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DI CASE PIENE E CITTÀ VUOTE. Indagine letteraria sui luoghi che abitiamo

di Maila Cavaliere

Sono tornata nella casetta al mare due anni dopo la morte di mio padre. Di quella breve visita ricordo il freddo umido e pungente e la sensazione di vita sospesa. Un atto lievemente distopico. Come se gli echi di un passato lontano dovessero manifestarsi in quelle stanze da un momento all’altro.

Vedevo me bambina attraversare il piccolo soggiorno, girare intorno al tavolo tondo, in braghe corte e canottiera, o solo in pantaloncini, senza maglietta, quando non conoscevo ancora il senso del pudore per la nudità, la pelle arsa dal sole e la pipì trattenuta fino all’ultimo per non rimandare il tempo del gioco. Mia madre stava lì, con un prendisole chiaro, a piegare i panni raccolti prima che la canicola di agosto li indurisse come carta.

Quella casa ancora oggi resta per me lo scenario di tanti sogni.

A nessun altra casa sono riuscita ad affezionarmi, nemmeno alla prima abitazione da sposata, la prima che sia stata mia. Avverto una distanza tra gli ambienti che abito e la vita, contenitori vuoti a cui non affido mai la parte più intima di me.

Da bambina cantavo le canzoni che sentivano i grandi della famiglia. Tra queste c’era Casa mia dell’Equipe ’84. Diceva: dopo tanti mesi di lavoro / mi riposerò / dietro quella porta / le mie cose io ritroverò / la mia lingua sentirò / quel che dico capirò . Non mi ha mai convinto del tutto, nemmeno da bambina, perciò quando un libro o una canzone parlano di casa mi aspetto sempre un sottotesto, un segreto, il cigolio di una porta nascosta.

Da sempre una certa letteratura trova nella casa l’ambientazione ideale, esercitando la curiosità morbosa e voyeuristica verso certi intérieur nei quali si consumano storie, drammi ed esistenze.

Anche di recente, lungi dall’esaurire nel perimetro delle pareti domestiche una narrazione intima, dai tratti autobiografici, la casa incarna sovente il luogo dell’inquietante consapevolezza che da nido, può diventare, per i suoi abitanti, incubo e prigione e che i mostri non sono poi così diversi da noi e nemmeno tanto lontani. È ciò che accade nel romanzo di Antonella Lattanzi Questo giorno che incombe (Harper Collins 2021). La matrice gotica di ispirazione ottocentesca, unitamente a una sottile indagine psicologica contaminano la narrazione, sbreccando la solidità dei riferimenti razionali e le certezze della mentalità comune.

Il dispositivo letterario della casa stregata torna dal passato delle storie di Henry James, per esempio, a contaminare ilmicrocosmo intimo della protagonista de L’altra casa di Simona Vinci (Einaudi Stile Libero, 2021) e funge da aggregante di paure, solitudini, analisi, rispecchiamenti.

Il racconto della casa esercita anche la sottile seduzione del non detto. È quanto accade nel romanzo La porta di Magda Szabò , (scritto nel 1987 e ripubblicato da Einaudi nel  2005) in cui lo straordinario personaggio di Emerenc, l’anziana e scontrosa domestica della protagonista, delinea il labile confine tra ciò che è pubblico e ciò che è privato, tra come si è e come ci si mostra agli altri.

Dietro la porta_ titolo peraltro di un romanzo di Giorgio Bassani del ‘64 ma anche di una canzone di Cristiano De André del ’93_si aprono scenari immaginati o inimmaginabili, capaci di allargare prospettive con un blow up narrativo o di provocare, nel lettore accorto, anamorfosi e cadenze d’inganno.

Ne La casa delle madri e La casa del mago, per citare i romanzi di Daniele Petruccioli ( Terrarossa, 2021) e di Emanuele Trevi (Ponte alle grazie, 2023) le case sono luoghi cari e magici dove generazioni si inseguono e si rincorrono, in un dialogo costante tra vivi e morti, tra vissuto e inconscio e in una tensione continua tra fuga e avvicinamento.

La soglia di casa è insieme l’intrigante via d’accesso alle esistenze altrui e un gioco del rovescio con cui, guardando dentro, si può, se non comprendere, almeno intuire il mistero del fuori. Della mia casetta al mare, forse non a caso, lo spazio che preferivo era la veranda. Era un altrove prossimo, fuori ma non troppo, un luogo di passaggi e contropassaggi da cui era facile ritrarsi come una lumaca nel guscio, quasi incastrata nell’angolo interno su una sdraio reclinabile in stoffa, per non essere vista da chi veniva dal lato sinistro della strada.

Nei più recenti processi di rappresentazione e comunicazione narratologici mi pare di avvertire un sostanziale allargamento dell’inquadratura, un’incursione nel campo lungo e lunghissimo del quartiere e della città.

In questa attuale tendenza letteraria, le storie degli uomini che abitano i luoghi, che pure sono spesso collocate in primo piano, sono il portato di una relazione più ampia e spesso disfunzionale con la città e i luoghi circostanti.

“E so che la città/ vuota mi sembrerà/ se non torni tu” così cantava Mina in Città Vuota e metteva in scena il tema terribilmente letterario della solitudine, dell’inutilità della folla e di ogni struttura urbanistica, quando il nostro stato d’animo è talmente compreso nel suo dolore da non vedere intorno a sé null’altro.

Per un’ iperbole solipsistica, esiste una letteratura di qualche decennio fa che ha messo in scena l’assenza umana, la sua scomparsa, come segno tangibile di una difficoltà di collocazione in ruoli riconosciuti o in relazioni reciproche.

Quando l’umanità sparisce, (e sparisce davvero, dopo che il protagonista aspirante suicida, decide di ripensarci e tornare indietro) cosa rimane di lei oltre agli oggetti? È forse questa la domanda principale che pone il romanzo di Guido Morselli Dissipatio H.G., ( 1973) scritto pochi mesi prima che il suo autore scegliesse veramente di porre fine alla propria vita, e forse anche a causa dei ripetuti rifiuti editoriali e di una vita vissuta sempre al margine.

E quando tra noi e il resto dell’umanità si frappone un muro invalicabile che impedisce ogni comunicazione, ogni contatto, chi si accorge davvero della nostra assenza? Cosa resta di noi e quanto possiamo fare a meno degli altri?

Se lo chiede l’autrice austriaca Marlene Haushofer nel romanzo La parete (1963), distopica rappresentazione di una vita improvvisamente separata dal resto del mondo a causa di una parete trasparente e invalicabile.

Che sia l’umanità a dissiparsi o la protagonista a non poter più avere alcun contatto con gli altri, il paesaggio intorno, in queste due storie, non è vittima di nessun evento catastrofico, la natura, anzi, fatta eccezione per alcuni relitti fonico-visivi, uniche traccedi chiara matrice umana, appare rigogliosa e  intatta, libera da ogni vincolo o soggezione urbana e antropica. Appare evidente come ogni decisione o stato d’animo umano sia fortemente legato al gruppo, alla collettività e il fulcro della riflessione scaturita da queste letture abbia a che fare con il senso della vita all’interno di una anomala socialità, di un’umanità guasta. Scrive Morselli: “il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo.”E Haushofer sembra fargli eco. “ Era meglio distogliere i pensieri dagli uomini. Il grande gioco del sole, della luna e delle stelle sembrava riuscito, difatti non era stato inventato dagli uomini”, in una sorta di materialismo e di meccanicismo senza finalità, tanto simile al pessimismo leopardiano del Dialogo della Natura e di un islandese.

E a che serve, a questo punto, esistere, identificarsi con la propria casa o uno spazio definito se gli altri si dimenticano presto di noi o, nemmeno da vivi, ci considerano o danno valore ai nostri sentimenti e ai nostri talenti?

L’invenzione di Morel, romanzo psico-fantascientifico di Adolfo Bioy Casares, amico fraterno di Borges, pubblicato per la prima volta nel 1940, interroga proprio la nostra paura della morte e il terrore di rimanere invisibili agli altri. Morel è un inventore e ha creato una macchina capace di replicare immagini e ricordi. Grazie alla sua invenzione ologrammi eterni di uomini e donne popolano un’isola sperduta e deserta su cui approda il protagonista, un fuggiasco.

