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Antonio R. Daniele

In Narrature

CALL FOR PAPERS!

Dalla Kallipolis platonica alla Città del Sole di Campanella, dalla fervida Milano di Manzoni alle narrazioni sull’inurbazione selvaggia del secondo Dopoguerra: ogni epoca ha avuto a che fare con la propria idea di città, sia essa ideale o reale. In particolare, a partire da quella che Jean-François Lyotard ha chiamato La condizione postmoderna (1979), si è imposto un ripensamento dell’uomo in termini non più storici, bensì spaziali: la città è dunque diventata luogo privilegiato per la costituzione di quello «spazio sociale» teorizzato da Lefebvre (La produzione dello spazio, 1974) che permette, stimola e proibisce delle azioni. Ma esse sono anche altro. Nel 1972 Italo Calvino pubblica «l’ultimo poema d’amore alle città», Le città invisibili. Nella presentazione, scrive:

“Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, […] non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.”

Al contempo, sul versante strettamente letterario, in un’epoca come la nostra che privilegia la rapidità degli scambi e dei rapporti, legata molto spesso ad una superficialità degli stessi (si pensi a Bauman), la forma più adatta alla rappresentazione del contemporaneo sembra essere quella breve. Scrive Giulio Ferroni, in uno scritto fortemente polemico di qualche anno fa (Scritture a perdere. La letteratura degli anni zero, 2010):

“A me sembra che la forma «breve» del racconto […] sia oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica ed espressiva […] La relativa brevità dei racconti rispecchia in fondo lo spezzettarsi della realtà che oggi ci è dato.

A tal proposito, riteniamo opportuno calare la narrazione sulla città all’interno della forma del racconto, per tentare di dare una risposta alla domanda che già spingeva Calvino a comporre un libro (Le città invisibili, appunto), che “si deve leggere come si leggono i libri di poesie, o di saggi, o tutt’al più di racconti”: Che cosa è oggi la città, per noi?

Si accettano, pertanto, proposte di racconti di qualunque genere che raccontino la città, declinata sotto ogni aspetto possibile. 

In Sesto Potere

Su The Mandalorian, The Book of Boba Fett e la riscrittura del concetto di spin-off nel panorama trans-mediale contemporaneo

di Giovanni Morese

This Is The Way”

Mai citazione fu più profetica. Parliamo di The Mandalorian, prodotto live-action di punta della piattaforma streaming Disney+ fin dal suo lancio sul mercato internazionale, giunto il 1° marzo al terzo ciclo di programmazione con il rilascio dell’attesissima premiere. Oltre all’indubbia bellezza di un episodio che riporta la qualità in queste storie dopo lo scricchiolante esperimento di Obi Wan Kenobi, ciò che salta immediatamente agli occhi dello spettatore è la conferma di una tendenza rivoluzionaria nella costruzione della lore ultra-quarantennale dell’universo Star Wars. Difatti la puntata, denominata Chapter 17, non figura minimamente come il naturale proseguimento del capitolo precedente. Chi credeva di ritrovarsi dinnanzi allo status quo del finale – andato in onda il 18 dicembre 2020 – che vedeva il Mandaloriano protagonista separarsi apparentemente per sempre dal suo fido amico Grogu, non solo rimarrà sorpreso, bensì anche profondamente perplesso e disorientato. Questo perché la storyline orizzontale della serie è proseguita ed ha anche avuto risvolti narrativi di fondamentale importanza all’interno dello spin-off The Book Of Boba Fett, show andato in onda lo scorso anno, proprio a cavallo tra Season Two e Season Three. La trama, incentrata sul personaggio incontrato per la prima volta in The Empire Strikes Back del 1980 e interpreto sul piccolo schermo da Temuera Morrison a partire dal 2020, ha di fatto riscritto il concetto di serial storytelling, fungendo sia da contenitore delle vicende di questo personaggio che da diretto sequel del Mandaloriano. Se i primi quattro episodi avevano posto quindi le basi per una storia in salsa western focalizzata sui giochi di potere relativi alla gestione del noto pianeta desertico Tatooine da parte del cacciatore di taglie e della mercenaria Fennec Shand, a partire dal quinto non solo ci siamo ritrovati di fronte ad un prodotto totalmente diverso, in cui il protagonista viene da un momento all’altro messo da parte a favore di personaggi che, al massimo, avrebbero dovuto fare un’apparizione crossover in funzione della trama della serie, bensì ad una storia che nel Season Finale non fa assolutamente brillare il suo lead character, a favore di un Grogu deus ex machina che si sostituisce prepotentemente e insensatamente sulla scena. Emblematica anche l’ultima scena, che non vede la presenza di Boba ma del duo della serie principale riuniti per nuove avventure, collegandosi ad un opener episode della terza stagione che evita così di fornire al teleutente un doveroso recap di quanto accaduto ai due all’interno di un prodotto diverso che si dà, quindi, per scontato essere stato seguito. E la situazione non potrà che peggiorare, con le nuove serie tv spin-off Ahsoka e Skleton Crew in arrivo tra questo e il prossimo anno. Che cosa stiamo guardando, quindi? A cosa sta andando incontro esattamente il panorama trans-mediale contemporaneo? Siamo di fronte ad un nuovo format che presto riusciremo a collocare in maniera puntuale all’interno dei complessi e mutevoli linguaggi cine-televisivi? Effettivamente il messaggio della major parla chiaro, considerando anche il caso Marvel di Doctor Strange – In the Multiverse of Madness, film uscito a maggio dello scorso anno e sostanziale sequel non del primo capitolo sul personaggio, bensì della serie televisiva Wanda Vision del 2021, senza la quale la visione di questo prodotto risulta alquanto incomprensibile: questa nuova modalità di interconnessione mediale pare non tener conto della nostra libertà in qualità di fruitori di storie. E così, schiavi di strategie di marketing che ledono la narrativa seriale e cinematografica attraverso la creazione di micro-universi frammentari e mutilati, potremo decidere se impelagarci sempre di più nella visione di percorsi quasi orgogliosamente privi di una loro identità o se, forse in maniera più dignitosa, decidere di premere il tasto play altrove.

