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Antonio R. Daniele

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“Dalla stessa parte mi troverai” di Valentina Mira: un puzzle di amore, lotta e tenerezza per chi ha «er còre grosso come ‘na Golia»

di Carmen Rampino

Roma, 13 aprile 2024. Fa caldo, davvero troppo caldo anche per la primavera romana. Potrebbe essere tranquillamente giugno. Il sole illumina le pareti sbiadite color pastello delle case del quartiere Garbatella, i murales sembrano rinati e tutto sembra avvolto dalla più dolce tranquillità, le persone sono gioviali, memori forse della recente vittoria della Roma contro il Milan. Partendo da viale di Villa Lucina giungere a Casetta Rossa, uno dei cuori pulsanti di questo colorato quartiere, è un’esperienza che ti ridà vita se un po’ di grigio ha invaso la tua anima.

Sono le 18.00, le sedie sono pronte, il pubblico è altrettanto pronto per ascoltare la voce di Valentina Mira, autrice di Dalla stessa parte mi troverai, in dialogo con Rossella Scarponi. Proposto da Franco Di Mare, il libro è stato incluso nella dozzina dei candidati al Premio Strega 2024. Anche l’aria che ha avvolto la pubblicazione del libro si è riscaldata troppo, e quindi l’eccessivo rumore delle polemiche ha sovrastato il valore dell’opera stessa. Cerchiamo allora di ripartire proprio da qui. Prima però è necessario fare una precisazione, un disclaimer doveroso: le parole che stanno per seguire sono del tutto inaffidabili, scritte di getto non appena è stata voltata l’ultima pagina del libro. Dunque, cari lettori, se ambite ad un giudizio lucido, rigoroso e razionale non fidatevi, ma se amate un libro proprio quando vi rende folli, vi scombussola e disorienta, allora fatevi questo regalo e non perdetevi questo viaggio.

La narrazione parte dalla leggenda della fondazione di Roma, da Acca Larentia che allattò Romolo e Remo:

Roma sorge dalla violenza. Da due parti inconciliabili, e dalla scelta di una delle due di prevalere sull’altra. Roma nasce dalla violenza. Inizia tutto con una lupa. Con il latte e con il sangue. E così continua. (Mira 2024, p. 11)

E di latte e sangue sarà intrisa tutta la storia delle pagine successive. I tempi che la compongono sono molteplici, come molteplici sono i binari narrativi che si incroceranno. Si parte dal 7 gennaio 1978, quando davanti alla sede del Movimento sociale italiano nel quartiere Appio Latino vengono uccisi due militanti di estrema destra. Dagli scontri con le forze dell’ordine successivi a questo evento morirà anche una terza persona appartenente al gruppo neofascista, ma il sangue che si porta dietro quel 7 gennaio non ha ancora finito di scorrere. Nove anni dopo, il 30 aprile 1987, la storia infatti ricomincia. Viene arrestato un militante di sinistra, Mario Scrocca, accusato di aver partecipato all’operazione che portò ai fatti di Acca Larentia. Il giorno dopo, il primo maggio 1987, Scrocca verrà trovato impiccato in una cella anti-impiccagione del carcere Regina Coeli: molti conti su questo triste epilogo però non tornano. Mira sceglie proprio di focalizzare l’attenzione su questo episodio correlato a quel 7 gennaio 1978 che la Storia sembra aver dimenticato. Accanto a questi primi due tempi se ne incrocia un terzo. Nel giugno 2021 Rossella Scarponi, vedova di Mario Scrocca, e Valentina Mira, l’autrice, si incontrano. Tra le due inizia un dialogo che porterà alla stesura di questo libro. Ma perché leggere un libro sugli anni ’70 raccontati da una giovane autrice poco più che trentenne che di certo non li ha vissuti? Perché decidere di fidarci? Perché si scoprirà pagina dopo pagina che ciò di cui parla incontra direttamente la sua vita personale e particolari episodi che l’hanno segnata. Infatti, i vari piani temporali e narrativi del racconto si alternano, per poi intrecciarsi e incontrare anche la vita di Valentina Mira, quella che l’ha portata a frequentare da vicino gli ambienti neofascisti, di cui soprattutto alcuni quartieri della capitale sono intrisi, vivendo una relazione sentimentale con un ragazzo di estrema destra. Allora perché scrivere di questo avvenimento? Di certo non per fare più luce su una vicenda che continua ad essere avvolta da troppe ombre. Infatti, non è un reportage o un’inchiesta. Il racconto, dichiara Mira, «ha a che fare con qualcosa di più difficile da esprimere. In parte con una sorta di colpa da espiare: il fascismo dentro e intorno a me» (Mira 2024, p. 191), e poi prosegue utilizzando una parola interessante «per provare a fornire anticorpi. Tentare di dare strumenti per salvarsi alle altre “te” che ci stanno in giro per il mondo» (Mira 2024, p. 191). Questa vicenda può riuscire a salvare altre persone e avrebbe potuto salvare lei stessa («Il punto è che, ne sono convinta, se avessi saputo tutta la realtà su Acca Larentia mi sarei salvata io stessa» – Mira 2024, p. 55). La storia che racconta intreccia quindi la sua biografia, i suoi sensi di colpa. Precisamente da pagina 46 l’autrice e la sua vita entrano a gamba tesa, prepotentemente, nella macrostoria: «La gente con i mocassini ha a che fare col motivo per cui ho scelto di raccontare questa storia. E a volte vorrei soffrire di vittimismo autoassolutorio come loro. Purtroppo non mi appartiene. Sono colpevole di averli frequentati: non una vittima ma una complice» (Mira 2024, p. 46). I due piani narrativi si intersecano fino a sovrapporsi e confondersi nel discorso sul vittimismo dei carnefici (Cfr. Mira 2024, pp. 212-214). Accanto a questo, l’altro grande motivo per cui ridare spazio pubblico alla vicenda, è quello più pratico e più pregno di speranza, la speranza che qualcuno si penta del suo silenzio e, anche dopo anni, contatti Rossella e le dica com’è morto il suo amato marito (Cfr. Mira 2024, pp. 243-244).

Dalla stessa parte mi troverai è prima di tutto la narrazione di un amore. Questo viene rivelato dall’autrice stessa: «questa storia è anche, e innanzitutto, una storia d’amore. E l’unico odio che la riguarda, è quello che da amore nasce. E di amore si alimenta. Per cui, piaccia o meno, è proprio da qui che partirò. Dall’amore» (Mira 2024, p. 18). Siamo nel 1978, Rossella vive alla Garbatella e fa parte del collettivo femminista del suo liceo. Mario, che vive alla borgata Alessandrina dove non c’erano (e non ci sono) marciapiedi, sceglie la via dell’impegno politico, ad esempio attraverso volantinaggi su argomenti semplici ma urgenti, come la mancanza di marciapiedi nel suo quartiere o il rincaro dei beni primari. Tutto inizia a San Valentino, il 14 febbraio 1978, a partire da un semplice sguardo. La sedicenne Rossella vede colui che poi scoprirà chiamarsi Mario e «le si forma in testa un pensiero strano. Un pensiero che non ha mai avuto prima. E che è come una giornata di sole, di quelle che ti mettono il buon umore, ma anche su cui non hai alcun controllo: cavolo, dice questo pensiero nuovo di zecca, io quello me lo sposo» (Mira 2024, p. 22). E così sarà. Una relazione intensa, tristemente breve, ma così ricca da permettere ai due protagonisti di vivere nel giro di pochi anni tutte quelle sfumature del sentimento d’amore che molti non provano mai, neppure nell’arco di una vita intera, neppure se la loro vita non viene prematuramente spezzata. Seguiamo da vicino il tempo dell’amore dei due adolescenti tra un motorino tonante, i molti maglioni oversize, le false Clarks ai piedi, le lotte dei compagni, gli appuntamenti presi tramite telefono fisso e i vivaci scambi di battute in vivo romanesco. 

La grande abilità di Mira nella narrazione si evince proprio dal modo in cui ci permette di accedere e vivere, attraverso le parole, questa dolce, malinconica e successivamente dolorosa relazione d’amore: per mezzo di una lente acuta e sensibile riesce a penetrare continuamente all’interno dei pensieri di Rossella, la vera protagonista, il focus attorno cui tutto si dispiega, quella che seguiamo per anni da quando è una ragazzina fino ad oggi.

Quando Mario, ormai infermiere professionale, verrà trovato morto a Regina Coeli, Rossella avrà solo venticinque anni e un bambino di due – il piccolo Tiziano – da crescere. Il bambino è in questo momento al centro di una scena tanto potente quanto struggente. Tiziano si trova dalla nonna e gli va di traverso del cibo, «nello stesso momento in cui succede che Tiziano sta soffocando, nel carcere di Regna Coeli suo padre muore impiccato. In una cella anti-impiccagione» (Mira 2024, p. 88). È come se tutto ciò che ci avevano insegnato i grandi autori del Novecento, tra cui Buzzati, su quella assurda e folle contemporaneità del tragico e del comico, del “mentre io piango tu ridi” che non permette mai pienamente di partecipare al dolore altrui, venisse meno di fronte al viso di un bambino, di un figlio privato di un padre.

Lattanzio, De Gregori, Catullo, Il muro del canto, Leonard Cohen, Andersen, Pink, Ovidio, Freud, Esopo, De André sono solo alcuni dei nomi che compongono il caleidoscopio, anzi il multiforme mosaico di tessere che in maniera perfetta si incastonano agilmente in un ricco pastiche di citazioni. Queste chiariscono come tutto è sfumato, non esiste più la netta separazione tra cultura alta e cultura bassa. Le citazioni sono sfaccettate come sfaccettati e sfumati siamo tutti noi. L’aspetto però più interessante è che l’esperienza della lettura va oltre la lettura stessa coinvolgendo, oltre alla vista, anche altri sensi, perché il lettore è stimolato continuamente e non appena verrà citato un video aprirà YouTube per vederlo, non appena verrà citata una canzone ascolterà la canzone. Ne viene fuori una fitta rete intertestuale, o meglio un universo narrativo esteso, che si allarga a dismisura coinvolgendo altri media e coinvolgendo integralmente il lettore. Lo si potrebbe chiamare libro transmediale, figlio del suo tempo, che straripa e vuole andare oltre i confini della carta stampata per colpire il lettore direttamente al cuore. Accanto a questo, utilizza una lingua composita, eterogenea e soprattutto sincera, piena di quella patina romanesca che solo una lingua così viva può dare: insomma una perfetta narrazione postmoderna che ha però ereditato anche la tradizione della scrittura breve e concisa del web e dei social tralasciando la loro frivolezza e accogliendo una grande profondità. La struttura dell’opera è poi gradevolissima: unità brevi, chiare, semplici, che diventano dei piccoli pezzi di un puzzle in cui tutto converge versol’emozione. Questo ritmo sostenuto crea nel lettore quell’effetto dipendenza tipico della serialità televisiva. I brevi capitoli con titoli accattivanti rendono tutto rapido, veloce. Il tono non cede mai.

Dalle citazioni alla lingua, dal desiderio di spiegare in poche parole questioni complesse agli argomenti scelti, fino alla struttura che, sebbene di sole parole, un po’ riprende quella del romanzo a fumetti, tutto (o quasi) ci riconduce ad un unico nome: Zerocalcare. La sua presenza ingombrante si percepisce chiaramente e non a caso è citato più di una volta, essendosi occupato anche lui in alcune tavole della stessa vicenda. D’altronde entrambi, pur in modo estremamente diverso, si sono nutriti dei simili orizzonti della controcultura della Capitale.

A questo libro si potrebbero fare tantissime critiche (tranne forse quelle che gli sono state rivolte da alcuni giornali molto orientati e da esponenti di alcuni partiti politici): dall’essere a volte troppo rapido e semplicistico su alcuni passaggi che meriterebbero un approfondimento maggiore, al rischio di sembrare molto manicheo; ma questi limiti nel complesso di tutta la narrazione perdono vigore. E poi ci sono dei luoghi in cui traspare chiaramente una certa onestà intellettuale. Si consideri ad esempio il capitolo Apri l’inchiesta, chiudi l’inchiesta. A pagina 115 si legge:

«dopo che sono uscite fuori le lettere da cui sembra che Mario si sia davvero suicidato, alcuni compagni si sono allontanati. Evidentemente, su un piano politico, stare vicino a una persona il cui marito si è suicidato viene reputato inutile e sconveniente. Serve solo se l’hanno sgobbato le guardie» (Mira 2024, pp. 114-115).

Al netto delle critiche, è sicuramente un’ottima prova narrativa per una giovane scrittrice come Valentina Mira. Un’opera che cattura l’attenzione dei lettori fin dal suo incipit che ti intrappola e ti irretisce fino all’ultima riga dell’ultima pagina senza alcun tipo di cedimento. Uno di quei libri che ti fanno soffrire di un’anticipata nostalgia perché, quando sei ancora a metà desideri che non finisca. Sarà che parla di Roma quando chi sta scrivendo si è appena trasferita in questa città un poco assurda, sarà la lingua utilizzata, saranno quelle imperfezioni formali che proprio rendono perfetto il risultato finale, fatto sta che questo libro è una scoperta, una vera rivelazione. Anche quando si rivela più retorico, dogmatico o semplicistico, questo libro ci fa innamorare, non lasciandoci indifferenti.

Ma ritorniamo al punto di partenza. È l’ora del tramonto quando la vivace presentazione finisce. L’autrice si intrattiene a firmare le copie e a fare due chiacchiere con gli ascoltatori. Il sole ormai sta morendo. Le case slavate del quartiere, che ricordano proprio quelle di carta di un presepe, si tingono di arancio e rimane la curiosità di leggere un libro che è necessario per ridestare la memoria antifascista e la cui tenerezza per certi aspetti «ti fa stringere il cuore fino a fartelo sentire piccolo come… io dico ‘na Golia» (Mira 2024, p. 220).

TESI CITATI.

Valentina Mira, 2024, Dalla stessa parte mi troverai, Milano, SEM.

In Schede

“Romanzo senza umani” o della soggettiva e provvisoria sensazione della fine

di Maila Cavaliere

È da parecchio che il romanzo di Paolo Di Paolo mi gira in testa, da quando l’ho letto qualche mese fa e ha fatto scattare nella mia memoria piccole serrature arrugginite.

È un libro intimo con un personaggio risentito, tenero e aspro, interlocutorio e spiazzante. E io non ho saputo a lungo da dove cominciare per parlarne, come accade a volte per i discorsi con cui vorresti davvero spiegare le tue ragioni alle persone a cui tieni ma ti sembrano sempre fatalmente inadeguati: ti riscaldi, prendi la rincorsa, ti alleni a essere perfetta e performante ed efficace e credibile ma poi ti viene l’ ansia da prestazione, ti chiedi se stai sbagliando, se manca qualcosa e nel tentennamento, il muscolo si raffredda, la rinuncia ti conquista o una reazione ostile ti gela, come in una sincope da idrocuzione.
Eh sì, perché, ora che ci penso, le prime domande su cui mi sono interrogata leggendo Romanzo senza Umani, appena entrato in dozzina al Premio Strega, hanno a che fare con il tempo, meteorologico e non.
Ma davvero il clima incide sul nostro modo di essere? Ma davvero alcune sensazioni, i brividi e il batticuore  che attribuiamo a stati emotivi sono influenzati dalla temperatura esterna o la modificano? Ma davvero noi e la Storia, il protagonista del libro e quella  piccola glaciazione del lago di Costanza avvenuta nel sedicesimo secolo siamo così intimamente e reciprocamente interdipendenti?

Il personaggio  del romanzo di Paolo Di Paolo è un uomo sulla quarantina, di professione storico, forse con qualche aspirazione frustrata, forse con qualche obiettivo non realizzato, forse non particolarmente empatico, né schiettamente comunicativo, che arranca come tanti nella vita, nelle relazioni, nella comune illusione che siano gli imprevisti e le cose che accadono a sottrarci a un successo o a una felicità per la quale crediamo ancora di avere i numeri.

Nel bel mezzo delle sue ricerche, il protagonista di Romanzo senza umani sente il bisogno di tornare sui suoi passi, sui luoghi dei suoi studi e, in una sorta di archeologia di sé stesso, il fiotto caldo di certi ricordi comincia a sciogliere gli anni del freddo dovere e delle abuliche occasioni perse, delle cose rimandate.

La memoria a quel punto si manifesta come una villana impostura e dimostra che ciò che gli altri ricordano di noi a volte non ci assomiglia per niente oppure ci disturba per la sua inconsistenza o stride, addirittura, con l’ idea che abbiamo di noi stessi.

La memoria degli altri mette in crisi le nostre certezze, è una crepa nel nostro fedele rispecchiamento, nel nostro ritratto ideale, quello che incorniciamo con tanto di passepartout vellutato.
Non sapevo da dove cominciare, dicevo. E allora ho cominciato da qui, da un’ ipotermia epifanica che cambia lo sguardo.

Romanzo senza umani che, a dispetto del titolo, invece pullula di figure e persone perdute, cercate, trattenute o lasciate andare, implorate, dimenticate, fraintese, è un libro che ti parla come uno che ti conosce bene, che sa che siamo sempre sul confine, in bilico tra lo sporgersi e il ritrarsi, in quel magico sospeso che fa parte di noi e dei nostri limiti.

Ti accorgi, leggendolo, che sono così tanti gli inganni della parola scritta, così tanti gli incanti, tante le suggestioni che attraversano il nostro sentire: portarsi dentro l’ elemento liquido, caldo, freddo, ghiacciato, perdersi volontariamente in posti dai nomi evocativi come segno della propria incoscienza e dell’ inesperienza dinanzi al mondo, del bisogno inestinguibile di conoscere il nuovo, di cercare il mistero, l’ inatteso, mettersi in tasca, per compagno di viaggio, il profumo amaro della separazione, accogliere l’ inganno dei sensi, usare la distrazione come strategia dell’ evitamento, svelare l’ inutilità della comunicazione che riempie solo uno spazio ma non sposta nessuna idea, accogliere il rischio di essere giovani o compresi e la fatale scoperta di non esserlo più, conoscere la condanna del restare, ricordare, confondersi e, soprattutto, dimenticare, dimenticarsi, facendo male, ferendo.