La strana compagnia di questi esseri virtuali che non lo possono vedere è inaccettabile per l’uomo, come è insopportabile, per ognuno di noi, rimanere escluso dalla considerazione degli altri. Ma l’indifferenza prima e la morte poi corrompono tutto. L’eternità, come si potrà concludere, appartiene solo alla scrittura.

In questo strano tempo, la casa non è più soltanto filtro di un altrove degradato, né fortezza Bastiani che affaccia sul deserto e nemmeno luogo di inquietudini amplificate dal lessico famigliare. Nella raccolta di racconti che compongono L’ubicazione del bene (Einaudi, 2009) per Giorgio Falco la casa di proprietà è il desiderio medio della gente comune, un onesto compromesso tra aspirazioni abortite e fallimenti conclamati, sintesi perfetta di una sconfitta umana che dirotta su obiettivi alla  propria portata gli abusi della vita.

Giorgio Falco dissezione con ferocia i tratti della provincia italiana, che si allontana dalla città caotica e tentacolare ma trasferisce i suoi abitanti in una zona grigia di solitudine e incomunicabilità in cui, quando va bene, il tempo è fagocitato da lavoro e pendolarismo e dove, quando va male, si consumano silenziose tragedie e immani disfatte.

Il lettore ben presto coglie lo scivolamento di significato del lemma: “ bene”, inteso come puro oggetto catastale e non come concetto immateriale ed etico e si sente stanato.

Per l’incauto capriccio di possedere un immobile, ci si impaluda in un drammatico status quo dell’anima, cedendo il passo all’unico bene che ci riteniamo, a torto, in grado di gestire.

Nessun fuoco sacro brucia più negli abitanti dell’immaginaria frazione di Cortesforza se non quello che, per effetto di una esaltazione collettiva, spinge milioni di persone ad accendere mutui pluridecennali. L’ho fatto anch’io per una serie di ragioni oggettivamente opinabili che Falco ti sbatte in faccia, riuscendo a farti assomigliare ai personaggi angoscianti dei suoi racconti, a farsi sentire addosso l’odore del disinfestante a basa di piretro.

La casetta al mare, invece, ha sempre lo stesso odore: quello del sale che si mangia la pelle e anche i muri. Sale dalle narici, ti invade e mette i brividi. Forse perché ha l’odore dei ricordi e quello si fa più penetrante man mano che te ne allontani. L’ubicazione di quel bene è sempre la stessa ma quella, da un po’, non è più casa mia.

In Narrazioni

Il dono di sapersi ritrarre con te

di Maila Cavaliere

Mi sono avvicinata alla scrittura di Tommaso Pincio leggendo il suo Diario di un’estate marziana, finalista al Campiello, pubblicato da Giulio Perrone editore. Ho amato molto quel libro. L’ho trovato un incontro diacronico e lievemente distopico tra due intellettuali poco irregimentati (Pincio, che lo ha scritto, e Flaiano a cui il libro è dedicato) in una Roma provvisoria, insidiosa e traballante. Poi, come mi succede non di rado, sono accadute strane coincidenze che sembravano proprio volermi accompagnare alla scoperta di questo autore. Rileggendo il libro di Emanuele Trevi, Senza verso. Un’estate a Roma, per esempio, e rileggere non è una pratica usuale, nel mio compulsivo esercizio della lettura come processo accumulativo, vi ho trovato con sorpresa dei riferimenti a Tommaso Pincio e alla minuscola casa che abitava, per esempio.

 Quasi di fronte al civico 15 di via Tasso, oggi ingresso del Museo Storico della Liberazione di Roma, si affaccia la finestra della casa di un altro amico, una casa di piccolezza ormai leggendaria, tanto più che M.C., in arte Tommaso Pincio, non ama particolarmente le visite, e vivendo al primo piano può conversare facilmente alla finestra, sporgendosi un poco come il cucù di un orologio artigianale. Lo si può spesso incontrare mentre arranca verso casa in bicicletta su per via Boiardo_ sembra sempre sul punto di rimanerci stecchito, e invece ce la fa sempre. Nella sua minuscola casa M.C., in arte Tommaso Pincio, e Bart Simpson sul citofono, a ulteriore confusione dei suoi simili, ha composto un libro molto breve intitolato Lo spazio sfinito, una specie di romanzo i cui protagonisti si chiamano Jack Kerouac e Marilyn Monroe, ma non hanno niente a che vedere con il Kerouac e la Marilyn Monroe di cui tutti sanno, sono semplicemente omonimi.

E allora, a parte la curiosità che monta per la mini casa e per il libro di personaggi e universi paralleli, compresi i nomi d’arte e sui citofoni, nella mia continua ricerca di senso dico: -“È un segno.”

Di lì a poco vengo a sapere dell’uscita del nuovo numero della rivista LINKIESTA curata da Nadia Terranova. Contiene, tra gli altri, un racconto di Pincio. Lo compro. E leggo il racconto intitolato Una magia oscura e atroce. L’autore si propone, nel testo, di ricostruire anche il suo “lungo e irrisolto rapporto con la fotografia”.

E ci riporta al tempo apparentemente antico delle fotografie ignare, attese, immaginate che, tra lo scatto e la luce, attraversavano il giogo tremendo e lungo dello sviluppo del rullino, quella magia oscura e atroce, appunto, che fermava il tempo e imprimeva la vita o, forse, la predava.

La lettura di questo racconto e di un post precedente che lo aveva, in un certo senso, introdotto, in cui Pincio raccontava il fatale passaggio, nel mondo contemporaneo, dall’ incantato al magico, in una inesorabile traduzione semplificata in cui tutto sembra accadere facilmente e senza sforzo, mi ha fatto venire in mente numerose suggestioni letterarie dei miei anni di Università che sono tornate su come un reflusso notturno in un incontinente cardiale.

Lo dico con nostalgia, e non con amarezza, per ciò che ho abbandonato, per gli anni trascorsi a fare così tante altre cose collaterali. Così dopo la lettura in tarda serata di Una magia lunga e atroce, forse anche per i luccichii della K in copertina, ho sognato Michel Tournier, tra le mie letture per la tesi di laurea sul Doppio, la sua goccia d’oro e i suoi pastori berberi vampirizzati dalla fotografia ma anche Roland Barthes e il ruolo inquietante e divino che attribuiva al dagherrotipo. 

Dico: -“ È un segno.”

Allora decido che è tempo di approfondire meglio la “questione Pincio” e mi metto a leggere con interesse ed entusiasmo Il dono di saper vivere,un libro diverso dal solito, dove, non in un racconto di sé, non in una biografia (del Caravaggio), non in un romanzo, non in un saggio, Tommaso Pincio fa raccontare la storia a un narratore che dal carcere si interroga se anche a lui, come al Gran Balordo,artista maledetto, e in fondo a tutti noi, difetti il dono di saper vivere.

E mentre mi viene in mente Gesualdo Bufalino de Le menzogne della notte e i suoi condannati, sospesi in un tempo immobile e bugiardo, voci di luoghi ipertestuali, a un certo punto leggo ne Il dono di saper vivere: Scopo dell’arte è vampirizzare il mondo. Gli artisti sono il suo esercito di succhia sangue e sognano tutti l’inestinzione. 

Ho un sussulto. Mi torna in mente la fotografia, quella magia oscura e atroce di cui avevo letto e che aveva provocato il ritorno acido e incontrollato delle antiche (sic!) letture universitarie di Barthes e Tournier e il profilo armonico della scrittura di Bufalino che cuce con sapienza passati e presenti.  E penso: _” Accidenti, è un segno”.

E mentre ormai sono persuasa che questo autore è proprio nelle mie corde e mi convinco che esista una trama sottilissima e invisibile che conduce inesorabilmente all’incontro con una certa letteratura in un determinato tempo e non in un altro qualsiasi, proprio quando serve a incidere quel solco nelle nostre vite, proprio quando serve entrare a gamba tesa nella fumosa idea di mondo che intendiamo rendere meno opaca, mi imbatto in un passaggio che mi lascia senza parole:

“Dio, quanto non sopporto la sciocca mania di vedere segni nelle cose. Una degenerazione tutta umana”. 

E io continuo a vederne, degenerata che non sono altra.  Ditemi se non è un segno, questo!