In Focus

Sul caso Roald Dahl: modernizzazione o censura?

di Giovanni Morese

Non ho niente da insegnare. Voglio soltanto divertire. Ma divertendosi con le mie storie, i bambini imparano la cosa più importante: il gusto della lettura.

Così ci diceva l’autore di letteratura per l’infanzia che, a cavallo tra la generazione X e quella dei Millenials ha dato voce, corpo ed anima a personaggi divenuti iconici ed inimitabili. Tra terribili streghe, mostri spaventosi, una preside che farebbe rabbrividire anche gli studenti più impavidi ed uno strambo ma sempre affascinante Willy Wonka, Roald Dahl ci ha offerto la visione del mondo di un uomo britannico nato nel 1916 che, però, riesce ancora a pieno nel suo intento di appassionare e divertire i piccoli lettori.

Almeno fino ad oggi.

È recentissima, infatti, la polemica innescata dalle revisioni ai romanzi dello scrittore attuate dalla Puffin Books e la Roald Dahl Story Company in collaborazione con Inclusive Minds, un’organizzazione che si occupa di inclusione e accessibilità nella letteratura per bambini. In questo modo fat si trasforma in parola-tabù da estirpare, la scrittrice donna Jane Austen prende il posto del ultimamente “cancellato” Rudyard Kipling tra le letture della bimba-prodigio Matilda, mentre a Roald Dahl vengono messe in bocca parole e considerazioni mai neppure lontanamente concepite dalla sua mente novecentesca. Eppure, su questa pesantissima revisione delle opere Dahliane – il Telegraph parla di ben cinquantanove modifiche solo per il romanzo The Witches – la branca della famosissima Penguin Books si esprime convintamente parlando di “modernizzazione”. Da qui il paradosso: modernizzare la letteratura eliminando ciò che l’ha resa tale. Trasformare Roald Dahl in uno scrittore degli anni ’20 del 2000, non offrendo ai suoi fruitori contemporanei la doverosa possibilità di interpretare un mondo che non esiste più e capire se da quest’ultimo si possa ancora apprendere qualcosa. Siamo sicuri che modernizzare significhi davvero prendere la trasposizione su carta dei classici Disney e appiccicarsi con lo sputo il nome dei fratelli Grimm, di Charles Perrault, Lewis Carrol e Hans Christian Andersen come se questi ultimi avessero davvero dato gli stessi happy ending smielati della controparte cinematografica? Siamo davvero convinti di salvaguardare la sensibilità delle nostre generazioni future non fornendo loro gli strumenti necessari per comprendere quelle che sono le contraddizioni del nostro ieri? È questa la nuova concezione del moderno o possiamo parlare apertamente di censura? Ai posteri l’ardua sentenza. Eppure rimbomba, in questi giorni più di altre recenti occasioni un pensiero costante, sofferto, malinconico: ridateci la nostra letteratura. Una letteratura che può essere modernizzata con delle note esplicative. Una letteratura studiata a scuola e nella vita attraverso le parafrasi e le chiavi di lettura che ci donano l’abilità di leggere il passato comprendendo meglio il contemporaneo. Una letteratura che dia ai nostri lettori più giovani la libertà di imparare a leggere divertendosi con Roald Dahl e – qualora nel nostro tempo quest’ultimo non dovesse riuscire più nel suo intento – quella di posare il passato ed abbracciare, perché no, qualcosa di definitivamente nuovo.