Romanzo senza umani mette in scena anche graficamente il senso incombente della fine, dentro la cui idea ci sentiamo stretti e costretti e che proviamo invano a eludere, lasciando aperti pertugi e vie di fuga.
Dalle pagine del romanzo arrivano echi di Landolfi e Casares, di Walser e Bufalino, libri e persone che accompagnano il nostro viaggio, ologrammi e pretesti che, all’ occorrenza, lo trasfigurano.
E si sente perfino il fischio del treno di Tabucchi che, attraverso una serie di piccole circostanze emotive, ci ricorda di essere così spesso in ritardo su noi stessi.

Paolo Di Paolo dopo Mandami tanta vita,  Lontano dagli occhi e Dove eravate tutti torna a indagare attraverso la letteratura il “sentimento del passato” e lo fa anche a costo di superare, per dirla con un verso di Leonardo Sinisgalli, “il confine oltre il quale le cose spariscono e non conviene più cercarle“.

Paolo di Paolo, Romanzo senza umani, Milano, Feltrinelli, 2023, pp. 224, € 16.15

In Appunti di Lettura

Appunti di lettura su “Molloy” di Samuel Beckett #1 (pp. 558-707)

di Demetrio Paolin

[le pagine citate nel testo si riferiscono al meridiano Mondadori, Samuel Beckett Romanzi, teatro e televisione a cura di G. Frasca]

La strana fine di Molloy. Le ultime pagine della prima parte sono dominate dall’ingresso di Molloy in un bosco, in cui il protagonista – nel tentativo di andare dalla madre –  si addentra e qui il cammino di Molloy si arresta. “La selva era tutt’intorno a me e i rami, intrecciandosi a un’altezza prodigiosa, in rapporto alla mia, mi proteggevano dalla luce e dalle intemperie” (p.592). Questa selva non è oscura, altrimenti sarebbe la selva infernale, infatti lo stesso Molloy sostiene: “Dire che brancolassi in tenebre impenetrabili, no, non posso proprio” (ibidem). Nella selva regna una sorta di “ombra bluastra” (ibidem) più che sufficiente per rischiare il cammino del protagonista, proprio come un personaggio dantesco, nella selva Molloy fa una serie di incontri, diversi dice Molloy, ma ce ne racconta uno solo quello con il carbonaio (p.593) che si conclude con l’uccisione dello stesso. Pare sempre, questo è reso evidente anche nella seconda parte, che ogni incontro debba concludersi con una morte, spesso accennata, raccontata come inevitabile e banale. La selva diventa per Molloy una sorta di prigione, di luogo dal quale non può uscire: “E tanto più mi sembrava auspicabile uscire dal più presto da questa selva in quanto sarei stato fin troppo presto nell’impossibilità di uscire da ovunque mi trovassi, fosse pure un boschetto” (p.599). Il cammino di Molloy diventa faticoso, uno sprofondare all’interno della terra, della selva.  Infine “giunse il giorno in effetti in cui la selva finì e vidi la luce della pianura” (p.601), il viaggio di Molloy sembra destinato a concludersi, ma in realtà l’uomo cade, decide di abbandonarsi?, in un fossato: “Mi lasciai ruzzolare fino al fondo del fossato” (p.602); qui come in altri punti nel momento di massima debolezza, di deposizione dell’umano, dell’arrendersi dell’uomo al suo essere niente avviene una sorta di commistione, di trasformazione con l’ambiente circostante: “Mi sembrava di sentire gli uccelli, forse delle allodole. Era tanto che non li sentivo. Com’era possibile che non li avessi sentiti nella selva? Né visti. Allora non mi era sembrato strano. (ibidem). La caduta nel fossato è una sorta di nostos al grembo materno? Forse proprio il fosso, la sepoltura in vita, in regresso alle origini, sono alla base del viaggio e della fine di Molloy, Molloy deve tornare alla madre, ma la madre è la terra, è la selva che lo ha protetto come quando era nel grembo: “Avevo voglia di tornare nella selva” (p.603).

Abramo e Isacco. Dal punto di vista della lettura la seconda parte del romanzo è più usuale, Beckett usa una serie di stratagemmi, di strutture, di modi che ricordano il giallo e il noir. Moran ha un po’ i modi spicci, le malinconie e le ubbie di tanti detective privati di certe letture noir: l’indolenza, la aggressività passiva nei confronti della sua missione, la meticolosità dell’organizzazione del viaggio, lo sguardo sconfortato rispetto all’umanità che si trova a frequentare lo rendono molto simile allo stereotipo di quel tipo di personaggio. Dal punto di vista squisitamente narrativo: abbiamo Moran che deve andare a cercare Molloy.  È un lavoro come un altro, il dialogo con Gaber sembra un canovaccio che Moran conosce sa cosa dirai lui e cosa gli risponderà emissario, ma ad un tratto qualcosa di nuovo accade. “Suo figlio l’accompagnerà, disse Gaber. Tacqui. Quando le cose si fanno serie noi tacciamo” (p. 608). L’entrata in scena del figlio modifica l’intreccio del racconto. Non c’è nessun motivo particolare perché il figlio debba seguire il padre in questa avventura, pare infatti un capriccio di Gaber e del datore di lavoro di Moran. Il rapporto tra padre e figlio è un rapporto che non esiteremmo a definire sadico, il padre punisce, accusa attacca il figlio di cui spesso non sentiamo neppure la voce. Il figlio è una sorta di proiezione del padre sin da nome identico. L’aggiunta quindi di questo personaggio, quasi per capriccio, è a tutti gli effetti il romanzesco, o meglio è ciò che rende queste pagine un romanzo: non c’è nessun motivo per cui il figlio segua il padre, perché faccia parte di questa spedizione se non per il fatto che solo il questo modo l’incarico del padre può diventare un romanzo. Il romanzesco, spesso, non sempre, è proprio il gratuito accadere delle cose all’interno di una congerie di fatti logicamente uniti gli uni dagli altri. Pensiamo anche alla prima parte, al muoversi di Molloy, ci sono motivi concreti per cui egli si sposti nel tempo e nello spazio? No. Perché va all’avventura? No, non rintracciamo nessuno motivo fondamentale e/o logico. Semplicemente ci viene detto che Molloy deve andare dalla madre, così come Moran deve portare il proprio figlio con sé. Vista in questa luce anche la presenza di Gaber assume una sfumatura nuova e diversa: egli è un messaggero che porta un annuncio per la partenza della missione, è anche colui che dice a Moran che può tornare a casa (p.693). Gaber porta i messaggi di Youdi, personaggio di cui Frasca – nelle note al romanzo – ne spiega l’origine: “Dieu/Ideu/Udie” (p.1669). C’è un “Dio” che manda un suo messaggio per dire a un padre di mettersi in cammino con suo figlio; credo che sia abbastanza chiaro il riferimento all’episodio di Abramo e Isacco e all’ipotetico sacrificio di quest’ultimo. Il figlio è un Isacco perfetto, ignaro del motivo di questa avventura fuori casa, cosa di cui il padre è perfettamente consapevole: “Perché sapevo quello che ancora lui non sapeva, fra le altre cose che una simile prova gli sarebbe stata utile” (p.627). Il cammino di Moran e del ragazzo, quindi, ha una valenza diversa e avviene nel nome del padre, così come quello di Molloy è avvenuto nel nome della madre (non ho idea se parte prima → fase anale e parte seconda → fase genitale abbiano a che fare con questo diverso punto d’arrivo). Per Moran la ricerca di Molloy che dovrebbe essere la spinta al cammino è, però, spesso oscurata dai rapporti con il figlio, con le schermaglie con esso: Molloy è un pretesto. Così come Abramo si alza di prima mattina e parte con Isacco così fa Moran, egli non dubita mai di quello che deve fare, perché ciò che Gaber gli annuncia, cioè la parola Youdi, è sempre la verità. La scomparsa del figlio di Moran alla fine del libro e la solitudine del padre sono il segno della vicinanza tra l’episodio biblico e la seconda parte del romanzo. Infatti il centro dell’episodio della Genesi non è il sacrificio, ma la fede di Abramo, l’obbedienza cieca ai voleri di Dio, Isacco è un semplice oggetto della narrazione, il motivo gratuito, romanzesco, per mettere alla prova Abramo, per questo motivo infine lui è inconsapevole di ciò che sta per accadere e che solo l’angelo ferma. Allo stesso modo in Molloy tutta la consapevolezza di ciò che accade è nel padre, che come Abramo porta il peso di questa scelta.

Moran → Molloy. C’è nel romanzo una trasformazione interessante. Verrebbe da dire che ogni romanzo è romanzo di formazione ovvero prevede e ipotizza che il personaggio principale si formi, si trasformi da ciò che non è a ciò che è: è una apprendimento di consapevolezza, che alcune volte è felice (pensiamo a Renzo nei Promessi Sposi) e altre volte è infelice (il triste finale di Don Chisciotte). Anche in Molloy assistiamo a qualcosa di simile o meglio alla messa in scena di questa formazione: Moran nel corso delle pagine lentamente, senza che alcuno ne abbia contezza, si trasforma in Molloy, il problemi di deambulazione, la ricerca della bicicletta. Come se il ricercatore diventasse tutt’uno con il ricercato, l’inquisitore con l’inquisito e l’omicida con l’ucciso (forse l’omonimia tra padre e figlio potrebbe essere un indizio di tale convergenza?) questo passaggio è tale che ci conduce a sviluppare una serie di ragionamenti. Dobbiamo, secondo me, rispondere ad alcune domande legate allo statuto del racconto che abbiamo davanti, forse non abbiamo a che fare con due personaggi (due Io che parlano), ma con ben altro.

Moran = Molloy. Ricapitoliamo: nella prima parte abbiamo un personaggio, Molloy, che scrive la sua storia; ciò che ci è dato di sapere che è  arrivato nella camera di sua madre, si pensa in ambulanza, forse qualcuno l’ha raccatto nel fosso dove si conclude la narrazione della prima parte. Nella seconda parte abbiamo un personaggio, Moran, che scrive la sua storia, per ciò che sappiamo è stato inviato a cercare Molloy, la sua ricerca è infruttuosa, così viene invitato per tornare a casa e una volta rientrato si mette a scrivere. Sappiamo che lentamente Moran ha assunto alcune delle caratteristiche fisiche di Molloy, la zoppia su tutti e il suo spostarsi in bici. Non abbiamo nessun dato reale che Molloy esista, perché l’unico che potrebbe raccontarci qualcosa di lui, Moran, è stato mandato prima a casa e scrive un rapporto. Il racconto di Moran è ordinato: si sviluppa in senso cronologico (l’arrivo del messaggero, i preparativi, il viaggio, la crisi, il nuovo apparire del messaggero che intima il ritorno et et). Sappiamo che il racconto di Molloy (vd appunto precedente) possiede, invece, un doppio inizio: “Avevo cominciato dall’inizio, figuratevi, come un vecchio coglione” (p.498). Potremmo anzi supporre che esistano due racconti, il primo che Molloy consegna all’uomo della domenica, e l’altro che leggiamo noi. Quindi abbiamo un racconto che inizia dall’ “inizio”, ma che è posto in seconda battuta, e un racconto che non inizia dall’inizio, ed è la prima cosa che il lettore legge. A questo punto possiamo provare a elaborare un’ipotesi: le vicende di Moran sono antefatto di ciò che leggiamo prima (la storia di Molloy). Ciò che noi leggiamo come una testimonianza di Molloy altro non è che il racconto che, alla fine del romanzo, Moran inizia a comporre. Se così fosse, questa struttura ricorda molto da vicino la struttura della narrazione nella Recherche di Proust: le pagine conclusive dell’opera ci narrano del protagonista, che prende la decisione di scrivere il romanzo che noi abbiamo appena finito di leggere. E se quindi fosse Molloy fosse una invenzione di Moran?

Uno strano io. Molloy, come romanzo, pone in maniera radicale la difficoltà di spiegare cosa indichi “io” in narrativa. In primo luogo entrambe le parti che compongono il romanzo sono scritte in prima persona: questo dal punto di vista grammaticale è facilmente individuabile, ma rimane molto più complesso scoprire cosa si nasconda dietro questo lemma “io”. Il pronome “io” fa nascere una catena di interrogazioni: Chi è il vero io di questa storia? chi è che fa dire io a Molloy e io a Moran, essi sono due “io” diversi o sono il medesimo “io”. Possiamo provare a fare due ipotesi.

a) Part I → Molloy → io: Molloy e Part II → Moran → io: Moran.

b) Part I →Molloy → io→ Moran: Molloy e Part II→ Moran → io: Moran, che sottintende la trasformazione di Moran in Molloy, e la strana struttura ciclica della narrazione.

Durante il racconto Moran inizia a parlarci dei suoi casi, che Youdi gli ha affidato, e nel parlare di questi  li definisce “storie” (p.660) e aggiunge: “Che turba nella mia testa, che galleria di crepati. Murphy, Watt, Yerk, Mercier” (ibidem). I personaggi delle storie/casi di Moran sono tutti i personaggi delle opere precedenti di SB. Moran continua dicendo: “Storie, storie. Non ho saputo raccontarle. Nemmeno questa avrò saputo raccontare” (ibidem). Questo potrebbe portarci a un’altra riflessione: se questo io che scrive io non fosse né Moran né Molly, ma fosse SB che, tramite Molloy e di Moran, mostra il meccanismo del romanzo, nel quale un personaggio postula il fallimento dello stesso meccanismo che viene descritto. L’autore ci suggerisce come io sia un solo un pronome, che può scivolare nell’egli.

Le voci e egli. Molloy è scritto in prima persona, questa affermazione è vera tranne che per una eccezione, un periodo che chiude la prima parte, vediamolo insieme: “Mi sembrava che piovesse, ci fosse il sole, a rotazione. Un vero e proprio tempo primaverile. Avevo voglia di tornare della selva. Oh non proprio voglia, per davvero. Molloy poteva restare lì, dov’era.” (p. 603). C’è questo passaggio repentino tra la prima persona e la terza, senza nessuna segnalazione di questo movimento. Mentre leggiamo viene da chiederci: Chi pronuncia/scrive questo ultimo enunciato? Il narratore? Possiamo escluderlo, perché appunto il narratore è in prima persona. È un intervento dell’autore? Anche rileggendolo non sembra uno di quei momenti tipici dei romanzi ottocenteschi, nei quali l’autore prende la parola e discute con i lettori [in Molloy, infatti, quando  il protagonista vuole chiamare il causa il lettore, non ha problemi a farlo direttamente: “Voi mi direte che questo fa parte delle mie storie…” (p. 589)].

L’effetto di tale chiusa, quindi, è di costringerci a guardare Molloy dall’esterno e dell’alto (non dobbiamo dimenticare che in queste ultime pagine il protagonista è supino in un fosso): qualcuno dice che, infine Molloy, può restare dov’è. Di chi p questa voce che è estranea al romanzo?  L’enunciato è una sorta di ordine: Lasciamo Molloy lì dove sta, come se non lo dicesse tanto a noi lettori, quanto a colui che scrive. È una voce esterna che detta i comportamenti a colui che scrive, una voce esterna e al narratore e l’autore.

In Molloy, sia nella prima parte che nella seconda, leggiamo spesso di voci, che i personaggi dicono di sentire e di avvertire lungo il loro cammino. Leggiamone alcuni passi: “Perché io mi sono tanto sottratto, sempre, tanto sottratto ai miei suggeritori” (p.597), oppure qualche pagina dopo leggiamo: “E ogni volta che dico, Io mi dicevo questo o quell’altro, o parlo di una voce interiore che mi diceva, Molloy, e poi una bella frase più o meno chiara e semplice, o mi ritrovo a prestare a terzi parole intelligibili”(p.598). Molloy racconta di avere nella sua testa, dentro di sé o intorno a sé, questo non ci è chiaro, dei suggeritori, di avere una voce che gli parla e gli detta parole. Il tema della voce diventa ancora più presente nella seconda parte, Moran ci suggerisce: “Se vi piace, è una voce abbastanza ambigua e non sempre facile da seguire, nei suoi ragionamenti e decreti. Come che sia la seguo, più o meno, la seguo in questo senso, che la comprendo, e in quest’altro senso, che le obbedisco” (p.654) e infine aggiunge: “Ho parlato di una voce che mi dava delle istruzioni, o meglio dei consigli. Fu durante quel ritorno che la udii la prima volta” (p.700). Questi due personaggi, che sono i due io che narrano, raccontano una sorta di svuotamento: non sono loro che agiscono, ma qualcuno che detta loro come comportarsi, sono passivi. Se è vero che Moran è il narratore della prima e autore della seconda parte,  che è narrata da Molloy, entrambi sono accomunati da una sorta di inoperosità. Questa voce che detta i comportamenti, che li svuota di ogni volontà propria, che è superiore a ogni sentimento umano, a ogni passione, che anzi svilisce tali passioni, è molto simile a quella che Dante descrive in Purg. XXIV: “E io a lui: «I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando»”.  Anche Dante, il Dante dello stilnovo, racconta la scrittura come una sorta di dettatura, di uno svuotamento di sé, per essere riempiti d’amore, schiavi e servi d’amore. Pensiamo solo all’incipit della famosa canzone della Vita Nova “Amor che ne la mente mi ragiona” che potremmo parafrasare come una sorta di possessione in cui è Amore che ragiona e ha preso possesso della mente del poeta. L’amore è uno svuotamento dell’uomo, che nel momento in cui prova Amore previene a una sorta di noluntas, come la descriveCavalcanti in uno dei suoi sonetti più famosi: “I’ vo come colui ch’è fuor di vita,/che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia fatto/di rame o di pietra o di legno,/che si conduca sol per maestria/e porti ne lo core una ferita che sia,/com’ egli è morto, aperto segno.”. La condizione di Moran e di Molloy è simile: entrambi sono “fuor di vita”, entrambi sono un uomo che non pare reale ma “fatto di rame o pietra”. C’è un qualche legame tra questa “prepotenza” descritta da Dante e Cavalcanti e l’egli che prende la parola e intima di lasciare Molloy lì dove sta e che detta e suggerisce la storia a Moran? E sopratutto chi è questo egli?

egli o Egli?. Per rispondere all’ultima domanda che ci siamo posti partiamo da una citazione di Denis De Rougemont da L’amore e l’occidente, lo scrittore francese analizzando Tristano e Isotta nota come molti degli accadimenti del romanzo siano gratuiti, siano creati dall’autore stesso: “quando non vi siano  ostacoli, se ne inventano”, perché esiste un “fenomeno che accomuna il romanziere e il lettore, […], una sorta di complicità che li leghi: la volontà che il romanzo continui, o per così dire, scatti in avanti”. Questa volontà, che desidera che il romanzo proceda, che le complicazioni si moltiplichino, che le scene si susseguano, è il demone del romanzesco, che “in fondo è tutt’uno” con il demone dell’amore cortese, “poiché il demone dell’amore cortese ispira il cuore degli amanti da cui nasce il loro soffrire, è il demone del romanzo come piace agli occidentali”. 

