In Lettera 22

Riccardo Falcinelli presenta “Filosofia del Graphic Design” – parte prima –

di Umberto Mentana

Giovedì 30 Giugno, nella cornice del cortile della Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” della città di Foggia, si è avuta l’opportunità di incontrare Riccardo Falcinelli che ha presentato il suo ultimo libro Filosofia del Graphic Design, edito per la collana Piccola Biblioteca Einaudi, un libro che raccoglie per la prima volta in lingua italiana: “le idee, le visioni, i manifesti di alcuni dei maggiori protagonisti della grafica del Novecento”,come recita la scheda del libro.
Ed è proprio dalla nota collana creata nel 1960 e diretta da Franco Fortini che incomincia il dialogare con Falcinelli che sottopone al numeroso pubblico sopravvenuto una riflessione importante su come sia cambiato il ruolo dello studente, o meglio di chi sia lo studente oggi.


Questa è una collana che quando è nata ormai quasi sessant’anni fa nasceva come collana rivolta soprattutto agli studenti. Continua ad essere una collana di questo tipo ma io credo che nel mondo attuale sia molto cambiata l’idea di chi sia uno studente. Lo studente oggi non è soltanto chi va a scuola ma moltissime persone sono curiose e per esempio frequentano le biblioteche per farsi una propria cultura, per farsi un’idea del mondo.
Io ho scritto due libri che hanno avuto un indubitabile successo negli ultimi anni (si riferisce a Cromorama e Figure, edite da Einaudi Stile Libero rispettivamente nel 2017 e 2020, ndr) e che hanno avuto dei numeri che sono più simili ai libri gialli che alla saggistica e quando mi chiedono se quelli erano libri di divulgazione, io dico sempre che quella non era divulgazione ma saggistica di intrattenimento.Affrontavo dei temi saggistici però in una maniera tale che chi leggeva si poteva divertire, poteva essere coinvolto dal libro. Qual è la differenza rispetto alla divulgazione, quindi? La divulgazione prende delle cose date, delle cose che sono note agli esperti e le semplifica per i non esperti. E non è quello che io ho fatto nei miei due libri, perché le cose in cui parlavo non erano spesso assolutamente date per scontate.


    Il dibattito ovviamente si sposta subito dopo sulla sua nuova pubblicazione spiegando perché è quanto mai oggi importante “divulgare” un testo di questo tipo e perché:


Vuol essere veramente un’introduzione a quali sono le dieci cose che veramente uno dovrebbe leggere se vuole interessarsi di grafica. E in Italia un libro di questo genere ancora non ce l’avevamo.A me l’idea è venuta proprio dal fatto che in Italia questo tipo di libro non c’era. Ma chi vuole studiare queste cose come fa? E per quanto insomma si tratta di un libro che richiede un entusiasmo da parte del lettore, una partecipazione, è tuttavia un libro che richiede essere studiato, guardato, magari qualcuno legge qualche cosa, poi lo salta, poi lo mette via, poi lo riprende. È un libro che fa un altro tipo di richiesta al lettore.Noi abbiamo la grafica addosso e intorno ormai da un secolo in ogni momento della giornata. La grafica non è solo la pubblicità o il poster messo in mezzo ad una strada, la grafica è davvero ovunque e siamo le prime generazioni che producono grafica senza essere grafici. Questa è una novità radicale. Io ho dei biglietti da visita dei miei nonni, fatti presumo intorno agli anni Trenta-Quaranta e li ha fatti il tipografo che a suo modo era un grafico e che insieme ai nonni ha scelto il carattere usare, magari il corsivo inglese, ha scelto il formato, ha scelto la carta.Hanno fatto delle scelte di grafica, però i nonni l’hanno fatto coadiuvati da un professionista.Oggi chiunque, semplicemente facendo una storia su Instagram ha a disposizione delle tecnologie grafiche che un tempo riguardavano soltanto i professionisti, non è più un sapere esoterico, che riguarda esclusivamente professioniste e allora mi son detto: “Se tutti oggi usano queste cose, forse saperne un pochino di più tutti quanti non è più un sapere da addetti ai lavori”.