A questo punto il mio senso per i libri, acuito dall’eccitazione della singolare ricerca, opta, nel recupero à rebours dell’universo narrativo di Tommaso Pincio, per la lettura di Un amore dell’altro mondo,uscito per Einaudi nel 2002 e ripubblicato nel 2014 con una nota in postfazione dello stesso autore.

Occorre dire in premessa- e non per rendervi edotti dei fatti miei che immagino quanto poco possano interessarvi- che in questo particolare periodo della mia vita, mi sono avvicinata alle regole e alle deroghe della scrittura del sé in un percorso personale di metalessi e mise en abyme. Ne ho tratto un’idea meno ingenua e più ampia delle possibilità della scrittura autobiografica, dell’uso della voce e della persona, che non deve essere necessariamente la prima e che non racconta per forza la verità ma solamente la verità della storia.

Potete perciò comprendere quello che ho provato quando, dopo aver letto un libro singolare in cui Kurt Kobain, il suo amico immaginario, il suo amore, l’insonnia, le droghe e la disperazione si intrecciano magistralmente, a pag. 317 della nuova edizione, Tommaso Pincio scrive con una chiarezza e una sintesi di cristallina e disarmante bellezza che si fa vera e propria dichiarazione di poetica:

Molti dei fatti narrati in questo romanzo appartengono al dominio esclusivo della finzione o sono stati alterati in misura tale da non rappresentare alcuna verità biografica, semmai esiste qualcosa del genere. […] Per farla breve questa è una tipica opera di mescolamento di realtà e finzione, ovvero l’effetto di un’attitudine che ad alcuni potrà anche sembrare disdicevole ma che è comunque vecchia quanto la civiltà umana. […] Volevo cioè che il lettore sentisse che la sua storia, o meglio la storia che sente sua o perché crede di conoscerla o perché l’ha già letta altrove, fosse profanata, disturbata dalla presenza di un intruso.

Tutto ciò mi impone di non segnare un preciso confine tra la terra che ho inventato e quella a cui ho attinto […] Reale o fittizia che sia, la scrittura di un romanzo comporta sempre uno stato di allucinazione ed empatica esaltazione nel quale è molto facile perdersi e dove il confine che separa la realtà condivisa dal mondo da tutto il resto è un limite confuso e sdrucciolevole.

La formula della “non rappresentazione di una verità biografica” riverbera facilmente l’ “autobiografia di fatti non accaduti “ della scrittura di Walter Siti tesa a minare l’indifferenza del lettorema si collega chiaramente alla letteratura intesa come menzogna, secondo l’idea di Giorgio Manganelli e ancora a Gesualdo Bufalino che precettava animatamente :

“Siano le sentenze che scrivi categoriche e inattendibili a un tempo. Piuttosto soprusi di romanziere che presunzioni di verità”.

Nella scrittura di Tommaso Pincio, tra contaminazioni e suggestioni fantastiche, attriti di generi, originali rispecchiamenti, il fine intreccio tra ordito pittorico e trama letteraria, dove il primo “si ritrae” (nella doppia accezione del termine) e la seconda sopraggiunge a sostenere col segno grafico la parziale rinuncia a dipingere con i pennelli, tout se tient, avrebbe detto Ferdinand de Saussure (o forse, il suo allievo Meillet) che, ora che ci penso, ha indagato a fondo significante e significato e dunque, signori, il segno!

Bibliografia minima

Tommaso Pincio, Diario di un’estate marziana, Giulio Perrone editore, 2023

Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere,  Einaudi Stile Libero, 2018

Tommaso Pincio, Un amore dell’altro mondo, Einaudi Stile Libero, 2002 e 2014

Walter Siti, Troppi paradisi, Einaudi, 2008

Francesca Giglio, Una autobiografia di fatti non accaduti. La narrativa di Walter Siti,Stilo Editrice, 2008

Emanuele Trevi, Senza verso. Un’estate a Roma, Laterza, 2004

Giorgio Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi, 2004

Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte, Bompiani, 1997

Roland Barthes, La camera chiara, (La chambre claire) Piccola biblioteca Einaudi, 2003 ( prima ed. 1997)

Michel Tournier, La goccia d’oro, (La goutte d’or) Garzanti, 2011 (prima ed. 1995)

Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, (prima ed. ital. ) Laterza, 1971 AA.VV (a cura di Nadia Terranova), Linkiesta vol. 6, 2023

In Thema di Berio

A CHRISTMAS GIFT FOR YOU FROM PHIL SPECTOR. 60 ANNI DI RIVOLUZIONE POP – IV e ultima parte

di Alessandro Ciniero

Struttura 

“A Christmas Gift For You” è composto da 13 canzoni, delle quali 12 sono cover di brani storici (composti tra il 1818 e il 1952), più una canzone originale composta da Jeff Barry, Ellie Greenwich e Phil Spector dal titolo “Christmas (Baby Please Come Home)”. 

La tracklist è la seguente:

No.Song TitleArtist
1White ChristmasDarlene Love
2Frosty the SnowmanThe Ronettes
3The Bells of St. Mary’sBob B. Soxx & the Blue Jeans
4Santa Claus Is Coming to TownThe Crystals
5Sleigh RideThe Ronettes
6Marshmallow WorldDarlene Love
7I Saw Mommy Kissing Santa ClausThe Ronettes
8Rudolph the Red-Nosed ReindeerThe Crystals
9Winter WonderlandDarlene Love
10Parade of the Wooden SoldiersThe Crystals
11Christmas (Baby Please Come Home)Darlene Love
12Here Comes Santa ClausBob B. Soxx & the Blue Jeans
13Silent NightPhil Spector and Artists

Commento soggettivo

Immaginate di essere a casa coi parenti la vigilia di Natale. Manca un’ora al cenone. Decidete di mettere un disco natalizio, per questa volta non optate per Michael Bublé. 

“White Christmas” inizia e per la prima volta sentite un backbeat dietro che spinge i fiati a ritmo R&B mentre la voce di Darlene Love si staglia sopra. Tocchi di archi qua e là e campanelle non fanno perdere l’atmosfera natalizia. Non si ha il tempo di capire che sta succedendo quando parte “Frosty the Snowman”. Una batteria roboante, shakers e sonagli non danno tregua, contrastando la dolcezza del pizzicato dei violini e la voce suadente di Ronnie Bennett. Quattro rintocchi di campane ecclesiastiche annunciano “The Bells of St. Mary’s”, il Wall of Sound non fa comprendere cosa sta accadendo là sotto ma sviluppa pian piano la canzone fino all’incredibile climax dove la voce di Bobby Sheen si unisce a quella di Darlene Love, quei fill di batteria ti fanno pulsare l’anima. Un intro parlato di Dolores Brooks che riferisce ad un certo figliolo Jimmy di aver parlato con Babbo Natale e parte “Santa Claus Is Coming to Town” con un assolo formidabile di sassofono e giostrando tra percussioni, giocattoli, pianoforti, tutti che gioiscono con te per l’arrivo del Natale. “Sleigh Ride” usa le percussioni per ricreare il galoppo delle renne mentre i fiati e gli archi vanno in contrappunto. Dopo questo viaggio, un quartetto di archi introduce “Marshmallow World” con due assoli (sax e trombe) e la backing track che parte, si ferma, riparte e con essa il tuo cuore. Dopo aver udito un bacio proibito, “I Saw Mommy Kissing Santa Claus” segue un ritmo quasi da marcia militare mentre Ronnie non si capacita di aver visto sua madre baciare Babbo Natale. Una chitarra doppiata introduce “Rudolph the Red-Nosed Reindeer”, un’opera drammatica a suon di nacchere e timpani. I cori creano una profondità incredibile (tutto in mono). Un intro memorabile apre “Winter Wonderland” con quel basso che viene rinforzato dalle campane tubolari e il piano che risponde melodicamente. Il legato degli archi si mescola col pizzicato mentre tu sei stravaccato sul divano a mangiare l’ennesimo pezzo di torrone. Un’altra marcia militare “Parade of the Wooden Soldiers” con squilli di trombe, uno start and stop che nemmeno le auto moderne hanno, woodblock che richiamano ai soldatini di legno. Tutte queste canzoni già trascorse sono in realtà una preparazione psicologica al capolavoro dell’album. “Christmas (Baby Please Come Home)” è semplicemente incredibile, Darlene Love aspetta il ritorno messianico del suo amato la notte di Natale, un dramma che si consuma in tre minuti e ti porta in alto nel paradiso con un climax da brividi dove pure Leon Russell non si contiene più e picchia i tasti del pianoforte fino a svenire. Non sapete quante volte ho pianto dopo aver sentito questa traccia. Il miracolo si compie, nulla è più come prima. “Here Comes Santa Claus” rassicura l’ascoltatore facendolo tornare sulla Terra rinato. Infine il commiato “Silent Night” dove Phil Spector ringrazia gli ascoltatori e gli augura un buon Natale e felice anno nuovo mentre i cori angelici creano un’atmosfera religiosa e contemplativa.