In Narrature

The Bitter End

di Leonardo Gliatta

You try to break the mould

Before you get too old

You try to break the mould

Before you die

Questi siamo noi tre, giugno del millenovecentonovantotto, io, Carlo e Emanuela, pugni alzati e gole squarciate sotto il palco dei Placebo, in bella vista le unghie mie e di Carlo laccate nere, lui più emo di me, Emanuela col contorno occhi bistrato tutto sciolto dalle litrate d’acqua che scolavamo, mica solo dagli occhi, grondavamo sudore che ci potevi strizzare, tanto che quando siamo tornati al parcheggio e ci siamo ficcati in macchina, la Seicento scassata rubata al fratello di Carlo, le schiene si incollavano ai sedili in ecopelle, e sarà stato anche per quello, forse, che abbiamo fatto incidente, la stanchezza di tante ore di guida e del concerto, e l’inesperienza al volante, sarà stato anche perchè eravamo fradici, eravamo tutti e tre neopatentati, e farsi duecento chilometri di notte in autostrada non era uno scherzo, e tutto per vedere Brian Molko per la prima volta a Milano, quanto ci faceva strippare Brian, all’epoca, e devo dire che a quel primo concerto, sarà l’età, sarà che avevamo gli ormoni a palla e quando Carlo si è tolto la maglietta tutta bagnata ed è rimasto alla guida a petto nudo, e chi se lo scorda più, sia io che Emanuela eravamo in sollucchero alla vista di tutto quel popò di roba, certo è che non abbiamo fatto troppi drammi, sì, lo spavento c’è stato, il botto è stato forte ma s’è risolto con un’ammaccatura e una gita sul carroattrezzi, a diciannove anni ti senti pure eroico a poter raccontare agli amici che hai salvato le penne per miracolo, chi andava mai a pensare che c’era qualcosa che non andava.

Since we’re feeling so anaesthetized

In our comfort zone

Reminds me of the second time

That I followed you home

Siamo sempre noi tre, maggio del duemilaequattro, io, Carlo e Emanuela, post-punk, post-rock, post-adolescenti, e post pure tutti i fervori e le crisi di identità, Emanuela se l’è sposato, Carlo, pur sapendo che io ci morivo dietro, e tanto che vuoi farci, a te non te lo dava mica il culo, quindi meglio che la merce sia rimasta in famiglia, dice lei, famiglia dico io, quale famiglia, tu sei solo una vacca che calpesta i miei sentimenti, però poi mi passa, dopo un annetto buono che stanno insieme mi passa e vado addirittura al loro matrimonio e per poco non mi chiedevano di fare da testimone, e vissero tutti felici e contenti, e per suggellare il nostro ricomponimento compriamo tre biglietti per i Placebo, sfidando la sorte, e ridendocela su, ti ricordi la sfiga, quella volta, l’incidente e tutto il resto, senonchè decidiamo di mangiarci un boccone prima del concerto in una pizzeria di Assago, e tra una margherita e una Peroni spunta il matto armato che fa una rapina proprio sotto i nostri occhi, come nei film, col passamontagna e tutto il resto in regola, si mette a strillare dammi la cassa, dammi la cassa e io che mi butto sotto il tavolo e Carlo che molto amorevolmente si butta sopra Emanuela per proteggerla, e finisce tutto in uno, due minuti di panico, poi sotto schock ci guardiamo e pensiamo che no, questa non è sfiga, è qualcosa di più, è un segnale che Dio in persona ci sta mandando, Dio è contro i Placebo, Dio è contro i post-punk, i post-rock e i post-adolescenziali e forse faremmo meglio a levarci dal cazzo subito e tornare a casa, se non vogliamo che ci crolli il palazzetto addosso, io non ci vengo mai più a vederli, e ci sputa pure sulla sentenza che ha appena emesso, Carlo, e invece poi si lascia convincere da Emanuela, che peggio di così non può andare, la sventura cosmica ce la siamo già vissuta, ora è tutto in discesa, e così seguiamo lei mogi mogi per i cancelli del Forum e passiamo tutte le due ore di concerto a guardarci intorno, nel timore di vedere volare sulle nostre teste oggetti contundenti di qualsiasi natura.