Tale coazione al procedere del racconto è così pervasiva che leggendo Molloy si ha l’impressione di trovarsi in una struttura narrativa simile a Tristano e Isotta. Sia chiaro non ci sono episodi comuni o simili, ma è il modo con cui si sviluppa la narrazione a sembrarci simile; infatti nel romanzo cortese le scene che si succedono, germogliano per creare complicazioni, e con esse una maggiore sofferenza, ostacolo che differisce e allontana l’amore totalizzante. Similmente in Molloy le scene si susseguono non tanto per logica narrativa, ma per semplice differimento della fine, quasi SB avesse in mente l’origine della letteratura occidentale, una letteratura che postula come origine l’infelicità, sempre De Rougemont: “Il prodigioso successo del romanzo di Tristano rivela in noi, lo si voglia o meno, una intima preferenza per l’infelicità”. I personaggi dei romanzi, proprio come in Molloy, “sono attratti dalla morte, lontani dalla vita”. Il tema dell’amore nel romanzo cortese, però, nasconde, proprio come racconta De Rougemont, qualcosa di più complesso: dietro la retorica e la narrativa d’amore c’è una vertigine religiosa, c’è la sopravvivenza di una ideologia popolare e ben più antica di quella cristiana. L’amore cortese per lo scrittore francese è una sorta di metaforizzazione di un di un Dio che “si libra al di sopra del cielo”: esso mostra “già la stessa Divinità dei grandi mistici eterodossi, il Dio che precede la Trinità di cui parlano la gnosi e maestro Eckhardt, e più precisamente ancora, il Dio ‘sopraessenziale” che secondo Bernard de Chartes risiede al di sopra dei cieli”. A spiegare questa dismisura che precede il mondo, che precede Dio stesso, ci sono le parole di Bernard De Ventadour, che avrebbero potuto essere pronunciate da un personaggio di SB: “M’ha tolto il cuore, m’ha tolto il mondo, m’ha tolto a me stesso; e infine si è sottratta anche lei, lasciandomi solo con il mio desiderio e il mio cuore assetato”.

Questo Dio che sfugge a ogni definizione è al centro di Molloy della sua inchiesta, e non perché non penso né credo che Molloy sia un romanzo teologico, ma perché è il romanzo  che si interroga sulle cose “penultime”,  come bene lo si intravede nella nella domanda 13 di Moran: “Che cazzo faceva Dio prima della creazione?” (p.697). Questa domanda è centrale per comprendere lo sguardo di SB: cosa c’è prima della creazione, cosa è il principio che genera il mondo?

egli → Egli → Nulla. Potremmo rispondere, riprendendo la riflessione sulla litote che avevamo fatto (vd appunto precedente). Il “non” è centrale per comprendere la descrizione dell’uomo in SB. L’uomo, nell’universo di Molloy, è condannato a vita assurda, pensiamo alle lunghe elucubrazioni di Molloy rispetto ai suoi sassi (pp.578-579), che riprendono certamente Il mito di Sisifo di Camus (1942), e non è causale che il riferimento all’eroe mitologico sia ripreso, quasi in un gioco di specchi, nella seconda parte da Moran: “Ma persino a Sisifo non penso che sia imposto di grattarsi,  o di gemere, o di esultare…”(p.655). L’uomo di Molloy ha perduto la speranza, ha la disperazione come orizzonte principale: “Questo alimenterebbe la sua speranza, non è così, la speranza che è la disperazione infernale per eccellenza” (ibidem). L’orizzonte assurdo in cui l’uomo vive è un orizzonte di nullità,  di nullafacenza, di non agire: “Perché non è nulla, non sapere nulla, né tanto meno non voler saper nulla, ma non poter saper nulla, sapere di non poter saper nulla, ecco dove trascorre la pace, nell’animo del ricercatore curioso” (p. 568). Oppure la negazione di Moran nel momento in cui Gaber gli intima l’ordine di tornare a casa: “Non posso camminare, dissi. Come?, disse lui. Sto male, non mi posso muovere, dissi. Non intendo una sola parola di quello che dice, disse. Gli gridai che non potevo spostarmi” (p. 692). Questa negazione dell’umano, dell’essere umano, è totalizzante tanto che alla fine del romanzo Moran dichiara: “Non sopporterò più di essere un uomo, non ci proverò più. Non accenderò più questa lampada” (p.707). L’umanità definita tramite il “non”. Mi pare interessante qui sottolineare una strana convergenza, tra due autori non facilmente accostabili, ma che secondo me è invece centrale. L’immagine di Moran come sicario o similare mi porta a mettere a fianco Molloy e I 49 racconti di Hemingway, pubblicati nel 1938, in particolare il racconto I sicari. La vicinanza tra questo racconto e Molloy è secondo me evidente, da un lato abbiamo appunto l’atmosfera noir con i due sicari, duri, sadici, strafottenti, ma che infine falliscono, che ricordano in parte il Moran del romanzo di SB, ma be più interessanti sono a mio parere le parti finali del racconto in cui compare Ole Anderson, il bersaglio dei due killer. La sua apparizione modifica profondamente il racconto, nella prima parte era stato sincopato e ansioso, la sua entrata in scena è invece all’insegna della negazione. Nel dialogo tra lui e Nick Adams il numero delle negazioni è altissimo: “- Non posso farci niente – disse Ole Anderson.//  – Le dirò che aspetto avevano. // – Non voglio sapere che aspetto avevano. […] // – Non vuole che vada a dirlo alla polizia?// – No, – disse Ole Anderson – Non servirebbe. // – Non c’è niente che possa fare?//  – No. Non c’è niente da fare”. Il mondo di Hemingway e quello di SB hanno in comune questo dominio del nulla, del niente che avvolge e costringe tutti i personaggi: il destino di ogni uomo è infine negazione.

Ora forse possiamo provare a rispondere alla domanda di Moran. Che cosa faceva  Dio prima della creazione? Dio prima della creazione faceva nulla, Dio era nel nulla, era attraversato dal nulla. La risposta migliore è, quindi, nella preghiera che Moran recita: “Padre nostro che non sei né in cielo né in terra né all’inferno, né voglio né desidero che sia santificato il Tuo nome, a Te è dato di sapere quello che ti conviene” (p. 697). Il Dio che prega Moran è un Dio indefinibile, comprensibile solo per via negativa, le parole di Moran sono molto simili a quelle del protagonista hemingwaiano di Un posto pulito e illuminato bene : “Era un niente che conosceva troppo bene. Era tutto un niente, e anche un uomo era niente. […] lui sapeva che era tutto nada y pues nada y nada y pues nada. Nada nostro che sei nel nada, nada sia il nome tuo il regno tuo nada sia la tua volontà nada in nada come in nada. Dacci questo nada il nostro nada quotidiano e nadaci il nostro nada come noi nadiamo i nostri nada e non nadarci in nada ma liberaci dal nada, pues nada. Ave niente pieno di niente”. La vicinanza tra le due preghiere è fortissima, entrambe mettono in evidenza qualcosa che precede l’uomo, la creazione e Dio stesso: il mondo, l’uomo, ciò che c’è prima dell’uomo e del mondo, quindi Dio stesso, è niente, avvolto nel niente e risolto nel niente; questa nothingness è l’egli che detta i movimenti dei personaggi di Molloy. Il mondo descritto da SB in Molloy è il mondo del nulla, il mondo che non solo è andato in frantumi, tali frantumi stanno scomparendo: non esiste più bellezza, natura, amore, sentimento, ma solo un nulla enorme che avvolge tutte le cose. Per quanto riguarda SB, Adorno parla di “nulla positivo”, il nulla delle opere beckettiane non è una semplice negazione, ma è l’esistenza di una negazione, e il comprendere che il “non essere” è comunque, che in qualche modo esiste ed è il prodotto di questa nostra vita e nostra storia. Nella lingua francese la parola “niente” può essere resa con “rien”, che mantiene al suo interno memoria della parola latina res/cosa; e quindi rien dice niente dicendo “cosa”, rien suggerisce che esiste una cosa che è niente, che il niente non si oppone all’essere, ma ne è involucro.

Si può vedere il niente, il niente è qualcosa, perciò è positivo, possibile, dicibile: la scrittura di SB per Adorno è tutta in questo sforzo: “Qualcosa che potrebbe definirsi come il tentativo di raggiungere un nulla positivo e cioè un nulla che non possa essere inteso che come negazione di qualcosa che esiste. Tutta l’indescrivibile energia di questo scrittore non fa che gravitare attorno a questo stesso punto facilmente spiegabile dicendo che il nulla non può essere pensato né immaginato se non come il nulla di qualcosa. […] non è logicamente concepibile che il nulla sia altro che il nulla di qualcosa”.

Il finale. “Allora rientrai a casa e scrissi, È mezzanotte. La pioggia batte contro i vetri. Non era mezzanotte. Non pioveva” (p. 707).  La frase suona stravagante, sembra negare qualcosa che ha poco prima affermato. C’è in questa chiusa, a parer mio, una possibile descrizione della poetica di SB. In primo luogo possiamo notare che le due frasi sembrano uguali, ma non lo sono. La prima cosa che ci colpisce è l’alternanza tra presente e imperfetto: gli enunciati affermativi sono al presente, quelli negativi sono all’imperfetto. Tale slittamento grammaticale mette in risalto la differenza, ci mette davanti a uno stridore, SB vuole mostrarcelo, così come nella fine della prima parte aveva introdotto la stortura del passaggio dalla prima alla terza persona, come ad avvertici del dato teologico che avremmo visto più  pienamente nella seconda parte.

Nella chiusa del libro l’autore vuole suggerici di guardare un evento che si conclude tutto nel linguaggio.  Moran entra in casa e scrive “è mezzanotte”/“piove”, ma ciò non significa che realmente stia piovendo e che sia realmente mezzanotte. E infatti le due frasi successive sembrano suggerire: ho scritto che “piove” e “è mezzanotte”, ma in realtà mentre scrivevo tali parole, che hanno per significato “piove” e “è mezzanotte”, non stava né piovendo né era mezzogiorno.

SB ci suggerisce che non esiste la verità in letteratura, che ciò che leggiamo è un’illusione linguistica, una combinazione di parole; il mondo è andato, è svanito, lasciando appena ombre e macerie; la letteratura non ha più la forza di produrre qualcosa di vero e di reale, ogni sforzo in questo senso è ormai vano; la letteratura non può che mostrare l’assurdo di ciò che è, e di ciò che ci pare essere; lo scollamento con la realtà è totale: io posso scrivere una cosa assolutamente logica e corretta, ma ciò non significa che sia vera o reale. La letteratura è altra rispetto al reale. Proprio a ragione di ciò Moran può entrare in casa e scrivere frasi che per quanto grammaticalmente e logicamente vere non sono per forza reali.

Esiste la realtà e esiste la realtà nel linguaggio: le due tensioni non sempre coincidono, anzi lo scrittore vive proprio nel mezzo di tali possibilità, aspettando qualcosa che non arriverà o tarderà, infine.

In Schede

“Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud”: tra memoria, amore e psicoanalisi

di Carmen Rampino

Sono nata in una fredda mattina di dicembre in Berggasse 19, “la strada della psicoanalisi”, così la chiamavano a Vienna. Ultima di sei figli, sono sempre stata una bambina schiva, incapace di conciliare la timidezza con la presenza degli altri (Lombardo 2024, p. 15).

A parlare è Anna Freud in Bergasse 19. Una donna di nome Anna Freud (Lombardo 2024), ultimo parto letterario di Lucrezia Lombardo. Oggi sono tante le narrazioni che cercano di raccontare storie di donne rimaste nell’ombra per secoli. Pochi, però, ci riescono in una maniera così chiara, dolce e appassionante come Lombardo con il suo libro pubblicato dalla casa editrice Les Flâneurs. Il libro inaugura la collana Le innominate il cui precipuo scopo è proprio dare voce a quelle sorelle che la storia ha relegato ai margini, pur avendo svolto un ruolo determinante nella storia del pensiero, dando così giustizia alla memoria tradita e rivendicando il posto che spetterebbe loro nella memoria collettiva. Infatti queste donne sono state tradite due volte: la prima volta in vita, quando hanno lottato il triplo per farsi ascoltare; una seconda volta quando sono state depositate nell’oblio, quando è stato attribuito loro il ruolo di moglie di, figlia di – condizione che in alcuni casi le ha sicuramente aiutate: quante non hanno proprio potuto parlare perché non si sono ritrovate in questa fortunata condizione? -, quando a loro è stato dedicato sui manuali, sempre se glielo è stato dedicato, un piccolo paragrafo con una menzione del tipo letteratura femminile. Quando una scrittrice viene identificata non attraverso l’appartenenza ad un genere letterario, a una corrente o a un fenomeno culturale, ma attraverso il proprio genere biologico c’è un problema, dal momento che, se parliamo di Montale, Manzoni, Pavese, non certo usiamo l’espressione letteratura maschile: non riusciamo, quindi, ancora ad identificarle all’interno di un contesto più ampio, ma sentiamo il bisogno di ghettizzarle, di marginalizzarle.

Allora la memoria, pur essendo facilmente manipolabile, è pur sempre l’unico strumento che rappresenta la dimensione pubblica della storia, e anzi, proprio in virtù del fatto di essere un artefatto, un costrutto prodotto collettivamente, deve riappropriarsi della storia di quella che banalmente rappresenta almeno la metà della popolazione mondiale. Nello svolgere operazioni di questo tipo è senz’altro difficile non abbandonarsi a vuoti cliché e luoghi comuni che non aiutano e, forse, sviliscono la causa. È riuscita, però, efficacemente Lucrezia Lombardo nel far conoscere e amare la storia di Anna Freud, donna sempre e quasi unicamente accostata al nome del padre.

Uscito il primo marzo in libreria, Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud risulta un lavoro vincente fin dalla forma scelta: una lunga lettera che Anna scrive a una tale Dorothy, di cui, se non conosciamo la storia vera, solo a p. 95 scopriremo il cognome, iniziandola a inquadrare socialmente: si tratta Dorothy Tiffany Burlingham, proveniente da una delle famiglie più ricche e potenti degli Stati Uniti, giunta a Vienna tanti anni prima in cerca di una scuola per i suoi figli e, soprattutto, di aiuto (cfr. Lombardo 2024, p. 21 e p. 97).

È una lettera inventata, ma basata sulla storia vera, ricostruita a partire dai carteggi di Anna, di Sigmund e di tutto il materiale proveniente dal Sigmund Freud Museum di Vienna: un non fiction novel. Tutto parte da Berggasse 19, via in cui visse la famiglia Freud. La strada solitamente associata a Sigmund, qui viene legata ad Anna, perché la memoria va ricostruita, non certo annullando quella pregressa, ma integrandola e completandola.

Questa è, quindi, proprio la storia di Anna che, attraverso il potente strumento della scrittura, pone finalmente sé stessa sotto la lente di ingrandimento della psicoanalisi.

La lettera, ovvero il lungo monologo, dà concretamente voce ad Anna, che al centro della scena, illuminata da una luce finalmente puntata tutta su di lei, in modo discreto, delicato e mai morboso ci racconta la sua vita, anche quella più intima. Pagina dopo pagina, attraverso una scrittura semplice e piana, dolce e rassicurante, veniamo sempre più inclusi, all’interno degli spazi che attraversa, degli odori che annusa, delle persone che incontra, della vita che vive, e ci sembrerà di essere a fianco a lei. Vivremo la Vienna liberty di primo Novecento, l’arte di Klimt, il sapore dolce amaro di chi, in diretta, stava piano piano sempre più precipitando verso il male, e poi il Nazismo, le persecuzioni, la fuga, la condizione di essere apolidi. L’autrice è riuscita ad immergersi integralmente in questo contesto storico-culturale e, prendendoci per mano, ci conduce in modo profondo all’interno di esso.

Anna richiama, evocandoli, i vari episodi e le varie persone che hanno segnato la sua vita, in primis suo padre: Sigmund Freud. D’altronde come può aprirsi un libro sulla psicoanalisi se non sulla descrizione del rapporto con il padre? Ed è proprio lui a venirne fuori in maniera diversa da quella che ci si aspetterebbe. Viene de-monumentalizzato e umanizzato: scopriamo che, per assurdo, proprio il padre della psicoanalisi non si è certo sottratto al meccanismo più tipico e basilare analizzato dalla psicoanalisi stessa, cioè al malsano rapporto con la figlia e ai traumi che le ha causato. Nella finzione letteraria Anna scrive: «Ho trascorso buona parte della mia infanzia priva del calore di un abbraccio paterno» (Lombardo 2024, p. 27). L’Anna bambina va incontro alle disattenzioni e alla freddezza del padre, all’insofferenza verso la figura materna, al sentirsi una figlia non voluta. Eppure, finirà per ringraziare quelle disattenzioni: «Credo di dover ringraziare le disattenzioni iniziali dei miei genitori, perché hanno permesso alla mia pena di trasformarsi in opportunità» (Lombardo 2024, p. 29). L’essere stata una bambina infelice le darà, quindi, la forza e lo stimolo per portare avanti la sua grande rivoluzione elaborando un metodo psicoanalitico per l’infanzia. Da figlia non voluta, riuscirà a farsi strada, ma dovrà lottare prima di tutto all’interno della sua stessa famiglia per emergere. E sì, con il tempo creerà un legame fortissimo con il padre, ma a costo di duri sforzi. Ecco perché nel tentativo di emancipazione, il rapporto con la figura paterna, comunque, occupa tutto il libro, che è la storia di un progressivo affrancamento. Tutto parte dal padre e attraverso un percorso di formazione e ostacoli si finisce per superarlo. Ciò è suggellato dalle parole dello stesso Freud: «Tu, figlia mia, mi hai già superato» (Lombardo 2024, p. 120). E Anna è riuscita nell’impresa, nonostante fosse destinata dalla società e dalla famiglia ad una vita segnata dall’invisibilità e da quei rigidi schemi patriarcali che la volevano subalterna, che la volevano semplicemente una moglie o una figlia di qualcuno, priva di una identità. Questa condizione, però, Anna non l’avrebbe tollerata. Anna prova disprezzo e rabbia verso le donne come sua madre o come sua sorella, le sembra che, pur felici e serene in quella condizione, gettino via il tempo prezioso delle loro vite tra visite e convenevoli artificiosi (cfr. Lombardo 2024, p. 38). La curiosità le deriva, invece, dalla vita del padre, e sarà a quella che tenderà durante tutta la sua esistenza. E determinante in questo viaggio di liberazione, per il suo coraggio e per il suo essere refrattaria ad ogni autorità, sarà Dorothy.

