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Antonio R. Daniele

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte III

di Demetrio Paolin

In FK, Parte Prima, Libro Terzo, cap. III, leggiamo: «Ma innamorarsi non significa amare. Ci si può innamorare e odiare». E poi continuiamo: «Cammino e non so se sono capitato tra tanfo e vergogna o tra luce e gioia. È questa la vera disgrazia, che al mondo tutto è mistero». Poi poco più avanti leggiamo: «Perché sono un Karamazov, io. Perché se finisco nell’abisso, mi ci tuffo a capofitto a testa in giù e piedi all’aria, e a caderci in quel modo umiliante è una soddisfazione, per me, addirittura una bellezza». E ancora: «La bellezza è una cosa spaventosa e tremenda! Spaventosa perché non definibile, e definirla non si può perché Dio ci ha lasciato enigmi. […] Troppi enigmi opprimono l’uomo su questa terra». 
Il movimento della prosa di D è, a mio avviso, affascinante: è uno continuo correre, una breve ripresa di fiato, e nuovamente al massimo di frequenza possibile, alcune volte a questa velocità, che è una vera e propria furia, incontriamo frasi come quelle appena proposte, che ci costringono a un inciampo o a una frenata brusca. A pronunciare queste parole è Dimitri, che è il personaggio a cui presto più attenzione. Dimitri, lontano dal fascino oscuro di Ivan e dalla luce di Alesa, mi si è imposto come il grande personaggio del romanzo, come colui che veramente uccide il padre, che compie il parricidio per mettersi in viaggio verso la coscienza di sé. 
D fa di tutto per convincerci che sia Dimitri a commettere l’omicidio, perché narrativamente è lui che prende il largo, è lui che farà l’esperienza dell’altrove. Queste frasi citate racchiudono, in maniera precisa, la figura sfuggente di Dimitri o, meglio, racchiudono il modo in cui lui si sente: sono la voce del personaggio, non sono né la voce del narratore (che sappiamo “segue” per Alesa), né quella di D che ho sempre pensato detestasse, amandolo Ivan. 
Dimitri descrive una forma di tensione in cui amore e odio sono mostri che agiscono così nell’intimo dell’essere da renderli simili: si ama ciò che si odia più profondamente, perché ciò che si ama mostra di te l’abisso che non vuoi vedere, mostra la parte di te più terribile, quella che tieni nascosta quando cammini per strada o siedi al bar a sorseggiare il caffè; l’amore diventa odio, perché l’amore ti mostra la tua totale insignificanza rispetto al mondo, alle cose, cosicché l’unico modo che tu hai per impossessarti di loro è odiarle più profondamente; è ciò produce luce e gioia, tanfo e vergogna, l’uomo non è buono, o cattivo, è una mescolanza in cui l’abietto sta con la bellezza, e la bellezza arriva a toccare il punto più basso della vergogna.
Si può desiderare qualcosa, sentirla come necessario al tuo essere, e sapere che ciò che desideri è sbagliato, disgustoso, possiamo amare ciò che ci disgusta, ciò che è considerato sbagliato dalla società e della morale, lo possiamo amare perché in parte lo odiamo: ne facciamo così esperienza che diventiamo noi stessi disgusto abiezione, diventiamo peccato, facciamo diventare ciò che amiamo peccato: e il peccato diventa bellezza, perché conserva intatta, in qualche angolo nascosto, la gioiosa luminosità dell’amore e la sua purezza, di quando vedemmo la bellezza prima che ogni singola parola la corrompesse. 
La bellezza diventa tremenda, e solo nell’accettare la mostruosità di questa bellezza potremmo comprendere a fondo la possibilità che la bellezza salvi il mondo, perché la bellezza in D non ha nulla della quieta immobilità greca, ma è contemplare in sé l’orrendo, il negativo; è questo l’enigma del nostro essere: la tensione o il desiderio a fare il bene, e il compiere nelle opere nostre il male, come dice Paolo: «Io scopro allora questa contraddizione: ogni volta che voglio fare il bene, trovo in me soltanto la capacità di fare il male».

In Narrature

La città di M

di Cecilia Lolli

Settecentocinquanta milioni di persone l’hanno conosciuta, a partire dall’anno dalla sua fondazione, tutti con l’ambizione di divenirne l’unico padrone. Anche io, anche noi, probabilmente solo per noia, in un pomeriggio di pioggia, a casa di un’anziana parente, al posto delle carte. Per non doverci parlare, per non lasciarci nell’ultimo giorno delle vacanze d’agosto, che l’anno prossimo forse le faremo separati comunque: io al mare, tu in montagna. Settecentocinquanta milioni di persone assiepate in una città a pianta rettangolare, che sorge in una piana dove prima c’era natura e dove presto ci sarà di nuovo natura altra. Una pianta in vaso, un cesto di frutta, un bacino riflettente sul cui fondo si depositano metalli e minerali.

Settecentocinquanta milioni di persone che hanno in comune i primi passi mossi nella città di M., prima che ciascuno prenda il suo ritmo: la fortuna è semplice sorte per chi non le crede, per chi non si fida. Settecentocinquanta milioni di persone in una città che non promette alcuno stanziamento, dove andrebbero, dopotutto? Non c’è posto per loro, non ci sono tuguri, tane, cimiciai, case popolari, casermoni, caseggiati, Chruščëvka, Danchi, Mietskasernen, Tenements. O perlomeno, nessuno ci è mai arrivato, perché la città ha uno sviluppo orizzontale, lo sanno tutti che conviene investire poche risorse in ciascun lotto. In tempi di carestia, anche la nuda proprietà ripaga.

La città di M. unisce il mondo intero da decenni e decenni, la città di M. incrina rapporti intimi in un pomeriggio, in una sera – scagli la prima pietra chi non è un sore loser, scagli la prima pietra chi è senza peccato e senza memoria: avarizia, lussuria, invidia, in attesa dell’Apocalisse di Giovanni, in attesa che sopraggiunga la noia che spinge tutti a reclinarsi all’indietro, a distrarsi col cellulare, a dimenticarsi del proprio turno, in attesa che un umano movimento, repentino e improvviso, non sancisca la morte della città, per una rivolta silenziosa e occulta, per un rivolgimento che non miete vittime, per un colpo di stato senza delitti, per attimi di vita asettici, ciascuno chiuso nella propria bolla, come in una silent disco.

La città di M. ha quattro stazioni, una società elettrica, una società dell’acqua potabile, un posteggio gratuito, una prigione, una giustizia sommaria, quattro vie, quattro corsi, due larghi, cinque viali, un parco, due vicoli, un bastioni, tre piazze, una tassa patrimoniale, due tombini scoperti, due ascensori sociali, settecentocinquanta milioni di persone dall’anno della sua fondazione.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte II

di Demetrio Paolin

In FK, Parte Prima, Libro 2, cap. VI, leggiamo: «Perché campa uno così?». A pronunciarla è Dimitri, riferendosi al padre. Noi abbiamo già contezza di ciò che è suo padre, di ciò che hanno in ballo Dimitri e suo padre, quale sia il passato di tutti i fratelli, tutti orfani di madre, tutti abbandonati dal padre, vissuti nella privazione di ogni cosa. Perché campa uno così è la prima spia del parricidio, della morte del padre che è il centro del romanzo, da qui si irradiano come raggi che fuggono gli altri vettori della narrazione (la libertà, la liceità di agire secondo le proprie ideologie, ad esempio). Questo rapporto padre-orfano è veramente una delle profonde strutture del romanzesco: penso nell’Odissea a Telemaco che ignora la sua identità, perché non conosce il destino di vita o di morte di suo padre Ulisse; nel suo stato di orfanità presunta egli deve partire, deve lasciare Itaca per trovare notizie certe sulla morte del padre, così che possa in qualche modo essere certo di chi lui è. 