    Falcinelli, in chiusura a questo primo intervento si sofferma sulla fondamentale differenza di tono nella grafica e nello specifico, spiegando tramite un esempio concreto che ben si presta ad accontentare tutti i palati, ci parla di quanto sia di gran peso utilizzare un certo tipo di font grafico rispetto ad un altro, e anche per coloro che sono abbastanza ignari della materia sono certo che sia arrivato il messaggio, soprattutto agli insegnanti a cui Riccardo Falcinelli rivolge un appello conclusivo:


Voi sapete che esiste un tono, un registro quando facciamo le cose. Noi abbiamo un tono, un registro quando ci presentiamo alle occasioni, se qualcuno andasse alla Scala di Milano in bermuda ad esempio verrebbe comunque guardato strano, perché sta sbagliando il registro. Sull’abbigliamento abbiamo introiettato dei codici che ci insegnano quali sono le cose da fare e da non fare. Anche i caratteri tipografici hanno la stessa tradizione, la differenza tra Garamond ed Helvetica   è una differenza di tono, di registro, di tono di voce. Quindi è come dire: “mi metto i calzoni lunghi o i calzoni corti”. C’è un’adeguatezza in base a quello di cui si sta scrivendo. Vi faccio un esempio brutale: se volete leggere quattrocento pagine di Anna Karenina non le potete leggere in “Helvetica” o in “Arial”, perché il vostro occhio dopo dieci pagine è esausto, mentre il nostro occhio riesce a rispondere molto bene se ci mettete ad esempio “Garamond”, “Casual”, altri tipi di carattere. C’è una questione funzionale, c’è una questione di gusto, c’è una questione anche semplicemente stilistica che noi associamo a certi tipi di contesti.  L’Helvetica è in tutte le metropolitane del mondo e se io mi permettessi di cambiare il carattere e ci mettessi qualcosa  pieno di svolazzi, a voi non vi sembrerà più di stare in una metropolitana ma a Disneyland perché quella leziosità non si lega a quello che noi chiediamo ad un luogo come una metropolitana, a una banca, ad un ufficio. Noi abbiamo l’idea retorica di che forma debbano avere i caratteri però le persone questo non lo sanno, nessuno glielo ha insegnato a scuola. Noi, infatti, nelle scuole non insegniamo questo genere di cose ma se invece oggi noi spieghiamo con il computer forse alle elementari dovremmo dare dei rudimenti sui caratteri, quando usare uno quando usare un altro. Perciò, ritornando all’idea del libro, perché non cominciare a leggere un po’ di queste cose? Ovviamente io non mi auspico che tutti inizino a leggere questi testi però se si cominciasse a parlarne, se questi libri cominciano a circolare, io sono convinto che nel giro di un po’ di anni cambierà la situazione. E la cosa più importante è che lo leggano soprattutto gli insegnanti e che a partire dalle scuole primarie si cominci a parlare di queste cose, cioè non si corregga soltanto l’ortografia ma si ragioni anche un po’ sul fatto che la scrittura fatta al computer difatti corrisponde al tono di voce che chi scriveva voleva usare.


    Il secondo intervento dell’autore, una bella parentesi storica su concetti chiave della grafica che conosciamo oggigiorno quali “tecnica-industrializzazione-scolarizzazione di massa”, mette in luce e dipana con estrema semplicità e fluidità nel raccontare di quanto siamo in realtà figli dell’Ottocento spiegando quali sono effettivamente le scoperte di grande attualità ma non per questo questo progressivo e sempre più veloce progresso manca di inquietudine, relativamente parlando di digitalizzazione e di virtualizzazione di ogni cosa facente parte della nostra realtà.