Ma perché Anna scrive una lettera proprio a Dorothy? Quale legame le lega? Più volte viene sottolineato che si tratta di una lettera di ringraziamento, di gratitudine a quella persona che le ha permesso di ritrovare la speranza. Se approcciamo al libro con uno sguardo vergine e senza conoscerne la storia vera, progressivamente attraverso tante spie testuali e dettagli sparsi qua e là, veniamo a conoscenza del legame che lega Dorothy alla scrivente. Capiamo così che si tratta di una lunga, dolce, intensa lettera d’amore. Non a caso la lettera viene definita, a p. 30, un «ultimo gesto d’amore». Tra le due esiste quell’amore che mette a nudo e distrugge le maschere, che rende vulnerabili, ma anche potenti, infatti Anna le scriverà: «Tu sei stata la prima persona che si è accostata a me senza alcun pregiudizio» (Lombardo 2024, p. 28). Le due sono state compagne di vita, lotte e studio. Hanno lavorato insieme per trovare dei metodi in grado di aiutare bambini traumatizzati, orfani di guerra, vittime di maltrattamenti, bambini senza una casa, attraverso i “War Nurseries” a Londra, gli asili di guerra, che poi inizieranno ad ospitare anche bambini sopravvissuti ai campi di concentramento. Il loro è un amore che è anche dedizione, condivisione di intenti, slancio per una causa che si converte in ragione di vita. Il libro è dunque una storia di amore, lotta, emancipazione, volontà di autodeterminarsi. E se a p. 126 scopriamo che l’Eros è l’antidoto contro la guerra, tutta questa lettera che trasuda di Eros, è considerabile un disperato tentativo di argine alla guerra.

Anche Dorothy fugge da una famiglia opprimente, intenta sempre a salvare le forme e le apparenze a scapito della sostanza. Da qui si capisce, dunque, come le classi sociali sono tutte, indifferentemente, toccate da un’organizzazione patriarcale oppressiva, solo che con livelli di ipocrisia diversi e con possibilità di salvezza diverse (non dimentichiamo che pur con tutto il coraggio che la contraddistingue, Dorothy ha avuto la fortuna di poter fuggire in Europa per salvare sé stessa e i suoi figli da una situazione dolorosa).

Durante tutta la lettera, la nostra attenzione sarà attratta sempre da Anna che, con il suo frizzante temperamento, con le sue lacerazioni, in lei presenti fin da bambina, la sua malinconica insofferenza, non viene mai restituita come un personaggio piatto o privo di sfumature. Fin da subito è contraddistinta da insanabili lotte interiori. Anna si troverà a vivere il conflitto tra la sua femminilità e l’irrefrenabile istanza all’autonomia (cfr. Lombardo 2024, p. 41), tra il desiderio di aiutare i bambini sofferenti e il suo rifiuto della vita familiare tradizionale, scelta da lei considerata egoistica perché finalizzata al perseguimento dell’esclusivo benessere dei propri cari (cfr. Lombardo 2024, p. 41), tra la sua volontà di aiutare i poveri e i sofferenti e la fortuna e il senso di colpa per provenire da un mondo confortante, borghese (cfr. Lombardo 2024, p. 44). E Anna, si diceva, ci attrae proprio perché in queste fessure e conflitti ci riconosciamo, perché è rassicurante sapere che il nostro essere sfaccettati, il nostro dover imparare a convivere con tutte le varie contraddizioni insanabili, caratterizza tutti. Senza Dorothy, però, forse non ci sarebbe stata salvezza per Anna, e viceversa. Lo slancio per l’aiuto del prossimo le ha legate, il trovare un complice, però, ha salvato entrambe.

Perché leggere queste pagine? Innanzitutto, ognuno vi troverà un pezzettino di sé stesso, anche semplicemente in alcuni stati d’animo o atmosfere evocate e, se si lascerà travolgere dalla potenza delle parole, troverà in alcuni angoli anche un pezzetto del nostro presente. Si legga a titolo esemplare l’elogio della condizione degli apolidi:

Ci abituammo all’idea che l’Inghilterra sarebbe diventata la nostra nuova casa, non certo una patria, gli apolidi non hanno appartenenza, né una nazione di cui sentirsi parte ma questa, forse, è la condizione migliore per proteggersi dallo spirito del nostro tempo, assetato com’è d’identità violente e di prevaricazione. (Lombardo 2024, p. 124)

Questo, però, è solo uno dei molteplici spunti offerti da un libro che riesce a tenere insieme mitologia, arte, tragedie greche, scultura, amore, psicoanalisi. La lettura del libro conduce ad una nuova consapevolezza, e forse aggiunge anche quel briciolo di rabbia in più alle nostre vite che ci porta a chiedere: Quanto ci siamo persi? A quali vette sarebbe giunto il pensiero se una parte di umanità per secoli non fosse stata ammutolita? E con quest’acre sapore in bocca proseguiamo nelle nostre personali lotte quotidiane.

TESI CITATI.

Lucrezia Lombardo, 2024, Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud, Bari, Les Flâneurs.

In Tu con Zero - Le interviste

FALLA TU L’EROTICA A FOGGIA. La prima fanzine fotografica di Giuseppe Petrilli. Conversazioni e disquisizioni su vent’anni di Arte Erotica e passione per la provocazione.

di Umberto Mentana

Giuseppe Petrilli è nato a Lucera (Fg) nel 1970 dove vive e lavora. La sua attività artistica si sviluppa in una doppia produzione, tra arte figurativa e fotografia. In particolare la serie erotica “Piante Carnivore” è il risultato di una personale ricerca volta a trovare la giusta alchimia tra il gesto artistico più classico, il disegno, e le nuove tecniche digitali, al fine di utilizzare e sviluppare le numerose soluzioni espressive che esse offrono. Ha partecipato a diverse mostre collettive e personali a Miami, Chicago, Los Angeles, San Francisco, Montreal, Berlino, Zurigo, Roma, Milano, Firenze, Verona, Napoli, Salerno, Catania, Bari, Lecce, Taranto, Foggia.

            Giuseppe Petrilli e io condividiamo le origini, siamo entrambi lucerini e questo per noi è stato spesso motivo di confronto. La nostra affinità va però oltre. Da sempre, infatti, sono  affascinato dalla sua Arte Erotica che è mutaforme, provocatoria, trasgressiva ed estremamente poetica e sinceramente interessato a comprendere i meccanismi che la muovono. In passato ho avuto la possibilità, e la fortuna, di realizzare con lui un progetto di illustrazione dedicato alla Valentina di Crepax, basato su un mio racconto. Da qui  il titolo  Oplà_A Tribute to a Valentina. (https://www.frammentirivista.it/cara-valentina-il-tempo-non-fa-il-suo-dovere/). Così, quando ho appreso che in questi giorni è stata pubblicata una fanzine dedicata interamente alla sua produzione fotografica, edita da CAVIE PROJECT (https://www.instagram.com/cavie_project/)

 ho ritenuto importante, condurvi nello “studio dell’artista. Cavie Project è il nome del collettivo di editoria indipendente nato a Milano. Paolo Coppolella e Milo Mussini, i due fondatori, hanno deciso di dedicare un intero numero ad una selezione di scatti provocatori di Giuseppe con il titolo, anche questo provocatorio, “Falla tu l’erotica a Foggia”. I due editori tengono a specificare però che: “Il titolo ha un senso ironico, è come per dire la provincia è viva, viva la provincia! Non ha un’accezione denigratoria, anzi tutt’altro. Giuseppe ci vive e lavora lì e il fatto che degli editori di Milano come noi vogliano collaborare e sviluppare un progetto con lui è una cosa bella anche per il territorio ma è un modo per parlare in modo positivo della provincia.”

Di seguito vi riporto la mia lunga chiacchierata con Giuseppe, decisamente informale, rilassata e rock and roll.

U.M. Insomma, Giuseppe. Come e dove sta andando questa fanzine?

G.P. Di sicuro c’è molto entusiasmo da parte di Paolo e Milo, i due editori. Tant’è che di solito per CAVIE si stampano trenta copie a tiratura limitata e invece per la mia hanno fatto un’eccezione, partendo da una tiratura di cinquanta copie. Io stesso ho dedicato molta dedizione per questa fanzine, soprattutto perché si tratta della mia prima pubblicazione fotografica. Quindi ho inviato a CAVIE all’inizio un bel po’ di scatti, più di un centinaio, anche foto molto vecchie. E non ho voluto interferire nella scelta di cosa doveva esserci e cosa no nella pubblicazione finale. Dopodiché loro hanno scelto le prime sessanta fotografie ed infine le trenta finali che sono finite in pubblicazione; il principio scelto da Paolo e Milo per la fanzine è stato quello di creare una sorta di racconto unitario, uno storytelling che attraversa tutte le pagine, insieme naturalmente alla continuità cromatica, un’altra scelta importante per la selezione delle opere.

U.M. Loro di Cavie Project trattano esclusivamente fotografia, giusto?

G.P. Sì, anche perché professionalmente appartengono al mondo della fotografia e il fatto di essere entrato con la Fotografia in una realtà artistica qual è quella di Milano per me è una grande soddisfazione perché è molto complicato come contesto, a differenza dell’arte figurativa, con la quale è stato più facile essere introdotto in determinati ambienti. Il mondo dell’arte figurativa è più inclusivo secondo me, quello della fotografia lo è molto meno.

U.M. Questa cosa la riscontro anche io con il Fumetto e il Cinema. Con il primo ho avuto meno difficoltà a introdurmi e farmi conoscere.

G.P. Sì, ci sono dei circoletti, c’è molta competizione.

Sono molto contento perché quello di produrre una fanzine era uno dei miei progetti in cantiere, ne ho una pronta che volevo autoprodurre o proporre ad una di queste case editrici che trattano fanzine e neanche a farlo apposta sono venuti loro da me.

U.M. Volevo chiederti, visto che la tua arte e il tuo nome sono sempre stati legati all’illustrazione e all’arte figurativa, come mai questo “passaggio” alla fotografia?

G.P. Il passaggio è stato molto naturale, nel senso che io ho sempre utilizzato la fotografia nelle mie opere, perché il mio obiettivo è ed è sempre stato realizzare le mie opere da zero, utilizzando sempre immagini esclusive come riferimenti. Quindi ho sempre usato la fotografia come medium per realizzare le immagini finali, come reference. E il passaggio perciò è stato naturale perché realizzando gli scatti certe volte mi rendevo conto che alcuni dovevano rimanere così  e non essere trasformati in disegni o in dipinti. Ho iniziato così a pensare di fare una produzione parallela a quella figurativa formata da scatti fotografici. È nata così.

U.M. Perché dici che alcuni scatti devono rimanere “solo” fotografia e non essere trasformati in illustrazioni?

G.P. Ci sono alcuni scatti che hanno una forza espressiva, delle ombre, un contrasto tra chiari e scuri.. Ci sono delle foto che devono rimanere così, non riuscirei a ritrovare la stessa tensione ed energia incastonandola in un disegno. C’è una cosa che tengo particolarmente a precisare e cioè che io non mi ritengo un fotografo ma mi considero un creatore di immagini e per me la fotografia è un modo alternativo di disegnare. Il mio approccio alla foto è molto più istintivo che tecnico, anche se ho fatto dei corsi base di fotografia non ci tengo particolarmente ai costrutti tecnici come le regolazioni di ISO, il diaframma e così via. Mi piace più fare degli esperimenti strani con le luci, gli effetti. Mi piace sperimentare ogni aspetto perché, ribadisco, io sono un creatore di immagini e non un fotografo.  Quello a cui anche tu facevi riferimento prima, ossia  che il pubblico mi conosce più per l’arte figurativa che per le fotografia non nego che per me, ad un certo punto della mia carriera, è stato motivo di crisi. Mi sono sentito come un pesce fuor d’acqua, fino a qualche tempo fa, quando, nel 2020, ho dato vita ad un progetto in collaborazione Creo Gallery di Foggia e decidemmo di fare una mostra con opere di piccolo formato così da venderle anche ad un prezzo abbordabile per chiunque e in quell’occasione mi sono inventato questa nuova serie che ha unito la fotografia con la pittura: praticamente ho stampato delle mie foto in bianco e nero e le ho colorate a mano, si chiama Ex Voto ed ha riscosso molto successo, devo dire. Stava andando benissimo, era il Febbraio 2020 e avevamo intenzione di fare esperimenti interessanti, come fare interagire gli spettatori ma poi ovviamente c’è stato il lockdown e tutto si è bloccato. Quell’esperienza è rimasta sospesa nel limbo però ho sempre un pensiero di tornarci su.

Ritornando invece a quel mio “passaggio” fra arte figurativa e fotografia, c’è il fotografo praghese Jan Saudek che indirettamente mi aiutato in un certo senso a fare pace con me stesso, poiché anche lui è un artista in questo senso perché le sue fotografie le dipinge poi a mano e questa tecnica mi ha messo il cuore in pace. E il fatto che Cavie Project hanno voluto realizzare questa fanzine è la prova che sono sulla buona strada, è un grande piccolo traguardo per me!

U.M. Certo, alla fine quello di arrivare ad una pubblicazione che venga distribuita su un certo tipo di circuiti e in un certo tipo di realtà, principalmente come quella di Milano, molto attenta all’arte erotica, è motivo di orgoglio.

G.P. Senti, per me l’arte erotica è un processo nato vent’anni fa e che continua ad andare avanti. Ogni step raggiunto è importante, ogni traguardo nuovo è solo un passo per andare avanti, progredendo in altre direzioni. Io non sono uno a cui dire che in vent’anni ha fatto sempre le stesse cose, no. Io in vent’anni ho lavorato e creato sullo stesso genere ma mai le stesse cose, uso mille stili, mille tecniche, come il digitale, lapittura, la fotografia. Cerco sempre di diversificarmi.

U.M. E qual è secondo te il tuo racconto? Qual è il racconto globale che porti avanti nella tua arte, se lo sai?

G.P. Se qualcuno mi chiedesse, come spesso lo fanno, perché faccio arte erotica, mi andrebbe di rispondere per il gusto della provocazione. A me piace che la gente rimanga scandalizzata, di rompere un po’ le regole di una società un po’ ingessata come può essere la nostra. Forse adesso siamo un po’ più aperti ma vent’anni fa, più o meno nel 2006, la mia arte è stato un fulmine a ciel sereno. Ma anche io stesso non pensavo di intraprendere questa cosa, ho iniziato in maniera del tutto naturale con la serie Piante Carnivore ma non avrei mai avuto mai il coraggio di espormi, soprattutto in una realtà di provincia come la nostra, a Lucera. Ciononostante la mia prima mostra fu nel 2007 nell’ambito del Festival della Letteratura Mediterranea in città perché quell’anno il tema era l’eros. Quindi qualcuno sapeva di questa cosa che stavo facendo e mi chiese di realizzare una mostra e perciò fui anche fortunato perché entrai dalla “porta principale” perché, immagina, un Festival di letteratura è  una cornice interessante. Devo dire tuttavia che ho sempre avuto ottimi riscontri, anche in zona, nonostante c’è chi mi dice: “Le tue cose mi piacciono molto ma non le metterei mai in casa”. Questo ragionamento lo posso capire magari sulle mie fotografie che sono molto esplicite ma non credo che i miei disegni siano più trasgressivi di quelli di un Milo Manara o anche di artisti classici, il nudo è sempre esistito e in varie forme. Questa è insomma un po’ la lettera scarlatta che mi porto dietro, però devo dire che ho sempre avuto degli ottimi riscontri.

U.M. Il rapporto con le modelle ha sempre affascinato un po’ tutti, ci racconti qualcosa?

G.P. Quando ho iniziato a fare Piante Carnivore ovviamente non c’erano modelle per me che posassero dal vivo, era impossibile trovare modelle che posassero nude vent’anni fa. Poi non esisteva neppure Facebook e i social in generale non esistevano.

U.M. Sì, è vero. C’era MySpace.

G.P. C’era MySpace e c’erano dei siti che potevano essere antesignani di Facebook, però di settore. Tipo, nell’arte c’era MySpace che era arte e musica ma anche Equilibriarte, che era un sito, non era fatto con chat ma c’erano forum dove poter entrare in contatto con altre artiste.

Le mie prime modelle infatti erano altre artiste che si fotografavano, mi mandavano gli autoscatti e io così ho realizzato la mia prima serie di disegni per Piante Carnivore.

U.M. Quindi il progetto ed il rapporto con le modelle era tutto “consumato” a distanza?

G.P. Sì, sì. E infatti una persona affascinata da questa cosa fu un noto editore del territorio che era solito dirmi: “Giuseppe, dobbiamo fare una cosa.” E l’idea infatti era molto bella e magari, perché no, la riprendiamo! Voleva che pubblicassi gli stralci delle email tra me e le modelle dove io in un certo senso le dirigevo a distanza per lo scatto che poi loro si scattavano da sole. Lui mi diceva di mettere oltre a questi stralci anche poi i disegni che io ho realizzato partendo da quelle indicazioni. Poi purtroppo questa cosa non si è mai realizzata.

U.M. È molto interessante perché in questa maniera metti in mostra tutto il processo creativo di quelle opere.

