Intervista a Claudia Lanteri di Carmen Rampino
– E allora i racconti a cosa servono, se non servono a nulla? […]
– A cosa servono i racconti non lo so. Vorrei poterti dire che è più sicuro affidarsi alla scienza, ma anche da quella mi sento tradito. A qualche cosa servono: è come se tu potessi metterti un paio di occhiali a fantasia per vedere il mondo in un modo nuovo, che non avevi previsto o calcolato.
– E poi che fai?
– E poi te li levi.
Lanteri 2024, p. 144
Sicilia, fine anni Cinquanta. Su un’isola senza nome arriva un barchino con a bordo un uomo stremato e il cadavere di una donna: sua moglie. La piccola comunità dell’isola siciliana all’inizio è sconvolta: il naufrago porta con sé una storia misteriosa. Ben presto, però, torna la piatta monotonia della quotidianità per tutti, tranne che per il giovane protagonista de L’isola e il tempo. Per Nonò, in quel giorno la vita si ferma, o forse proprio da lì prende avvio. Per lui si verifica un episodio che rappresenterà per il resto dei suoi giorni una materia da raccontare a chiunque incrocerà il suo percorso, un’ossessione che lo porterà a riflettere su sé stesso, sulla sua anima, sul suo stare al mondo e sul senso della sua stessa esistenza. Può un giallo convertirsi in un giallo dell’animo di chi racconta? Può diventare una lente di accesso per scovare i più reconditi anditi della nostra interiorità? L’esordio narrativo di Claudia Lanteri ci dimostra che è possibile e che una voce potente come la sua, optando per gli ibridismi, per le sfumature, per le intersezioni e gli incroci, può rivoluzionare dall’interno un genere.
Claudia Lanteri con L’isola e il tempo ha scritto un libro che, andando oltre i canoni del giallo, parla del più antico e ancestrale bisogno degli esseri umani: le storie. Che cosa sono le storie? Perché si narra? Quale segreto nascondono? Da sempre le storie hanno rappresentato un’arma di difesa e un modo per spiegarsi la realtà, soprattutto quella apparentemente inspiegabile. E così è anche per Nonò: il racconto gli serve per spiegare la realtà, in modo particolare quella più dolorosa. E allora Nonò diventa una novella Shahrazād che narra e racconta per salvarsi. Il protagonista del romanzo continua a raccontare sempre la stessa storia a svariati interlocutori: ogni versione cerca di avvicinarsi di più alla verità. La raggiugerà mai? Il mistero verrà sciolto? Non ha importanza. L’unica certezza è l’urgenza del narrare. Narrare gli serve, perché solo con le parole si può affrontare un grande dolore. E allora se Nonò è imprigionato in un trauma, la narrazione rimane l’unico rimedio possibile per continuare a stare a galla. Non è solo una questione di volontà, ma di bisogno. Così il racconto diventa salvifico e mistificatorio allo stesso tempo, perché ogni volta che si racconta, si tolgono gli elementi che più turbano e fanno soffrire.
Con una lingua intarsiata di gemme preziose eppure naturale, mai di maniera, Lanteri ci dimostra quanto la scrittura possa avere un potere magico e orfico. Ed è proprio di questo che parla il suo romanzo: del narrare come ultimo baluardo di resistenza e speranza. E alla fine di tutto, spogliati di ogni orpello, denudati del superfluo e di ogni artificio, cosa ci resta? Solo la parola. Così il racconto diventa il faro che illumina le notti buie delle nostre esistenze. Se, però, la scrittura talvolta può rivelarsi anche solitudine, una conversazione può riscattarla e ricordarci l’intrinseca natura sociale della letteratura. Ed è così che è andata con Claudia, a cui siamo infinitamente grati non solo per l’opera che ha scritto animata da infinito amore, ma anche per il tempo che ci ha dedicato.
Ciao Claudia, grazie per la tua disponibilità e complimenti per il libro. Come hai maturato l’idea di questa storia? Qual è la sua genesi?
