema le chiavi di casa e del cuore dei due protagonisti. Ammetto che di biografico c’è questa profonda ammirazione per il mondo del cinema: è la mia autentica liaison con il lettore. Magari, leggendo il romanzo, vede quei film e si innamora perdutamente di questa splendida arte. Ho studiato cinema e teatro e ne ho sposato la loro grandezza, custodendone le suggestioni e vivendo intensamente quei saperi. La costruzione del romanzo è cominciata, ad esempio, ripercorrendo alcune lezioni di scrittura scenica e rileggendo Eduardo De Filippo che sosteneva di cominciare a scrivere le commedie partendo dalla fine. Non un’impresa agevole, lo ammetto. Partire dal finale mi ha obbligato a chiarire ogni singolo passo dei miei personaggi, mi ha abituato a non dare nulla per scontato, a farmi domande ed è stata una bella

avventura. Il cinema è un racconto per immagini e la sceneggiatura rappresenta un’arte immensa, ancora oggi sottovalutata da taluni cultori della carta stampata. Sarebbe un sogno vedere al cinema questa storia e partecipare, magari, alla stesura della sceneggiatura. Sono ben consapevole della distanza tecnica tra un testo in prosa e una sceneggiatura ma è un passo che, prima o poi, spero di poter compiere. Mi piacerebbe diventare le parole dei personaggi diretti da i fratelli d’Innocenzo, da Ferzan Özpetek, Emma Dante e potrei continuare in loop. Ricordo di aver letto in “Incubi e deliri” di King che “coloro che scrivono sceneggiature possono sentirsi come fratelli di loggia…” ed è, se ci pensiamo, un privilegio assoluto. Dunque, poter restituire al cinema questa storia? Perché no? Se qualche regista ci dovesse leggere, io sono disponibile!

4 La nostra quotidianità è diventata quasi un calco di certe narrazioni cinematografiche e televisive che hanno influenzato il costume delle generazioni che si sono avvicendate nel corso degli ultimi trent’anni anni e, stratificando, hanno fornito nuovi modelli a cui ispirarsi per ricreare la propria sceneggiatura. I social network hanno modificato i codici della comunicazione e, di conseguenza, della vita di relazione. Come si racconteranno, secondo lei, le generazioni future?

Le generazioni future si racconteranno. Ne siamo certi? O affideranno le loro vite a qualcuno che possa traslarle nel miglior modo possibile per ottenere la fama sui social?
Chiaramente la mia vuole essere una sollecitazione quasi antropologica. Una provocazione. Ho tanta fiducia nei giovani, amo profondamente quel loro senso di audacia e di irresponsabilità che, in taluni contesti, rappresenta la bellezza di essere autentici. Quel “disobbedite” di Michela Murgia è l’imperativo categorico da mostrare ai nostri ragazzi. Passo molto tempo con i giovani e mi restituiscono un senso di responsabilità avvolgente, disarmante. Abbiamo dato ai nostri giovani un mondo imperfetto che gioca a raccontarsi come il migliore dei mondi possibili, bello e patinato. Abbiamo raccontato favole cercando di demolirne la loro primordiale autenticità nel nome dell’inclusione, della parità di genere, del consenso eppure c’è un mondo disincantato dietro le nostre cortine. Un mondo che ancora mette distanza tra i salari, tra i colori, tra le idee. questo, a mio avviso, è un dato oggettivo ma singolare. Le nuove generazioni hanno bisogno di riprendersi gli spazi, farlo nel modo più libero e diretto: toccandosi, annusandosi, provando il peso delle vittorie come quello delle sconfitte. Si racconteranno con coraggio e naturalezza solo se noi adulti daremo loro le chiavi dell’autonomia che non è l’uscita in più, la stretta sull’orario, la privazione. No. Noi adulti dobbiamo ricordarci di essere la funzione che ricopriamo nelle loro vite: docenti, psicologi, autori, madri, padri. Basta essere amici e complici quando bisogna invogliare i ragazzi a vivere il presente con dignità, responsabilità, entusiasmo, costruendo legami e tornando a parlare di sé oltre lo specchio. Dobbiamo smetterla di puntare il dito e allungare la mano. Se i nostri giovani non si sentono sicuri, liberi di parlare o vivono il presente come un macigno è colpa nostra. Nostra, si! Da quando noi adulti abbiamo smesso di sperare, di lottare per le idee e vivere attraverso l’esercizio della libertà; ha vinto il disincanto, il qualunquismo, la testa china. E questo è il prodotto di una società non sana. Una società, se vogliamo, disumanizzata. Laddove la notizia si è spogliata della sua autorità perché deve fare “audience” e non importa se una ragazzina di quattordici anni si è tolta la vita, no. Si passa oltre perché c’è un altro disastro a cui dare un rilievo illusorio. Capite, dunque, che le nuove generazioni hanno il diritto e il dovere di riprendersi le proprie debolezze, paure, bisogni e affrontarle. Hanno il dovere di riprendersi la vita così com’è.

Demonizzare i nuovi mezzi di comunicazione, perché? Occorre presentare loro la possibilità di scelta, che c’è e ci sarà ancora. Racconteranno, solo se noi ci metteremo in posizione di ascolto. Altrimenti troveranno nella lingua dell’indifferenza e della codardia il porto sicuro in cui deporre le scialuppe colme d’ira, tormenti, paure, lacrime. Le nuove generazioni si racconteranno con l’arte e le sue forme più impreviste ci ricorderanno la bellezza perché noi daremo valore a quello che avranno da dirci. E dovremo ascoltarlo non passivamente ma costruendo una comunicazione assertiva. Dunque, ritorno alla mia piccola provocazione: Le generazioni future si racconteranno. Ne siamo certi? O affideranno le loro vite a qualcuno che possa traslarle nel miglior modo possibile per ottenere la fama sui social? Questo dipende da noi, anche da noi.

Rosa Elenia Stravato è nata a Martina Franca nel 1991.

Nel 2016 si laurea con il massimo dei voti alla Magistrale in Spettacolo teatrale, cinematografico, digitale: teorie e tecniche presso l’Università La Sapienza di Roma con una tesi su “La Tempesta e i maestri del 900”. Nel 2016 frequenta la Scuola di scrittura creativa RaiEri presso la sede Rai di Via Teulada in Roma.  Docente e operatrice culturale, collabora con molte realtà culturali tra cui la Fondazione Paolo Grassi di Martina Franca, dal lontano 2010, il Festival della Valle d’Itria, Agis Scuola, Anec Lazio e con i Laboratori di Equo e Non Solo di Fasano (Luoghi comuni di Puglia).

Ha pubblicato Agenda Book Pusher 2024 e Cartoline Romane a cura di Giulio Perrone Editore con cui, nel 2020, ha collaborato per i “Quaderni di cinema”.

In Tu con Zero - Le interviste

Premio Strega Europeo: intervista a Loretta Santini

di Cristina di Corcia

Nel 2014, insieme alla sezione Giovani, il Premio Strega aggiunge un nuovo tassello alla sua storia: il Premio Strega Europeo. In occasione del semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea, il premio di casa Bellonci allarga l’orizzonte e rende omaggio alla letteratura di tutta Europa, cercando di trovare e porre l’accento sui legami sottili come fili, ma solidi come ponti, che collegano tra loro le culture del “vecchio continente”.  