Nei FK questa struttura è sottoposta a una torsione: il padre non è morto, anzi è vivo, vegeto, sbruffone, e non ha nessuna voglia di morire. Il romanzesco sottende, però, sempre una domanda di identità che appunto possiamo riassumere nel “Io chi sono?”, ma per rispondere a questa domanda il padre deve morire, perché solo così il figlio si muove, si stacca da Itaca, inizia il suo viaggio. Alla base quindi del desiderio di parricidio, c’è un dato narrativo: senza la morte del padre non c’è romanzo. Se il romanzo è uno spazio di libertà, il protagonista deve muoversi in uno spazio di libertà, che è la tipica condizione dell’orfano – pensiamo a Tom Jones, o a Renzo dei Promessi sposi – o del non ancora nato – pensiamo al Tristam Shandy. 

Il romanzo nasce per investigare e descrivere l’uomo nel tempo e nello spazio, il romanzo pone al centro una questione identitaria, si chiede chi è chi, riflette sulla identità non avendo particolare amore per la tautologia, ma la domanda di Dostoevskij sposta il tutto rispetto a un piano teleologico, la domanda non è solo più chi sono io, ma perché io sono questo individuo che sono? Quale è la motivazione che fa sì che una persona viva? Ogni narratore si pone, quando costruisce le sue narrazioni, tali interrogativi: perché questi personaggi fanno così? Oppure, per quale motivo non possono che fare così?. 

Se guardiamo il susseguirsi di tali “perché” dal punto di vista autoriale, scopriamo una stringente logica narrativa, invece se spostiamo il nostro sguardo dall’autore al lettore, allora ognuno di essi diventa un dubbio, un abisso che si spalanca: perché questo personaggio fa così?, cosa del suo destino oscuro mi chiama e mi interroga? Perché campa? Perché io campo come lui? Quale è il motivo del nostro campare? 

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte I

di Demetrio Paolin    

Gli uomini maneschi leggon tutti Dostoevskij[1]

I

Il primo ricordo di Dostoevskij (d’ora in poi D) risale all’università, avevo vent’anni, non avevo ancora letto nulla di questo autore, quando a causa del mio nome mi venne chiesto se mia madre o alcuni miei parenti fossero di origine russa o fossero appassionati lettori di D; nessuna delle due ipotesi era corretta: il mio nome era legato a quello di mio nonno, che a sua volta era legato al nome di suo nonno, e così via, e nessuno dei miei parenti era un appassionato lettore di questo autore russo. Mi venne in mente che mia madre avesse potuto, negli anni della giovinezza, incrociare D e l’onomastica dei suoi personaggi nello sceneggiato della televisione che appunto raccontava i Fratelli Karamazov (d’ora in poi FK), ma nella realtà non avevo prove e quindi tralasciai la questione. Mi venne chiesto se avessi letto qualcosa di D e con somma vergogna dissi di no, provenivo da una famiglia con pochi libri e le mie letture erano disordinate, caotiche e spesso non seguivano nessun filo logico, se non quello delle disponibilità in biblioteca o nella libreria dove andavo ad acquistare i volumi, così mi venne detto che se studiavo lettere e mi piaceva la letteratura non potevo non aver letto D. E allora eccomi, il giorno stesso, nella mia libreria di fiducia in fila davanti alla cassa, con una copia di Delitto e Castigo, dell’Idiota, dei Demoni e dei FK che fu il primo romanzo che lessi, perché il nome di uno dei protagonisti era il mio.

Se dovessi comunicare la sensazione che permane di quella lettura, potrei descriverla come un sentimento di apertura, di vasto, di ampio, di ignoto. I FK mi aprirono al romanzo, instillarono in me la devozione a questo tipo di genere letterario; quel ragazzo timido, insicuro, innamorato della filologia romanza, dei testi medioevali, dei dibattiti teologici,[2] quel ragazzo che sentiva il bisogno di esprimersi, da un lato, e dall’altro la necessità di autolimitarsi nel suo dire, e che quindi scriveva versi in endecasillabi, costruiva racconti o poesie piene di vincoli formali, si trovò davanti alla ampia e libera pianura del romanzo, all’aprirsi davanti a lui di questa possibilità in cui poteva muoversi libero, seguendo il bisogno di ciò che voleva dire e esprimendosi come meglio gli andava: è stata allora, e lo ricordo ancora oggi, una sensazione di profondo panico; esisteva, esiste ed esisterà, almeno fino a quando l’uomo camminerà sulla terra, questa possibilità, questa forma versatile, unica e geniale del romanzo di poter dire tutto, di poter raccontare tutto, di poter organizzare ogni aspetto/evento/sentimento/accidente della vita umana in una trama, in una serie di scene, in una sequenza di paragrafi, un forma che produce in chi legge (ma anche in chi scrive) un dilatazione della sua esistenza, un ampliamento dei suoi orizzonti: il romanzo, il romanzo come mi appariva in FK, il romanzo come è diventato per me in questi lunghi anni di apprendistato e di frequentazione è ampia terra, una vastità esplorabile, una promessa di felicità, una ipotesi di terrore, una possibilità di sofferenza; è l’esperimento di più profonda libertà che io abbia mai provato. Così di colpo, senza volerlo, mi trovavo devoto alla religione del romanzo, l’unica forma a cui, come uomo, sento il dovere di obbedienza.

Rileggerlo, quindi, è per me motivo di gioia e di turbamento: è tornare a uno dei luoghi da cui tutto ha avuto inizio, proprio perchè i primi anni dell’università segnarono la lettura di alcuni dei romanzi che ancora oggi io reputo essenziali per me (Ulisse di Joyce, Illusioni perdute di Balzac, Tristam Shandy di Sterne, I promessi sposi di Manzoni). Mi muovo in queste pagine, quindi, alla ricerca di qualcosa di nuovo e nello stesso tempo mi accorgo di aver riletto il romanzo, auscultando il suo battito, alla ricerca quasi infantile di quello stupore che quasi 30 anni fa mi rapì per sempre.

II

In questa rilettura avevo preso con me alcuni saggi di Julia Kristeva, i lavori di Berdjaev su Dostoevskij, i saggi di Luigi Pareyson e gli studi di Bachtin che tenevo sulla scrivania accanto alla copia di FK, nella edizione Einaudi con la traduzione di Claudia Zonghetti. Alla fine non li ho consultati, pensavo di leggerli mentre riprendevo in mano i FK come se fossero un viatico, una mappa diversa del mio muovermi nel testo. Non è andata così, non ho mai sentito il bisogno di leggerli; cercando di capire il perché di questa rinuncia, mi scopro certe volte a sentire dentro di me una strana forma di fatica per tutto ciò che potremmo definire letteratura secondaria, i saggi, gli studi, che parlano dei libri che stai leggendo: ho l’impressione che tali   letture, per quanto essenziali in ambito accademico, siano una sorta di diaframma rispetto al romanzo, all’esperienza di lettura del romanzo che il lettore dovrebbe affrontare in solitaria.[3] Ho l’idea che siano questo tipo di studi una sorta di scudo, di protezione mentre l’avventura del romanzo è sentirsi in pericolo.

Ora, se dovessi pensare ad un’immagine legata alla lettura di un romanzo, e dei FK in particolare, penserei a una casa incendiata. Quando leggo, sento che le mie convinzioni, idee, ideologie e credenze sono messe in discussione; anzi il più delle volte mi sento spinto a ripensarle completamente; leggere un romanzo è come gettarsi dalla finestra di una casa in fuga. Ecco, se debbo dire a chi ho pensato durante la lettura di FK, rispondo David Foster Wallace.