La storia è stata ispirata da un articolo di cronaca, ma poi il processo immaginativo, che nei casi più felici assume i tratti di una vera ossessione, prende il sopravvento e del fatto non resta che un pretesto. Il nucleo alla base della mia riflessione è questo: una persona dà la sua versione di un incidente, irrefutabile fino al momento in cui entra in scena un’altra persona, sopravvissuta all’incidente, che con la sua sola esistenza corporea smaschera la versione precedente come falsa. Senza quel ritrovamento, la ricostruzione della verità sarebbe stata antitetica rispetto alla realtà fattuale. Questo tema mi affascina molto e mi attira, come autrice: il quantificare col minimo margine di errore che cosa sia e come si determini la verità di un fatto, e cosa accade quando invece questo margine di errore si allarga. Senza la presenza corporea della persona sopravvissuta, la costruzione narrativa messa in atto dalla prima persona – colpevole, e responsabile del fatto tragico – sarebbe stata efficace, sarebbe stata riconosciuta come una verità dalla comunità in ascolto. Quale sarebbe stato lo scenario, in questo caso? Sono arrivata a una storia di giustizia negata, nella quale il personaggio protagonista sente il bisogno di addossare comunque su di sé il carico della colpa, pur essendone relativamente estraneo, e della verità, che intuisce pur non essendo creduto.
Uno degli elementi che colpiscono più a prima vista è la voce narrante: Nonò, che è prima un bambino e poi un adulto. Che personaggio è e dove, nella realtà, hai trovato Nonò, così dolce, tenero e potente?
I personaggi non sono nella realtà. I personaggi appartengono a un mondo all’incrocio tra le esigenze della narrazione, un tono di voce verso cui andare alla ricerca assecondando la lettura di altre narrazioni, specifiche o frutto di felici incontri casuali, di ricordi d’infanzia, di parti di noi, di stati d’animo e, sopra ogni altra cosa, sono il frutto di una grazia impalpabile che, se fossi capace di definire in coscienza, non verrebbe a visitarmi più.
Che ruolo svolge l’isola in questo romanzo e nella tua vita?
L’isola è uno spazio in miniatura che racchiude dinamiche universali, è simbolo di confinamento ma anche di libertà. Sull’isola ogni cosa può essere ambivalente: il mare – ricchezza e pericolo mortale; il cibo – accudimento e asfissia; la fauna – simbolo di eterna rinascita come di fragilità e perdita; la comunità – centro di un controllo sociale asfissiante, sanzionatorio, ma anche sistema di relazioni e di accudimento. Per il protagonista del romanzo – Nonò, Nofriu, Onofrio, a seconda dei diversi periodi in cui si svolge la storia – l’isola è uno spazio in cui si può assecondare un grande bisogno di connessione con la comunità circostante, ma, talvolta, anche di esperire la solitudine, amica necessaria. Anche per me l’isolamento è stato il momento in cui ho potuto trovare la determinazione per scrivere, nei mesi del lockdown, quando ho dovuto sospendere il mio lavoro nel marketing. Per me è stata l’occasione di un reset.
Il libro ha un forte sapore metaletterario, quasi un pretesto per parlare dell’arte della narrazione e di come possa essere anche malleabile, fallace, così come la memoria. È così? Che rapporto esiste tra letteratura e memoria?
Sì, è così. Nofriu è un narratore ferito, che sviluppa il suo racconto intorno a una perdita, a un vuoto, di cui a tratti pare consapevole ma che più spesso si rifiuta di riconoscere. Questo significa negare l’interezza di ciò che è accaduto, e aggrapparsi alla speranza che le cose, a furia di essere raccontate, possano giungere a un finale diverso. Quasi riconoscendo un potere salvifico alla parola stessa. Credo che sia questa fiducia ad accomunare la letteratura e la memoria, e a distinguerla da altre forme di intrattenimento: la letteratura non si può ridurre a un punto di vista univoco, si compone sempre di un conflitto tra le parti. La narrazione non è altro che una selezione delle parti del discorso, che preferendone alcune ne esclude inevitabilmente altre. Anche la memoria si muove sul filo di un simile meccanismo. Questo apre la porta al pericoloso margine di ambiguità di chi si fa custode del passato, della Storia, con la maiuscola. Le storie sono anche di chi è sconfitto, degli esclusi, di chi non può autorappresentarsi.