È un legame indiscutibile che affonda radici nel passato di guerre e paci, invasioni e migrazioni, durante i quali i popoli hanno mescolato sangue e idiomi, mantenendo salde le proprie identità diverse eppure riunite. Un legame che è necessario più che mai tenere a mente e celebrare nel presente che vede l’unità traballare; come ha affermato la scrittrice ucraina Katja Petrowskaja, vincitrice della II edizione del 2015: È un sentirsi parte di un corpo solo, però quel corpo è composto da tutti gli individui, nessuna voce scompare. La resistenza è lavoro e fatica. Ed è responsabilità: fare tutto il possibile per aiutare gli altri.

La letteratura, come la musica, il cinema e l’arte, ci ricorda chi siamo stati, chi siamo e chi potremmo essere, è il luogo metaforico in cui continuiamo a rifugiarci nei secoli, alla ricerca di salvezza e sicurezze nei momenti di smarrimento personali, ma soprattutto collettivi di conflitti, emergenze sanitarie, crisi climatiche.

Così ogni anno, da dieci anni, concorrono al premio, attribuito da una giuria composta da 25 scrittori vincitori e finalisti del Premio strega, cinque autori stranieri, tradotti e pubblicati in Italia e che hanno già vinto premi nei propri Paesi di origine. Negli anni il riconoscimento letterario è andato a libri che sono stati casi internazionali: Gli anni di Annie Ernaux, Patria di Fernando Aramburu, Cronorifugio di Georgi Gospodinov (di recente vincitore dell’International Booker Prize, che analogamente premia opere di tutto il mondo tradotte in inglese), Primo sangue di Amélie Nothomb. Fino ad arrivare a V13 di Emmanuel Carrère, tradotto da Francesco Bergamasco, che ha ricevuto il premio al Circolo dei lettori a Torino lo scorso 21 maggio. Dieci anni di storia editoriale che hanno visto avvicendarsi titoli che raccontano l’Europa di ieri e di oggi, ma anche case editrici e traduttori che portano l’Europa tra gli scaffali delle librerie, nelle nostre borse, sui nostri comodini, sotto i nostri occhi attenti di lettori.

Ma come arriva un libro straniero a noi lettori? Quanto e quale lavoro ogni giorno gli editori “grandi” e “piccoli” svolgono prima, durante e dopo premi letterari importanti come questo?  A tal proposito abbiamo intervistato Loretta Santini, direttrice di Elliot Edizioni, casa editrice italiana de Il tempo della vita, primo romanzo vincitore del Premio Strega Europeo, scritto dallo spagnolo Giralt Torrente e tradotto da Pierpaolo Marchetti.

  1. Elliot Edizioni è una casa editrice giovane ed indipendente, che però nel 2014 surclassa altre case editrici anche più grandi, aggiudicandosi il primissimo Premio Strega Europeo con Il tempo della vita di Marcos Giralt Torrente. Come vive una piccola casa editrice l’attesa durante la candidatura e poi la vittoria di un premio letterario così prestigioso in Italia, con eco anche all’estero?

L’attesa di un responso è vissuta sempre con una certa inquietudine e insicurezza. Nel caso di una casa editrice piccola (anche se questa definizione non mi è mai piaciuta, così come indipendente non è riferibile solo ad alcuni editori, in contrapposizione ai grandi gruppi. Preferisco “libera” ad es. dai soci, dagli azionisti…) la percezione delle forze in campo viene vissuta con un misto di timore ma alla fine anche con maggiore leggerezza e anche divertimento, nonostante la si prenda molto seriamente, soprattutto da parte degli autori. Nel caso della prima edizione dello Strega europeo, ma l’ho riscontrato anche nelle edizioni successive, il premio ha sempre dimostrato quanto sia la qualità dei libri a contare. Dopo la vittoria, il prestigio del premio ha accompagnato – e accompagna ancora direi – il libro sia nei confronti del mercato straniero che in libreria, favorendo molto anche le vendite.

  1. Il “successo editoriale” cambia le cose o le scelte?

Sì e no. Cambia le cose perché si hanno più soldi a disposizione per il futuro, si lavora con maggiore tranquillità e sicurezza, si acquisisce una maggiore affidabilità e attendibilità verso le librerie e verso il mercato straniero. Non le cambia invece rispetto alle scelte, almeno non per me. Per fare un esempio, se ho venduto molto un libro sulla montagna non è che poi comincio a produrne altri. Credo molto nella irripetibilità di certi successi.

  1. Il Premio Strega Europeo nasce appunto nel 2014 per rendere omaggio alla cultura europea, puntando anche a mettere in evidenza i legami della cultura italiana con quella estera. A tal proposito: la scelta degli autori stranieri da pubblicare come avviene? È una scommessa o si è abbastanza “sicuri” dell’accoglienza riservata dalla critica e dai lettori italiani, com’è stato per “Il tempo della vita”?

Per quanto mi riguarda scelgo un autore straniero perché qualcosa lo fa emergere rispetto agli altri e decido di pubblicarlo solo se ne sono profondamente convinta. Ma la sicurezza dell’accoglienza non c’è mai, non può esserci, perché il nostro mercato è diverso dagli altri. Èovvio che se ha vinto qualche importante premio straniero e/o è stato un bestseller, le probabilità che possa andar bene anche da noi sono più alte e questa è una regola piuttosto banale. In genere però questi calcoli appartengono a case editrici con portafogli piuttosto ricchi e dunque non ci riguardano. Però, diciamo che ho imparato a fare di necessità virtù: riuscire a scovare ogni tanto qualche piccola gemma che riesce anche a dare belle soddisfazioni è ciò che più mi entusiasma.

  1. Quanto e come sono cambiate le strategie di comunicazione, e di vendita, delle case editrici italiane e in cosa si differenziano rispetto all’editoria internazionale?

Sono più di trent’anni che lavoro in editoria e direi che i veri cambiamenti sono avvenuti solo negli ultimi 3/4 anni e sto parlando naturalmente del dominio dei social nella comunicazione sia in Italia che nel resto di una certa parte di mondo occidentale. Fino a non troppo tempo fa la tv aveva un effetto promozionale davvero dirompente: un passaggio televisivo per un autore poteva equivalere a migliaia di copie vendute. Poi venivano i grandi articoli sui principali quotidiani, che avevano il compito soprattutto di attirare i cosiddetti lettori forti, dai quali ci si poteva aspettare l’avvio del passaparola.

Se li paragoniamo ai fenomeni che oggi si diffondono attraverso i social però non c’è battaglia, specie se sono dei personaggi famosi a consigliare una lettura.

Però a me sembra che ci sia sempre un elemento meraviglioso e incontrollabile anche da parte dei social e alludo al passaparola spontaneo dei lettori: che è per sua natura imprevedibile, impossibile da pilotare. In fondo anche sui social ogni giorno passano decine e decine di video, storie, post su altrettante decine di libri, eppure solo pochissimi diventano dei successi. Perché quello sì e tutti gli altri no? In questa risposta impossibile risiede il vero potere che è sempre stato e sempre sarà dei lettori.

In Tu con Zero - Le interviste

Excursus sulla giuria del Premio Strega e un a tu per tu con Giulia Ciarapica

di Ilaria Orzo

Come tutti i premi che si rispettino, anche il Premio Strega ha una sua giuria, un gruppo di persone che legge i libri in gara, esprime un giudizio su di essi e decreta il vincitore del concorso: stiamo parlando degli Amici della Domenica, nel cui elenco figurano ogni anno nomi di un certo calibro nel panorama editoriale e letterario italiano.