La grafica nasce con la tecnica. La grafica come ne parliamo oggi è qualcosa che compare più o meno a metà Ottocento quando con l’industrializzazione, con la scolarizzazione di massa, con il fatto che le persone si spostano dalle campagne ed entrano nelle fabbriche, nascono tutta una serie di pratiche sociali, di linguaggi che sono quelli che conosciamo ancora oggi. Tanto per dirvene uno, la grande invenzione dell’Ottocento è il packaging delle merci.
 La prima merce che viene messa dentro una scatoletta, e nella scatoletta c’è della grafica, è il sapone. Prima della saponetta non esistevano merci che avessero un involucro, che non avessero una scatola con una grafica, con una marca, con un disegno che per noi oggi è standard. Questa è la grande rivoluzione grafica dell’Ottocento, dare un aspetto visivo serializzato ed industrializzato a tutto quello con cui noi abbiamo a che fare, da allora in poi non c’è più niente che non abbia un aspetto grafico. Ed è subito una rivoluzione ed un’invenzione tecnica perché questa cosa compare quando l’industria inizia a produrre in serie grandi quantitativi di cose. Quando poi iniziano anche ad esserci gli spettacoli con i grandi cantanti d’opera dell’Ottocento la gente ci va apposta per andarli a vedere. Questi eventi come li pubblicizzi? Con la grafica. Il teatro del Sei-Settecento era invece un teatro itinerante, gli attori erano famosi e si spostavano di città in città mentre nell’Ottocento la cosa si ribalta, i grandi attori stanno a Parigi e la gente da tutta la Francia va a Parigi; gli attori stanno a Roma e a Milano e la borghesia si sposta per andarli a vedere.  L’Ottocento dunque si inventa tutto quello che di grafico noi conosciamo oggi ed è un’invenzione tecnica ed è ovviamente il grande salto che copre tutto il XX secolo e che ci accompagna fino ad oggi, questa esplosione e questa implementazione, questo incremento della tecnica e della tecnologia.
Cento anni fa, nel 1922, c’erano degli artefatti, cioè dei poster che per farli ci volevano cinque persone, oggi quelle stesse cose noi le facciamo con un computer portatile o addirittura con uno smartphone in 20 cm2, andiamo in copisteria e per cinque euro l’abbiamo fatto, ed è un cambio gigantesco che però ha delle conseguenze. Da una parte appunto queste innovazioni sono state viste come qualcosa di altamente progressivo, fino agli anni Quaranta sono tutti entusiasti di questa cosa perché dicono: tutto questo porterà solo del bene all’umanità, e in gran parte l’ha portato. Però quali sono gli aspetti, forse, più inquietanti? C’è un romanzo molto bello degli anni Settanta, di Ira Levin che si chiama La fabbrica delle mogli, dal quale hanno tratto più di un film (tra cui The Stepford Wives, 2004 con Nicole Kidman), di questa provincia americana un po’ tra Paperopoli e Desperate Housewives dove tutto è perfetto e dove si scopre che gli uomini sostituivano un chip nel cervello delle donne e le trasformavano in robot per far sì che facessero tutto quello che loro volevano. Nel film del 1975 (diretto da Bryan Forbes, ndr) c’è la scena finale che risulta essere incredibilmente significativa: quando la protagonista scopre il complotto – questa storia si svolge non lontana dalla Silicon Valley e questo è l’aspetto più inquietante e politico della vicenda perché nel ‘73 Ira Levin dice: “guardate che qua ci sono dei signori che hanno le tecnologie per farci fare quello che vogliono loro” –  il capo/direttore recita una battuta che non c’è nel romanzo ma che è incredibilmente potente. Lei gli chiede il perché lo abbiano fatto, il mega capo risponde con la cosa più inquietante che potesse rispondere. Non dice lo abbiamo fatto perché siamo maschilisti, dice invece: “Lo abbiamo fatto perché c’era la tecnologia per poterlo fare”.Ecco, questo è il modo in cui noi dobbiamo guardare a tutte le tecnologie e nello specifico a tutte le tecnologie grafiche oggi. Perché le persone si fanno i selfie? Perchè c’è la tecnologia per poterlo fare, non perché hanno il desiderio di farlo.Perchè le persone mettono i filtri alle foto che fanno? Non perché sono Nadar o Cartier-Besson ma perché c’è la tecnologia per poterlo fare. Oggi tutti facciamo delle cose, professionisti e non professionisti perché c’è la tecnologia per poterlo fare, siamo nella società delle immagini, siamo nella società di massa, ci sono i mass media ma la vera novità è che i mass media non sono da un’altra parte. Non è più Rai 1 degli anni Cinquanta che decideva il Martedì si guardava il teatro e il Venerdì il film, non è più quel tipo di mass medium che decideva e noi eravamo pubblico passivo. Oggi i mass media ce l’avete tutti in tasca. Si dice “pubblico” qualcosa su Instagram dove la parola ‘pubblico’ è fondamentale poiché tutti siamo essenzialmente editori dei nostri contenuti e allora lì si pone una responsabilità che non è più solo degli addetti ai lavori ma è di tutti, cioè: “Che storia stiamo raccontando agli altri?”