G.P. È vero, perché ora  ho iniziato a fare le foto,  le faccio io di persona in studio, invece per i disegni sono ritornato al vecchio metodo, nel senso che i disegni che realizzo li faccio sugli autoscatti delle modelle, perché a me piace rappresentare la sensualità nel suo lato più naturale possibile. Mi piace che la modella si mostri come si piace mostrarsi.

U.M. Certo, senza un occhio e un intervento esterno. Ed è importante questo, anche da un punto di vista, se vogliamo, dei gender studies visto che si parla molto del fatto che l’erotismo viene trattato molto e quasi esclusivamente da un punto di vista di un occhio maschile, mentre quello che stai dicendo è molto interessante e democratico.

G.P. Sì, esatto. Io devo solo rappresentare la realtà, quindi il mio unico compito è quello di dare delle dritte dal punto di vista tecnico per una rappresentazione quanto più corretta, come ad esempio: “Se fai un autoscatto in piedi mostrati in piano americano” e cose così, anche perché è complesso farsi degli autoscatti. Un’altra metodologia utilizzata è quella di inviarmi dei video dove io poi scelgo dei fotogrammi per renderli in disegno. Io dico loro sempre di indossare quello che vogliono, di mostrarsi come vogliono. Comunque sia anche oggi è sempre difficile trovare modelle anche perché in questo tipo di opere la nudità è sempre uno scoglio complesso da superare, soprattutto sul nostro territorio. E infatti le mie modelle decidono di mantenere l’anonimato e quindi nelle foto purtroppo posano con passamontagna, maschere. Ed i motivi che spingono ad una ragazza a posare nuda sono diversi, ad esempio perché lei sta uscendo da un momento difficile e vuole ritrovarsi…io in tutto questo ho avuto quasi una funzione da psicologo, molte volte. Questa cosa dell’arte è che è catartica, alcune di loro hanno ritrovato se stesse, si sono viste sotto una luce diversa; una ragazza che fa una dieta rigorosa ad esempio e poi si vede per la prima volta, per la sua scala di valori, bella e vuole mostrarsi in un certo modo. È molto importante.

U.M. Quindi possiamo dire che l’arte erotica fa bene, da vari punti di vista.

G.P. Certo, perché l’arte erotica va maneggiata con cura anche da un punto di vista psicologico. Non è quella cosa frivola come di solito si pensa, è tutto legato alla natura umana e quindi è qualcosa di normalissimo. E per me, il valore e il ruolo che ha la modella riesce a dare per la realizzazione dell’opera finale è importantissimo.

U.M. Poi io credo che rispetto ad altre forme d’arte come il Cinema, nella fotografia il rapporto fra fotografo/a e modella/o è quasi individuale, molto intimistico e stretto.

G.P. È proprio come lo psicologo, di solito le pazienti rimangono legate al proprio psicoterapeuta. Lo stesso vale per me, si crea un rapporto di amicizia.

U.M. E infatti nelle tue opere c’è spesso la riproposizione di alcune tue modelle storiche, sono tornate spesso ad essere protagoniste dei tuoi lavori.

G.P. Certo, anche quelle dei primi lavori, nonostante la vita poi le abbia portate a seguire altri percorsi, continuano a supportarmi, a seguirmi. Per me questa è una cosa importantissima perché sì, io scatto ma a me piace che la modella senta che quello che sta facendo è anche qualcosa di suo. Deve trasmettere attraverso la fotografia la sua personalità. A me non interessa che la modella si sieda lì, in un angolo e rimanga lì. Deve partecipare alla creazione dello scatto. Quella cosa che sta facendo la deve sentire propria. Ci sono poi altri elementi che entrano in gioco, come l’aspetto ludico e l’aspetto ironico che per me sono fondamentali nell’erotismo e quindi quando si crea quel rapporto con le modelle dove ci si chiede: “Dai, ora cosa facciamo? Inventiamoci qualcosa di divertente.” Cerchi quindi quell’abito particolare, quella posa particolare e così via.

U.M. E infatti poi in alcune tue opere ho notato che c’è anche più di una modella in campo.  Una sorta di gioco tra le parti.

G.P. A me piace particolarmente il coinvolgimento, la partecipazione attiva tra i modelli e le modelle durante la realizzazione degli scatti. Infatti, ad esempio la prima volta che ho scattato con un ragazzo è stato grazie ad un’altra modella che venne da me e mi propose un suo amico con cui si stava frequentando in quel periodo ed entrambi avevano intenzione di fare uno scatto di coppia.

E a tal proposito ho un altro aneddoto che può essere interessante. Da sempre il mio soggetto preferito è quello femminile e navigando su Instagram sono entrato in contatto con Jerry Saltz, critico e scrittore d’arte che scrive per il New Yorker. Io gli inviai un messaggio privato su Instagram dove gli chiesi di andare a visionare le mie cose, non pensando assolutamente che mi potesse rispondere. E invece lo fece! E mi disse, in maniera molto laconica: “I tuoi lavori sono molto interessanti ma perché solo donne?” E basta. Da lì mi è scattato qualcosa, alla fine pensai: “Quello è Jerry Saltz, non è uno qualunque che me lo sta dicendo”. E quindi ho iniziato a macinare qualcosa. Sono un artista, non sono uno che scatta o disegna perché gli piacciono le donne, è troppo scontato. Un artista deve sperimentare e l’erotismo non è solo femminile ma anche maschile e perché non dovrei presentare anche il corpo maschile? Però non avevo avuto mai la possibilità di sperimentare questo tipo di lavori finché non è arrivata questa ragazza e mi ha proposto di fare degli scatti di coppia. E naturalmente non mi sono tirato indietro anche se c’è la necessità per il corpo maschile di poterlo inserire solo in un certo tipo di contesti quali mostre o pubblicazioni editoriali, visto che non posso postare questo tipo di lavori sui social media, soprattutto perché sono otto volte che mi chiudono il profilo Instagram! Infatti, la prima cosa che mi ha detto Paolo di Cavie Project è stata : “Sì, Giuseppe facciamo questa cosa ma non farti bannare più, altrimenti dobbiamo ripartire da zero.” Proprio riguardo ai nudi maschili, fu davvero una delle condizioni della fanzine, perché mi chiesero espressamente foto esplicite e nudi maschili e se non li avessi avuti sarebbe stato, non dico un problema ma una forte mancanza nel mio corpus di opere.

Infatti dopo la prima tranche di opere che inviai loro, volevano più nudi maschili e foto esplicite perché, per essere notati oggi non ci può essere un tipo di erotismo vedo-non-vedo. L’erotismo deve essere provocatorio: il nudo artistico non esiste ed è una balla, come convengono anche i più importanti artisti del settore e io sono assolutamente d’accordo.

I miei maestri sono artisti come Araki, Eric Kroll, Robert Mapplethorpe…bisogna creare una poetica anche nella figura esplicita, mettere il bello anche in una immagine esplicita. Ed è questa la difficoltà. E non so se il nostro ambiente è pronto.

U.M. Vero, anche perché io personalmente credo che l’erotismo in generale nelle sue forme artistiche sia mutato radicalmente perché è mutata la società, anche rispetto a vent’anni fa.

G.P. Anche i maestri che seguo io, come Mapplethorpe ora si dedica ad un sacco di nudi maschili e anche Terry Richardson, il fotografo americano delle star, anche lui. Oppure Ren Hang, fotografo cinese morto giovanissimo che però è diventato famosissimo in poco tempo scattando con quelle prime macchinette digitali con il flash. Lui pure scattava nudi maschili, femminili, non esiste più oggi una distinzione, è tutto più fluido ed è cambiato l’approccio rispetto al passato. Non ricordo, infatti, dei nudi maschili di Helmut Newton, scattava uomini ma solo per i ritratti.

E infatti dire una cosa del tipo: “io gli uomini non li scatto” è sintomo di una mentalità molto provinciale, e invece si deve puntare oltre. Io quello che faccio lo faccio guardando altrove e non cosa accade nella piccola realtà.

Questa fanzine infatti è la dimostrazione del fatto che dello scatto perfettino, realizzato in studio con la luce perfetta, lo sfondo nero, la modella sullo sgabello non importa assolutamente a nessuno. Ce ne sono milioni sulla rete, invece lo scatto deve essere esplicito perché si deve far notare.

Una vera sublimazione del fatto che deve essere la modella a farsi notare e a mostrarsi come vuole mostrarsi è la serie In the Mirror. Nel mio studio ho uno specchio e io ad un certo punto metto lo specchio a terra, porgo la macchinetta alla modella e lei inizia a fotografarsi allo specchio. Loro perciò si fotografano allo specchio come vogliono, io mi limito a dirigere l’illuminazione sulla figura, sono a loro a scattare e a farsi questi “selfie”, in completa autonomia.

U.M. In questa serie, In the Mirror, dunque è proprio l’assenza dell’artista a farla da padrone. Tu guidi quindi esclusivamente il concept, è l’artista che scompare dietro la prevalenza del soggetto fotografato.

G.P. Sul mio profilo Instagram infatti troverai degli scatti proveniente da questa serie.

U.M. Non mancherò di farlo e invito infatti a tutti di seguirti sui tuoi canali e ovviamente a recuperare online la fanzine FALLA TU L’EROTICA A FOGGIA!

Per seguire il lavoro di Giuseppe Petrilli rinvio al sito internet www.petrilliartworx.it e alle seguenti pagine social: https://www.instagram.com/giuseppepetrilliart/ (per l’arte figurativa) e https://www.instagram.com/petrilliartworx_shots8/ (per la fotografia).

In Narrazioni

DI CASE PIENE E CITTÀ VUOTE. Indagine letteraria sui luoghi che abitiamo

di Maila Cavaliere

Sono tornata nella casetta al mare due anni dopo la morte di mio padre. Di quella breve visita ricordo il freddo umido e pungente e la sensazione di vita sospesa. Un atto lievemente distopico. Come se gli echi di un passato lontano dovessero manifestarsi in quelle stanze da un momento all’altro.

Vedevo me bambina attraversare il piccolo soggiorno, girare intorno al tavolo tondo, in braghe corte e canottiera, o solo in pantaloncini, senza maglietta, quando non conoscevo ancora il senso del pudore per la nudità, la pelle arsa dal sole e la pipì trattenuta fino all’ultimo per non rimandare il tempo del gioco. Mia madre stava lì, con un prendisole chiaro, a piegare i panni raccolti prima che la canicola di agosto li indurisse come carta.

Quella casa ancora oggi resta per me lo scenario di tanti sogni.

A nessun altra casa sono riuscita ad affezionarmi, nemmeno alla prima abitazione da sposata, la prima che sia stata mia. Avverto una distanza tra gli ambienti che abito e la vita, contenitori vuoti a cui non affido mai la parte più intima di me.

Da bambina cantavo le canzoni che sentivano i grandi della famiglia. Tra queste c’era Casa mia dell’Equipe ’84. Diceva: dopo tanti mesi di lavoro / mi riposerò / dietro quella porta / le mie cose io ritroverò / la mia lingua sentirò / quel che dico capirò . Non mi ha mai convinto del tutto, nemmeno da bambina, perciò quando un libro o una canzone parlano di casa mi aspetto sempre un sottotesto, un segreto, il cigolio di una porta nascosta.

Da sempre una certa letteratura trova nella casa l’ambientazione ideale, esercitando la curiosità morbosa e voyeuristica verso certi intérieur nei quali si consumano storie, drammi ed esistenze.

Anche di recente, lungi dall’esaurire nel perimetro delle pareti domestiche una narrazione intima, dai tratti autobiografici, la casa incarna sovente il luogo dell’inquietante consapevolezza che da nido, può diventare, per i suoi abitanti, incubo e prigione e che i mostri non sono poi così diversi da noi e nemmeno tanto lontani. È ciò che accade nel romanzo di Antonella Lattanzi Questo giorno che incombe (Harper Collins 2021). La matrice gotica di ispirazione ottocentesca, unitamente a una sottile indagine psicologica contaminano la narrazione, sbreccando la solidità dei riferimenti razionali e le certezze della mentalità comune.

Il dispositivo letterario della casa stregata torna dal passato delle storie di Henry James, per esempio, a contaminare ilmicrocosmo intimo della protagonista de L’altra casa di Simona Vinci (Einaudi Stile Libero, 2021) e funge da aggregante di paure, solitudini, analisi, rispecchiamenti.

Il racconto della casa esercita anche la sottile seduzione del non detto. È quanto accade nel romanzo La porta di Magda Szabò , (scritto nel 1987 e ripubblicato da Einaudi nel  2005) in cui lo straordinario personaggio di Emerenc, l’anziana e scontrosa domestica della protagonista, delinea il labile confine tra ciò che è pubblico e ciò che è privato, tra come si è e come ci si mostra agli altri.

Dietro la porta_ titolo peraltro di un romanzo di Giorgio Bassani del ‘64 ma anche di una canzone di Cristiano De André del ’93_si aprono scenari immaginati o inimmaginabili, capaci di allargare prospettive con un blow up narrativo o di provocare, nel lettore accorto, anamorfosi e cadenze d’inganno.

Ne La casa delle madri e La casa del mago, per citare i romanzi di Daniele Petruccioli ( Terrarossa, 2021) e di Emanuele Trevi (Ponte alle grazie, 2023) le case sono luoghi cari e magici dove generazioni si inseguono e si rincorrono, in un dialogo costante tra vivi e morti, tra vissuto e inconscio e in una tensione continua tra fuga e avvicinamento.

La soglia di casa è insieme l’intrigante via d’accesso alle esistenze altrui e un gioco del rovescio con cui, guardando dentro, si può, se non comprendere, almeno intuire il mistero del fuori. Della mia casetta al mare, forse non a caso, lo spazio che preferivo era la veranda. Era un altrove prossimo, fuori ma non troppo, un luogo di passaggi e contropassaggi da cui era facile ritrarsi come una lumaca nel guscio, quasi incastrata nell’angolo interno su una sdraio reclinabile in stoffa, per non essere vista da chi veniva dal lato sinistro della strada.

Nei più recenti processi di rappresentazione e comunicazione narratologici mi pare di avvertire un sostanziale allargamento dell’inquadratura, un’incursione nel campo lungo e lunghissimo del quartiere e della città.

In questa attuale tendenza letteraria, le storie degli uomini che abitano i luoghi, che pure sono spesso collocate in primo piano, sono il portato di una relazione più ampia e spesso disfunzionale con la città e i luoghi circostanti.

“E so che la città/ vuota mi sembrerà/ se non torni tu” così cantava Mina in Città Vuota e metteva in scena il tema terribilmente letterario della solitudine, dell’inutilità della folla e di ogni struttura urbanistica, quando il nostro stato d’animo è talmente compreso nel suo dolore da non vedere intorno a sé null’altro.

Per un’ iperbole solipsistica, esiste una letteratura di qualche decennio fa che ha messo in scena l’assenza umana, la sua scomparsa, come segno tangibile di una difficoltà di collocazione in ruoli riconosciuti o in relazioni reciproche.

Quando l’umanità sparisce, (e sparisce davvero, dopo che il protagonista aspirante suicida, decide di ripensarci e tornare indietro) cosa rimane di lei oltre agli oggetti? È forse questa la domanda principale che pone il romanzo di Guido Morselli Dissipatio H.G., ( 1973) scritto pochi mesi prima che il suo autore scegliesse veramente di porre fine alla propria vita, e forse anche a causa dei ripetuti rifiuti editoriali e di una vita vissuta sempre al margine.

E quando tra noi e il resto dell’umanità si frappone un muro invalicabile che impedisce ogni comunicazione, ogni contatto, chi si accorge davvero della nostra assenza? Cosa resta di noi e quanto possiamo fare a meno degli altri?

Se lo chiede l’autrice austriaca Marlene Haushofer nel romanzo La parete (1963), distopica rappresentazione di una vita improvvisamente separata dal resto del mondo a causa di una parete trasparente e invalicabile.

Che sia l’umanità a dissiparsi o la protagonista a non poter più avere alcun contatto con gli altri, il paesaggio intorno, in queste due storie, non è vittima di nessun evento catastrofico, la natura, anzi, fatta eccezione per alcuni relitti fonico-visivi, uniche traccedi chiara matrice umana, appare rigogliosa e  intatta, libera da ogni vincolo o soggezione urbana e antropica. Appare evidente come ogni decisione o stato d’animo umano sia fortemente legato al gruppo, alla collettività e il fulcro della riflessione scaturita da queste letture abbia a che fare con il senso della vita all’interno di una anomala socialità, di un’umanità guasta. Scrive Morselli: “il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo.”E Haushofer sembra fargli eco. “ Era meglio distogliere i pensieri dagli uomini. Il grande gioco del sole, della luna e delle stelle sembrava riuscito, difatti non era stato inventato dagli uomini”, in una sorta di materialismo e di meccanicismo senza finalità, tanto simile al pessimismo leopardiano del Dialogo della Natura e di un islandese.

E a che serve, a questo punto, esistere, identificarsi con la propria casa o uno spazio definito se gli altri si dimenticano presto di noi o, nemmeno da vivi, ci considerano o danno valore ai nostri sentimenti e ai nostri talenti?

L’invenzione di Morel, romanzo psico-fantascientifico di Adolfo Bioy Casares, amico fraterno di Borges, pubblicato per la prima volta nel 1940, interroga proprio la nostra paura della morte e il terrore di rimanere invisibili agli altri. Morel è un inventore e ha creato una macchina capace di replicare immagini e ricordi. Grazie alla sua invenzione ologrammi eterni di uomini e donne popolano un’isola sperduta e deserta su cui approda il protagonista, un fuggiasco.

La strana compagnia di questi esseri virtuali che non lo possono vedere è inaccettabile per l’uomo, come è insopportabile, per ognuno di noi, rimanere escluso dalla considerazione degli altri. Ma l’indifferenza prima e la morte poi corrompono tutto. L’eternità, come si potrà concludere, appartiene solo alla scrittura.

In questo strano tempo, la casa non è più soltanto filtro di un altrove degradato, né fortezza Bastiani che affaccia sul deserto e nemmeno luogo di inquietudini amplificate dal lessico famigliare. Nella raccolta di racconti che compongono L’ubicazione del bene (Einaudi, 2009) per Giorgio Falco la casa di proprietà è il desiderio medio della gente comune, un onesto compromesso tra aspirazioni abortite e fallimenti conclamati, sintesi perfetta di una sconfitta umana che dirotta su obiettivi alla  propria portata gli abusi della vita.