Quello che tutti non sanno, però, è che questa giuria ha dietro di sé una storia particolarmente significativa, che ne aumenta il valore simbolico e la valenza storica. Per provare a raccontarvela, partiamo dalle ormai famose parole della fondatrice del Premio, Maria Bellonci, che si pronunciò così: Cominciarono, nell’inverno e nella primavera 1944, a radunarsi amici, giornalisti, scrittori, artisti, letterati, gente di ogni partito unita nella partecipazione di un tema doloroso nel presente e incerto nel futuro. Poi, dopo il 4 giugno, finito l’incubo, gli amici continuarono a venire: è proprio un tentativo di ritrovarsi untiti per far fronte alla disperazione e alla dispersione. Prendiamo tutti coraggio da questo sentirci insieme. Spero che sarà per ognuno un vivido affettuoso ricordo.

Da queste parole, si evincono due fatti particolarmente significativi.

Il primo è che le riunioni di questo gruppo di letterati – alla prima erano presenti Massimo Bontempelli, Guido Piovene, Carlo Bernari, Paola Masino, Paolo Monelli, Palma Bucarelli e Alberto Savinio – nascono con un intento salvifico: si sentiva, allora, la necessità di trovare risposte e pace dopo i tumulti della guerra; si pensò che il confronto, il ragionare insieme e il mettere nero su bianco potessero aiutare a placare gli animi in subbuglio e a razionalizzare quanto accaduto negli anni precedenti.

Il secondo è che non è vero che gli Amici della Domenica sono una conseguenza del Premio Strega, ma è vero il contrario. La prima edizione del Premio, infatti, si svolse nel 1947, ben tre anni dopo la prima riunione dei letterati, il cui appuntamento fisso divenne, appunto, la domenica. E questo, forse, proprio perché, per poter tornare a legittimarsi, la letteratura aveva prima bisogno di ritrovare il modo giusto per potersi esprimere, senza farsi schiacciare dalla brutalità degli eventi.

Con il tempo e la trasformazione effettiva degli Amici della Domenica in giuria del Premio Strega, il gruppo si è andato via via allargando. Ad oggi, ogni anno sono più di 400 le personalità che vengono chiamate prima di tutto a proporre i libri candidati e poi a giudicarli, selezionandone prima 12, poi 5, poi 1.

Ma cosa significa davvero far parte di questa giuria? Quali sono gli oneri, gli onori? Ce lo siamo fatti raccontare da Giulia Ciarapica, da qualche anno Amica della Domenica, ma prima di tutto book blogger, critica letteraria e scrittrice.

1. Cosa significa, per te, essere un’Amica della Domenica? Quanto c’è di responsabilità e quanto di entusiasmo da lettrice? 

Di sicuro è stato qualcosa di inaspettato, quando l’ho scoperto qualche anno fa. Ho sempre seguito il Premio Strega da “fuori”, come tutti ovviamente, e pensare ora di poter dare un piccolo contributo col mio voto (o con la proposta di un testo) mi pare molto bello. Di sicuro ci si sente responsabili delle scelte fatte, ma è pur vero che gli Amici della Domenica sono molti, e quindi il proprio voto va a sommarsi a quello di tante altre persone. Ci si divide la responsabilità, insomma. Detto questo, resta tutto l’entusiasmo di lettrice, di autrice e di persona che ormai da un po’ lavora a contatto con il mondo dell’editoria. 

2. È uscito da qualche mese il tuo terzo libro, “Chi dà luce rischia il buio”. Ti piacerebbe, un giorno, concorrere al Premio in quanto scrittrice, mettendo da parte, per una volta, il ruolo di amica della domenica? 

In questo momento ti direi di no, ma solo perché non mi sento all’altezza né pronta, e forse non lo sarò mai. Non ci penso proprio, a questa ipotesi. Credo che il ruolo di “concorrente” spetti a chi ne sa più di me, gente con talento probabilmente più radicato del mio. Non escludo evoluzioni future in tal senso, sia chiaro, ma ora come ora ti direi che sto benissimo così.

3. Torniamo un po’ indietro nel tempo. Quando hai deciso di voler condividere la tua passione per i libri con gli altri? Raccontaci come e perché tutto è cominciato!

Tutto è iniziato nel 2014, subito dopo la specializzazione in Filologia moderna all’Università di Macerata. Sapevo che volevo lavorare con le parole ma non capivo in che modo. Di andare ad insegnare non avevo voglia né testa, e così fu mia madre a suggerirmi di aprire un blog. Sono partita a luglio 2014 e nel giro di poco ho cominciato a collaborare col magazine Sololibri.net e poi con Ghigliottina.it. Dopo un paio di anni di assidua attività social e online, è arrivata la proposta di collaborazione dal quotidiano Il Messaggero, e dal 2016 in avanti anche tutto il resto. Il Foglio, Rizzoli, Cesati, fino ad arrivare alle realtà con cui collaboro strettamente anche oggi. Devo essere onesta, la mia formazione classica e analogica non mi ha permesso di entrare in contatto con i nuovi strumenti (intendo i social, così come il blog) con la facilità che probabilmente hanno avuto altri. Ho scoperto un mondo immergendoci direttamente le mani, non so se mi spiego. È stato bello e continua a esserlo, ma ammetto che la fatica di star dietro a tutto, alle continue evoluzioni dei social soprattutto, è tanta.

In Tu con Zero - Le interviste

Premio Strega: dalle origini oggi e dietro le quinte con Demetrio Paolin

di Ilaria Orzo

Quando si parla di letteratura, in Italia non si può non pensare al Premio Strega, tra i più importanti riconoscimenti per gli scrittori del nostro Paese.

Sono tanti e tutti importanti gli scrittori e le scrittrici che, dalla sua prima edizione ad oggi lo hanno vinto o sono stati in corsa per aggiudicarselo. Tra i vincitori, ricordiamo Alberto Moravia, Dino Buzzati, Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Primo Levi e Umberto Eco.

Ma come è nato il Premio Strega? Proviamo a tracciarne insieme il profilo storico.

Fondato a Roma nel 1947, ad opera di Maria Bellonci e Guido Alberti, il suo nome è dovuto ad un duplice riferimento: in parte è legato al celebre liquore Strega, della cui azienda fu fondatore proprio l’Alberti, in parte è legato alle storie sulle streghe di Benevento.

Nel 2014, all’assegnazione del Premio Strega classico sono stati affiancati il Premio Strega Europeo e il Premio Strega Giovani; nel 2016 viene assegnato per la prima volta il Premio Strega Ragazzi e, infine, è stato dato il via quest’anno al Premio Strega Poesia. In questo modo, tutte le fasce d’età e tutti i generi letterari vengono presi in considerazione, tenendo conto del fatto che il panorama letterario e ormai sempre più vasto.