E in effetti questo discorso di riconfigurazione della verità è confermato dallo stesso Nofriu, il quale stabilisce un parallelo tra la fonte di lavoro della sua famiglia – il padre è uno “sponsaro”, che ripulisce la spugna naturale dei detriti, prima di poterci guadagnare – e il meccanismo attraverso cui con la memoria selezioniamo alcuni dettagli e ne escludiamo altri, per raccontarci una versione del passato meno dolorosa. Per l’organizzazione così complessa dei piani temporali e per i continui giochi tra passato e presente ti sei ispirata ad alcune fonti?
No, al contrario. Questa è la parte del romanzo che a me pare più inedita, una strada stilistica ancora non battuta. Anche rischiosa, come scommessa, dove la posta in gioco è la possibilità di confondere il lettore, di perdere la sua attenzione. La stessa percezione della voce narrante è spesso fraintesa: chi racconta, l’adolescente, l’adulto, più della somma tra i due? Desideravo lasciare al lettore la libertà di percepire lo scorrere degli anni, senza mai dichiaralo esplicitamente, come se anche il tempo fosse un piccolo enigma da risolvere. La pergola di Tina, il cimitero, le calette progressivamente più affollate di turisti, sono tutti luoghi che si trasformano nel corso del romanzo. Anche questo contrasto è voluto: l’isola è un crocevia di persone che vanno e vengono, mentre Nofriu rimane come imprigionato in un eterno presente. Eppure ci sono degli indizi per me inequivocabili del tempo che è trascorso, come quando il “nuovo” maresciallo spiega a Nofriu che suo padre, ammesso che fosse davvero in combutta con lo skipper Surico, non può essere accusato di nulla, perché «per la legge la condizione di defunto è incompatibile con quella d’imputato», o quando, in un rovesciamento del rapporto tra chi accudisce e chi è accudito che ci si aspetterebbe, è il figlio che imbocca la madre Angelina di zuppa di fave, perdendo la pazienza e sgridandola.
In un periodo in cui prevalgono le narrazioni basate su un io ipertrofico, tu scrivi una storia inventata. A pagina 305, sempre assecondando quel discorso metaletterario che porti avanti in tutto il romanzo, scrivi: «le storie sono storie, e se c’entrano con le vite di chi le ha scritte importa poco». Anche se importa poco, ci racconti cosa c’è di te nel romanzo?
Hai ragione, non importa cosa c’è di me. Penso che le storie delle quali non riusciamo a scordarci hanno il dono di dirci qualcosa sul mondo che ancora non sapevamo, o di dirci qualcosa che abbiamo sempre saputo, e dimenticato, con un timbro stilistico fresco. In questo processo è impossibile che l’autore sparisca: lo sguardo di Nonò registra alcuni cortocircuiti del mondo degli adulti che il suo racconto mette in luce come contraddittori, questi dettagli sono io, scrivendo, ad averglieli prestati. E non a lui solo, ma ad Angelina, col suo proto-femminismo, al professor Dalmasso, con il suo sguardo che giudica il meridione e la sua mentalità anti-scientifica, al maresciallo Bonomo e al suo disincanto della prassi, intesa come possibilità di incidere su un reale complesso, intricato, labirintico. Perfino Bruno Surico, con tutta l’avversione che ho cercato di trasmettere a chi legge attraverso lo sguardo sospettoso di Nonò, perfino lui a volte ha finito per incarnare punti di vista e giudizi sul mondo che sono anche miei. In un romanzo corale è limitante sforzarsi di trovare quale parte della storia rispecchi la visione del mondo dell’autore. È l’insieme che la rispecchia; meglio, è il percorso autoriale che si ha (se lo si avrà) la fortuna di intraprendere che costruisce la sua poetica/politica.
È sempre brutto farlo, ma se lo volessimo etichettare, penseremmo al giallo, forse al noir, persino alla storia di un’amicizia/amore estivo tra bambini. Eppure nessuna di queste etichette sarebbe appropriata. Per quanto gli elementi del giallo ci siano tutti, questo è un romanzo che non si lascia imbrigliare facilmente. È un fiume in piena che straripa da ogni margine e chiede libertà. È piuttosto la storia di un trauma e di un senso di colpa. È così? Inizialmente lo avevi partorito proprio come un giallo? Il giallo è un depistaggio?