Forse, l’unico saggio che in qualche modo mi è risuonato nella lettura del romanzo di D è stato Il Dostoevskij di Joseph Frank contenuto in Considera l’aragosta. Alcune frasi del saggio mi sembrano essere le uniche in linea con quello che vorrei sostenere in queste pagine. «Che Dostoevskij sappia raccontare storie non basta di per sé a renderlo grande. Se bastasse, Judith Krantz e John Grisham sarebbero grandi romanzieri. […] le loro trame sono popolate da figure bidimensionali rudimentali e poco convincenti. (Per dirla tutta, ci sono anche scrittori che sono bravi a creare personaggi umani complessi […], ma sembrano incapaci di inserirli in una trama credibile e interessante. E altri ancora – spesso dell’avanguardia accademica – che non sembrano esperti/interessati né alla trama né ai personaggi, i cui libri dipendono interamente per movimento e attrattiva da progetti rarefatti metatestici). I personaggi di Dostoevskij hanno questa cosa che sono vivi. E per vivi non intendo solo ben realizzati o sviluppati o “torniti”. Il meglio di loro vive dentro di noi […].    Queste e così tante altre creature di Dostoevskij sono vive […] non perché sono tipi o sfaccettature di esseri umani abilmente tratteggiati, ma perché, agendo all’interno di trame plausibili e moralmente avvincenti, essi mettono in scena le parti più profonde di tutti gli esseri umani, le parti più conflittuali, più serie - quelle in cui si rischia di più». (nota?)

Leggere i FK mi ha messo in pericolo, ha costretto a chiedermi che tipo di felicità perseguo nella mia vita, che tipo di amore ho per le persone intorno a me, quali sono i miei gradi di viltà, di piacere, quale grado di male, umano e divino sono disposto a sostenere e sopportare, quale grado di malvagità sono disposto a compiere, fino a che punto mi spinge la mia abiezione, la mia lussuria, il mio desiderio, il mio bisogno di gioia; quale è la mia fede, quale la mia idea di felicità, di demonio… Non è possibile leggere i FK senza porsi queste domande, senza camminare a fianco di Dimitri, di Alesa, di Ivan, condividendo con loro le loro furibonde passioni, le amplificazioni che D applica alle loro azioni; si ha l’impressione alcune volte che la prosa di D sia troppo: troppo urlata, troppo forzata, troppo lunga, troppo grezza, ma questo troppo infine, quando il romanzo verrà chiuso, risuonerà nella tua mente e ti dominerà. Questo troppo oggi ci fa ridere, ci fa alzare il sopracciglio: oggi siamo più fini, siamo più ironici, più scafati rispetto alle tirate di D, rispetto alle prolusioni dei suoi personaggi, al sistema di valori morali e ideologici che in FK o nelle altre opere viene gridato. Ciò è certamente vero, ma ogni ipotesi di analisi rigidamente testuale che non metta in pericolo il me lettore non ha senso: non è possibile produrre una speculazione strutturalista del testo, un approccio semiologico o semiotico all’opera; i bizantinismi della critica letteraria qui si rompono; c’è qualcosa di compatto nei FK che non lascia ridurre a puro testo, a pura speculazione, a pura analisi delle figure retoriche o a scomposizione narratologica, questo qualcosa   potremmo definirlo come una economia del romanzesco, una sorta di contenitore ibrido,[4] dove stile, storia, trama, montaggio convivono indistinguibili: tutto ciò che segue nel modo più disordinato possibile, eppure secondo un filo che a me pare chiarissimo, si è voluto inquisire mettendo sotto processo proprio questa economia del romanzesco.


[1]      Immagino che il lettore, vista l’epigrafe, arricci il naso o, peggio, provi fastidio. È chiaro che tale epigrafe è una boutade da leggere in antifrasi rispetto al suo contenuto. Nello stesso tempo tocca un nervo scoperto dell’opera di Dostoevskij, di cui forse il celebre saggio sul parricidio di Freud è il capostipite e il più chiaro rappresentante. L’idea di queste inquisizioni nasce proprio per negare (da qui il carattere antifrastico) il contenuto dell’epigrafe, nella speranza di sfuggire da psicologismi, autobiografismi che costellano l’opera narrativa. Quando iniziai, oramai trent’anni or sono, a leggere Dostoevskij discussi con alcuni amici e amiche sulle sue premesse ideologiche, eravamo giovani laureandi e volevamo fare gli scrittori, i critici letterari, i professori e volevamo darci un tono, e mentre eravamo lì a discutere una amica, rimproverando a D un certo maschilismo, se ne uscì con questo slogan, preso da qualche manifestazione e movimento dei ‘70, che allora venne accolto con una sonora risata, ma che nel tempo mi ha portato a riflettere sul modo di recepire e di raccontare questo autore e il suo testo.

[2]      Non credo sia casuale la presenza anche in questo mio saggio di numerose riflessioni teologiche, perché infine D rimane uno scrittore che produce una riflessione che mette al centro la domanda di senso su Dio.

[3]      Non è una contraddizione il fatto che queste inquisizioni nascano all’interno del gruppo di lettura di Lettera Zero, perché l’atto della lettura è solitario, così come lo è l’atto della scrittura, mentre il confronto, la riflessione, il ragionamento possono e debbono essere comunitari.

[4]      Mi rendo conto che questa è la stessa natura del contributo che state leggendo, altrettanto ibrido, indeciso tra saggistica e memoria, tra speculazione critica e lavoro di scavo letterario/stilistico.

In La Seconda Repubblica delle Lettere

A Michela Murgia. Storia tragicomica di una scrittrice

di Francesca Bellucci

La prima volta che vidi Michela Murgia era il 2015, mi trovavo nell’Aula Magna del mio liceo e avevo, come spesso accadeva allora, aspettative minime su quell’ennesimo incontro con l’autore. Era in giro per l’Italia a presentare la sua ultima uscita, Chirù, romanzo che non solo non mi piacque, ma che mi suscitò un certo insopportabile senso di fastidio. Fu il primo che lessi, su imposizione, proprio in vista di quell’incontro; e credetti che sarebbe stato anche l’ultimo. Pensai che, come molti degli altri scrittori che erano capitati sulle colline della mia città, si sarebbe limitata ad assolvere all’unico compito che stava a cuore a me e ai miei compagni: allontanarci dall’aula, serrare le orecchie e fingere, nella migliore delle ipotesi, un’attenzione che avremmo destinato al compagno seduto accanto. E dire che allora leggere era l’attività principale della mia vita, ma due malcapitati al loro primo romanzo, scritto a quattro mani, dissero in quella stessa Aula Magna che la scrittura non poteva e non doveva avere a che fare con la vita dello scrittore. Quella frase mi fece odiare prima quei due e poi gli scrittori che seguitarono ad arrivare a scuola. Era stato il compiacimento generale che mi fece storcere il naso, mandando in brandelli la credibilità di chi, in qualche modo, imboccava la strada per la mia città e soprattutto di chi decideva chi sarebbe arrivato.

Ma l’incontro con la Murgia fu tutt’altro: lei ci costrinse ad aprire le finestre e a guardare fuori, a renderci conto che in un romanzo ci sono sempre dei pezzi di vita vissuta, voluta, desiderata, spaventosa e profondamente dolce. La Murgia parlava e noi eravamo davvero lì con lei, in dialogo, stupefatti e attratti da quelle verità che lei ci stava proiettando davanti agli occhi con dolcezza e sagacia. Ripercorse la sua storia e quella del suo primo romanzo, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, e quel momento fu il fulcro di tutto. Lì la vita dello scrittore e dello scritto diventavano un tutt’uno e mi permisero di capire che c’era chi, come lei, dalla verità non solo non si lasciava spaventare ma che imbrigliava col coraggio la paura di parole messe in fila l’una dietro l’altra per sancire un punto di fine e uno di inizio. La vera magia fu che di tutta quella forza non me ne accorsi subito: entrò poco alla volta, smosse prima le corde della curiosità, poi quelle del dubbio. Non ci sono molteplici forme di verità collettiva, ce n’è una sola, comune, che ha come unico perno la felicità. Una società giusta è una società in cui il singolo sa di potersi beare dei piaceri della vita senza imporre a se stesso una maschera che gli permetta di muoversi latentemente per le vie della propria giustizia personale.