Negli ultimi anni, intorno al Premio Strega sono nati numerosi progetti, complici anche i social e i book blogger. I più importanti sono:

Strega OFF, realizzato dall’associazione culturale ALINEA. Si tratta di una serata che si svolge alla vigilia dello Strega nel giardino di Monk e che permette ai lettori comuni di votare il loro vincitore del Premio. Da qualche anno, il voto dello Strega OFF è tenuto in considerazione per la proclamazione ufficiale del vincitore del Premio;

Stregonerie – Premio Strega tutto l’anno, una rassegna letteraria ideata e diretta da Isabella Pedicini e Melania Petriello, che permette di mantenere vivo il Premio per tutti i mesi, con incontri mensili dedicati alla lettura dei libri che ne hanno fatto la storia e con la discussione di temi sempre caldi nel panorama culturale;

FantaStrega, un gioco letterario ideato dai book blogger Ilaria Orzo e Cristina di Corcia di “Libri che ti passa” e Nello di Coste di “Libri nello scaffale”. Il gioco, nato con l’intento di avvicinare quante più persone possibili alla lettura, è aperto a tutti gli appassionati del Premio e coinvolge numerosi tra book blogger, librai ed esperti del settore editoriale. Come funziona il gioco? Ciascun giocatore crea la sua cinquina ideale e accumula o perde punti in base ai bonus e ai malus raccolti dai FantaLettori, padrini e madrine ideali di ciascun libro candidato dell’edizione del Premio in corso.

Insomma, che l’attenzione sul e intorno al Premio sia tanta è chiaro a tutti. Ma cosa vuol dire davvero farne parte? Lo abbiamo chiesto a Demetrio Paolin – scrittore di saggi e romanzi, collaboratore del Corriere della Sera e insegnante in una scuola di Torino -, il cui libro Conforme alla Gloria è stato tra i candidati al Premio Strega per l’edizione 2016.

  1. Per un autore, sapere che il suo libro è candidato al premio letterario più importante d’Italia è motivo di orgoglio. Come hai vissuto tu l’essere nella dozzina?

Per me più che un motivo di orgoglio, che ovviamente c’è e che è innegabile che ci sia, è stato motivo di sorpresa: ero al secondo romanzo, il primo era uscito otto anni prima, con qualche buona recensione e scarso successo di pubblico, e quindi tutto mi sarei aspettato tranne che di essere candidato e di essere in dozzina. L’essere in dozzina è stato una bella avventura umana, ho stretto amicizie con alcuni degli scrittori con cui ero in gara, abbiamo viaggiato, visto posti, fatto presentazioni, incontrato persone. Ho cercato di viverlo attraverso l’ironia e l’understatement, che dna piemontese mi forniva in gran copia. Mi ricordo che, ricevuta la notizia della candidatura, commentai sui social con “Mi sono perso qualcosa?”. In realtà ero felice per me, per l’editore Voland che aveva creduto in me – e che ci crede anche adesso e asseconda i miei progetti narrativi e i miei tempi lunghissimi – ; ero contento perché Conforme alla gloria è un romanzo, complesso e lo Strega è stato un trampolino di lancio importante, che ha permesso di raggiungere molti lettori; è innegabile che un libro in dozzina venda di più, che abbia fornito al testo una visibilità enorme e che abbia portato ad altri premi, prolungando la vita del romanzo ben oltre i fatidici 3 mesi di presenza sugli scaffali. Per quanto riguarda me come scrittore, essere stato in dozzina è stato come essere invitato a un pranzo di gala, un bellissimo pranzo, con persone gentilissime e umane, con una attenzione e una cura che ho visto poche volte, con una attenzione e una cura verso i libri che ha pochi eguali.

  1. Ti va di raccontarci qualche aneddoto legato al giorno della proclamazione della dozzina?

Vorrei raccontare due aneddoti; il primo è legato alla proclamazione della dozzina e il secondo è a proposito dell’ultimo giorno in cui sono stato autore in dozzina. 

Il giorno prima che la dozzina venisse annunciata ero a Roma per una doppia presentazione di Conforme. Il giorno della proclamazione avevo l’aereo di ritorno a Torino, sul quale mi imbarcai spegnendo il cellulare, ovviamente. Tutto credevo, tranne che potessi entrare a far parte dei 12. Atterrato a Torino, dimenticai il telefono spento, distratto da altre cose; proprio in quelle ore veniva ufficializzata la dozzina e tutti – editore, ufficio stampa, editor, amici – mi scrissero, mi chiamarono e cercarono di mettersi in contatto con me. Due ore dopo l’atterraggio mi ricordai di avvertire i miei che ero arrivato a casa, e appena accesi trovati messaggi, chiamate, mail; il mio primo pensiero fu “Vuoi vedere che è successo un disastro aereo?”. La prima persona che riuscì a mettersi in contatto con me fu Francesca Fiorletta, mia cara amica e ora ufficio stampa di Feltrinelli, poi fu la volta di Daniela Di Sora, che urlava dalla felicità, e di Viola Marino, ufficio stampa di Voland, che mi disse cose bellissime, ma confuse e tutte insieme. Lentamente mi resi conto di tutto, e fu bello.

Ciò che accadde alla fine, negli ultimi giorni di dozzina, fu altrettanto divertente. Arrivato a Roma con il treno, dovevo andare in albergo e cambiarmi perché avevamo la cerimonia alla Camera, avevo con me il completo che avevo comprato per lo Strega, perché lo Strega è un po’ come quando sei invitato a una comunione, o una cresima o matrimonio, anche se di solito sei in braghe corte per l’occasione ti vesti meno peggio. Uscito da Termini, alcune persone mi scipparono, portando via il borsone con la giacca e il completo. La situazione era chiara: mi trovavo senza vestito, a poche ore dalla premiazione; così ho chiamato Viola. Un’ora dopo lei è arrivata con un nuovo e fiammante completo, che ho indossato entrando nel bagno in braghette e maglietta e uscendo pronto per una nuova avventura… Il giorno dopo fu annunciata la cinquina, e mi parve che quel furto fosse in qualche modo simbolico: la fine di una avventura…

  1. Attualmente, stai lavorando a un altro libro? Tra i libri candidati quest’anno, ce n’è uno che ti fa dire “vorrei averlo scritto io”?

Sto lavorando a un “testo lungo” da due anni, sono in alto mare, ma negli ultimi mesi mi pare di scorgere finalmente una idea chiara, non tanto di come e di cosa (quello è da un po’ che è lampante), ma sul modo in cui organizzare questa storia. Quindi, per ora, mi godo l’idea di aver forse trovato appunto la quadra tra stile-trama-montaggio e lento pede scrivo; intanto, molto probabilmente a ottobre uscirà per Tetra un racconto lungo di cui sono molto contento. Per quanto riguarda il “vorrei averlo scritto io”, è un sentimento che di solito non mi attraversa – se non per casi estremi tipo l’Ulisse di Joyce o Infinite Jest di DFW – e spero che ognuno degli autori delle dozzina sia sempre soddisfatto di ciò che scrive e scrivere. Perché se debbo dire cosa lo Strega mi ha lasciato direi così: lo Strega mi ha insegnato – ed è un insegnamento per me fondamentale – a concentrarmi sulla storia che voglio scrivere. Perché non conta il pubblico, non contano i giornalisti, non contano i premi, non conta nulla di tutto ciò: tu devi essere sicuro, licenziando il tuo romanzo, che la storia che volevi scrivere è esattamente, o il più esattamente possibile, identica a quella del tuo pensiero. Le “cose” che verranno dopo – i premi, le risate con gli altri scrittori, gli scherzi di notte, le bevute di birra post presentazione, i panini mangiati alle 3 del mattino usciti da casa Bellonci, i complimenti, le invidie, le meschinità, e le grandezze delle persone – sono futilità, perché – come diceva uno, che lo aveva capito prima e detto meglio di me – “quanto piace al mondo è breve sogno”.