E certamente il discorso non poteva sorvolare il fondante apporto che internet e la rete ha avuto per chi professionalmente muove i suoi passi in ambito grafico ma non solo, in generale è notevolmente mutato approcciarsi a questo tipo di sapere che ci circonda in ogni momento della nostra vita.


Nel libro io mi fermo al 2000 perché nel 2000 è successa una cosa…arriva internet, o meglio internet non arriva nel 2000 però il 2000 è l’anno dove esplode a livello popolare, ce l’hanno tutti fondamentalmente. Ed è da quel momento in poi che la grafica non è più soltanto quella che fanno i grafici, ma attenzione non è che i grafici scompariranno, si occuperanno invece di cose ad alta complessità che richiedono tutta una serie di studi, di formazione, di preparazione.Ad esempio, io mi occupo di editoria scolastica e l’editoria di questo tipo ti pone dei problemi di tipo cognitivo: che tipo di carattere, che spaziatura, dove metto le cose, quali sono i layout che fanno sì che si memorizzino meglio sui ragazzini delle elementari, che cos’è l’alta leggibilità, come interagisci con il lettore dislessico…ecco questa non è roba che può fare chiunque, devi aver studiato. Questa è grafica ad alta leggibilità che continuerà ad essere fatta dai professionisti ma oggi la grafica è qualcosa che fanno anche tutti gli altri. Il discorso è molto semplice, se voi andate da Le Roi Merlin vi vendono i secchi di pittura murale, ma quanti sono quelli che si imbiancano casa da soli? La maggior parte delle persone continua a chiamare i muratori, i piastrellisti, l’idraulico. Perché puoi pure imparare ma a meno che non hai una passione per il fai da te, questo è qualcosa che deleghi ad un professionista e alla grafica sta accadendo la stessa cosa, però ancora non si è capito chi farà cosa, cosa si delega a chi, però le persone si stanno rendendo conto che non è che possono fare tutto. Quello che invece è diventato di tutti è la forma della scrittura, non si è mai scritto tanto come in questo momento storico. Tutti scrivono al computer e tutti si pongono i problemi di editing, di impaginazione. 

Considerate questa cosa: quando è arrivata l’illuminazione a gas hanno incominciato a dire che i produttori di candele sarebbero andati rovinati. L’anno scorso si sono vendute dieci volte le candele che si vendevano nel 1800, perché la candela ha smesso di essere un bene usato per illuminare lo spazio ed è diventata la forma retorica del romanticismo. Usiamo le candele per fare il bagno terapeutico, le mettiamo nelle spa, le mettiamo alle cene di San Valentino e a Natale, le mettiamo nei ristoranti,  sono diventate un’altra cosa…sono diventate una figura retorica.Noi dobbiamo sempre ragionare in questi termini, quando arriva una nuova tecnologia raramente spodesta quella precedente ma solitamente gli si affianca e si mette a fare delle altre cose.È molto più probabile, come difatti è stato, che scompariranno il vhs o il CD che non alla fine il disco di vinile, e non soltanto per nostalgia vintage ma perché noi abbiamo la grande capacità di inglobare tutta una serie di tecnologie del passato per farci delle altre cose. Io credo che accadrà più o meno qualcosa di simile. Sono cresciuto in un’epoca in cui la tipografia a mano non se ne parlava più, adesso di workshop di tipografia a mano sono di grande successo.