La sera di quel dicembre 2015 scesi di casa per ascoltarla ancora nella libreria che la ospitava. C’erano per lo più adulti, tanti piccoli borghesucci di provincia che i libri e gli incontri li collezionavano per fregiarsi di chissà quale cultura, forse posseduta, ma di certo sterile: incapace di farsi forma di pensiero. Con la grazia che le ho sempre ritrovato anche negli anni successivi, la Murgia planò sulle nostre vite. Usò il suo romanzo come pretesto per farci dire ad alta voce che sono i desideri più reconditi quelli in grado di muoverci davvero, che per comprendere chi siamo dobbiamo guardare in basso, vedere ciò che abbiamo nascosto, abbellito da una nebulosa convinzione di agiatezza.

In questi otto anni l’ho vista prendere a due mani le verità della nostra società e metterle sotto la lente d’ingrandimento per permetterci di capire che la strada che stiamo percorrendo non è quella corretta, se non è quella scelta con la testa.

La Murgia ha cucito una maglia di idee che cerca di rendere la società più giusta, più equa, che si pone l’obiettivo di scardinare le bugie che ci raccontano e ci raccontiamo per alimentare la nostra pigrizia e lasciare che tutto ci scorra addosso, convinti che la tempesta possa attraversarci e non sbaragliarci. Ha raccontato storie, ne ha inventate tante altre; ha intrecciato verità e fantasia, ha inciso lapidi di parole sulle brutture del nostro tempo.

Molto da dire ci sarebbe sulle donne della sua penna, sul suo uso delle parole nei saggi e nei romanzi, sul registro comunicativo che con grande coerenza ha usato per l’attivismo sui social, sulla capacità di adattare i mezzi di comunicazione a sua disposizione alla misura dello scrittore, sancendo la dimensione moderna dell’intellettuale, sulla potenza degli scritti degli ultimi mesi.

Muore solo la donna; gli scrittori, si sa, continuano a vivere nella dimensione delle parole.

In Narrazioni

Saluto a Morselli

di Matteo Caputo

Ognuno di noi porta con sé dei sensi di colpa.

Per quanto alcuni possano apparire assurdi e immotivati, ci si aggrappano addosso e ci costringono ad agitarci come cani che hanno qualcosa sulla schiena e non riescono a scrollarsela di dosso. Il mio senso di colpa più insensato è, ve lo anticipo già, verso uno scrittore.

Io non lo conosco e lui non mi conosce, anche perché, quando ho messo piede su questa Terra, era già morto da tempo. Si è suicidato, per la verità: dettaglio che, nella vita di un uomo, non è affatto irrilevante. Ha preso la sua «Ragazza dall’occhio nero», come la chiama nel suo romanzo più famoso, e l’ha fatta finita. Esattamente cinquant’anni fa, il 31 luglio del 1973, Guido Morselli decideva di abbandonare un mondo che non l’aveva mai capito e che forse, in quegli anni, non avrebbe comunque potuto farlo.

Bolognese di origine, varesotto di adozione, Morselli tentò finché ebbe respiro di farsi pubblicare, tuttavia invano. In vita poté vedere l’uscita solamente di Proust o del sentimento, del 1943, e Realismo e fantasia, del ’47. Proprio a proposito del primo saggio, uscito mentre si trovava in Calabria (per rimanerci tre anni, dal ’43 al ’45), scrive nel Diario:

Mi chiedo se sia possibile desumere un orientamento, ricavare una indicazione sul senso della nostra vita, di ciò che il destino – o la Provvidenza – ci ha riservato o ci viene apprestando, e che spesso ci sembra irragionevole e ingiusto se non assurdo ed iniquo. Ad es., vi è forse sottinteso un oscuro disegno nel fatto che la mia prima opera venga in luce lontano da me e senza che io ne possa avere notizia.

Per una di quelle beffarde ironie della sorte che connotano meglio di tante altre cose le storie personali di ciascuno di noi, egli non sapeva di aver chiaramente descritto la condizione che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita e che avrebbe trovato conferma in ciò che sarebbe accaduto dopo di essa. Dopo la morte, infatti, come da copione, il successo: in meno di dieci anni, tra il 1974 e il 1980, vede la luce la maggior parte dei suoi romanzi. Il primo, ad esempio, Roma senza papa, in cui il vicario di Cristo decide di abbandonare Roma per vivere comodamente in una villetta a Zagarolo, esce nello stesso 1974; E che dire di Contro-passato prossimo, pubblicato l’anno successivo, dove Morselli riscrive un capitolo importante della Storia recente immaginando che la Grande Guerra sia stata vinta dagli Imperi centrali? (Oltretutto, a spaccare a metà il racconto, un Intermezzo critico davvero interessante). L’ultimo titolo di questa rapida rassegna (dal sapore, lo riconosco, un poco pubblicitario: ma, non dimenticatelo, io ho il mio senso di colpa da lenire), l’ultimo titolo, si diceva, è quello di sicuro più noto, Dissipatio H.G. (non vi sforzate, va sciolto così: Humani Generis), tra l’altro oggetto di una notevole riscoperta in anni recenti e causa di un’attenzione critica ipertrofica rispetto al resto della produzione morselliana, tanto da essere rappresentabile, con un po’ di fantasia, come uno di quei quadri di Dalì dove sono presenti arti sproporzionati. È la storia di un’apocalissi selettiva: un uomo sull’orlo del suicidio si trova a desistere dal proposito di ammazzarsi annegandosi in un laghetto. Durante il ritorno a casa scopre che l’umanità è sparita, è “evaporata”, appunto: si spalancano così, davanti al protagonista, le strade della riflessione su questo inedito scenario post-apocalittico e su tutto ciò che da esso scaturisce, percorse con lucidità ed ironia e inframmezzate dalle soste offerte dai ricordi: «Tutta la nostra esperienza interiore è il gioco di due fattori: la memoria (il passato), l’angoscia (il presente)», scrive trent’anni prima a Catanzaro nel VI Quaderno del Diario, quello di gennaio-febbraio 1944.

Si tratta del suo ultimo romanzo, del suo estremo tentativo di offrire al grande pubblico le proprie meravigliose pagine: anche tutti i precedenti, s’intende, erano andati a vuoto, e protagonisti delle inascoltate ragioni di questo exclusus amator – che tuttavia non arretrò mai di un passo la linea della propria dignità, anzi – sono stati personaggi di altissimo livello culturale, tra cui Calvino (con il suo trentennio di attività editoriale presso Einaudi) e Vittorio Sereni, il quale, in una lettera del 1971, non esita a ricordargli che «il nostro non è un ufficio di consulenza critica, ma un servizio di carattere editoriale, del quale rispondiamo ovviamente all’editore». L’editore di cui parla il poeta di Luino, si sa, è Mondadori.

Ma, come per ogni casa editrice, la pubblicazione di un libro è sempre una questione che deve tener conto di tanti parametri che nulla o quasi nulla hanno a che vedere con la letterarietà: l’autore della Casina Rosa (il suo buen retiro di Gavirate), per varie ragioni, era impubblicabile (tant’è che ci avrebbe pensato un editore come Adelphi a farlo conoscere al mondo). Non ultima, lo ammetto, quella dello stile: leggerlo implica un’attenzione particolare, spesso una rilettura, ma con il grande vantaggio di avviare riflessioni profonde e scoprire anche perle di rara ironia. Insomma, Morselli non è un autore da sfogliare sotto l’ombrellone: fa strano che io lo dica proprio nel periodo migliore per i consigli sulle letture da spiaggia, ma è così.