Giorgio Falco dissezione con ferocia i tratti della provincia italiana, che si allontana dalla città caotica e tentacolare ma trasferisce i suoi abitanti in una zona grigia di solitudine e incomunicabilità in cui, quando va bene, il tempo è fagocitato da lavoro e pendolarismo e dove, quando va male, si consumano silenziose tragedie e immani disfatte.

Il lettore ben presto coglie lo scivolamento di significato del lemma: “ bene”, inteso come puro oggetto catastale e non come concetto immateriale ed etico e si sente stanato.

Per l’incauto capriccio di possedere un immobile, ci si impaluda in un drammatico status quo dell’anima, cedendo il passo all’unico bene che ci riteniamo, a torto, in grado di gestire.

Nessun fuoco sacro brucia più negli abitanti dell’immaginaria frazione di Cortesforza se non quello che, per effetto di una esaltazione collettiva, spinge milioni di persone ad accendere mutui pluridecennali. L’ho fatto anch’io per una serie di ragioni oggettivamente opinabili che Falco ti sbatte in faccia, riuscendo a farti assomigliare ai personaggi angoscianti dei suoi racconti, a farsi sentire addosso l’odore del disinfestante a basa di piretro.

La casetta al mare, invece, ha sempre lo stesso odore: quello del sale che si mangia la pelle e anche i muri. Sale dalle narici, ti invade e mette i brividi. Forse perché ha l’odore dei ricordi e quello si fa più penetrante man mano che te ne allontani. L’ubicazione di quel bene è sempre la stessa ma quella, da un po’, non è più casa mia.

In Appunti di Lettura

Appunti di lettura su “Molloy” di Samuel Beckett

di Demetrio Paolin

[le pagine citate nel testo si riferiscono al meridiano Mondadori, Samuel Beckett Romanzi, teatro e televisione a cura di G. Frasca]

1. pp.497-557

Incipit/Preambolo. L’incipit di un testo è sempre problematico, l’attacco con cui lo scrittore decide di portarci dentro una storia produce il tono del racconto. L’attacco di Molloy è rapido, pare semplice, per nulla ambiguo, in una parola potremmo definirlo chiaro. “Sono nella camera di mia madre” (p.497). Prima di andare avanti con la nostra ricognizione dobbiamo ricordarci il monito di Adorno, contenuto nel saggio Schizzo per l’interpretazione dell’Innominabile, che a parer mio può essere perfettamente applicato anche a Molloy e alla scrittura e all’opera di Beckett tout court. Adorno scrive che è necessario: “leggere ogni frase dell’inizio alla fine”. Fedeli a questa ipotesi proviamo a leggere questa frase dall’inizio alla fine, la prima cosa anzi che dovremmo comprendere è cosa significhi leggere, quale tipo di realtà oggi si schiuda nella decifrazione, che pare involontaria, mentre è appunto uno sforzo continuo e macchinoso del nostro cervello. Beckett ci costringe a leggere, ci costringe a muoverci all’interno di frasi brevi, semplici sintatticamente, ma nello stesso tempo di profonda ambiguità. Ad esempio non possiamo dimenticare che Molloy è in realtà un romanzo doppio e questo già modifica in parte la nostra concezione del testo, è testo scritto primariamente in francese e successivamente in inglese; non entriamo ancora nel merito di questa scelta, ma ci avviamo a constatare che il passaggio da una lingua all’altra, da una sonorità all’altra, è anche il passaggio da un significato all’altro. Nell’edizione francese leggiamo: “Je suis dans la chambre de ma mère”; nell’edizione inglese “I am in my mothers’s room”. Che ci sia una tensione tra chambre e room mi pare evidente e ne è una spia la diversità delle traduzioni italiane: Frasca scrivere “camera” e Tagliaferri ad esempio “stanza”. La modificazione della parola nelle due lingue mi porta a fare un ragionamento: il termine room ha un significato più ampio di chambre, ad esempio potremmo anche leggerlo come “spazio”, posto, luogo. È chiaro che l’incipit di Molloy è una situazione, l’ubicazione esatta da cui si parla, da uno spazio verrebbe da dire che è lo spazio della madre, che quindi non diventa come vedremo soltanto la meta verso cui dirigersi, Molloy è un romanzo almeno nella prima parte di movimenti, di movimenti spirali, di andirivieni, di pause, incontri stravaganti e ri-partenze, ma appunto diventa da subito lo spazio che l’io narrante ha in qualche modo occupato: si potrebbe dire che con questo incipit l’io narrante testimoni il suo essere al posto di sua madre, come se ci fosse stata una sostituzione, lui ne fa le veci, sua madre è morte e l’io narrante l’ha sostituito: “Come che sia ci sto io nella sua camera. Dormo nel suo letto. La faccio nel suo vaso. Ho preso il suo posto” (p.497). Come vediamo la sostituzione, l’ “in vece di”, è annunciata poche righe più sotto ma è contenuta completamente nelle prime righe e nella differente resa di room e chambre. Queste prime pagine mi hanno ricordato in maniera certi passaggi di Ignazio de Loyola e dei suoi Esercizi Spirituali. Una delle caratteristiche importanti dei preamboli di alcuni esercizi sta nell’immaginare un luogo, o meglio di visualizzare non un luogo qualsiasi ma un preciso spazio, l’inferno, il Golgota, il paradiso terrestre. Prendo l’esercizio della quarta settimana, il 2° preambolo: “composizione visiva del luogo, che qui sarà vedere la disposizione del santo sepolcro, e il sito e la casa di Nostra Signora, considerandone specificatamente le varie parti, ossia la camera, il posto di preghiera, ecc”.(la traduzione è di Giovanni Giudici).

La citazione mi pare mostrare che nelle prime righe del romanzo ci sia qualcosa di simile a tale preambolo, abbiamo detto che “sono nella camera di mia madre” l’incipit del romanzo. Oppure queste prime pagine stanno a indicare una soglia che non abbiamo ancora varcato, potremmo vedere appunto nei primi capoversi una sorta di preambolo, una sorta di premessa alla narrazione, un avant prop: se ciò fosse vero allora il romanzo non inizia dove graficamente e editorialmente crediamo, la prima riga del racconto, ma una serie di capoversi dopo: “Non è questo il problema. Eccolo qui l’inizio che volevo io. Visto che lo conservano, deve pure significare qualcosa. Eccolo”. (p.498) Questo eccolo possiede in sé un carattere di ostentazione, con il quale il narratore mostra le sue intenzioni, a sottolineare: da qui in poi è il mio inizio. C’è un dato anche grafico, perché perché dopo “eccolo” troviamo il primo e unico punto fermo e a capo, ( questo almeno per le prime 50 pagine almeno sino a dove è giunta ad oggi la mia lettura). Questo segno grafico non può essere gratuito, segna uno passaggio di dimensione tra il testo scritto che l’Io narrante compila e ciò che accade successivamente. Che queste prime righe possano essere viste come preambolo, ovvero come momento che ritarda l’entrata in scena del romanzo, può essere evidenziato da un’altra particolarità. L’io narrante dice che un uomo viene a prendere i fogli che scrive ogni settimana, questo uomo viene ogni domenica e ha sempre sete (p.498) e critica l’Io narrante per come ha iniziato: “Ci ha ragione. Avevo cominciato dall’inizio, figuratevi, come un vecchio coglione” (p.498). Questo racconto non deve iniziare dell’inizio, cioè non deve iniziare dalla camera della madre, la camera della madre volendo è la fine, non l’inizio, questo personaggio il principio che ordina la narrazione dell’io, quello che prende i fogli, quello che monetizza i soldi. Dicevo mi colpisce che venga di domenica e abbia sete. Questo insistere sul principio, sull’inizio della storia, questo avere sete mostra qualche possibile connessione con il Vangelo di Giovanni: il prologo è dominato ovviamente dalla tensione del “principio”, del principio ordinatore di tutte le cose, il logos che è parola, ma è anche logica, ordine, una certa struttura del discorso e Gv 19, 28 dove appunto Gesù dice di aver sete. E se quindi a tutti gli effetti queste righe non fossero l’incipit, ma un prologo, un prologo a ciò che accadrà dopo, una sorta di anticipazione di quello che sarà; a ben vedere anche il prologo di Giovanni è così. Non c’è in questo prologo nessuna enunciazione di tempo, siamo un tempo presente a-storico, non sappiamo nulla di quando, come e perché l’uomo sia arrivato nella camera/spazio di sua madre, sappiamo che è morta, ma non sappiamo da quanto, ignoriamo il tempo preciso tra la morte della donna e la presenza dell’io narrante, come se tutto avvenisse sub specie aeternitatis.

Spazio terreste/spazio purgatoriale. Subito dopo eccolo troviamo queste due frasi: “Questa volta qui, poi penso ancora una, poi penso sarà finita, anche con quel mondo lì. È il senso penultimo” (p.498), mi soffermo su due cose. La prima è legata a comprendere cosa significhi “quel mondo lì”, logica vuole che indichi con questa definizione il mondo delineato nel preambolo, il mondo dell’uomo che viene ogni domenica, il mondo del non tempo, l’eternità, cioè l’Io narrante mostra una sorta di consapevolezza che esistano due piani, due mondi, uno lì e uno qua e che in qualche modo lui è stato compartecipe di entrambi: è chiaro che enunciare quel mondo lì significa che esiste una realtà che è qua, e non è casuale che appia da qui in poi una serie di descrizioni paesaggistiche: “La strada, dura e bianca, sfregiava i pascoli, saliva, scendeva, con i suoi avvallamenti. La città non era lontana” (p.499). Se il preambolo era claustrofobico, chiuso, qui abbiamo una apertura, il mondo qua è un mondo aperto, è un’isola, ha campi, strade, grandi spazi, “infide colline” (p.500), un mondo reale in cui i campi “s’imperlavano di rugiada”(p.502), un mondo di “sabbie, ciottoli, paludi, brughiere” (p.503).  Con Beckett mi pare che più che una lettura sia una sorta di fatica di decrittazione, unire i puntini, provo ad elencarne alcuni: la natura “che pertiene a un’altra giustizia” (p.503), abbiamo visto la rugiada sui campi,  l’io narrante se ne sta “appollaiato al di sopra del livello più alto della strada” (p.501), altre volte si trova “al sommo, o sui fianchi di un’altura considerevole” (p.506), “che ci faceva un’altura in un paesaggio a malapena ondulato?” (p.506), o sempre l’io narrante che sente “persino il belare di un gregge” (p.524). Che posto è questo? Che luogo? Un luogo terreno, con un’altura considerevole, che è di pertinenza di un’altra giustizia? A me ha ricordato con una certa chiarezza il Purgatorio dantesco, il gregge torna ad esempio in Pur III, il termine rugiada compare alcune volte proprio nella seconda cantica, l’altura considerevole è il monte stesso dove Dante ascende, e non paia strano che l’io narrante parli appunto di  viaggio irreale (p.509) e quando parla della sua condizione dice: “oh non il fondo più profondo, da qualche parte tra la schiuma e il fango” (p.506) che ricorda la metafora del giunco schietto di Purg I. A confermare vediamo come la madre chiama l’io narrante: “Lei non mi chiamava mai figlio, del resto io non l’avrei tollerato, ma Dan, non so perché, non mi chiamo Dan. Magari Dan era il nome di mio padre” (p.509). Il nomignolo Dan suona simile a Dante e non è a questo punto casuale che troviamo nominati due personaggi centrali del purgatorio Sordello e, sopratutto, Belacqua (sul quale torneremo) che per Beckett rivestì in parte figura da alter ego. Se il luogo è il Purgatorio o una sua riscrittura in chiave moderna, mi pare altrettanto interessante il riferimento al tempo “penultimo” (p.499). Nel meridiano Frasca mette in evidenza come questo possa essere un dato strutturale, al tempo della stesura di Molloy SB aveva intenzione di scrivere un dittico di romanzi, che solo successivamente divenne una “trilogia” (alla quale secondo me non può essere disgiunta la scrittura e la composizione di Aspettando Godot). Se però questa penultimità del tempo avesse una serie di parentele proprio con questo fondo che non è completamente fondo, con una situazione di sospensione tipica d’altronde del purgatorio e del purgatorio Dantesco. Che il romanzo, che il genere romanzo, abbia a che fare con tema purgatoriale, con al sospensione del tempo l’ho già dichiarato in un intervento pubblicato da La ricerca (1, 2), ma qui  mi pare interessante indagare proprio cosa sia il senso penultimo, quasi SB decidesse che la letteratura non può essere apocalittica, non può essere rivelatrice dei novissimi – cosa sarà di noi dopo la morte, cosa sarà del mondo dopo la fine del tempo -, ma che si debba accontentare di una sorta di presa d’atto dell’assurdo di ciò che accade qui di giorno in giorno e che sì ecco si mostra in tutta la sua potenza nella battuta che Dante fa pronunciare a Belacqua nel Purgatorio e che secondo me riassume la poetica di SB e il suo atteggiamento verso il mondo e la storia: “O frate, andar in su che porta?” (Pur IV, 127). Il tempo penultimo è una di tempo di “divina indifferenza” montaliana, uno sguardo di colui che è sopravvissuto, fortunato di non aver partecipato se non marginalmente agli orrori e agli errori della seconda guerra, ma di cui ne porta in sé la cicatrici.

L’Io narrante è l’uomo che è sopravvissuto ad Auschwitz senza essere stato in Auschwitz, che porta su di sé quelle cicatrici, ma che non le ha esperite completamente. Il romanzo pullula di riferimenti scatologici al basso, al crasso, al culo, alla cacca (pp.503; 505; 510; 511; 512 e potrei continuare), mi sono chiesto se questo potesse avere a che fare con il lager come anus mundi come il buco del culo del mondo, luogo in cui tutto su coagula. Mi colpisce rispetto a questo un accenno che l’Io narrante fa nella descrizione della sua “prigionia” della casa della signora con il cagnolino. L’Io narrante vive una sorta di condizione costrizione all’interno di questa villa, la sua residenza ha qualcosa di strano e di costretto; potrebbe sembrare, e come qualcuno nel nostro gruppo ha fatto notare, che sia l’Io narrante sia sotto la prigionia di Circe rivisitata e che quindi questo interno di inferno borghese sia una sorta di omaggio all’Ulisse di Joyce e al suo Bloom preso nelle spire della squallida vita quotidiana. Ciò è sicuramente vero, la complicata struttura delle casa che ricorda certe abitazioni dei romanzi ottocenteschi (la complicata architettura degli interni di Balzac, o Dostoevskij o Dickens), ma nello stesso tempo ad un certo punto leggo questa frase (sono convinto che SB debba essere letto per frasi, quasi singole, dimenticando la struttura meramente narrativa della storia): “Quel famoso sentore di mandorle, per esempio, non sarebbe bastato a levarmi l’appetito” (p.555). Perché il sentore di mandorle è famoso? Perché SB non scrive “il sentore di mandorle et et”? L’aggettivo famoso quindi ci dice qualcosa di pregante, e perché è collegato al mondo concentrazionario? Basta fare una semplice ricerca su google o aver letto un po’ di saggi sull’argomento per sapere che proprio il profumo e il sentore di mandorle è quello che lo Zyclon B rilasciava una volta venuto a contatto con l’ossigeno. Il tempo penultimo di Molloy è quindi, a parer mio, il tempo della sopravvivenza senza l’esperienza del limite, è il tempo del gioco, della recita, facciamo finta che “il mondo finirà”, ma nelle realtà il mondo è già finito.

Uomo “non”. Vengo all’ultima riflessione, mi riprometto ovviamente in questi appunti di andare e tornare indietro alle pagine già lette. Che tipo di uomo è l’uomo di SB o almeno come appare in queste prime pagine? La mia idea è che l’uomo sia definito per litote. Leggo sul dizionario: “Formulazione attenuata, ottenuta mediante la negazione del contrario”; insomma invece di dire buono diciamo “non cattivo”, e mi pare abbastanza chiaro che le due affermazioni non siano medesime. E come appare l’uomo del tempo penultimo in queste prime pagine? Intanto non credo che sia casuale che i primi due personaggi, oltre all’Io narrante e alla madre che compaiono le preambolo, vengano identificati da lettere: A e B nella versione italiana e francese e A e C in quella inglese, tralascio per un attimo i significati che possono esserci dietro, intorno, ai lati di questi due primi personaggi, ma il fatto che camminino e si muovano lungo un dato percorso mi hanno ricordato una sorta di “vettore” o di segmento che indica una direzione, il segmento A e il segmento B o C, l’uomo è ridotto alla sua traiettoria, è pura traiettoria all’interno di un paesaggio, come se fosse diventato sottile, e avesse perduto le molte sue qualità e caratteristiche, non parliamo neppure più di personaggio tondi o piatti, qui li abbiamo vettoriali: ridotti a movimento. Proseguendo la nostra lettura troviamo: “Io non – io non mi sentivo infelice” (p. 514). Compare quindi la litote (figura retorica che anche Svevo ne La coscienza di Zeno predilige, mi torna alla mente Storia del mio matrimonio), ancora una volta è importante leggere la frase per intero, e soffermarci sull’inizio sul quel “io non” seguito da un segno grafico. Sembra quasi un linguaggio computazionale: Io non – x, dove x può indicare qualsiasi qualità umana, ma l’uomo si è ridotto a una formula a una semplice “negazione” di qualcosa, l’uomo è una sorta di parodia, di negazione, di Dio, se è fatto a somiglianza Dio e Dio non c’è, o Dio è questa sorta di noluntas, di non volontà di essere niente, allora l’uomo è un “non” che precede qualsiasi caratteristica. E infatti: “Quello che amavo della antropologia, era la sua forza di negazione, il suo accanimento a definire l’uomo, seguendo il modello di Dio, in termini di ciò che non è” (p.537). C’è già quindi in Molloy l’uomo beckettiano che leggeremo in Finale di partita, o nell’Ultimo nastro.

In Schede

Il Meridione narrato da Angelo Rossi: “Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956)”

di Carmen Rampino

Sul golfo di Manfredonia si affaccia il Tavoliere delle Puglie, una pianura che si estende per migliaia di chilometri.

Si tratta di una delle più vaste province della penisola, ma con una densità di popolazione tra le più basse d’Italia.