Tutta la narrativa più interessante “straripa” e “chiede libertà”, come dici tu. Il genere è sempre un pretesto, e se c’è uno steccato, un libro riuscito deve cercare di superarlo, ricontestualizzarlo. L’isola e il tempo è un giallo nella misura in cui ci sono dei morti, delle piste, scienziati e inquirenti all’opera per giungere a una ricostruzione dei fatti. Io non l’ho mai considerato un libro di genere: e d’altra parte tutta la narrativa che mi interessa di più è ibrida, mescola i confini, gioca con sé stessa. In un certo senso il libro è anche un romanzo di formazione, sebbene fallita. L’intensità del rapporto con il personaggio di Mattia, la bambina che, con la sua fragilità e il candore del suo sguardo, insegna a Nonò l’alfabeto dei sentimenti potrebbe renderlo un romance. D’altra parte, io sono uno scrittore femmina, per qualcuno sarebbe una considerazione appropriata.
Interessante è anche l’idea di far parlare il protagonista con diversi interlocutori. Questo mi ha fatto pensare al teatro. Durante la lettura mi è sembrato proprio di avere tra le mani un monologo che poi di volta in volta si trasformava in dialogo con vari interlocutori. Mentre lo si legge pare di ascoltare direttamente Nonò parlare, anche il tono è colloquiale. Non hai pensato ad una trasposizione teatrale?
Non è ancora un progetto a cui qualcuno abbia cominciato a lavorare, ma di certo mi farebbe felice. I miei genitori erano attori per passione, vederli muovere sul palco fin da piccolissima è stato il mio addestramento nella gestione dei dialoghi: senza barriere di genere, anche lì, da Scarpetta a Pirandello a Verga. Il dialetto è una forma espressiva che concede molte libertà: affettive, sociali, etnologiche, ritmiche e musicali. Credo che dipenda da questo l’effetto mesmerico della lettura: il racconto di Nofriu è fatto di descrizioni immaginifiche, in equilibrio tra vividezza e ricordo, ma che ho sempre costruito affidandomi al senso del ritmo, attorno a nuclei sillabici, con un orecchio teso alla parola poetica. Quando scrivo sono immersa in questa ricerca di suono, mi isolo dalla realtà che ho intorno. Conta solo il ritmo da scegliere, la musicalità delle parole, e tutto il resto è distante, come fossi sott’acqua.
E la lingua è davvero un pregio notevole del libro. Grazie alle molteplici parole siciliane e ad una ricchissima proprietà di linguaggio, il lettore riesce a immergersi nella mente di Nonò e ad indossare le sue lenti, quelle che ti permettono di guardare il mondo solo come lo guarda lui e nessun altro. Senza poi parlare di espressioni meravigliose come «i suoi occhi sono colore dei ricci di mare» (p. 11) o «i suoi capelli del color di pozzolana» (p. 24) o ancora «i bei capelli lunghi che hanno il colore delle bacche di lentisco» (p. 37), perché lui conosce quella lingua là, quella dell’isola, del mare. Come hai lavorato sulla lingua?
Credo che lo stile del racconto influenzi i fatti di trama in modo strettissimo: la voce di Nofriu aveva esigenze specifiche, dovendo sottolineare, col suo mutare di tono, lo scorrere degli anni. In un presente che in apparenza tutto livella, si aprono qualche volta degli squarci di consapevolezza che il tempo è passato, con frasi all’imperfetto, al trapassato prossimo. Anche la lingua che ho cercato di costruire nel romanzo è mobile, prova a mescolare continuamente alto e basso, ma la vicenda è ambientata in un contesto molto umile, così frequenti sono i calchi o i prestiti dal dialetto, le varietà regionali, i racconti registrati dalla viva voce degli isolani, la saggezza di proverbi, preghiere, scongiuri, i miei stessi ricordi d’infanzia. Poi c’è la tradizione letteraria che più ho fatto mia: tra i conterranei, Consolo, Sciascia, Bufalino; tra i singoli testi, L’isola di Arturo di Morante, l’Horcynus Orca di D’Arrigo, Conversazione in Sicilia di Vittorini; ho cercato di ricordare l’opera di grandi autrici mai abbastanza lette Ortese, Deledda, Loy, Ramondino, tra le altre.