In Tu con Zero - Le interviste

Castigat ridendo mores. Intervista a Sandro Bonvissuto

di Giulia De Vincenzo

«Ndo la porto signorì?». È il tassista a vedermi per primo, all’uscita della Stazione Termini. «Mbè?» mi chiede spazientito, come se gli rallentassi la tabella di marcia. «Mi porti al n.10 di Piazza Armenia, per fav…», «Daje, annamo», dice interrompendo la mia richiesta su quel “per favore” inutile, superfluo, e mi strappa di mano lo zaino con dentro i libri di Sandro Bonvissuto. Lo poggia sul sedile posteriore, quello sul quale mi sarei dovuta sedere io, come da lui indicato con teatrale galanteria. Poi, mettendo in moto l’auto, mi dice: «Signorì, lo sa che in quella piazza cianno girato er finale de I Soliti Ignoti, er film de Monicelli?», guardandomi dallo specchio retrovisore con l’aria di chi non avrebbe accettato un no come risposta. «Sì, certo», gli rispondo e metto gli auricolari, non prima di aver intravisto il suo sguardo di approvazione.

Nord, Sud, Ovest, Est, Roma è / Così grande che di notte ti prende, ti inghiotte / Fotte la mente, un gigante che ti culla / Tra le urla che non sente / Ti compra, ti vende, ti innalza, ti stende / Ti usa se serve, ti premia, ti perde / Chi parte, chi scende…

È lì che Sandro mi ha dato appuntamento, sui gradini di marmo del palazzo dove abita e che ai tempi del film era di recente costruzione. “Quella scalinata è come un salotto in mezzo al traffico pazzesco che porta a via Magna Grecia e a San Giovanni”- mi aveva detto al telefono – “è come sta’ seduti sul divano ma in mezzo alla strada”. Per le strade sono ancora affissi i manifesti di propaganda elettorale. Trovo un volantino anche sul sedile e senza pensarci lo prendo, e comincio a spiegazzarlo nervosamente. Mi tornano in mente le pagine di Dentro sul diritto al voto dei carcerati: “Sulle schede c’erano tutti i simboli dei partiti. Come sempre. Ma in quell’occasione mi sembrarono infinitamente più ridicoli del solito. Chissà perché la politica si era interessata a noi quel giorno. Il seggio elettorale era l’unica cosa appartenente al mondo esterno che fosse riuscita a entrare nel penitenziario”. Il protagonista del racconto Il giardino delle arance amare, alla fine, si astiene dal votare. Chissà cosa pensa Sandro di questa scelta al di fuori del carcere…

«Signorì, semo arivati». Saluto il tassista, che mi lascia di fronte ai gradini bianchi, sui quali non c’è ancora nessuno. Mi siedo e mi accorgo di avere ancora il volantino in una mano. Lo poso accanto a me sullo scalino e mi metto a contemplare il traffico di Roma per una mezz’oretta finché, con la coda dell’occhio, vedo sparire il depliant. «Io non voto da decenni».

Mi giro e vedo Sandro Bonvissuto in piedi dietro di me, che accartoccia il mio depliant già malridotto. «Come mai?», gli chiedo.

– Perché la politica è inutile, le elezioni nazionali funzionano con una legge sbagliata e l’apparato democratico di selezione dei candidati costringe l’elettore, al termine delle campagne elettorali, a dover scegliere fra persone corrotte, incapaci o tutte e due le cose insieme, finite in alto grazie alla macchina della promozione politica. Il cittadino che vota non può far altro, così, che scegliere il meno peggio. Purtroppo però in politica non bisogna scegliere il meno peggio, ma er più meglio, così ci hanno insegnato i Greci.

– Quindi approvi l’astensione anche al di fuori del penitenziario?

Certo! Il partito dell’astensione è l’unico in crescita. Fra poco avremo anche noi un non-premier. Tipo Papa e Antipapa.

– Ciao Sandro! E grazie per la puntualità!

Scuseme Giulie’, ma Bonvissuto arriva SOLAMENTE in ritardo. Pemmè er ritardo è popo no stile di vita.

Si siede accanto a me. Istintivamente gli guardo i dread raccolti in un elastico nero e lui mi dice: «È na specie di fioretto. Me tajerò i capelli quando il destino che riguarda un certo libro prenderà un’altra piega. I libri so così, so come ee persone; alcuni so tranquilli e nun danno problemi, altri so travajati e te mannano ar manicomio».

– Capisco. Quando questo libro misterioso prenderà la giusta piega fammelo sapere –  gli rispondo sorridendo, e intanto tiro fuori i suoi libri dallo zaino, cominciando con Dentro – ma per ora concentriamoci su questa raccolta, che comincia con un racconto sul carcere. Dimmi, da cosa nasce il tuo profondo interesse per l’argomento?

Da una sensibilità mia. Io alle persone recluse nei penitenziari ci penso sempre, non lo so perché, è un’immagine che mi ha rincorso ovunque, di giorno e soprattutto di notte. Scriverne è stato un esorcismo, e, in più, mi ha consentito un’analisi estesa e affettiva del problema carcere; la penna ha esplorato le profondità più inconfessabili e oscure di quel luogo, illuminandole. Oggi so che non posso fare niente, ma credo appartenga all’etica dello scrivere il raccontare di qualcosa che riguarda la società e tutti noi. Non si può scrivere sempre e solo di sé stessi, come fanno gli italiani moderni.    

– Quali sono le più gravi carenze delle strutture carcerarie italiane?

Loro stesse, i penitenziari nascono proprio obbedendo al concetto di carenza, sono basate sull’idea di privazione, per questo riescono ad essere solo quello. Non sono progettate bene e poi funzionano male, ma sono progettate direttamente male. E poi funzionano male. Non so se mi spiego.

– Sì, certo. Stavo pensando… Da come hai costruito il personaggio di Babba sembrerebbe che siano le circostanze socio -politiche a indurre alla criminalità…

– Beh certo aiutano, un ambiente guasto è il primo complice di ogni crimine. Il soggetto e gli atti penali o illegali compiuti da questo vanno giudicati nel contesto nel quale sono avvenuti. Le circostanze condizionano l’uomo molto più di quanto sia vero il contrario. Sono tutti bravi ad essere onesti cittadini al quartiere Parioli o alla Camilluccia, provate ad esserlo a San Basilio, o a Tor bella Monaca.

Sandro getta una rapida occhiata all’orologio. Tra un’ora deve andare in trattoria, dove lavora da oltre vent’anni come cameriere.

– Ti scoccia essere etichettato “il cameriere-filosofo”?

– Faccio questo mestiere da tanti anni, e non c’è molto altro da aggiungere. A me fa più sorridere l’idea del filosofo, anche perché io non ho prodotto nessun pensiero (come fanno i filosofi), ho solo studiato un po’ di filosofia. Certo, considerato il panorama culturale italiano, presi quelli che vanno in giro e fanno opinione, c’è da dire che in mezzo a questi io so Heidegger. Ma per fortuna loro lavoro in una trattoria. Come indicato dall’etichetta. Il cerchio si chiude. D’altronde anche Diogene alla fine viveva in una botte, eppure da lì ha parlato direttamente con Alessandro Magno. 

– Beh, personalmente, se dovessi scegliere un dualismo che si adatti a te, sceglierei il binomio padre/figlio. Il rapporto con la figura paterna è molto presente nella tua produzione – penso al tuo contributo per l’antologia Scena Padre o al racconto Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta (Dentro) – e si configura come una tacita trasmissione di valori o uno scambio di sentimenti che si fa fatica a dichiarare apertamente. Nel tuo essere padre, quanto ti sei allontanato dal tuo modello di riferimento? E in cosa, invece, gli sei rimasto fedele?