Chi è nato qui è abituato fin da subito ad avere un precario e fragile senso di appartenenza, una sorta di crisi dell’attaccamento dovuta a molteplici fattori, tra cui anche lo scarso peso, soprattutto politico, che i tanti piccoli paesi che circondano la pianura, collocati alle pendici della dorsale appenninica, assumono. E se un senso attaccamento c’è, lo si attribuisce sempre al fatto di essere l’ultima provincia d’Italia per qualità della vita e la prima per criminalità.

Allora, chi è nato qui si porta sempre dentro una ferita insanabile: la lacerazione di provenire da una terra sempre più abbandonata da tutti, senza riuscire però a recidere mai del tutto quel cordone ombelicale che ci lega indissolubilmente ad essa attraverso un amore profondissimo che ci riconduce alle braccia dei contadini, al sole, alla povera gente.

Eppure, senza cadere in un patriottismo per partito preso o in un cieco e retorico populismo, esistono delle storie che provengono da questo territorio di persone, che, pur non dimenticando la loro provenienza, con le loro vite hanno inciso sulla Storia, e che meriterebbero qualcosa di più dalla memoria collettiva. Sono storie concrete, e non astratti miti, che ci permettono di riconnetterci e ricostruire un senso di sana identità verso la nostra terra.  

È il caso di Liliana Rossi, una figura che in provincia di Foggia conoscono in pochi, ancor meno in Puglia e ancor meno nel Meridione e quasi nessuno tra «quelli di Roma», come avrebbero detto i contadini di Carlo Levi (Levi 2014, p. 67). Conoscere questa storia vuol dire scoprire tracce di antifascismo, femminismo, e lotta in luoghi da sempre considerati dormienti. Ed ecco che l’operazione della casa editrice Guida Editori di Napoli, di pubblicare nel dicembre 2023, il testo Il tempo di Liliana. Tra musica e impegno civile (1932-1956), scritto da Angelo Rossi, si rivela in questo senso assolutamente necessario. Al centro del libro vi è Liliana Rossi, la cui storia iniziò a diffondersi parzialmente a livello popolare grazie al film del 1998 di Michele Placido Del perduto amore. Questa giovane donna, nata nel 1932 a Bovino e morta nel 1956 ad Ascoli Satriano, a soli 23 anni, ha fuso il suo viscerale cristianesimo militante con un impegno politico attivo nel Partito Comunista. Da tempo si sentiva il bisogno di una sistematizzazione ordinata e attendibile che desse luce a questa personalità, varie volte citata ma poche volte davvero conosciuta. Tale pubblicazione, che comprende una sorta di biografia scritta dal fratello Angelo, la tesi di laurea di Liliana sull’appena nata Costituzione dell’Italia repubblicana, due saggi a cura rispettivamente di Francesca Izzo e Silvia Niccolai, dei documenti e un repertorio fotografico, rispondono proprio a quest’esigenza di unitarietà e ordine intorno a Liliana Rossi. La parte principale, quella redatta dal fratello Angelo, si configura come un testo a metà tra memoria, romanzo storico e biografia, in cui attraverso la micro-storia di Liliana e del suo contesto sociale e familiare, il lettore può entrare in contatto in modo diretto con l’atmosfera che doveva respirarsi a Bovino, Ascoli Satriano (luogo dove, dopo Bovino, la famiglia Rossi si trasferirà), Foggia e tutta la Capitanata, in quegli anni di storia fondamentali che dal fascismo alla Seconda Guerra Mondiale, passando per il difficile periodo del dopoguerra, arrivano alla nascita della Repubblica e della Costituzione. Il libro ci permetterà di accedere proprio a questo squarcio di storia in modo così piacevole che la lettura sembrerà trasformarsi in un racconto orale, che talvolta si perde seguendo il filo un po’ confuso dei ricordi, esposto dalla voce di un nonno colto che narra episodi imprescindibili, dal punto di vista di chi ne è stato un attivo protagonista, pur non dimenticando quel rigore storico che Rossi, già docente di storia e filosofia nonché senatore della Repubblica dal 1994 al 1996, non trascura mai. Cosa voleva dire andare a scuola durante il fascismo? Chi vi poteva accedere? Com’era lacerata la società del Meridione durante la Seconda Guerra Mondiale? Cosa voleva dire ascoltare Radio Londra per capire in maniera più attendibile cosa stava accadendo durante la guerra? E cosa ha significato il bombardamento su Foggia del ‘43? Leggendo questa narrazione accorata, si concretizzeranno davanti ai nostri occhi i vari episodi, i vari luoghi dilaniati dalla guerra, i vari volti raccontati.

Il libro procede su più tempi, quelli che hanno incrociato gli anni di Liliana. Descritta come una bambina prodigio, una studentessa modello, appassionata di violino, cinema e cultura, gli studi non l’hanno mai resa elitaria, non dimenticando mai quanto importante potesse essere insegnare a leggere e scrivere alle ragazze di un Meridione che iniziava a sembrare sempre più anacronistico in un dopoguerra di «grandi problemi ma anche enormi speranze di cambiamento» (Russo 2023, p. 5). Dopo gli studi liceali, compiuti in meno anni del previsto, e gli intensi anni di studio del violino presso l’allora Liceo Musicale Umberto Giordano di Foggia, Liliana si reca a Napoli, città impegnata, presente a intermittenza nella storia, che con i suoi circoli funge da volano per la passione politica dei giovani fratelli Rossi. Qui si laurea in Giurisprudenza e, in men che non si dica, diventa assistente dell’ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Napoli, Alfonso Tesauro. La sua tesi di laurea e i vari interventi in favore della giovane Costituzione rappresentano il segno di una lungimiranza e sensibilità uniche. Accanto a questo, rilevante è stato l’impegno politico all’interno del Partito Comunista. Nel ’56 fu candidata al Consiglio Comunale di Foggia e tenne il comizio di chiusura delle amministrative di Ascoli Satriano dove era candidato suo fratello Angelo. Come ci racconta Rossi, le donne di Ascoli, in modo particolare, si affezionarono a lei, al punto da affiggere, dopo la scomparsa, la foto di Liliana nelle case, come una figura sacra, che seguiva le famiglie anche durante le migrazioni all’estero. Nel libro c’è tutto questo e anche i risvolti più intimi della parabola esistenziale di Liliana, eppure anche i toni più elegiaci della storia d’amore, quella tra Liliana e Franco, novelli eroi romantici, cugini di primo grado che si amavano, diventano segni di una consapevolezza fuori dal comune, che sembrano dirci qualcosa ancora oggi: Liliana non rinunciò ai suoi sogni e ai suoi progetti, anche quando ricevette pressioni per adeguare la sua vita a quella del futuro marito Franco, magistrato, carica che in Italia fino al 1963, ben 15 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, fu interdetta alle donne.

Insomma una intelligenza fuori dal comune, con una spiccata dote per lo studio, un costante impegno sociale, civile e politico, con il piglio di una instancabile studiosa, attiva su tanti fronti, come la delicata condizione femminile (si ricordi il discorso tenuto all’UDI l’8 marzo del ’56), la difesa della Costituzione, e poi, ancora, eccellente musicista, sincera cristiana. Eppure proprio la sua fede profonda non bastò. Quando nel ’56 Liliana morì, il parroco di Ascoli Satriano si rifiutò di celebrare in chiesa i funerali di una comunista, “scomunicata”. I funerali laici, pur senza rito religioso, furono molto partecipati e le donne del paese dauno si vestirono di bianco per manifestare il loro supporto, la loro vicinanza, la miopia di certe prese di posizione.

Non va dimenticato che Liliana ha avuto la fortuna di nascere in un contesto socio-familiare in cui si è potuta istruire, condizione rara al tempo, soprattutto per una donna, ma ciò che ha fatto con gli strumenti in suo possesso è stato rivoluzionario.

Che cosa sarebbe diventata Liliana? Sicuramente «una straordinaria intellettuale destinata, se la morte non l’avesse colta così presto, a diventare forse una affermata violinista oppure un’autorità nel campo del diritto costituzionale oppure una figura politica nutrita di solide competenze specialistiche. Chissà». (Izzo 2023, p. 202) Non lo sapremo mai, perché Liliana è stata un germoglio sbocciato a metà, ma forse questo cammino biografico si è interrotto così presto proprio perché doveva in qualche modo rappresentare il primo gesto di un direttore d’orchestra che segna l’inizio di una composizione musicale nuova, di una stagione nuova, di un percorso che doveva essere proseguito da tante altre donne, che avrebbero dovuto e dovrebbero percorrere la stessa strada da lei intrapresa per ricordare, soprattutto a tutte le ragazze del sud come lei, di dover indirizzare le proprie cure e la propria dedizione prima di tutto a difendere, come Liliana fece, ciò che le madri della Repubblica e della Costituzione hanno realizzato: tutti quei diritti che esistono, ma che per essere pienamente effettivi necessitano ancora di dure lotte. Per questo il libro di Rossi è un libro necessario, un faro in un momento storico come quello attuale, un modo per ricordare e guardare al futuro con una coscienza diversa. Per quanto non sia propriamente una trattazione storiografica, è l’unico strumento che al momento abbiamo – a parte il film, molto romanzato, di Michele Placido del 1998 – per conoscere la storia di Liliana e anche per sapere come la macro-storia, nota ai più, influì anche su questi territori. È una storia di non fiction che, pur con i limiti e le imperfezioni che un tipo di narrazione come questa può comportare, in tempi di smaccato revisionismo implica il riappropriarsi della nostra memoria collettiva. Oggi la giovane vita di Liliana continua a vivere grazie all’amore del fratello, che con dedizione non ha mai abdicato al suo ruolo di divulgatore di una storia che merita sempre più di essere conosciuta.

TESI CITATI.

Carlo Levi, 2014 (1° ed. 1945), Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Giulio Einaudi editori.

Francesca Izzo, Una appassionata intelligenza meridionale, in Angelo Rossi, Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956), Napoli, Guidaeditori.

Angelo Rossi, 2023, Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956), Napoli, Guidaeditori. Stefania Russo, 2023, Prefazione. Liliana Rossi: l’impegno di una donna, in Angelo Rossi, Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956), Napoli, Guidaeditori.

In Lavoro Critico

Corpo artistico e disabilità. La rappresentazione del sé nell’arte visuale di Claudia Amatruda

di Annasara Bucci

Claudia Amatruda (1995) è una fotografa che vive e lavora tra Bologna e Milano. È nata a Foggia, città in cui ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza, crescendo tra le tele, i pennelli e l’odore delle tempere dei quadri dipinti dai genitori. Il primo approccio con la macchina fotografica avviene da giovanissima, quando la madre e il padre le chiedono di fotografare i momenti delle loro esposizioni per conservarne i ricordi: dalla delicatezza dei primissimi scatti, Claudia inizia a sperimentare i meccanismi di riproduzione attraverso il mezzo fotografico. La scoperta di una malattia rara cambia la sua vita all’età di 19 anni, malattia per la quale (ad oggi) non esistono cure e la cui diagnosi arriva dopo una lunga serie di visite ed esami.

Neuropatia delle piccole fibre. Disautonomia, Connettivopatia ereditaria. Malattie rare, non esiste cura. Riposo, letto e acqua. (Naiade, 2019)

Claudia ha 19 anni ed incontra una malattia che non lascia segni evidenti sul corpo. «Il dolore c’è, ma non si vede» – racconta – e dunque, anche stare in piedi o camminare diventano gesti che richiedono particolare sforzo e fatica. Come tutte le malattie rare che non hanno cura, sono possibili solamente trattamenti palliativi: nel caso di Claudia, a parte specifici medicinali, tanta fisioterapia.

«Ho iniziato a documentare tutto, anche inconsciamente» – racconta Claudia, lasciando che la sua macchina fotografica viaggiasse assieme a lei tra visite in ospedale, attese, riposo e fisioterapia in acqua.

La fotografia aiuta Claudia nel processo di elaborazione ed accettazione di un dolore fisico ed emotivo, conseguenze di una patologia “invisibile”: documentare significa aver trovato una lente di ingrandimento della realtà, un modo per dire “eccomi”, esisto in questo modo ed in questa forma, non ho altra alternativa che fare esperienza del mondo insieme a tutta la fragilità che mi appartiene; questi sono i miei spazi, insieme ai modi e ai tempi in cui sto imparato ad occuparli e, insieme, ad accettarli.

Nell’ambito di un Master in Progetto Fotografico a Pescara seguito dal professor Michele Palazzi, grazie ad un crowdfounding, dopo due anni di raccolta di materiale nasce Naiade: diario narrato per scatti ed autoscatti che ritraggono i luoghi ed il corpo del dolore (http://www.claudiamatruda.com/naiade2/). Il titolo del diario fotografico è un riferimento alle figure della mitologia, le Naiadi -appunto- ninfe delle acque dai poteri guaritori, adottate come metafora dell’importanza che l’elemento fluido ha assunto per Claudia in termini di benefici terapeutici.

«La fotografia mi permette di esplorare questa relazione tra la malattia e il corpo, e attraverso gli autoritratti può diventare tutto ciò che voglio: un tramite, un palcoscenico, un orizzonte mobile, una testimonianza visibile nell’invisibilità della condizione» (Discardedmagazine.com)

Come nel caso di Claudia, misurarsi con l’urgenza di voler trasmettere ad altri il disagio della malattia spinge artiste del calibro di Jo Spence (dalla cui esperienza artistica nasce canonicamente la fotografia terapeutica) ad autoritrarsi alla luce di un tacito compromesso il tra mezzo di rappresentazione ed il corpo rappresentato, giacché il soggetto possiede non solo il controllo della propria immagine, ma anche del modo in cui vuole che esso appaia. Autorappresentazione non intesa come specchio di realtà, quindi, ma come “un palcoscenico” che ospita uno dei tanti focus possibili su di essa con l’intento di osservarla da differenti prospettive.

In Naiade ritroviamo il corpo di Claudia autoritratto in piscina, immersa in vasca durante la fisioterapia; oppure piccoli focus su diverse parti del corpo, inquadrate con l’intento di metterne in risalto la fragilità, contestualmente alla compattezza materica.

Immagine che contiene aqua, piscina, acqua, nuotare

Descrizione generata automaticamente

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Immagine che contiene acarino, invertebrato, insetto, parassita

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Questo contrasto trova spazio nella dignità tutta umana che contraddistingue ogni corpo di sofferenza, senza che l’immagine rimandata all’osservatore scivoli in rappresentazioni pietistiche o eroiche della malattia, pericolo che Claudia ha voluto scongiurare sin da subito per tentare di sgretolare i luoghi comuni che la società attribuisce al corpo disabile.

When you hear hoofbeats, think of horses, not zebras (trad. “quando senti rumore di zoccoli, pensa ai cavalli, non alle zebre”: https://yogurtmagazine.com/portfolio/when-you-hear-hoofbeats-think-of-horses-not-zebras-claudia-amatruda/)  è il titolo del suo secondo lavoro. La frase a cui si ispira è una metafora molto comune, utilizzata in ambito medico, che intende insegnare agli specializzandi a procedere dalle patologie più comuni a quelle più rare nella definizione di una diagnosi clinica, come però non è stato nel caso di Claudia: «mi chiamavano “la zebra” dell’ospedale» – ricorda. Anche questo suo secondo lavoro ruota attorno allo studio delle tecniche del ritratto e dell’autoritratto, con l’introduzione di nuovi elementi di ‘supporto’: la stampella, ritratta quasi come se fosse una terza gamba, oppure la carrozzina, ritratta come corpo protagonista di un contesto come la spiaggia, di norma occupato dai corpi che tutti siamo abituati a vedere e dal modo in cui essi si espongono.

Immagine che contiene pavimento, calzature, terreno, persona

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Immagine che contiene aria aperta, acqua, ruota, cielo

Descrizione generata automaticamente

Immagine che contiene terreno, ruota, persona, sedia a rotelle

Descrizione generata automaticamente

Tra le immagini di questo secondo lavoro fotografico, spicca un autoritratto di particolare impatto visivo e tematico collocato su uno sfondo nero che, per contrasto, mette in risalto il candore della carnagione di Claudia; a partire dalla guancia, quella che sembrerebbe una maschera utilizzata con intento estetico è in procinto di essere staccata. Chiarirà successivamente che -in realtà – si tratta non di una maschera ma di un eccesso di pelle, in riferimento alla sovrabbondanza di collagene prodotto dal suo organismo come particolarità della sua patologia rara.

Immagine che contiene Viso umano, persona, ragazza, ritratto

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«Dopo aver ricevuto una diagnosi così pesante» – racconta Claudia – «non guardi più allo specchio la tua immagine come prima, vedi solamente difetti, quindi cominci a chiederti: con tutti questi ausili, con tutte queste cicatrici, sarò femminile come vorrei essere?» (Vogue Photo: Il corpo politico. Gli autoritratti di Claudia Amatruda).

Se si prova a riflettere sull’immagine rimandata da questo autoritratto nella sua duplice “lettura”, la lente della fotografa sta carpendo un atto puramente estetico che rimarrebbe inteso come tale se non venisse spiegato a posteriori nel suo reale intento metaforico. Quello della ricerca della femminilità e della sessualità nei corpi non convenzionali è la riflessione indotta da Claudia nell’intento di sfatare il tabù del corpo disabile non erotico o, in ogni caso, non erotizzabile. Nel caso specifico che riguarda queste categorie, la sana educazione al piacere e alla sessualità si sostituisce all’infantilizzazione o all’isolamento, non solo con l’effetto di una perdita della curiosità nella scoperta del corpo, ma anche di una scarsa autodeterminazione della sfera erotica con tutte le problematiche che ne derivano (e non solo a livello fisico). In una società che percepisce il corpo diversamente abile come corpo senza desiderio e che non riconosce il diritto alla sessualità come elemento indispensabile per il miglioramento della qualità della vita (si pensi alla figura del lovegiver), l’arte ricopre un ruolo fondamentale quando riesce a farsi veicolo di immagini-modello dei reali bisogni di una categoria ancora inascoltata. Si pensi anche al ruolo della moda in tal senso, per l’importanza mediatica che essa assume in termini di rivoluzioni estetiche: la copertina di maggio 2023 di British Vogue è diventata iconica per aver assunto lo slogan “Reframing Fashion”, testimoniando il cambio di rotta nel settore primario dell’industria dei corpi da copertina per sensibilizzare all’inclusività, in un campo che troppo a lungo ha tenuto le diversità nascoste sotto i red carpet.