Impatto ed eredità

Basta ascoltare “All I Want For Christmas Is You” di Mariah Carey per osservare quanto questo disco abbia impattato. La traccia può essere considerata come il più grande omaggio a “A Christmas Gift For You”; la produzione è un Wall of Sound aggiornato agli anni ‘90. 

Ascoltando musica natalizia registrata dopo il 1963, ho notato come gli stili di produzione sono principalmente due: uno che richiama allo swing dei crooner (Bing Crosby, Frank Sinatra, Dean Martin, Michael Bublé) e uno pop-rock nato sostanzialmente con quest’album, diventando un classico ed entrando ogni anno in classifica negli Stati Uniti (posizione no.8 della Billboard 200 nel 2022).

Un altro aspetto da notare consiste nel fatto che “A Christmas Gift For You” è un producer album, un disco non di un artista ma di un produttore che sfoggia i suoi artisti della sua etichetta. Una assoluta novità all’epoca che è diventata pratica comune nella musica contemporanea fatta di produttori-artisti come Phil Spector: alcuni esempi sono “OBE” di MACE e “Produced by Charlie Charles” di Charlie Charles.

Le canzoni più popolari sono “Sleigh Ride” e “Christmas (Baby Please Come Home)”, quest’ultima diventata uno standard a tutti gli effetti a partire dagli anni ‘80. 

Lo stesso Spector co-produsse un’altra leggendaria canzone natalizia: “Happy Xmas (War is Over)” di John Lennon nel 1971. Anche in questo caso, il successo non fu immediato ma postumo. 

Concludo con una frase di Francesco Paolo Ferrotti :”[] forse possiamo immaginare quale sarebbe stato l’impatto se ‘A Christmas Gift For You’ avesse avuto a suo tempo la promozione ed il successo che meritava. Eppure, se fosse andata diversamente, forse oggi non ne parleremmo come di un album magicamente fuori dal tempo, protagonista di uno tra i più leggendari capitoli della storia del rock.”

Conclusione

60 anni dopo la rivoluzione, Cher ha rilasciato il suo primo album natalizio dal titolo “Christmas” debuttando alla posizione 32 della classifica americana. Tra le tracce dell’album c’è “Christmas (Baby Please Come Home)” duettata con Darlene Love. Immaginate queste due ragazzine cantare insieme nel 1963 una canzone nuova, non avendo idea della portata leggendaria che le avrebbe consegnate alla storia. Ora, nel 2023, la ricantano con tutto il peso delle lore vite, in un mondo che cambia ad una velocità disarmante, dove la musica che conta le ha assegnate all’immortalità. 

Grazie a tutti quelli che hanno sopportato le mie fisse su Phil Spector e che sono arrivati fin qui. Buon Natale e felice anno nuovo!

Link utili

Ascolto dell’album su Spotify

https://open.spotify.com/intl-it/album/2kzkwgOFAtRsDsas5Hi0Qu?si=l1X8OttqQkeo4FRYhjv-gA

Ascolto delle sessions 

PHIL SPECTOR / RONETTES – FROSTY & SLEIGH RIDE strings overdub

PHIL SPECTOR  – SANTA CLAUS IS COMING TO TOWN session

Interviste sull’album natalizio

Phil Spector Interview In 1972 Talking About His Christmas Album

DARLENE LOVE remembers the 1963 Philles Christmas recording sessions at Gold Star Studios.

The Wrecking Crew: Phil Spector

In Thema di Berio

A CHRISTMAS GIFT FOR YOU FROM PHIL SPECTOR. 60 ANNI DI RIVOLUZIONE POP – III parte

di Alessandro Ciniero

Registrazione e pubblicazione
Una volta radunati tutti quanti, Phil Spector prenotò lo studio A dei Gold Star Studios a Los Angeles, i suoi studi di registrazione preferiti. La tecnologia all’epoca comprendeva una console di missaggio con 12 input e EQ, delay, un registratore a nastro a 3 tracce Ampex 350 e le celeberrime camere di riverberazione che Phil amava molto. 
Le sessioni di registrazione durarono due mesi, una follia pensando che il primo album dei Beatles, uscito quello stesso anno, fu registrato in un solo giorno. Inoltre ebbe un costo che si aggirava intorno ai 50000 $ (502730 $ nel 2023), una cifra esorbitante da investire in un album all’epoca. 
Inoltre il tutto avveniva tra Agosto e Settembre, nella piena estate californiana. Spector, amante del freddo newyorkese, teneva accesa l’aria condizionata in studio tutto il tempo. 
Leggendo e ascoltando varie interviste di chi ha partecipato alla realizzazione del disco si può notare come le sessioni siano state molto faticose, grazie anche all’estremo perfezionismo di Spector e della sua riluttanza a dare pause (per evitare che i microfoni venissero spostati). Larry Levine :” L’album natalizio è un periodo che non ricordo con piacere. Lavoravo 15-16 ore al giorno ogni giorno”.
Dolores Brooks :”Iniziavo alle 13 e finivo all’1 di notte; all’epoca avevo 16 anni, poteva essere considerato sfruttamento minorile”. Cher :”Stavamo sempre in studio. Tornavo a casa per farmi una doccia e dormire per poi ritornare. Mi chiedevo -Come fanno tutte queste persone più anziane di me a reggere?!-”. 
Darlene Love:” Nonostante eravamo stremati, il disco possiede un’energia incredibile”.
Brian Wilson, compositore e leader dei Beach Boys, tentò di partecipare alle registrazioni, suonando il pianoforte in “Santa Claus Is Coming To Town” ma la performance non venne giudicata positivamente da Spector.
“A Christmas Gift For You” venne rilasciato il 22 novembre 1963. Al primo colpo, questa data può sembrare insignificante, specialmente per gli italiani. Tuttavia, quello stesso giorno, il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy venne ucciso a Dallas con due colpi di fucile da Lee Harvey Oswald. L’intera nazione entrò in lutto ed i festeggiamenti natalizi furono annullati. L’album vendette pochissimo e lo stesso Phil Spector, poco dopo, lo ritirò dal mercato. 
L’insuccesso dell’album fu il primo colpo d’arresto all’incredibile ascesa di Phil Spector nell’industria discografica. Un secondo colpo più potente arrivò nel 1966 quando il singolo “River Deep-Mountain High” con Ike & Tina Turner, da lui prodotto, fu flop in America, inducendo Phil Spector a chiudere la Philles Records e a ritirarsi temporaneamente all’età di 26 anni. 
Nonostante ciò, “A Christmas Gift For You” iniziò ad essere sempre più richiesto dalle radio e acquisì un status di leggenda tale che venne ristampato dalla Apple Records nel 1972 con il titolo “Phil Spector’s Christmas Album” e ottenendo finalmente il successo che meritava.
Guida all’ascolto
“È possibile trattare dodici canzoni natalizie con la stessa emozione del materiale pop originale di oggi, cantate da quattro dei più grandi artisti pop del paese, prodotte con lo stesso sentimento e suono che si trova nei singoli di successo di questi artisti, senza perdere per un momento il sentimento del Natale e senza distruggere o invadere la sensibilità e la bellezza che circonda tutta la grande musica natalizia? Fino ad oggi, forse no!” 
(“Can twelve Christmas songs be treated with the same excitement as is the original pop material of today, sung by four of the greatest pop artists in the country, produced with the same feeling and sound that is found on the hit singles of these artists, without losing for a moment the feeling of Christmas and without destroying or invading the sensitivity and the beauty that surrounds all of the great Christmas music? Until now, perhaps not!”)
Mai tali parole, scritte da Phil Spector sul retro della copertina del disco, furono tanto azzeccate per esprimere l’obiettivo e la grandezza dell’album. 