– Essere figlio e padre nello stesso momento è l’esperienza più incredibile della vita di un uomo. Trovarsi a predicare cose a tuo figlio che tu stesso hai disatteso quando eri figlio, o sentirsi contestato come padre quando tu stesso hai contestato le stesse cose a tuo padre, non ha prezzo. È come convivere con un alter ego in una realtà aumentata. E’ un rapporto complesso e oscuro, direi segreto. Mi rendo conto che parlo sempre di questo quando scrivo, ma al momento non voglio cambiare niente.

– Però oltre al carcere e al rapporto padre – figlio, nel racconto Il mio compagno di banco (Dentro) hai scritto anche della scuola e di un sistema per sopravviverci, quello della “diarchia”. Che studente eri? E come vedi l’attuale istituzione scolastica?

La scuola, almeno ai tempi miei, funzionava molto bene. Era una grande istituzione, prima che i ministri incapaci e corrotti degli ultimi governi cominciassero a demolirla. Ma la scuola, come il carcere, è un’istituzione immensa atta a dominare il singolo, e mi piaceva raccontare la reazione dei soggetti a questo potere che viene dall’alto. Io andavo in un liceo immenso con migliaia di studenti, tanti docenti, e tante sezioni. Così tante che avevamo anche il turno di pomeriggio. Anche se non ci andavamo quasi mai, io e il mio compagno di banco amavamo moltissimo la scuola. Da una certa era in poi avevamo preso a fare sega stando comunque all’interno dell’istituto, mischiati con gli altri alunni che erano entrati regolarmente in classe. Ci nascondevamo mostrandoci a tutti: geniale!

Le risate, trattenute a fatica nel corso dell’intervista, a questo punto esplodono. Perché con Sandro Bonvissuto si riflette e si ride. Tanto. Quasi mi dispiace doverlo salutare tra poco. Guardo la piazza che ci sta davanti e i palazzi altissimi dalle tinte pastello che la delimitano. Chiudo gli occhi e per un attimo mi immagino Gassman, Mastroianni, Murgia e Pisacane che la attraversano, lasciandosi alle spalle i gradini sui quali siamo seduti. Prendo il suo ultimo romanzo, La gioia fa parecchio rumore, e gli rivolgo le ultime domande.

– Sandro, qui sostieni di aver imparato ad amare tifando A.S. Roma. Quali sono le principali analogie che riscontri tra amore umano e calcistico?

– Nessuna. Semplicemente perché l’amore umano scade, come lo yogurt. L’amore calcistico invece è eterno. Le due cose sono solo simili, ma non uguali. Sentimenti che hanno radici diverse, e soprattutto un funzionamento diverso per il soggetto: gli umani si amano in uno scambio, l’amore per la squadra è a senso unico e non dà mai niente indietro di quello che si è dato. Chi ama un essere vivente può sperare in un ritorno, chi ama una cosa è senza speranza. Questo amore è al centro del libro.

– E se guardi la tua città – lo guardo, facendo un cenno a Piazza Armenia – cosa ti viene in mente?

…Poi alzi l’occhi vedi Roma / E chi vive davero sta città, ritrova il senso a tutto…

– Che l’amo. Roma non passa nemmeno per la mente, va diretta al cuore. Roma è un sentimento.

…e non se ne vo più annà, non se ne vo più annà…

(Piotta, 7 Vizi Capitale)

In Tu con Zero - Le interviste

“Io non parto più. Le cicogne di Marrakech”

Pierluigi Mantova intervista Carolina Germini

  • «Io non parto più» suona come una frase molto attuale in un mondo piegato dalla pandemia. Come, quando e dove nasce questa storia?  È stato ideato come un racconto illustrato sin da subito o il bisogno di affiancare le immagini alle parole è arrivato dopo? Qual è stato il lavoro, sia grafico sia tecnico, che l’illustratrice Ginevra Vacalebre ha fatto partendo dal tuo racconto?

Non potrò mai dimenticarlo. Era una sera di novembre. Mi trovavo a Marrakech, nel quartiere della Kasbah, che in arabo significa fortezza ed è infatti la zona in cui risiedevano i più alti dignitari di corte. Stavo cenando sulla terrazza di un ristorante di fronte alla porta di ingresso delle Tombe Saadiane. Alzando lo sguardo, mi sono resa conto che lì sopra due cicogne avevano costruito il loro nido. Non saprei bene dire perché ma sono rimasta senza parole. La vicinanza di quegli animali nella notte, immersi in un totale silenzio, mentre sembravano vegliare la città, mi ha sconvolta. Sono tornata anche la mattina dopo, quasi per assicurarmi di non aver sognato quel momento. Naturalmente l’effetto è stato molto diverso. Nel rumore e nel disordine delle strade le cicogne si confondevano di più, ma era comunque inevitabile notarle.

Appena sono salita in aereo per tornare a casa, ho iniziato ad annotare i nomi che immaginavo avrei dato alle due protagoniste. Ho sentito un’urgenza forte che mi ha spinto a scrivere di loro, soprattutto nel momento in cui ho lasciato il Marocco. Volevo portare quella storia con me.

E sì, ho  avvertito dal primo momento il bisogno di accompagnare quel racconto a delle immagini. Avevo bisogno di un illustratore che avesse la mia stessa sensibilità. E quando ho visto i disegni di Ginevra Vacalebre ho capito che ero sulla strada giusta. Per lei il mondo animale è centrale. Sicuramente in questo ha influito su di lei il fatto di essere cresciuta in campagna. Avendo anche io una casa immersa nel verde, dove vado spesso l’estate, penso che l’amore e la passione per la natura e gli animali ci abbia unito da subito. Per quanto riguarda il lavoro grafico, so che Ginevra ha scelto di usare una tecnica tradizionale: realizzando le basi del disegno ad acquerello e matita. Poi si è servita di Google Earth per andare a visitare virtualmente i luoghi che avevo descritto.

  • La storia di Daisy e Sandy può essere paragonata a quella di tante famiglie che scelgono di abbandonare la propria terra natia in cerca di una nuova vita, spesso per cause di forza maggiore. Nel mondo animale ciò è determinato da questioni legate al cibo o al clima, mentre in quello umano la maggior parte delle volte da povertà, neodittature, guerre e/o problemi ambientali. Come mai la scelta di raccontare il “fenomeno delle migrazione” con animali come protagonisti, animati però da sentimenti tipicamente umani come il desiderio e la nostalgia?

In realtà non ho scelto di trattare il tema della migrazione ma ho scelto di raccontare una storia, la storia eccezionale e fuori dal comune di un gruppo di cicogne, ormai conosciute come cicogne di Marrakech, che invece di proseguire la loro rotta, hanno deciso di fermarsi in questa città e non ripartire più. Ho trovato questa storia rivoluzionaria. Siamo sempre abituati a raccontare la migrazione animale nello stesso modo, indicando il periodo della partenza e del ritorno ma cosa succede quando un ciclo viene interrotto? È questa domanda che mi ha spinta a scrivere. Quando poi ho presentato la storia alla casa editrice Momo,  Mattia Tombolini, l’editore,  è rimasto colpito proprio da questo, dal fatto che questa storia rovesciasse in qualche modo il nostro punto di vista sulla migrazione. Siamo ormai portati ad associare la migrazione al viaggio  dall’Africa in Europa e invece in questa storia la direzione è invertita: le cicogne partono dall’Olanda e si fermano in Marocco.