Immagine che contiene cielo, aria aperta, persona, Accessorio di moda

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Nell’ultimo anno, Claudia ha ampliato le sue competenze in materia di arte visiva inserendo la performance nei suoi lavori attraverso il medium video. Anche se non si può parlare effettivamente di performance poiché le registrazioni sono avvenute in assenza di pubblico (o comunque non costruite per essere ‘godute’ sul momento) esse sono state il frutto di uno studio elaborato durante la residenza artistica “MigrArt” edizione 2023, svoltasi presso Lignano.

«A un certo punto ho iniziato a pensare che la fotografia fosse un settore da ampliare all’interno del macrosettore dell’arte, con la possibilità di utilizzare altri media. Usare non soltanto -quindi- la fotografia, ma anche il video, l’installazione o la scultura che non ho ancora iniziato ad esplorare». (Diretta con Claudia Amatruda da “Strade di Fotografia”)

Nel primo della serie di video prodotti, vediamo Claudia scalare una piccola montagna di sabbia; una volta arrivata in cima, con l’aiuto del telefono, inizia a far girare la sua carrozzina attorno alla montagna stessa: «Lei sembra inseguirmi, ma in realtà sono io a comandarla. Quindi c’è questa specie di ‘scambio di potere’ su cui ho riflettuto dopo averlo fatto» (Ivi)

[Link al video: https://www.youtube.com/watch?v=NiaJO9NNo3o&t=11s  ]

A colpire l’osservatore in apertura del video è il modo in cui l’artista, arrivata alla base della montagna con la stampella, la lascia cadere senza indugi per poi scalare a mani e piedi nudi, senza ausili: “Vediamo dove arrivo con il mio corpo” – sembra voler comunicare.  La scalata è lenta ma decisa. Anche Claudia ha la sua “montagna” da scalare ed in ciò si lascia accompagnare fiduciosa dal proprio corpo; si nota qualche tremore a poca distanza dall’arrivo che però non le impedisce di raggiungere la cima.

L’immagine di tenacia che restituisce la sequenza non esclude affatto quei tremori finali, anzi, li rende parte integrante della scalata: quasi un invito ad accogliere la fragilità non come un impedimento, bensì come caratteristica peculiare dell’agire e dell’essere umani in qualsiasi forma, non soltanto in termini di disabilità.

Nel secondo video della serie, Claudia lascia ‘danzare’ la sua carrozzina a ritmo di musica in uno dei locali della residenza adibito a discoteca: «Mentre comandavo la carrozzina» -dice Claudia- «c’è stata una strana connessione tra me e lei perché è stato come traslare il mio movimento su di lei mentre anch’io ascoltavo musica movimentata, da ballo». (Ivi) [Link al video: https://www.youtube.com/watch?v=ZOaHSyQVdNA&t=142s ]

Questa operazione di traslazione fisica è divenuta successivamente anche emotiva – come dice l’artista – in termini di connessione, elemento ulteriormente verificato dagli studenti e dagli insegnanti che ad un certo punto sono stati coinvolti nel ballo all’interno della performance: «qualcuno mi ha detto: era come se stessi ballando con te, anche se tu eri in disparte a comandare la carrozzina» (Ivi)

Se si volesse dare un’immagine al concetto di inclusività, gli atti di interazione del gruppo con la carrozzina durante il ballo nel circondarla, affiancarla, includerla nel gruppo danzante, sembrano calcarne perfettamente le forme.

Benché forse non consapevolmente girato per una finalità polito-sociale, questo video-performance potrebbe rappresentare un modello di artivismo, arte con contenuto sociale esplicito (https://www.espoarte.net/arte/artivismo-limmaginazione-di-un-nuovo-presente-contemporaneo/) nella costruzione di nuove forme di inclusività del presente contemporaneo.

Attraverso Master e Workshop, Claudia è in continuo aggiornamento e lavora ancora in termini di narrazione della fragilità e della diversità attraverso le forme ritratto ed autoritratto.

Attraverso la sua pagina Instagram ed il suo sito internet è possibile seguire gli sviluppi dei suoi studi nel campo dell’arte visuale. Nonostante i limiti della propria condizione, è aperta alle esperienze che le permettono di crescere come artista e come persona e si impegna (anche fuori dal campo artistico) nella tutela dei diritti delle persone con disabilità.

In mdp

“Povere creature!” Il post-umanesimo di Yorgos Lanthimos

di Umberto Mentana

In questa stagione cinematografica ormai in dirittura d’arrivo alla cerimonia degli Academy Awards, il Cinema dei “grandi” sembra essere pienamente in linea con la narrazione televisiva multi strand delle piattaforme digitali e pare segnare un trittico di riflessione esistenziale sull’umano-postumano, un motivo già superficialmente affrontato dall’oscuro Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg.

Oppenheimer (dir. C. Nolan, 2023), Barbie (dir. G. Gerwig, 2023) e Poor Things (Povere Creature!, dir. Yorgos Lanthimos, 2023) sembrano tracciare la linea di una vera e propria evoluzione, in senso univoco,  di “creature” sì umane ma non troppo. Ne deriva un’analisi sistematica e ben organizzata sul “frankensteinesimo” e sulla mutazione dei corpi, in un’ottica decisamente attuale, sociologica e in aperta polemica, anche politicamente parlando.

            Abbiamo di fronte tre spaccati, tre punti di vista progressivi sulla faccenda e se Oppenheimer risulta essere il death point da cui non poter più tornare indietro, il momento nel quale l’umano è diventato “Distruttore di Mondi” e su cui bisogna ricostruire partendo dalle sue ceneri e Barbie è il punto d’avvio di un nuovo creazionismo caduto – letteralmente – dal cielo a tinte rosa Mattel. Un voluto rimando all’incipit di 2001: A Space Odissey, di Stanley Kubrick, che auspica un nuovo inizio per la razza umana, decisamente più paritario. Il discorso per Poor Things (Povere Creature! in traduzione) risulta ainvece più complesso e sfaccettato poiché, come recita un celebre meme che gira in questi giorni sulla rete, Poor Things è Barbie per coloro che ascoltano Bjork.

Il film di Lanthimos, già vincitore come Miglior Film all’ultimo Festival di Venezia, ammette una sconfitta e un infinito senso di spaesamento, quello provato dalla fu Victoria Blessington, nella prima immagine del film in cui una sontuosa Emma Stone in blu cobalto decide di buttarsi da un altissimo ponte di una Londra irreale e a tratti steampunk dove un passato di matrice vittoriana dialoga con tecnologie improbabili, macchine volanti e colori sgargianti.

Non sappiamo chi è lei e perché si porta dietro quei lunghissimi capelli neri, quella “insostenibilità dell’esistenza” che sembra rievocare a tratti il celebre quadro di Caspar Friedrich mentre osserva dall’alto quel mare, fatto non di nebbia ma di un blu intenso che avvolge i suoi pensieri e anche il corpo. Questo è solo l’avvio del film perché, come scopriremo, Victoria sarà splendidamente ri-costruita in Bella Baxter dal prometeico e, solo in superficie, inquietante dott. Godwin Baxter (Willem Dafoe), altro personaggio che con la forza della sapienza e della conoscenza empirica, così come Oppenheimer, intende sostituirsi al lavoro della Natura o di un dio creatore ma, come vedremo, animato da un intento e un progetto decisamente differente. Nel laboratorio del dottor Godwin – dl già il suo nome si presta bene a questo felice parallelismo – fanno capolino le specie più insolite di animali mutati: galli-maiali, cani-oche, gatti-capre e così via, ma soprattutto c’è Bella, progenitrice di una nuova stirpe di postumani da cui tutti noi avremmo da imparare su come si può rinascere, soprattutto nell’anima, per cambiare il mondo. Emma Stone, la vera forza del film, retto splendidamente in ogni scena delle circa due ore e mezza di girato, è magnetica, affascinante, robotica, sensuale, gelida, divertente e straziante in questo magnifico ruolo che già le ha fruttato la vittoria ai Golden Globes come miglior attrice e una nomination all’Oscar (il film è candidato in totale a ben 11 statuette), e il suo ingresso come Bella nel film è inizialmente circondato dal puro interesse scientifico da parte del suo padre-creatore Godwin, deforme nel corpo e nel viso, che si accompagnerà per tutta la vicenda da un novello aiutante medico di nome Max McCandles (Ramy Youssef) il cui compito è praticamente annotare i cambiamenti e le evoluzioni della “povera creatura” Bella, della quale cadrà inevitabilmente innamorato, come tutti noi spettatori. Nel susseguirsi dei primi tempi della crescita di Bella, Yorgos Lanthimos opta per un bianco e nero espressionista che ricorda non poco i primi esperimenti teutonici con il cinematografo. Ed è proprio il senso di controllo, di oppressione quello che prova Bella Baxter in questa prima parte del film; ma piano e soprattutto dopo la scoperta di un autoerotismo spensierato e vivacemente vissuto, che comprendiamo quanto lei sia speciale, priva di ipocrisia e armata di una progressiva voglia di conoscere di più il mondo, e noi con lei. Attraverso il suo sguardo sincero e diretto comprendiamo quanto sia sbagliata, in direzione contraria e assurda la nostra esistenza, le scelte che facciamo, la vita che conduciamo. Da questo momento Poor Things si trasforma in un mondo a colori, plumbei, shock, ‘sospesi’ nella visione distorta (di Bella o degli altri e danneggiati esseri umani?) vivacemente espressa dalle inquadrature amplificate e a tratti surreali del film grazie all’ausilio di obiettivi grandangolari estremi, un marchio di fabbrica del Cinema di Lanthimos, già presenti e apprezzabilissimi nel suo precedente La favorita (2018), sempre con una fiammante Emma Stone.

Dunque, il post-umano Bella, in piena enfasi libidica, parte per un viaggio che la condurrà a Lisbona, Alessandria, Parigi, al fianco dal manigoldo Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), avvocato e maschio-alfa per eccellenza, che lei decide di seguire non perché costretta o ammaliata dal fascino del seduttore ma semplicemente perché è in lei il “sangue di esploratrice”, come le dice il dottor Godwin. Wedderburn si mostra in tutto il suo “splendore” colmo di apparenze e vanità e per un periodo Bella resta con lui perché scopre le gioie dei “furiosi sobbalzi” che le danno felicità, è la carnalità del sesso a cui si dedica con piacere e che richiede a volte costantemente al suo momentaneo partner. Però man mano che lo sviluppo e la continua conoscenza del mondo di Bella inizia sempre più a progredire, lei incomincia a guardare all’esterno e Duncan Wedderburn, da apparente Casanova e insensibile ai sentimenti inizia ad essere consapevole di essere soggiogato completamente dal fascino e dalla personalità, ingombrante e, stramba e priva di filtri di Bella. Dal non essere mai uscita di casa ai primi pic-nic sul prato insieme al dottor Godwin e Max al viaggio intrapreso in Europa con Duncan a cui i due medici non si oppongono perché lei “possiede il libero arbitrio”, la sete di conoscenza di Bella Baxter è insaziabile: Duncan Wedderburn arriverà finanche a rinchiuderla in un baule e a portarla lontano in primis da Lisbona – distante dai pericoli della mondanità – su una nave da crociera dove può – secondo lui – controllarla…naturalmente senza successo. La maestria della scrittura del film qui inizia ad essere feconda perché vediamo un completo rovesciamento nei caratteri dei due personaggi dove, la prima conquista sempre più autocontrollo, volubilità, intraprendenza, libertà, respiro e naturalmente autonomia, mentre il secondo diventa e diventerà sempre più patetico, al pari di un bambino capriccioso. Non saranno, infatti, rari i pianti e gli scatti di rabbia di Wedderburn, il suo struggimento dovuto all’impossibilità di controllare e possedere una super-donna forte, indipendente e nuova come Bella. Da bruco a farfalla lei e da leone a scarafaggio lui. È importante ribadire che i comportamenti e il carattere di Bella non sono in alcun modo dettati da una qualsivoglia forma di cattiveria, ambiguità, rivalsa o vendetta: lei è un’anima buona e ad esempio decide di fare sesso con altri e non solo con Duncan perché nella sua innocenza da rinata non riesce a comprendere cosa c’è di sbagliato, la ragazza non è in alcun modo coinvolta intellettualmente sugli usi della “buona società” e dei costrutti sociali – che provengono da una matrice esclusivamente maschile –, lei non li ha appresi, vive in una sorta di innaturale stato di natura vergine, immacolato dalle perturbazioni di facciata che la società del patriarcato ha eretto e predisposto nei singoli individui e a cui il film si rivolge più volte grazie al parallelo anche “visivo” con un setting tra passato e presente, come già precedentemente evidenziato, ambiantato in un’ epoca immaginaria, sospesa tra quella che potremmo definire pseudo vittoriana e uno steampunk popolato da macchine volanti, città sospese e colori lisergici; o quando, in una delle scene più strazianti del film, ambientata in una esotica e surreale Alessandria d’Egitto, Bella decide di prendere ed affidare tutto il danaro di Duncan a due inservienti della nave perché lo diano ai poveri che vivono nei bassifondi della città (gli inservienti lo terranno per loro, in quanto individui che a differenza della ‘splendida’ Bella conoscono l’avidità e il voler approfittare dell’altro). In quella sequenza, la protagonista apprende per la prima volta dal “cinico” Harry (Jerrod Carmichael), come quando una bambina sperimenta il dolore primordiale di una piccola ferita, che il mondo nella quale lei vive non è tutto rose e fiori e le persone non vivono esattamente alla stessa maniera. Bella è sconvolta, per la prima volta la vediamo davvero scoppiare in un pianto disperato di fronte a quella visione, a quella scoperta dopo che Harry le fa toccare con mano “empiricamente” cosa c’è sotto di loro: ambientata sempre sull’enorme e irreale nave da crociera ormeggiata ad Alessandria, sotto esortazione di Harry, Bella attraversa una lunga scalinata in argilla che richiama l’antichità e il passato di quelle terre e, mentre osserva sotto di lei, Bella vede i “poveri” e gli abbandonati della società. Non a caso la messa in scena opta per una struttura piramidale dove in alto ci sono i pochi e in basso i molti. Bella vuole scendere fino in fondo quelle scale ma Harry la ferma con decisione. Le  intenzioni della donna, però, non si fermano di certo lì, vuole e deve fare qualcosa per quelle persone, non accetta un mondo dove si lasciano morire dei bambini e migliaia di persone mentre “al piano di sopra” si beve champagne e si spendono contanti al casinò: raccoglie quindi i soldi vinti al gioco quella notte da Duncan Wedderburn ed è pronta a scendere, la nave però è in procinto di salpare e lei è costretta a darli ai due inservienti che  approfitteranno dei soldi e dell’innocenza di lei.

            Le sequenze ambientate a Parigi sono quelle dove la protagonista matura completamente, sa cosa vuole e sa come ottenerlo – anche diventando con piacere una momentanea prostituta in una casa chiusa gestita tutta al femminile – a differenza di Duncan Wedderburn che è diventato l’ombra di se stesso senza i suoi soldi e senza la sua autorità di maschio alfa, e Bella che in tutti i modi cerca di allontanarlo da sé, nonostante le sue insistenze. Lui non riesce a comprendere come si può vivere senza il danaro, diventa ancor più piccolo e capriccioso, fino ad impazzire, mentre lei afferma con una semplicità disarmante che i soldi “sono una malattia”, e nello scambio di battute della Bella Baxter ormai maturata completamente che si infilano sottopelle tutte le dichiarazioni polemiche del film, dalla critica ad ogni forma di sopruso dovuto alle conseguenze estreme del capitalismo alla ribellione e la lotta al patriarcato, tema costante e attualissimo delle narrazioni cinetelevisive contemporanee, di cui soprattutto nella parte finale del film si presenta in tutta la sua potenza facendo ergere Bella a simbolo e araldo di ri-nascita di una consapevolezza maggiore e bandiera del girl power.

            Lo sguardo di Bella Baxter è uno sguardo di donna autodeterminata, nuova e libera finalmente da qualsivoglia costruzione che si anima esclusivamente di buone intenzioni e conoscenza del mondo per affrontare le brutture di un pianeta “distrutto” dalle ipocrisie e dai comportamenti avidi e presuntuosi dell’uomo. E noi tutti dovremmo avvertire il suo occhio del mondo per guardarlo con distacco in tutti i suoi paradossi: e Yorgos Lanthimos è abile a dotare il film di un punto di vista fondato sull’alterità, Bella attraversa il mondo dall’esterno, conosce persone e corpi estranei al suo ma è parte di una nuova trasformazione identitaria, o meglio mutazione, non è più l’umano che conosciamo, è una nuova forma di intelligenza (artificiale?, creata con l’artificio che non è più il “peccato” di Oppenheimer) forse più sviluppata e di sicuro animata da positive vibes scevre da ogni forma di malvagità. Non potrebbe esserci un occhio esterno migliore e più estraneo del suo. La formazione di un nuovo post-umano e un nuovo post-luogo dopo la distruzione e la deriva conseguita  è l’unica maniera per Lanthimos (e per lo sceneggiatore Tony McNamara che riadatta l’omonimo romanzo di Alasdair Gray del 1992) da cui ripartire per ricalibrare e riparare le brutture insite innanzitutto in noi stesse e in noi stessi. Non è un caso che questa complessa opera cinematografica si chiude con Bella Baxter che afferma di voler diventare un medico come il suo creatore Godwin mentre in tutta la sua definita e luminosa bellezza un primissimo piano la ritrae concentrata a leggere un libro di anatomia medica. Ci affidiamo alla sua sensibilità, alla sua natura ‘meccanica’ e al suo essere-simbolo per un nuovo mito fondativo dell’essere-umani e restare umani, e l’urlo “Povere Creature!” è di conseguenza quello ridondante che echeggia in un mondo osservato dall’alto e dall’al di fuori provando una certa tristezza per la “caduta” inesorabile nella quale siamo approdati.

            Per un approfondimento della filmografia di Yorgos Lanthimos consiglio la lettura del libro di Roberto Lasagna e Benedetta Pallavidino Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos, edito da Mimesis Edizioni nel 2019.