Se volete, lo rimandiamo a settembre. Con la promessa, però, di riprenderlo: non solo per i romanzi, ma anche, ad esempio, per il suo Zibaldone personale, quel Diario non più ristampato (ne esiste una versione in e-book, per fortuna) che non ha nulla da invidiare agli Escolios di Gómez Dávila o ai Cahiers di Cioran e che ci guida lungo trentacinque anni di riflessioni sull’amore e sul problema del male, sulla letteratura e sulla filosofia, sul suicidio e su Dio.

Da questo senso di colpa privo di colpa, sono leggermente più sollevato. Buona estate.

In mdp

Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – IV e ultima parte

di Umberto Mentana

La storia del divismo continua a svilupparsi a Venezia fino a che con Chiarini si comincia a prendere le distanze da questo fenomeno, poi si faranno tutti gli scongiuri possibili con Gambetti e non si vorrà neanche sentir parlare di questo aspetto che verrà considerato deleterio, ma le presenze divistiche sono importantissime, tra divismo cinematografico e divismo politico.
Il divismo politico prende subito la scena a partire dal ‘35 con la presenza di deputati, ministri o Presidenti del Consiglio dagli anni Cinquanta in poi. In questi stessi anni vengono ospitate anche grandi personalità, come ad esempio lo Scià di Persia e, soprattutto, Winston Churchill che ha una presenza al Lido memorabile per due avvenimenti: sia perché va all’Excelsior e finge di fare il bagno rimanendo in accappatoio, sia perché entrò durante la proiezione di un film inglese (a film iniziato) con qualcuno che cercava di aiutarlo mentre faceva le scale del palazzo, e lui reagisce in modo indispettito dicendo: “Sono ancora giovane!” e, quando finalmente entra in sala, avviene qualcosa che non era mai avvenuto in tutte le edizioni precedenti poiché verrà interrotta la proiezione per applaudirlo. Ebbene, c’è quest’aria di protagonismo, c’è una “dolce vita” che comincia al Lido dal Cinquanta in poi e i lidensi incominciano ad andarvi per vedere questa sfilata di attori, di personaggi piccoli o grandi dall’Excelsior alla Mostra, quando questo però non era ancora un red carpet che verrà poi ‘inventato’ negli anni Duemila. Io ho ancora delle compagne di scuola un po’ più grandi di me o della mia età che ricordano che già a dodici anni facevano la fila per vedere Gina Lollobrigida, Sofia Loren e poi quando apparirà Brigitte Bardot…insomma, a me dispiace ancora di non essere stato alla seduta fotografica che le fecero alla spiaggia dell’Excelsior dove c’era un pubblico grandissimo e una cinquantina di fotografi. È stato allora, nel 1958, un evento importante per il divismo che circolava per il Lido.

Poi dagli anni Sessanta i divi diventano i registi, i giovani registi: da Olmi a Rosi, da Pasolini a Pontecorvo, i fratelli Taviani, Ferreri, Bellocchio; passano per il Lido tutti i grandi registi perché il cinema italiano gode di momenti in cui il Festival serve effettivamente come occasione di lancio, di conoscenza di gente all’esordio che è già da consacrare. Gli anni Sessanta sono trionfali per il cinema italiano, Rosi vince nel ‘63 con Le mani sulla città, nel ‘64 vince Antonioni con Deserto Rosso, nel ‘66 c’è La battaglia di Algeri, nel ‘65 vince Vaghe stelle dell’orsa… di Visconti, che era sempre arrivato secondo proprio per via delle giurie politicamente condizionate e riceve il Leone d’oro per uno dei suoi film meno importanti. Però, appunto, quattro Leoni d’oro di seguito sono un evento straordinario.

    Ho cercato di seguire l’andamento dei pubblici e le loro trasformazioni: dai pubblici in prima fila, tutti vestiti per i grandi eventi come se fosse uno spettacolo al Teatro La Fenice, come se fosse un grande spettacolo teatrale, ma i pubblici cambieranno nel corso del tempo. I pubblici che andranno al Festival nei primi anni Quaranta saranno dei pubblici precettati: per esempio, pubblici di marinaretti, di soldati pronti a partire per la Guerra; invece, i pubblici che più mi emozionano, a parte quelli che vanno per le prime volte sia al Giardino delle fontanelle luminose all’Excelsior (che sarà il luogo adibito per le proiezioni) sono quelli che vanno al palazzo che viene costruito nel ‘37 dall’ingegner Quagliata in pochi mesi. Oggi è impensabile questo, sia il palazzo che il casinò vengono costruiti abbattendo delle costruzioni, un forte ottocentesco, in otto mesi o dodici mesi. Poi, nell’immediato dopoguerra viene costruita l’arena, aperta a milleottocento spettatori, e lì confluirà il pubblico popolare del Lido e di Venezia. La Biennale distribuisce gratuitamente tantissimi biglietti, quindi molti vanno al Festival anche legati dal lavoro in amministrazione pubblica ma cominciano anche ad arrivare giovani interessati al Cinema, e anche questa è una grande storia che vidi cambiare. Negli anni Sessanta si aprono posti anche per studenti universitari e con Lizzani anche i professori vengono invitati. I professori sono otto quindi non ci sono grandi costi per la Mostra ma gli studenti ci andranno con i sacchi a pelo: è una cosa straordinaria per quel periodo in cui Lizzani, con Enzo Ungari, inventa le proiezioni di mezzanotte perché a quelle proiezioni dove tentano di andare tre o quattromila persone, creando situazioni da stadio.

Fin qui, sei storie. E poi c’è anche la storia d’Italia nel mondo che si mescola. Il Lido è un’isola, è vero, ma quando la campana della Storia suona ci sono momenti in cui ci si rende conto che stiamo attraversando il Sessantotto; poi il ‘74 con il Cile, il ‘77 con la “Biennale del Dissenso” e poi vari momenti con il 2005 ed il problema del terrorismo con gli stati di tensione: il Comune di Venezia e il Ministero degli Interni mobilitano forze armate proprio perché temevano atti terroristici.

E sono arrivato ai giorni nostri; negli ultimi quindici anni ho recuperato tutti i film che riuscivo a vedere, appoggiandomi moltissimo ai cataloghi, a ciò che scrivevano i direttori e consultando ciò che scriveva la stampa. Avevo la fortuna di avere tanti ritagli di giornali anche di questo periodo, non guardavo ma conservavo molte cose, avevo notevoli materiali a cui appoggiarmi. Alla fine, quando ho fatto vedere al Direttore Barbera il capitolo a lui dedicato chiedendogli se c’erano degli errori, se avevo dimenticato qualcosa di davvero importante, mi disse che non aveva trovato nulla da rivedere e quindi fui molto contento. Avevo lavorato bene, cercando di mantenere una distanza da degli eventi che erano invece per me vicinissimi. 
L’ultima cosa che vorrei dire riguarda gli archivi che ho cercato di consultare e che non ho stimato per niente per molti anni; dovunque andassi, mi dicevano: “Mah, non so neanche dove possa essere questa annata del ’36!”. Pellicole e documenti non si trovavano e, da un certo momento in poi, hanno anche passato il materiale ad altri  – un po’ hanno ragione per i film infiammabili – ma perché non convertire tutta la cineteca (fatta anche di film in copia unica firmati dal regista) che poi, andando sul mercato, prendeva strade diverse? Invece, l’Archivio della Mostra della Biennale non ha i film. Questa è una cosa che, secondo me, va reintegrata con la crescita dell’archivio. Oggi, invece, è del tutto attiva e hanno messo in rete addirittura centomila foto (https://www.labiennale.org/it/asac/collezioni/fototeca).
    Infine, negli anni Ottanta la disorganizzazione era totale, con gente ammassata e schiacciata per vedere il primo Indiana Jones. Questa disorganizzazione continuerà, prima di tutto perché vengono meno i fondi a partire dagli anni Settanta già con la gestione Carlo Ripa di Meana (1974-1978) con dei tagli da circa un miliardo nel budget di Venezia. Contemporaneamente, però, la Mostra è in crescita, quindi come si fa a gestire tutto questo? Viene data possibilità agli studenti di accedere, io cominciavo a mandare qualcuno dei miei studenti di Cinema a partire dall’ ‘80 in poi però la disorganizzazione era totale, ma niente in confronto al ‘74, ‘75 dove la cosa era molto peggio. Poi, anche con Biraghi ci sono problemi. Infatti, quando Alberto Crespi diventerà critico de L’Unità, Biraghi farà delle rubriche dedicate proprio a cosa non funziona nella Mostra di Venezia. Nei primi anni di Gambetti si era tornati quasi a zero con la critica: il primo anno chiedono solamente trenta giornalisti perché era Novembre, perché non c’era niente di interessante, e poi invece con Lizzani ci sono seicento o settecento persone che chiedono di essere accreditate per l’evento. L’ufficio è lo stesso, il personale è lo stesso e quindi le cose non funzionano e non funzioneranno neanche con Laudadio nel ‘97, ‘98. A partire dagli anni Ottanta, i giornali non mandano più solo il critico che parla dei film e che li guarda tutti, iniziano a mandare le giornaliste che fanno i pezzi ‘di colore’, i giornalisti locali riempiono i pezzi di cose che non vanno e quindi, allargando lo sguardo, si troverà in tutto più o meno alti e bassi dell’andamento del Festival. Poi, le cose comunque vanno avanti, con sempre meno soldi e il problema è anche questo; negli anni Ottanta e Novanta la Mostra viene quasi abbandonata, è la figlia minore della Biennale, occupiamocene, sì, ma molto meno rispetto ad altri settori. 