  • Le cicogne dal Marocco si fermano ad Alberobello prima di raggiungere l’Olanda. Come mai hai scelto proprio la Puglia come tappa centrale, è solo per una questione cromatica e climatica o c’è un altro motivo? 

Perché Alberobello? Visivamente ho trovato subito una somiglianza tra i nidi delle cicogne e i tetti dei trulli e poi, raccontando una storia per bambini, ho pensato che soprattutto per loro i trulli fossero delle costruzioni magiche, quasi oniriche. E poi ho tantissimi ricordi legati alla Puglia. Tutti gli anni della mia infanzia mia madre mi ha sempre portato a trovare una sua amica di Lecce, così ho sentito da subito questa terra un po’ come una seconda cosa. Ho anche alcuni ricordi legati agli animali ora che ci penso. Il primo risale a quando avevo circa dieci anni e andammo a visitare il parco naturale di Fasano. Ricordo che per me fu impressionante attraversarlo in macchina ed essere circondata da ogni tipo di animale: giraffe, lama, leoni. È stato un vero safari! La prima volta in cui ho visto quegli animali fuori dalle gabbie. Non ho mai amato gli zoo perchè ho sempre avvertito la sofferenza degli animali chiusi in gabbia ma quella era un’esperienza completamente diversa.

Poi nell’estate del 2015, mentre andavo verso la Spiaggia di Pescoluse, ho visto sul ciglio della strada un cane che rovistava tra i rifiuti. Non potevo non fermarmi. Avrà avuto cinque mesi, era completamente deperito… Così l’ho preso e l’ho portato a Roma.

  • La filosofa contemporanea Donatella Di Cesare nel suo recente libro Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione riflette su cosa significhi essere migranti oggi e su che cosa, più in generale, abbia significato migrare nella storia dell’umanità. Secondo te, invece, quale filosofia del passato si è soffermata di più su questo tema? E qual è, se esiste, la filosofia all’interno del viaggio come esperienza fisica e concreta?

Donatella Di Cesare è stata una mia docente di Filosofia teoretica alla Sapienza. Conosco questo suo lavoro sulla filosofia della migrazione. Anni fa seguii un suo corso incentrato su un suo libro intitolato Heidegger e gli ebrei, pubblicato in occasione della scoperta dei Quaderni neri,  pagine che hanno tolto ogni dubbio riguardo l’antisemitismo di Heidegger. A proposito di questo tema, naturalmente non posso non pensare a quanto la storia ebraica sia fin dall’origine una storia di migrazione. Mi viene in mente, tra i tanti, il filosofo Baruch Spinoza, i cui genitori, portoghesi di origine ebraico-sefardita, furono costretti a convertirsi al Cristianesimo,  ma poiché di nascosto mantenevano la loro fede, non ebbero altra possibilità che lasciare il Portogallo per trasferirsi in Olanda. Penso anche ad un’altra filosofa, Hannah Arendt, che nel 1941 emigrò negli Stati Uniti, riuscendo così a salvarsi. Diverso invece è stato il destino del filosofo Walter Benjamin, che l’anno precedente raggiunse la Catalogna nella speranza di imbarcarsi per gli Stati Uniti ma si vide ritirare il visto di transito. A quel punto, convinto che di lì a poco sarebbe stato catturato dalla polizia di frontiera spagnola, per poi essere rispedito in Francia, sotto il governo nazista, si suicidò. Fatalità: il giorno dopo arrivò il visto che gli avrebbe permesso di emigrare. Quindi, più che venirmi in mente una filosofia del passato che ha riflettuto sulla migrazione, non posso non pensare a quanto la migrazione abbia determinato il pensiero e la vita di molti filosofi.

  • Cosa ti spinge oggi a scrivere per le nuove generazioni? Può essere considerata ancora, secondo te, una scelta editoriale con una valenza educativa e formativa per il giovane lettore?

Scrivere per i bambini mi diverte moltissimo e mi aiuta a pensare in modo diverso, più libero direi.. A Parigi per un periodo ho insegnato in alcune classi della scuola elementare. Proprio in quel periodo stavo sviluppando la storia sulle cicogne. Credo che questa esperienza mi abbia stimolato molto nella scrittura perché mi ha permesso di guardare il mondo attraverso i loro occhi, riscoprendo la bellezza della meraviglia, che poi è quello che ho provato quella sera a Marrakech quando mi sono trovata di fronte a quel nido. Ciò che mi spinge a scrivere per loro è il desiderio di raccontare una storia, che li porti a scoprire dei mondi che ancora non conoscono. L’entusiasmo che ho avuto nel parlare di un Paese come il Marocco credo sia venuto proprio da questo: usare parole come minareto, kasbah, spezie, Moschea, è stato un modo per raccontare una cultura. Ho deciso di non frenarmi nell’usare termini più complessi perché penso che un libro serva anche e soprattutto per apprendere nuovi vocaboli, per arricchire il nostro immaginario e il nostro modo di guardare il mondo. Un cappello non sarà più soltanto un cappello per chi da piccolo ha letto Il piccolo principe così come un giardino dopo aver letto il Il giardino segreto. Quindi sì, credo proprio che scrivere storie per bambini sia ancora un mestiere meraviglioso, con un immenso valore.

In Tu con Zero - Le interviste

Settimana Pasolini – Intervista a Walter Siti

di Pierluigi Mantova

Il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini fu massacrato barbaramente al Lido di Ostia. Quella notte ci ha privato di una delle voci intellettuali più solide e più contrastate del Novecento italiano. In occasione dell’anniversario della sua scomparsa abbiamo intervistato Walter Siti che, oltre a essere un critico letterario e uno scrittore, è uno dei più grandi studiosi di Pasolini. Docente presso l’Università di Pisa e della Calabria, in seguito professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università dell’Aquila. Dal 1994 ha pubblicato romanzi, tra cui il premio Strega Resistere non serve a niente (2012) e il tanto discusso Bruciare tutto (2017), oltre svariati saggi su riviste italiane e straniere. È stato il curatore delle opere complete di Pasolini per la collana editoriale I Meridiani della Mondadori.  

1.         A quale livello e in che modo, secondo lei, letteratura e cinema dialogano in Pasolini?

«C’è una cosa che ho pubblicato qualche anno fa che si chiama Il sole vero e il sole della pellicola, dove tratto proprio il tema di come, secondo me, in Pasolini l’idea del cinema è nata da una specie di crisi della poesia in versi. Nel senso che la coincidenza di date è abbastanza evidente, a parte alcune sceneggiature che lui aveva fatto prima, diciamo così, per vivere: le sceneggiature per Bolognini o l’aiuto che aveva dato come sceneggiatore a Fellini oppure, prima ancora, il film di Soldati con Sophia Loren sono dei lavori di tipo “servile”, non è che lui riconoscesse molto di se stesso in quelle sceneggiature.