Wall of Sound
Precedentemente, ho accennato diverse volte ad un sound distintivo di Phil Spector, parte integrante della sua innovazione, rivoluzione e successo musicale. Tale stile di produzione è stato denominato “Wall of Sound”; in questo paragrafo cercherò di spiegarlo brevemente in maniera esaustiva.
Phil Spector era amante del jazz, del rock ‘n’ roll e di Richard Wagner. Le opere di Wagner sono caratterizzate da complesse texture musicali, orchestrazione e armonie opulente volte a raggiungere un’emozione intensa secondo la sua teoria del “Gesamtkunstwerk” (opera d’arte totale). Inoltre, esse hanno una durata che si estende per diverse ore.
Spector aveva una media di tre minuti per riuscire a raggiungere quella stessa emozione nelle sue canzoni. L’obiettivo era di sfruttare le possibilità sonore e tecnologiche dello studio di registrazione (inteso fino a quel momento come un mero ambiente dove registrare una performance) per creare una inusuale densità e profondità sonora propria della musica sinfonica classica applicata al pop. 
Spector spiegò in un’intervista nel 1964 :”Stavo cercando un sound, un sound così potente che se il materiale non fosse stato il migliore, il sound avrebbe trascinato il disco. Era un caso di aggiungere, aumentare. Tutto è incastrato insieme come un puzzle” (“I was looking for a sound, a sound so strong that if the material was not the greatest, the sound would carry the record. It was a case of augmenting, augmenting. It all fits together like a jigsaw.”)
Egli stesso lo definì come “un approccio Wagneriano al rock ‘n’ roll, piccole sinfonie per adolescenti”. Per ottenere il Wall of Sound, gli arrangiamenti di Spector richiedevano grandi ensemble (compresi alcuni strumenti non generalmente utilizzati per suonare in gruppo, come le chitarre elettriche e acustiche), con strumenti multipli che raddoppiavano o triplicavano molte delle parti per creare un tono più pieno e ricco. Ad esempio, Spector spesso duplicava una parte suonata da un pianoforte acustico con un pianoforte elettrico e un clavicembalo. Mixati in un certo modo, i tre strumenti sarebbero stati indistinguibili per l’ascoltatore. 
Tra le altre caratteristiche del sound, Spector incorporò una serie di strumenti orchestrali (archi, fiati, ottoni e percussioni) non precedentemente associati alla musica pop giovanile. Il riverbero delle echo chambers viene utilizzato per incrementare la profondità dei vari layer sonori e creare consistenza. 
La complessità della tecnica non aveva precedenti nel campo della produzione sonora per la musica popolare. Secondo Brian Wilson, leader dei Beach Boys, che utilizzò ampiamente la formula: “Negli anni ’40 e ’50, gli arrangiamenti erano considerati ‘OK qui, ascolta quel corno francese’ o ‘ascolta questa sezione d’archi ora’. Era tutto un suono definito. Non c’erano combinazioni di suoni e, con l’avvento di Phil Spector, abbiamo trovato combinazioni di suoni, le quali – scientificamente parlando – sono un aspetto incredibile della produzione sonora”.
Il master finale delle canzoni era creato per avere la massima resa tramite le casse delle radio AM, dei jukebox e delle automobili, le quali possiedevano una limitata risposta in frequenza concentrata nella banda delle medie. 
Le tracce erano in mono poichè Phil Spector credeva che lo stereo avrebbe sconvolto quell’equilibrio del mix, riducendo l’impatto sonoro. La stereofonia era ancora agli albori in quegli anni. 
La portata di rinnovamento che caratterizzò il Wall of Sound non fu accettata subito nell’ambiente dei produttori e degli ingegneri del suono. Tuttora, nell’industria musicale, ha una folta schiera di detrattori, grazie anche al paradigma “less is more” che si è imposto come trend nelle produzioni musicali e nel mondo artistico in generale. 
Tuttavia, la sua influenza continua a pervadere il pop e il rock e di ciò parleremo nel capitolo successivo

In Thema di Berio

A CHRISTMAS GIFT FOR YOU FROM PHIL SPECTOR. 60 ANNI DI RIVOLUZIONE POP – II parte

di Alessandro Ciniero

Jack Nitzsche
Jack Nitzsche è stato un prolifico compositore, arrangiatore e produttore musicale americano, nato nel 1937 e deceduto nel 2000. È stato coinvolto in una vasta gamma di progetti musicali durante la sua carriera, spaziando dalla composizione di colonne sonore per film alla collaborazione con famosi artisti del rock.Ha lavorato per la Philles Records, arrangiando quasi tutte le produzioni di Phil Spector, contribuendo a sviluppare il suo sound. 
Tra le sue opere più note, ci sono le colonne sonore di film come “One Flew Over the Cuckoo’s Nest” (Qualcuno volò sul nido del cuculo) e “An Officer and a Gentleman” (Ufficiale e gentiluomo). Ha lavorato spesso con Neil Young e ha suonato la tastiera nei concerti e registrato con i Rolling Stones. Inoltre, ha contribuito alle registrazioni di artisti come Buffalo Springfield, The Monkees e altri.

Larry Levine
Larry Levine è stato un ingegnere del suono statunitense, nato nel 1928 e deceduto nel 2008. È diventato famoso per il suo lavoro come ingegnere del suono presso i Gold Star Studios a Los Angeles, dove ha contribuito a registrare molte delle canzoni più iconiche della musica pop e rock degli anni ’60.
Levine è particolarmente noto per il suo coinvolgimento nelle registrazioni dei brani di Phil Spector. La sua abilità nell’ottenere suoni distintivi e di alta qualità è stata cruciale per il successo di molte registrazioni dell’epoca. Levine è stato anche coinvolto in progetti con altri artisti e produttori, ma è principalmente ricordato per il suo contributo significativo al suono della musica pop degli anni ’60.
The CrystalsLe Crystals sono state il primo gruppo vocale femminile messe sotto contratto da Phil Spector per la Philles Records, per la quale hanno avuto varie hit tra cui “Uptown”, “Da Doo Ron Ron” e “Then He Kissed Me”. 
I membri nel 1963 erano Patricia Wright, Dolores Kenniebrew, Dolores Brooks e Barbara Alston.

The Ronettes
Uno dei gruppi di punta della Philles Records, le Ronettes erano composte da Veronica “Ronnie” Bennett, Estelle Bennett e Nedra Talley. 
Phil Spector era ossessionato con la voce di Ronnie e con Ronnie stessa; i due iniziarono una relazione che sfocerà nel matrimonio (infelice) nel 1968. 
Nel 1963, il gruppo raggiunse la fama con il singolo “Be My Baby”, scritto da Jeff Barry, Ellie Greenwich e Phil Spector. La canzone è diventata un classico della musica pop e ha consolidato la reputazione delle Ronettes.
Altri successi includono “Baby, I Love You”, “(The Best Part of) Breakin’ Up” e “Walking In The Rain”. Il loro stile distintivo, caratterizzato dalla voce potente di Ronnie Spector e dal sound distintivo di Phil Spector, ha contribuito a definire il suono del pop e del girl group degli anni ’60.
Darlene Love
Darlene Love, il cui vero nome è Darlene Wright, è una cantante statunitense nata nel 1941. È stata una delle voci più potenti e distintive nel panorama della musica pop e rock degli anni ’60 e successivi. La sua carriera è stata fortemente influenzata dalla collaborazione con Phil Spector.
Love è diventata famosa come membro del gruppo vocale The Blossoms che ha lavorato spesso come coro per le produzioni di Phil Spector. Ha fornito le voci principali o di supporto per molte canzoni celebri del periodo, spesso senza essere accreditata. Alcuni dei suoi contributi più noti includono le voci principali in “He’s a Rebel” delle Crystals e “Zip-a-Dee-Doo-Dah” di Bob B. Soxx & the Blue Jeans.

Bob B. Soxx & the Blue Jeans
Bob B. Soxx & the Blue Jeans è stato un gruppo vocale progettato da Phil Spector e composto da Bobby Sheen, Darlene Love e Fanita James. Il nome Bob B. Soxx era un nome d’arte per Bobby Sheen.
Il loro singolo più noto è “Zip-a-Dee-Doo-Dah”, una cover di una canzone originariamente apparsa nel film Disney “Song of the South”, prodotta da Spector.