Si dice spesso che in un libro, soprattutto in un buon libro, ognuno ha il diritto di riconoscersi anche solo in una frase, un passaggio, una parola. Nel tuo libro a me è successo in maniera eclatante a pagina 30, dove ho trovato un’immagine che io applico sempre quando parlo del mio paesino collocato alle pendici degli Appennini. Scrivi: «Il paese era come una casa, una volta: lo sbarcatoio faceva da balcone, la strada grande da corridoio, a destra e a sinistra le camerette, tutte di un piano, con le tende di cannucciato alle porte e un piede di geranio che cresce nelle latte, né scontento né allegro. Cammino per le stanze del paese di quand’ero ragazzino e potrei andarci a occhi chiusi come di notte, tanto lo so a memoria; troverei anche a tentoni la porta per il bagno o il bicchiere sul comodino». I paesi, soprattutto quelli del Mezzogiorno, molte volte li abbandoniamo. Quando lo facciamo ci sentiamo sempre divisi a metà, tra il lì e il qui e si finisce per non ritrovare più la pienezza. Ma anche chi resta, come Nonò, in fondo rimane incompleto. È questo il destino di chi nasce in un piccolo borgo? Che ruolo hanno i paesi nel tuo immaginario?
Il bisogno di mettersi in movimento è un sentimento ben radicato in chiunque nasca al sud. Il paradosso è che oggi assistiamo a un processo di rimozione collettiva: dimenticando di essere stati poveri, dimenticando di essere stati migranti, molti membri dell’attuale classe politica vogliono serrare le porte della mobilità sociale, criminalizzando chi preme alle frontiere, tralasciando di rimuovere gli ostacoli che impediscono di esplorare differenti possibilità di futuro anche a chi non è nato nel migliore degli scenari possibili. Per questo collegamento, credo che l’aver scelto un’isola piccolissima per la narrazione che avevo in testa possa fugare eventuali accuse di retroguardia.
Ho lavorato quasi immediatamente sulla comunità: i paesi sono stratificazioni di dinamiche ancestrali, di cui siamo imbevuti. Peraltro, mi è capitato di vivere ovunque, dalle megalopoli alle frazioni: posso dire che oggi la prospettiva del rapporto centro-periferie è saltata del tutto: la mentalità più provinciale e bigotta è stata fatta propria dai poli di governo, perlomeno in Occidente, mentre nei luoghi più decentrati c’è spesso più spazio, tempo e energie per l’innovazione.
In conclusione, puoi raccontarci quindi qual è il tuo rapporto con la scrittura?
Per molto tempo scrivere, pensare il mondo in termini narrativi, mi è sembrato un modo naturale di essere, una seconda pelle: un vestito che tirava lo stesso, perché il mio modo di concepire la realtà –
testuale, linguistica – qualche volta assomiglia a una prigione. Nelle relazioni, affettive come professionali, mi sono spesso trovata a sovrainvestire energie, o sbaragliata dalla mancanza di risposte di senso credibili, o insoddisfatta dall’assenza di risposte non univoche o banalizzanti a sistemi complessi, inediti. In breve, ho a lungo cercato di riporre la mia capacità immaginativa in contesti che non la volevano. Quando ho avuto – o preso – la possibilità di convogliarla su un progetto di scrittura, ho sentito che l’attrito svaniva, che padroneggiare un universo complesso diventava un divertimento. Lavorare a una storia corale ti fa mettere in scena un teatro di punti di vista opposti, contraddittori. È una sfida, si rischia di essere fraintesi. Ma il rapporto di ascolto che si è creato con tutte le persone che nelle diverse fasi mi hanno dato uno spunto di riflessione, un consiglio di lettura, o indicato una svista, mi ha permesso di definire meglio i miei processi e i miei obiettivi, anche quando questi erano ancora a livello di fragili intuizioni. Scrivere è un atto molto solitario, ma non si può restare soli, scrivendo. La letteratura è un sistema di relazioni.
TESTI CITATI.
Claudia Lanteri, 2024, L’isola e il tempo, Torino, Einaudi.