“Il cinema è entrato, fin dall’adolescenza, da protagonista nel cast delle passioni che mi hanno accompagnato e guidato nel mio romanzo di formazione di veneziano del Lido. Ma è proprio grazie al Festival, all’attrazione fatale esercitata su di me dalle sue memorabili retrospettive, o dalle possibilità di scoperte di nuovi autori e tendenze del cinema contemporaneo, regalatemi dalle edizioni dirette da Luigi Chiarini, che ho avvertito, verso la fine dei miei studi universitari, l’esigenza di diventare, a pieno titolo, un cittadino del cinematografo sul modello di Jean Renoir”.


– Gian Piero Brunetta, dall’Introduzione a
La Mostra Internazionale  d’Arte Cinematografica di Venezia 1932-2022

qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/

qui il testo della II parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-ii-parte/

qui il testo della III parte: https://www.letterazero.it/wp-admin/post.php?post=866&action=edit

In Focus

Iconico: un pantheon di nuovi miti

di Carmen Rampino

6 maggio 2023: compleanno di C., su un bigliettino di auguri vi è scritto «Che la forza sia con te», un suo amico commenta in modo spontaneo e naturale: «Ah sì, la frase iconica di Guerre stellari».

24 maggio 2023: muore Tina Turner. L’addetta stampa della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, la definisce un’icona, «un’icona della musica che ha vissuto molti momenti incredibili nella sua carriera».

Due episodi diversi, uno di vita privata, l’altro di vita pubblica e, per quanto riferito prima ad una persona e poi ad una frase, l’aggettivo che compare in entrambi i contesti è lo stesso: iconico. Questo dimostra quanto pervasivo sia il suo uso. Iconico allude al sacro, al culto, alla fede. Ma cosa oggi è degno di devozione e di culto? Tante volte viene ripetuto, citando Lyotard, che il postmoderno ha segnato la fine delle grandi narrazioni. E questo sarà anche vero, ma siamo sicuri che il viscerale bisogno di creare dei miti e degli idoli sia scomparso? Questa esigenza o aspirazione a qualcosa di “altro” in realtà è un’urgenza del tutto umana a cui non è possibile rinunciare. È chiaro però che questo bisogno cambia, si estende e si indirizza verso nuovi soggetti, oggetti o feticci degni di culto. A questa impellente necessità risponde tutto ciò che oggi viene definito iconico. Sembra che si stia costruendo un nuovo pantheon che pare mettere in discussione la tradizione, ma che non fa altro che assecondare un bisogno ineliminabile. Quali sono, però, gli oggetti di culto di oggi?

Per capirlo si prenda in considerazione un autore che in maniera originale sfrutta e reinterpreta in modo alternativo tutto ciò che è considerabile iconico, cioè Zerocalcare. Attraverso le sue storie, per mezzo di un lavoro di autofiction, Rech crea un universo alternativo, parallelo al nostro, che però «mantiene tutta la durezza tagliente di quello reale» (Cocchi 2014, p. 223), in cui le sue opere (siano esse fumettistiche o d’animazione) ne sono i tasselli costitutivi. È un mondo ibrido e surreale, in cui realtà e fiction si compenetrano senza soluzione di continuità, creando delle intricate relazioni intertestuali (cfr. Ursini, 2018a, p. 4) e dando vita a una vera saga o, meglio, ad un epos, a tratti lirico, della quotidianità. Questo storyworld, continuamente interrotto da osservazioni metanarrative in cui il reale prende il sopravvento creando dei cortocircuiti, è un vero specchio in cui riflettersi.