Cher
Incredibile ma vero. Una delle artiste più leggendarie della storia della musica pop ancora in attività ha iniziato la sua carriera a 17 anni come corista per le produzioni di Phil Spector.
Egli considerava la sua voce troppo baritonale per essere inserita in primo piano; nonostante ciò ha prodotto il suo primo singolo da solista nel 1964 dal titolo “Ringo, I Love You” e diede a Cher lo pseudonimo Bonnie Jo Mason. 
Phil Spector, Darlene Love e Cher
The Wrecking Crew
Ultimo tassello ma non di importanza, la Wrecking Crew è stato un gruppo di session musicians statunitense attivo prevalentemente negli anni ’60 e ’70. Questi musicisti di studio altamente talentuosi hanno suonato in un vasto numero di registrazioni di successo, contribuendo a creare alcuni dei brani più iconici dell’epoca. 
Tra i membri più noti della Wrecking Crew c’erano il batterista Hal Blaine, la bassista Carol Kaye, il chitarrista Tommy Tedesco, il pianista Leon Russell, il chitarrista Glen Campbell e molti altri. Questi musicisti erano noti per la loro versatilità e la loro capacità di adattarsi a una vasta gamma di stili musicali. 

Ultimo tassello ma non di importanza, la Wrecking Crew è stato un gruppo di session musicians statunitense attivo prevalentemente negli anni ’60 e ’70. Questi musicisti di studio altamente talentuosi hanno suonato in un vasto numero di registrazioni di successo, contribuendo a creare alcuni dei brani più iconici dell’epoca. 

Tra i membri più noti della Wrecking Crew c’erano il batterista Hal Blaine, la bassista Carol Kaye, il chitarrista Tommy Tedesco, il pianista Leon Russell, il chitarrista Glen Campbell e molti altri. Questi musicisti erano noti per la loro versatilità e la loro capacità di adattarsi a una vasta gamma di stili musicali. 

In Thema di Berio

A CHRISTMAS GIFT FOR YOU FROM PHIL SPECTOR. 60 ANNI DI RIVOLUZIONE POP – I parte

di Alessandro Ciniero

Introduzione
Detesto scrivere e chi mi conosce lo sa bene . I messaggi telegrafici di WhatsApp  sono facilmente riconducibili al sottoscritto e non ho mai portato a termine la sceneggiatura per il film su Phil Spector che vorrei fare. Tuttavia, ho notato un elemento contraddittorio riguardo a questo: possiedo un diario personale che scrivo saltuariamente sin dal 2011; ne deduco che c’è una parte di me dedita alla scrittura. Il problema è la costanza nel farlo, infatti, nel momento in cui mi accingo a scrivere, temendo di non portare a termine questo articolo, mi impongodi fare leva su tutta la mia determinazione per portare a termine questa che, ormai, è diventata una missione. Voglio scrivere un appropriato e intenso tributo a un album di cui in Italia si è sempre parlato poco, sebbene possiamo considerarlo un capolavoro della storia della musica occidentale, una pietra miliare del pop e della musica natalizia: A Christmas gift for you, di Phil Spector.Fino a ora mi sono limitato a dedicargli  qualche contenuto sui social network ma in occasione del sessantesimo anniversario dall’uscita dell’album ho deciso di celebrare come merita questo singolare christmas carrol
Buona lettura a tutti!

Contesto storico e personaggi 
 Il 1963, rappresenta uno spartiacque nella storia della  musica moderna. Il rock and roll arrivò impetuoso, con la sua prima ondata, tra il 1954 al 1960. Una stagione veloce ma che cambiò per sempre l’industria discografica. Per la prima volta, il mercato spostò il proprio focus sui ragazzi e sulla fascia giovanile, fino a quel momento ignorata poiché priva di potere d’acquisto. Appartengono a quel periodo Buddy Holly, Carl Perkins, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, Bo Diddley, Johnny Cash, Eddie Cochran, Little Richard ed Elvis Presley, artisti bianchi e neri che finivano per folleggiare in tutte le radio e le classifiche. 
Tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60, una serie di tragiche morti, scandali e ritiri coinvolse molti di questi artisti, lasciando così un vuoto da riempire. Tuttavia, i semi della prima ondata rock erano stati piantati e da lì a breve, per la precisione nel 1964, un terremoto chiamato British Invasion (Beatles, Rolling Stones, Kinks, Animals, Who, Dusty Springfield, Donovan, Small Faces, Hollies) sarebbe arrivato a sconvolgere la scena musicale. Per comprendere la portata di questa rivoluzione è necessario fare  un passo indietro nella storia. Qualche anno prima, un produttore discografico sui generis, tremendamente ambizioso e scaltro il giusto,  prese le redini del mercato discografico giovanile dopo il declino del periodo rock and roll. Stiamo parlando di Phil Spector.

Phil Spector 
Nel 1963, Phil Spector appena ventitreenne, era già considerato un genio della scena musicale. In pochi anni aveva prodotto una serie di hit leggendarie e fondato una propria etichetta discografica, la Philles Records, diventandone capo all’età di 21 anni. Il più giovane capo nella storia delle etichette discografiche fino a quel momento. Fu il primo produttore indipendente (assieme al contemporaneo Joe Meek in UK) capace di discostarsi dal rigido sistema del music business di allora in cui il produttore doveva sottostare alle regole delle major labels e alla catena separatista  compositori-produttori-artisti-businessmen.  
 Questa sua indipendenza, gli permetteva di supervisionare l’intero processo creativo di una canzone, dalla composizione fino alla pubblicazione. Ciò gli permise di diventare il primo auteur dell’industria musicale, il primo produttore a concepirsi come artista, sviluppando un sound fuori dagli schemi e influente come non mai. Ma di questo sound parleremo più avanti.
Spector era concentrato nella produzione di singoli e considerava gli album come “due canzoni buone e 10 spazzatura”. L’album era ancora un format relativamente nuovo nel pop e il suo potenziale non era ancora pienamente sfruttato.
Tuttavia, per il Natale del 1963, pianificò il suo progetto più ambizioso, un album natalizio come non se ne erano mai realizzati prima. Un album in cui ogni  canzone avrebbe ricevuto lo stesso trattamento da potenziale singolo di successo.  Per realizzarlo, chiamò all’arrembaggio tutto il personale e gli artisti della Philles Records.
Continua…

In Thema di Berio

Filippo Leroy, chi era costui?

di Matteo Caputo

Non lo so. O, almeno, com’è avvenuto con Carneade prima di leggere I promessi sposi, non lo sapevo fino a quando non ho ascoltato la più recente fatica di Fulminacci. È vero – mi si dirà – Filippo Leroy, quarta traccia di Infinito + 1, ultimo album del cantautore romano, aveva già da qualche tempo anticipato il disco, insieme ad altri brani che con piacere abbiamo ritrovato; eppure sono costretto a fare mea culpa e a confessare di non essermi informato prima (ma soltanto per scoprirlo insieme a voi).

Fulminacci – al secolo Filippo Uttinacci, classe ’97 – è ormai autore piuttosto noto, almeno tra il pubblico giovane, figlio di Spotify e dei suoi Daily mix, e che pure ha ripreso a guardare Sanremo e ad acquistare vinili. Tutte strade attraverso le quali raggiungere il grande pubblico e che il nostro enfant prodige, come è stato più volte definito, ha percorso e continua a percorrere.