L’unica che lui interpreta come se fosse un romanzo fatto con altri mezzi è La notte brava che, fondamentalmente, è una specie di replica di Una vita violenta con la stessa ambientazione e personaggi molto simili. Il suo vero passaggio al cinema avviene poi con Accattone, tra il 1960 e il 1961, e coincide con una sua crisi, molto evidente nella poesia, che è soprattutto metrica nel senso che smette di scrivere in terzine e comincia a scrivere in versi liberi. Per lui è una crisi notevole perché significa, sostanzialmente, affrontare l’informe e quindi anche l’informe della Storia, la perdita dei riferimenti marxiani e poi quella che lui chiamerà, nei primi anni Sessanta, la “nuova barbarie”. In quel momento, credo ci sia un po’ l’idea che con i versi non riusciva più a catturare la realtà e quindi la volontà di passare a una forma espressiva che fosse più potente delle parole. C’è un suo saggio dove, parlando della macchina da presa, dice che è una macchina che non inutilmente si chiama “da presa”, come se il verbo “prendere” fosse fondamentale in questa espressione e quindi come se la macchina da presa fosse capace di catturare più realtà di quanto non potesse farlo la poesia con le sole parole, perché pensa che la lingua del cinema abbia come fonemi, quindi come elementi basilari, gli oggetti stessi della realtà, dunque usare la forma del cinema significa usare una forma estetica che ha, all’interno dei suoi elementi formali, gli oggetti della realtà stessa e quindi i volti e poi i corpi. Io ho l’impressione che quello che ha condotto Pasolini verso il cinema sia stato fondamentalmente questo: cioè il desiderio di avvicinarsi a un genere artistico che gli consentisse di “mangiare” quanta più realtà di quanto non fosse possibile usando soltanto la forma letteraria.»

2. Quale tra le opere letterarie reputa la più “cinematografica” e per quale ragione?

«Ho l’impressione che i suoi due romanzi romani da questo punto di vista stranamente non siano molto “cinematografici”. Nel momento stesso in cui si avvicina al cinema, in letteratura fa soprattutto cose non finite. Si avvicina all’idea del “non finito” nei racconti dopo Accattone, dove c’è una forma immaginata come “cinematografica”. Tant’è vero che comincia a immaginarli lasciando al lettore alcune possibilità d’interpretazione: ciò è molto presente in Teorema romanzo, ad esempio, dove Pasolini lascia al lettore delle possibilità di opzione, comincia a pensare le sue opere letterarie come strutture che vogliono essere integrate da qualcos’altro, per esempio, con delle fotografie, come nell’Appendice a La Divina Mimesis o in Petrolio. È come se la letteratura si aprisse all’immagine, a quella che lui chiamava «integrazione figurale», per cui consiglio di andare a cercare quegli scritti letterari in cui si avverte il bisogno dell’integrazione di qualcosa d’altro.»

3. Cos’è il sacro per Pasolini?

«Penso che Pasolini seguisse la definizione di Rudolf Otto del sacro e del religioso: il religioso è un’insieme di norme, regole, testamenti, una forma legata più ai dogmi; mentre il sacro è antecedente a questo, una specie di percezione di qualcosa di non misurabile con mezzi umani. Ad un certo punto Pasolini lo definisce numen tremendum, una specie di percezione dell’assoluto non meglio definito che è immanente alla realtà. Credo che il sacro sia molto legato a quando Pasolini era piccolo: c’è un passo dove parla del coito dei suoi genitori e dice che quando impugnava la macchina da presa e inquadrava qualche aspetto della realtà, provava una specie di timidezza, come se tutte le volte che avvicinava l’occhio alla macchina da presa, si immischiasse nel coito dei suoi genitori. Quindi concepisce il sacro come qualcosa che sta all’origine della vita, non in senso realistico, ma nel senso di trovare nell’origine stessa della vita qualche cosa che non appartiene alla socialità, ma che va oltre l’aspetto sociale, qualcosa che fa paura anche soltanto toccare o guardare.»

4. Quali sono state le principali questioni di ordine filologico che ha dovuto affrontare nella raccolta e pubblicazione delle opere di Pasolini?

«Nei testi editi è ovvio che non ci sono stati problemi filologici perché li si prende così come sono stati pubblicati da Pasolini, mentre per gli inediti è una cosa diversa. Per Petrolio il problema si è posto in maniera clamorosa, poiché è un libro non finito a causa della scomparsa dell’autore. Ne I Meridiani, in generale, il problema che ho riscontrato non era tanto come editare i testi, ma in che ordine editarli. Nel senso che la “buona educazione filologica” di solito vorrebbe che, nel caso per esempio dei romanzi, uno mettesse prima i romanzi editi che hanno uno statuto diverso perché sono quelli voluti dall’autore, e poi invece i romanzi rimasti inediti; però se avessi fatto così, nel volume dei romanzi, il primo che il lettore avrebbe letto sarebbe stato Ragazzi di vita, mentre prima di arrivare a questo Pasolini aveva scritto Atti impuri e Amado mio, romanzi molto importanti e, secondo me, anche più belli di Ragazzi di vita, poi alcuni tentativi interessanti degli anni Cinquanta, come il Romanzo del mare. Quindi c’era tutta una preistoria di Pasolini romanziere che il lettore avrebbe capito solo alla fine del libro, quando sarebbe arrivato alla parte degli inediti, così ho preferito usare una forma filologica abbastanza discussa al tempo, veniva dalla Francia e i francesi la chiamavano critique génétique, cioè critica genetica, e quindi pubblicare le cose in ordine cronologico come erano state pensate dall’autore proprio perché dai libri precedenti, anche se inediti, venivano generati quelli successivi ed è la cosa che è stata più discussa quando uno dei romanzi è uscito, molti hanno pensato che fosse uno “schiaffo” alla “buona regola filologica”, però io resto convinto che il profilo del Pasolini narratore risulti meglio così che nell’altro modo.»

5. Come mai, secondo lei, un intellettuale che conduceva una vita privata considerata “immorale” o “contro natura” per quei tempi, ricercava e rappresentava la vita nel senso più ampio, nel suo stato più “naturale”, oserei dire anche “stato grezzo”?

«Non mi pare ci sia contraddizione da questo punto di vista: Pasolini cercava sempre la “naturalezza” sia nella vita privata, con sottoproletari e contadini non acculturati, che nella vita letteraria.»

6. Dopo il vostro incontro a Roma, quale insegnamento – esplicito o implicito – le ha lasciato l’uomo Pasolini?

«Ero molto giovane all’epoca, avevo più di vent’anni, forse ventidue o ventitré, e la cosa che mi colpì molto fu la sua grande generosità di tempo. Nel senso che Pasolini è stato ore e ore, provando a correggere un capitolo della mia tesi di laurea per farlo diventare un articolo che andasse bene per la pubblicazione su una rivista, discutevamo pagina per pagina su cosa togliere perché troppo “accademico” o cosa sviluppare di più e non era minimamente tenuto a farlo, non aveva nessun obbligo di fare un lavoro di questo tipo eppure si è messo lì e ha perso delle ore in modo totalmente gratuito.

Da questo punto di vista, mi colpiva questa sua generosità, con cui aiutava un giovane studente che, tra l’altro, non conosceva e non c’era nessun rapporto né ufficiale né di parentela. Niente. Un’altra cosa fu il fatto che all’epoca avessi detto a poche persone che ero omosessuale, era un momento della mia vita in cui preferivo tenere per me queste cose, non lo andavo a raccontare in giro a tutti, ma nel momento in cui lo dissi a lui mi scrisse una lunga lettera, che purtroppo ho perso, dove mi raccontava dei suoi problemi d’adolescente nel momento in cui anche lui aveva scoperto la sua omosessualità e questa cosa mi aiutò a sentirmi meno solo».