Tale universo è abitato da un’ampia varietà di personaggi che crescono, cambiano, evolvono nei vari libri. Oltre al celebrearmadillo, compaiono personaggi di varia natura: quelli ritratti con fattezze reali, come l’alter ego dell’autore, Zerocalcare, o l’amico Secco; i personaggi zoomorfi come l’amico Cinghiale, ritratti con fattezze animalesche; infine figure nate dall’unione tra un ipotesto pop o scolastico a cui fanno riferimento e il personaggio reale che interpretano nella storia, come la presenza dolcissima di Lady Cocca. In quest’ultimo caso, come è ben noto, il bacino a cui l’autore attinge proviene da serie e film d’animazione, come Ken il guerriero, videogiochi, come Street Fighter 2, cinema, come Star Wars e Jurassic Park, serie tv, come Game of Thrones, e dalla realtà presente o storica, come Darwin, Pirandello, Margaret Thatcher, etc. Conta soffermarsi su quest’ultimo gruppo di personaggi, che alludono alla cultura pop o scolastica e che talvolta possono anche convertirsi in parti della coscienza del protagonista dando vita a vere e proprie psicomachie (cfr. Capoferro 2020, p. 163), perché in tutta la produzione questo è forse il più copioso e perché è quello che maggiormente ci aiuta a cogliere il senso di ciò che è definibile iconico e l’origine del nuovo pantheon di divinità a cui si alludeva pocanzi. In Un polpo alla gola, storia dalle tinte noir in tre tempi corrispondenti alla fase infantile, a quella adolescenziale e a quella presente, la coscienza bambina viene impersonata da David Gnomo, la coscienza dei sedici anni da Kurt Cobain, Joe Strummer e Che Guevara, e la coscienza dei ventotto anni dai tre porcellini. Inoltre, come si vedeva precedentemente, può anche capitare che in alcune storie per alludere a particolari aspetti e sensibilità della propria coscienza si utilizzino personaggi storici, come ne La profezia dell’armadillo,in cui ad esempio la sensibilità ambientalista che induce un conflitto interiore nel protagonista, che non sa se andare o meno a mangiare in fast food perché, tra le altre cose, contribuirebbero alla distruzione del pianeta e all’omologazione dei popoli, è interpretata dall’ambientalista indiana Vandana Shiva (Zerocalcare, 2017a). Questo personaggio, oltre le sue tre tavole, non comparirà più, ma il suo inserimento ha contribuito a rendere meno piatto e sicuramente più dinamico un continuo monologo interiore che si trasforma in dialogo. Se allarghiamo lo sguardo a tutta la produzione notiamo che ci sono momenti in cui come consigliere avrà Darwin (Zerocalcare 2017b, p. 37), altri Noam Chomsky (Zerocalcare 2020, pp. 10-20), altri Re Leonida di 300 (Zerocalcare 2017a), altri ancora Galileo Galilei (Zerocalcare 2015, p. 59), Marx (Zerocalcare 2019, p. 73) e tanti altri, che compaiono come dei brevissimi flash, creando un parodico effetto-sorpresa disorientante, in un pastiche apparentemente caotico, ma sapientemente ordinato per il lettore inserito in questa dimensione altra in cui, per l’appunto, c’è un continuum tra verità e finzione. Questo lavoro, la cui tecnica viene ripresa dal fumettista francese Boulet (cfr. Scarpa 2013, p. 74), ha un’utilità pratica, cioè descrivere i personaggi e la loro psicologia in uno spazio ridotto. Disegnare un personaggio in un certo modo che collettivamente viene associato ad un certo tratto caratteriale consente di essere subito comprensibili. L’autore lo conferma: «se io un personaggio te lo disegno come Dart Fener, non devo spiegarti: “guarda che lui in verità è cattivo ecc. ecc.”, tu lo percepirai subito come cattivo, nero, quindi questo lavoro sui personaggi mi faceva andare più in fretta nel racconto» (Scarpa 2013, p. 74). Questo vale moltissimo per le storie brevi del blog, ma anche per i libri di più ampio respiro. Non sempre, però viene usata la caratteristica che più spicca di un determinato personaggio di un film o serie, ma vengono sfruttati anche dei caratteri a cui non sono universalmente associati (cfr. Scarpa 2013, p. 73) o vengono utilizzati personaggi secondari. Sarebbe, infatti, ridondante adoperare staticamente dei tipi già creati e stereotipati. Qui, invece, avviene una traslazione in cui l’ipotesto assume nuova vita nel testo di arrivo. In questo caso l’esempio emblematico non può che essere il personaggio Julian Ross del cartone animato giapponese Holly e Benji, utilizzato in Macerie Prime e Macerie Prime – Sei mesi dopo. Questo diventa il simbolo del talento inespresso – «E mentre tutti i bambini si appassionavano ai due protagonisti, il nostro beniamino era un altro […] Julian Ross. Quello con la malattia cardiaca per cui, pure se era fortissimo, poteva giocare solo 10 minuti a partita, sennò infartava. “Il più grande talento inespresso del calcio giapponese”, dicevano» (Zerocalcare 2017b, pp. 86-87) – e vero e proprio protettore del protagonista e dei suoi amici, che regalano il biglietto con la sua faccia al matrimonio di uno di loro (Zerocalcare 2018a, p. 85). Se nell’anime Julian Ross era un personaggio secondario, qui finisce per acquisire nuovo potenziale narrativo lungo tutti e due i volumi di Macerie Prime e addirittura la sottotrama distopica, quella con le pagine nere, si risolve con la figura misteriosa che si muove nel mondo post-apocalittico che rivela di essere proprio Julian Ross (cfr. Zerocalcare 2918a, pp. 176-179). Queste metafore visive, metafore disegnate o, forse meglio, vere e proprie allegorie grafiche (cfr. Capoferro 2020, pp. 153-176), assumono un senso ben preciso in questo specifico contesto. Tali personaggi disegnati attraverso «visual and/or multimodal metaphors» (Ursini 2018, p. 4) creano delle relazioni intertestuali tra uno o più risorse e storie di Zerocalcare, creando un mondo narrativo in cui varie memorie autobiografiche e fonti culturali coesistono in un centro deittico esteso (cfr. Ursini 2018, pp. 6-7) e in un cui si salda una fitta rete a maglie strette tra fumetti e riferimenti esterni, un vero e proprio network coinvolgente. Dart Fener, Julian Ross, Re Leonida di 300, Il trono di spade e Jurassic Park, fino a Tina Turner e che la forza sia con te alludono precisamente al medesimo concetto di icona e al medesimo nuovo pantheon laico di totem da divinizzare. E nessuno è escluso, anche se si crede nella lotta al capitale. E questo lo dimostra lo stesso autore romano. È naturale, infatti, chiedersi che cosa ne resta della lotta al capitale in un autore che finisce per fare fortuna proprio sfruttando quei meccanismi prodotti dal capitalismo stesso. Ecco perché Maringelli si chiedeva cosa significasse avere un immaginario legato a film, serie tv, cartoni animati, videogiochi se ci si definisce anticapitalista. «Significa produrre, e sentirsi addosso, un continuo cortocircuito» (Maringelli 2015). Le merendine, i fast food, Netflix e le case editrici alludono a qualcosa che, nel bene o nel male, ci ha prodotti e ci costituisce, è inutile ipocritamente negarlo. Si può risolvere questo paradosso? No. L’autore non propone né la fuga verso un utopico mondo puro e incontaminato né il generico e banale “fa tutto schifo”. È proprio nel paradosso e nella contraddizione che si continua a vivere. La speranza può venire solo dalla collettività, ma la lacerazione, la frattura, la si continua a portare con sé senza nasconderla. Il fumettista continua a rimanere legato ad un mondo molto radicale, ma allo stesso tempo è «un autore mainstream, che può incidere sui media di massa e modificare le relazioni interne al mercato, non solo nello specifico del fumetto, ma in maniera crossmediale, dalla carta stampata al digitale alla televisione» (Bindi 2022, p. 62). E, almeno a livello tematico, non c’è schizofrenia tra le due parti, ma continuità. La radicalità viene mantenuta anche nel mainstream. Se, per esempio, realizza un manifesto per sostenere il blocco della vendita delle armi in Turchia (Zerocalcare 2018b, p. 59) che rappresenta un salvadanaio a forma di maialino con sopra impresse le bandiere dell’UE e dell’Italia che rimpinguano con le sue monete le armi turche, utilizzate poi per distruggere e creare disastri, nel libro che vende più di centomila copie non può che continuare a parlare di quanto l’impatto della Turchia sia deleterio sul gruppo dei curdi.

Eleonora Brandigi sostiene che

l’arma vincente di Zerocalcare è in assoluto l’idea di dipingere la sua generazione, di identificare, così facendo, un lettore tipo (un trentenne o più in generale chi è cresciuto negli anni ’80-’90) e, in perfetto stile amarcord, di proporgli un catalogo inesauribile di citazioni, dai fumetti alle serie tv, dai cartoni animati ai personaggi simbolo della propria infanzia. Il piacere del lettore si scatena nel momento in cui emerge l’imprinting della propria generazione, il rimosso torna presente e scatta l’innamoramento, ai limiti dell’assuefazione, per l’autore che è capace di provocare tale piacere. Ecco quindi la serie di cammei di Guerre stellari, Ken il guerriero, Mila e Shiro, Kurt Cubain (Brandigi 2020, p. 153).

Lo stesso innamoramento scatta ammirando i meravigliosi frames di un altro capolavoro molto recente, ossia il film d’animazione prodotto da Pixar Animation Studios del 2021, Luca,diretto da Enrico Casarosa. Il film, che vuole celebrare l’amicizia oltre le differenze e i pregiudizi, finisce per celebrare volutamente tutto ciò che il Bel Paese ha di iconico, tutti i meravigliosi cliché e i miti di un’Italia sognata più che realmente esistita o esistente, convertendosi però, anche in questo caso, in qualcosa di terribilmente necessario. Le Vespe, le 500, la riviera Ligure, Mastroianni, Pinocchio, Leonardo Da Vinci, la pasta, Roma, Calvino (come dimenticare che la piccola Giulia ha come cognome Marcovaldo e che a Portorosso c’è Piazza Calvino?), Visconti, La strada di Fellini, Vacanze Romane di William Wyler, La donna è mobile di Giuseppe Verdi, Viva la pappa col pomodoro di Rita Pavone, Andavo a cento all’ora di Gianni Morandi sono solo alcuni dei tantissimi riferimenti alla cultura italiana presenti. Ci si trova di fronte al culto e al trionfo del nazional-popolare. Potrebbe sembrare qualcosa di kitsch e di cattivo gusto, eppure lasciandosi trasportare dal susseguirsi di quelle immagini iconiche si scopre che si tratta di un piccolo capolavoro artistico e si prova anche una calda sensazione di comprensione e sana appartenenza.