(Per i fan: potete saltare il paragrafo che segue) 🡪 Questa notorietà, tuttavia, non ci libera dal tarlo che ci suggerisce di ripercorrere la sua ancor breve e già intensa storia. È innegabile che i centri italiani considerati terreno fertile per gli artisti degli anni ’10 siano Roma e Milano, alle quali va inevitabilmente accostata, per il sottobosco di artisti che continua a far germogliare, Napoli. Il nostro Filippo, figlio artistico della Capitale, non fa eccezione: del resto l’ascendenza musicale romana da cui egli proviene vanta una scuola notevole, che – capostipiti De Gregori, Venditti e Rino Gaetano – spazia dall’ironia di Daniele Silvestri alla languidezza dei più giovani Gazzelle e Calcutta, dalla cura strumentale e alla raffinatezza dei testi di Max Gazzè alla densità poetica di Niccolò Fabi. Ma la lista è lunga e non è il caso di ripercorrerla in questa breve nota: ci basti sapere che da qui (ma non solo) giunge Fulminacci. L’esordio, un’autentica ventata di novità, è La vita veramente, del 2019. Dopo un paio di singoli, fa un passo ulteriore verso la notorietà portando al Festival di Sanremo uno dei suoi brani più conosciuti (e, lasciatemelo dire, più belli), Santa Marinella, che finisce nel nuovo album, Tante care cose, esattamente due anni dopo il debutto. Nel frattempo, esce Aglio e olio, con la quale il cantautore romano, affiancato dalla voce del rapper torinese Willie Peyote, ci conferma quali frutti possano venir fuori dai suoi featuring, portati avanti anche con artisti del calibro di Silvestri stesso e Gazzelle.  

Ho usato una parola impegnativa da sostenere e probabilmente caduta un po’ in disuso, ma, nonostante questo, adatta al caso nostro: cantautore. Forse nostalgica, forse evocatrice di un periodo perduto del nostro recente passato musicale, ma utilissima a noi che, in fondo, Fulminacci non sapremmo dove collocarlo. Sfugge, e tuttavia si fa inseguire. Promette, illude e svia. Quando siamo convinti di afferrarlo, eccolo che scarta di lato e ci costringe a cambiare direzione. Si prende in giro e, facendolo, prende in giro noi, ci smaschera. Al posto di irritarci, però, finiamo per amarlo.

Le due sentinelle poste a guardia della sua creatività, l’ironia e la dolcezza, restano salde a fare il loro lavoro, nessun dubbio. C’erano già in Borghese in borghese e Al giusto momento (da La vita veramente), le abbiamo ritrovate in Tattica e Le biciclette (da Tante care cose) e, a seguito di altri due anni d’attesa – un po’ smorzata da tante uscite intermedie –, eccole che tornano in Ragù e Simile di Infinito + 1. Tra le novità, si consolida il numero delle collaborazioni, con la partecipazione dei Pinguini Tattici Nucleari in Puoi e di Giovanni Truppi – attivo da anni, ma solo recentemente uscito dalla cerchia dei ristretti – in Occhi grigi, rispettivamente seconda e sesta traccia del disco, riuscendo così a far convivere due punti distanti della musica italiana dei nostri anni ’20. 

Fulminacci ci ha ormai abituati al suo impianto strumentale, uno dei più variegati nel panorama della musica circostante, per mezzo del quale egli soffia su tutto il ventaglio emotivo dei suoi ascoltatori: dalla classica ballata da ascoltare affacciati a finestre e finestrini rigati dalla pioggia, al pezzo più frizzante – che di solito è anche quello più ironico – da cantare a squarciagola, al brano davvero pop (scommettiamo su Baciami Baciami in radio e discoteche nei prossimi mesi?), che si connota per la propria, ineludibile funzione commerciale: “Devo scrivere una hit che non è una hit/Sì, per non fare passi indietro e neanche in avanti/E non perdere quel poco di pubblico generalista/Che mi sono conquistato negli anni”.

Allo stesso tempo, attraverso la cura dei testi, ci sta chiedendo di essere ascoltato, di prenderlo sul serio perché sul serio, anche quando sembra giocare, sta parlando. E sta parlando a una generazione che ha bisogno di sentirsi un po’ più viva e meno colpevole, meno chiusa in schemi preconfezionati e disponibili a buon mercato: “Non mi interessano/le tue ragioni, il tuo pensiero artificiale/da dove viene e dove va, /la tua esistenza/è chiusa dentro una prigione culturale:/non ti verrò a trovare”. Una generazione che deve imparare a riportare ogni cosa, soprattutto gli sbagli e le mancanze, a una dimensione più umana, anche perché tutto sommato sbagli e mancanze ci appartengono di natura e ogni sforzo fatto per evitarli è vano (“Tanto il vero nemico è ciò di cui siamo fatti”). 

Il rimedio? Lo dice Fulminacci stesso nelle sempre più numerose interviste: l’amore.

Un amore che si sforza di essere tale anche quando non possiede il pungolo degli attimi eccitanti della vita, anzi, soprattutto nelle sue sbavature, nei suoi momenti di quiete apparente, di sopportazione reciproca. Un modo di resistere e di costruire, insomma, mentre “questi tempi di carta e di fumo” si dissolvono sotto il peso della propria inconsistenza.

Anche stavolta l’attesa della release allo scoccare della mezzanotte non ha tradito le attese.

A differenza mia, che non vi ho più detto chi è Filippo Leroy, Fulminacci ha fatto quello che doveva.

Ora tocca a voi.

Infinito +1

Fulminacci

(Per ora rilasciato solo in digitale, ma presto anche la versione in CD, Vinile e Vinile Deluxe, pre-order a partire dall’11 dicembre)

Etichetta: Maciste Dischi

In Zero assoluto

Zero assoluto – appunti di tutto e niente.

di Francesca Bellucci

In fisica lo zero assoluto è la temperatura più bassa che si possa raggiungere in un qualsiasi sistema termodinamico. La temperatura è il frutto del movimento degli atomi, pertanto, quando tutti gli atomi sono immobili l’energia termica è assente. Ecco, io sento questo tempo come uno zero assoluto, la gelida immobilità delle coscienze, l’incapacità di percepire come materico e fissile la storia di cui facciamo parte. Siamo indifferenti a ciò che succede, vi agiamo passivamente, limitandoci a credere che ciò che sappiamo basti formulare giudizi, a prendere decisioni, a schierarci concettualmente.

Di che cosa abbiamo bisogno di parlare? Dietro quali maschere narrative dobbiamo nasconderci per osservare meglio quanto ci accade? Ma soprattutto, è ancora questo il fine della letteratura? Che cosa ci dice l’arte di uguale o diverso dagli ostacoli di parole che giornalmente superiamo tra un articolo di giornale e un post spesso mal scritto? Che esseri sociali siamo? Come e cosa pensiamo?

Per questo sono appunti di tutto e niente: tutto, perché ogni evento, qualunque azione compiuta da noi o da altri, i pensieri che formuliamo, i libri che leggiamo, il modo in cui scrolliamo le nostre home page social e quali profili scegliamo che le riempiano sono la nostra vita; niente, perché in questo maremagnum di correnti che ci portano convulsamente alla deriva e fortuitamente sulla battigia, a me sembra impossibile trovare un capo, un nesso logico, il bandolo della matassa.

Oggi abbiamo bisogno di parlare di educazione sociale, di scrittori e artisti che ci aiutino a vedere la realtà con lo sguardo profetico della disfatta a cui siamo destinati seguendo, immobili, lo scorrere delle cose.

Sono i giorni dell’indignazione, del dolore, dello smascheramento dell’incoerenza politica di questo Stato, un termine che ha smesso di appartenere al nostro vocabolario, che sentiamo come estraneo. “Stato” è il participio di stare. E’ come siamo stati e stiamo in un luogo, ma è anche ciò che vogliamo ci sia. E in questo momento non c’è niente di accogliente, di amabile e rassicurante. Siamo il popolo dell’abitudine e dell’ignavia. Appunto, lo zero assoluto. Incapaci di riconoscere il problema, di lavorare per qualcuno di diverso da noi stessi. Bambini mossi da un egocentrismo radicale che avremmo dovuto abbandonare nell’infanzia e che invece è l’imperativo categorico delle nostre vite: esiste se mi è davanti agli occhi, appena sparisce non esiste più. Allora come è possibile restare ancorati nel nostro tempo?

In questa rubrica non troverete verità rivelate; non leggerete, oggi, un certo lessico così tanto utilizzato in queste settimane, non vedrete impressa in un muro di parole l’ennesima rappresentazione della punta dell’iceberg. Cercheremo di andare oltre il pelo dell’acqua, di guardare al di sotto, a quella massa informe che è la società di cui facciamo parte.