Che le icone siano dei fenomeni di massa è, dunque, appurato. È bene, però, ricordare che i fenomeni di massa non sono certo, poi, una novità assoluta. E se è vero che sempre si è sentito il bisogno di storie di eroi ed eroine, di avventure, di poteri, di spade, ma anche di un epos che si fa progressivamente più quotidiano, il modo in cui esprimere questi bisogni nei secoli è cambiato. In fondo una saga cinematografica popolare come Star wars non è altro che una storia di cavalieri, spade, armature e amore, niente di troppo dissimile dal poema ariostesco. Oppure i celebri supereroi del cinema e del fumetto, spesso, sono ispirati ai protagonisti dei feuilleton ottocenteschi come I tre moschettieri o alle divinità della mitologia classica. Insomma, cambiano le forme, cambiano i mezzi, in parte cambiano i messaggi, ma vi è un nucleo di necessità e urgenza che rimane costante e permane, anche a distanza di secoli: è la base dei cosiddetti classici.

TESI CITATI.

Valerio Bindi, 2022, Il paradosso di Rebibbia, in Leggere Zerocalcare 2.0. Nuova guida ai fumetti di un antieroe, a cura di Laura Scarpa, Roma, ComicOut.

Eleonora Brandigi, 2020, La vittoria del graphic novel, in Il graphic novel. Un crossover per la modernità, a cura di Elisabetta Bacchereti, Federico Fastelli, Diego Salvadori, Firenze, Firenze University Press.

Riccardo Capoferro, 2020, Allegoria e racconto grafico: il caso di Zerocalcare, in «Aisthema», VII, num. 1.

Gaia Cocchi, 2015, Comix riot. Il Graphic novel come forma di arte politica, Roma, Bordeaux edizioni.

Claudio Maringelli, 2015, Zerocalcare: facilità interpretativa o appropriazione dei modelli?, in «Fumettologica», pubblicazione on line:

https://fumettologica.it/2015/11/zerocalcare-facilita-interpretativa-o-appropriazione-dei-modelli/.

Laura Scarpa, 2013, Zerocalcare. L’ascesa dell’Armadillo, dai centri sociali, ai blog, alle librerie. Come il fumetto intelligente può vincere, Roma, ComicOut.

Francesco Alessio Ursini, 2018, ´Alla ricerca dei Plumcake perduti´: visual metaphors, satire, and intertextuality in ZeroCalcare’s fumetti, in «Journal of Graphic Novels and Comics», 28 dicembre.

Zerocalcare, 2015, L’elenco telefonico degli accolli, Milano, BAO Publishing.

-, 2017a, La profezia dell’armadillo. Artist Edition, Milano, BAO Publishing.

-, 2017b, Macerie Prime, Milano, BAO Publishing.

., 2018a, Macerie Prime – Sei mesi dopo, Milano, BAO Publishing.

-, 2018b, Scavare fossati – nutrire coccodrilli, Milano, BAO Publishing.

-, 2019, La scuola di pizze in faccia del professor Calcare, Milano, BAO Publishing. -, 2020, Scheletri, Milano, BAO Publishing

In Schede

Morte di un ragazzo perbene – rec. a “Il sangue che ti scorre accanto” di Serena Vinci

di Valentina di Corcia

C’è stato un preciso momento in cui il male si è insinuato nei chiaroscuri della storia del nostro Paese e ha iniziato ad espandersi, richiamando su di sé i clamori mediatici, trasformando il pubblico televisivo in una tifoseria organizzata e, non da ultimo, tributando podi e onori ai sapienti del crimine, incoronati vincitori di un grottesco e atipico talent show.

I fatti narrati in questa storia sono lontani, nel tempo e nello spazio, dai boschi del cosiddetto satanismo acido, animato da droghe e violenza, in cui un gruppo di ragazzi utilizzerà l’occulto come alibi a una vita di degrado.  Pare affacciarsi – lo diciamo con prudenza, ma abbiamo qualche buona ragione dalla nostra parte – una nuova “Gioventù Cannibale” in una certa violenza sfacciata e vorace.

Questa storia parla di affascino, di una goccia di sangue mescolata al caffè e del potere arcano dei lacci d’amore. Serena Vinci parte da un fatto di cronaca, un fatto di sangue particolarmente controverso e ancora oggi rimasto insoluto. Per renderlo meno brutto – perché la realtà sa rivelarsi assai peggiore di qualsiasi fantasia macabra – lo impregna di esoterismo. Tutto questo dà alla storia delle connotazioni che richiamano aspetti da realismo magico. Potremmo considerarla come una forma di etnofiction, per dirla con Augè: i personaggi che animano l’immaginario paese di Distici subiscono supinamente l’affascino, ne sono soggiogati perché, in certi contesti del sud Italia, la magia è un fenomeno endemico.  Dunque, risulta più facile credere alla magia che alzare il velo su una verità più scomoda.

C’è una mappa ideale che attraversa tutta la Penisola e contiene i luoghi di quello che potremmo definire un nuovo gotico italiano. Partendo da Butera, in Sicilia, dall’antro della strega de “Lo Scuru” di Orazio Labbate, ci si sofferma per una visita al condominio dei misteri di “Questo giorno che incombe” di Antonella Lattanzi e poi su su, si sale fino alle valli piemontesi per trovare una cura all’epidemia di “Morsi” di Marco Peano, per poi scendere ancora lungo lo Stivale, fino a raggiungere Distici, paese di un non meglio identificato sud Italia, in cui è ambientato il romanzo d’esordio di Serena Vinci, “Il sangue che ti scorre accanto”, edito quest’anno da Les Flâneurs nella collana di narrativa “Montparnasse”.

Il nostro gotico affonda le radici nel passato. Nasce, dopo lunga gestazione, dalla tradizione orale, da quelle leggende che di bocca in bocca hanno attraversato intere generazioni e che, sfidando il pregiudizio del progresso sono giunte fino a noi, impastate a formule di antichi rituali praticati in stanze proibite. Ma, in fondo, cos’è la leggenda se non una verità manipolata, un evento reale contaminato dalla fantasia?   L’occidente cristiano e sincretico ha assorbito il mito e ha distinto il bene dal male, offrendo però l’occasione di una sclerosi delle due qualità finché oggi queste due qualità sono diventate due fazioni. Ma la vita è fatta di vie di mezzo e Serena Vinci costruisce una storia che si oppone ai dogmi, animandola con una protagonista femminile che cerca risposte laddove tutti hanno smesso di farsi domande.

Alle fanciulle tenute prigioniere in dimore di famiglia la Vinci oppone Fiammetta che dall’antico palazzo è fuggita già una volta ma, vinta dal richiamo del sangue, vi fa ritorno e proprio seguendo la goccia di quel sangue che scorre e segna il sentiero, intraprende un viaggio a ritroso nel tempo. Riguadagnando i luoghi attraverso i ricordi, prima che sfumino (o affondino) nel passato e si confondano con i “si dice”.

Serena Vinci ci offre una storia potente: apparentemente connotato dalle caratteristiche del noir, con richiami al soprannaturale, questo romanzo è costruito attorno a un personaggio che con la sua creatrice condivide molto più che la professione di archivista e la fisiologica tendenza a risistemare dati e documenti, seguendo metodo e intuito. Serena, attraverso il personaggio di Fiammetta, ci offre la possibile soluzione a una brutta storia di provincia, presto dimenticata come accade a certe storie piccole, narrazioni di sottofondo rispetto agli eventi dei grandi prosceni. Come accade quando a morire è un ragazzo perbene.

Serena Vinci

Il sangue che ti scorre accanto

Bari, Les Flâneurs Edizioni, “Montparnasse”

€ 15,00