Decidiamo di restare ancorati al centro della bufera alzatasi il 18 novembre, potente come non mai perché potenti sono state le parole, la richiesta di restare vigili prima dell’ennesimo oblio morale. Abbiamo visto, per davvero, qualcosa che è sotto ai nostri occhi e che, nonostante tutti i tentavi fatti, non chiamiamo per nome. Ripercorreremo le parole degli altri, vi chiederemo di regalarcene. Questa rubrica sarà uno spazio di riflessione per chi, con noi, non ha più bisogno di false risposte ma cerca le giuste domande. Partiremo da ciò che abbiamo, la letteratura, perché se è vero che dal nulla non nasce nulla, è vero anche quanto affermato da Chiara Valerio, curatrice dell’edizione 2023 di “Più Libri Più Liberi”: «siamo certi che leggere fornisca le parole e più parole si hanno, meno mani si alzano», un concetto non così distante dalla proporzione heidggeriana tra parole e pensiero: più parole possediamo, più complesso sarà il pensiero che potremo formulare.

Ex nihilo nihil. Oggi c’è tutto, da cui (ri)creare tutto.

In Narrature

La città di M

di Cecilia Lolli

Settecentocinquanta milioni di persone l’hanno conosciuta, a partire dall’anno dalla sua fondazione, tutti con l’ambizione di divenirne l’unico padrone. Anche io, anche noi, probabilmente solo per noia, in un pomeriggio di pioggia, a casa di un’anziana parente, al posto delle carte. Per non doverci parlare, per non lasciarci nell’ultimo giorno delle vacanze d’agosto, che l’anno prossimo forse le faremo separati comunque: io al mare, tu in montagna. Settecentocinquanta milioni di persone assiepate in una città a pianta rettangolare, che sorge in una piana dove prima c’era natura e dove presto ci sarà di nuovo natura altra. Una pianta in vaso, un cesto di frutta, un bacino riflettente sul cui fondo si depositano metalli e minerali.

Settecentocinquanta milioni di persone che hanno in comune i primi passi mossi nella città di M., prima che ciascuno prenda il suo ritmo: la fortuna è semplice sorte per chi non le crede, per chi non si fida. Settecentocinquanta milioni di persone in una città che non promette alcuno stanziamento, dove andrebbero, dopotutto? Non c’è posto per loro, non ci sono tuguri, tane, cimiciai, case popolari, casermoni, caseggiati, Chruščëvka, Danchi, Mietskasernen, Tenements. O perlomeno, nessuno ci è mai arrivato, perché la città ha uno sviluppo orizzontale, lo sanno tutti che conviene investire poche risorse in ciascun lotto. In tempi di carestia, anche la nuda proprietà ripaga.

La città di M. unisce il mondo intero da decenni e decenni, la città di M. incrina rapporti intimi in un pomeriggio, in una sera – scagli la prima pietra chi non è un sore loser, scagli la prima pietra chi è senza peccato e senza memoria: avarizia, lussuria, invidia, in attesa dell’Apocalisse di Giovanni, in attesa che sopraggiunga la noia che spinge tutti a reclinarsi all’indietro, a distrarsi col cellulare, a dimenticarsi del proprio turno, in attesa che un umano movimento, repentino e improvviso, non sancisca la morte della città, per una rivolta silenziosa e occulta, per un rivolgimento che non miete vittime, per un colpo di stato senza delitti, per attimi di vita asettici, ciascuno chiuso nella propria bolla, come in una silent disco.

La città di M. ha quattro stazioni, una società elettrica, una società dell’acqua potabile, un posteggio gratuito, una prigione, una giustizia sommaria, quattro vie, quattro corsi, due larghi, cinque viali, un parco, due vicoli, un bastioni, tre piazze, una tassa patrimoniale, due tombini scoperti, due ascensori sociali, settecentocinquanta milioni di persone dall’anno della sua fondazione.

In La Seconda Repubblica delle Lettere

A Michela Murgia. Storia tragicomica di una scrittrice

di Francesca Bellucci

La prima volta che vidi Michela Murgia era il 2015, mi trovavo nell’Aula Magna del mio liceo e avevo, come spesso accadeva allora, aspettative minime su quell’ennesimo incontro con l’autore. Era in giro per l’Italia a presentare la sua ultima uscita, Chirù, romanzo che non solo non mi piacque, ma che mi suscitò un certo insopportabile senso di fastidio. Fu il primo che lessi, su imposizione, proprio in vista di quell’incontro; e credetti che sarebbe stato anche l’ultimo. Pensai che, come molti degli altri scrittori che erano capitati sulle colline della mia città, si sarebbe limitata ad assolvere all’unico compito che stava a cuore a me e ai miei compagni: allontanarci dall’aula, serrare le orecchie e fingere, nella migliore delle ipotesi, un’attenzione che avremmo destinato al compagno seduto accanto. E dire che allora leggere era l’attività principale della mia vita, ma due malcapitati al loro primo romanzo, scritto a quattro mani, dissero in quella stessa Aula Magna che la scrittura non poteva e non doveva avere a che fare con la vita dello scrittore. Quella frase mi fece odiare prima quei due e poi gli scrittori che seguitarono ad arrivare a scuola. Era stato il compiacimento generale che mi fece storcere il naso, mandando in brandelli la credibilità di chi, in qualche modo, imboccava la strada per la mia città e soprattutto di chi decideva chi sarebbe arrivato.

Ma l’incontro con la Murgia fu tutt’altro: lei ci costrinse ad aprire le finestre e a guardare fuori, a renderci conto che in un romanzo ci sono sempre dei pezzi di vita vissuta, voluta, desiderata, spaventosa e profondamente dolce. La Murgia parlava e noi eravamo davvero lì con lei, in dialogo, stupefatti e attratti da quelle verità che lei ci stava proiettando davanti agli occhi con dolcezza e sagacia. Ripercorse la sua storia e quella del suo primo romanzo, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, e quel momento fu il fulcro di tutto. Lì la vita dello scrittore e dello scritto diventavano un tutt’uno e mi permisero di capire che c’era chi, come lei, dalla verità non solo non si lasciava spaventare ma che imbrigliava col coraggio la paura di parole messe in fila l’una dietro l’altra per sancire un punto di fine e uno di inizio. La vera magia fu che di tutta quella forza non me ne accorsi subito: entrò poco alla volta, smosse prima le corde della curiosità, poi quelle del dubbio. Non ci sono molteplici forme di verità collettiva, ce n’è una sola, comune, che ha come unico perno la felicità. Una società giusta è una società in cui il singolo sa di potersi beare dei piaceri della vita senza imporre a se stesso una maschera che gli permetta di muoversi latentemente per le vie della propria giustizia personale.

La sera di quel dicembre 2015 scesi di casa per ascoltarla ancora nella libreria che la ospitava. C’erano per lo più adulti, tanti piccoli borghesucci di provincia che i libri e gli incontri li collezionavano per fregiarsi di chissà quale cultura, forse posseduta, ma di certo sterile: incapace di farsi forma di pensiero. Con la grazia che le ho sempre ritrovato anche negli anni successivi, la Murgia planò sulle nostre vite. Usò il suo romanzo come pretesto per farci dire ad alta voce che sono i desideri più reconditi quelli in grado di muoverci davvero, che per comprendere chi siamo dobbiamo guardare in basso, vedere ciò che abbiamo nascosto, abbellito da una nebulosa convinzione di agiatezza.

In questi otto anni l’ho vista prendere a due mani le verità della nostra società e metterle sotto la lente d’ingrandimento per permetterci di capire che la strada che stiamo percorrendo non è quella corretta, se non è quella scelta con la testa.

La Murgia ha cucito una maglia di idee che cerca di rendere la società più giusta, più equa, che si pone l’obiettivo di scardinare le bugie che ci raccontano e ci raccontiamo per alimentare la nostra pigrizia e lasciare che tutto ci scorra addosso, convinti che la tempesta possa attraversarci e non sbaragliarci. Ha raccontato storie, ne ha inventate tante altre; ha intrecciato verità e fantasia, ha inciso lapidi di parole sulle brutture del nostro tempo.

Molto da dire ci sarebbe sulle donne della sua penna, sul suo uso delle parole nei saggi e nei romanzi, sul registro comunicativo che con grande coerenza ha usato per l’attivismo sui social, sulla capacità di adattare i mezzi di comunicazione a sua disposizione alla misura dello scrittore, sancendo la dimensione moderna dell’intellettuale, sulla potenza degli scritti degli ultimi mesi.

Muore solo la donna; gli scrittori, si sa, continuano a vivere nella dimensione delle parole.