I saw you jump from a burning building

I’ve seen your moves, like Elvis set on fire

This search for meaning is killing me

Ping pong ball at the back of my throat

Ancora noi tre, ottobre del duemilaventidue, io, Carlo e Emanuela, sono passati diciotto anni, diciotto perdio, dal nostro ultimo concerto insieme, Brian ha i capelli lunghi, i baffi e il cappello nero che assomiglia più a Lemmy dei Motorhead che a Bowie, e noi non siamo da meno, due uomini adulti che fingono di essere più giovani e una donna che smania per un nuovo marito che le restituisca un senso alla sua seconda vita, sì, perchè Carlo non è più suo marito da un pezzo, da quando lei ha sgamato le sue chat con Rodrigo e Manolo e Sergio, e dopo un bel pò di anni è diventato il mio compagno ufficiale, e abbiamo esaurito così tutte le combinazioni, e Emanuela l’ha presa sportivamente, quando io le ho detto, visto, che poi il culo me lo ha dato e la merce è rimasta sempre in famiglia? e così l’abbiamo presa molto alla lontana, prima ho passato ad Emanuela i singoli su Spotify, poi ho fatto sentire tutto il nuovo album a martello settegiornisusette a tutti e due e ho fatto la proposta indecente, dai, ragazzi, dobbiamo sfatare la cosa, è come quando torni sul luogo del delitto, sono passati troppi anni ormai che vuoi che ci succeda, non facciamoci vincere dalla superstizione, siamo tre affermati professionisti, viviamo nella città più razionale d’Italia, che ci frega, e dopo varie insistenze alla fine acconsentono e ai cancelli ripassiamo tutte le canzoni storiche e fingiamo di ignorare quel leggero turbamento che ci aleggia intorno, finché le luci non si accendono di colpo, e il boato sale e tutti a invocarli manco fossero i Rolling Stones e sul palco salgono Brian e Stefan con le chitarre imbracciate e Brian va al microfono con una faccia da cencio e dice:

Questa sera sul palco siamo solo in due, il nostro storico batterista Steve Hewitt ha avuto un malore durante le prove e sta lottando tra la vita e la morte in un ospedale qui in città. Dedichiamo a lui questa serata!

In Appunti di Lettura

Céline, Trilogia del Nord, postille 19 -21.1 (*)

di Demetrio Paolin

19. Uno dei temi fondamentali della poetica Céline è il suo costante e continuo riferimento alla petite musique; una immagine che domina le riflessioni metaletterarie dello scrittore francese. Ci si chiede spesso, nella lettura di queste affermazioni, in che cosa consista tale petite musique, come potesse suonare nella sua mente e nella sua immaginazione. Il dato sonoro in Trilogia è essenziale: lo abbiamo sottolineato più volte, ad esempio quando abbiamo analizzato la ripresa/variazione della citazione dall’Amleto – “il resto è blabla” -, e individuando come il blabla rappresentasse una certificazione del linguaggio onomatopeico e pregrammaticale di cui i continui inserti – sopratutto nei momenti di descrizione di bombardamenti – di riproduzioni di suoni, alcuni dal vago sapore fumettistico, fossero una segno autoriale ben preciso. Non va dimenticata l’invalidità di Céline e di come, dopo la prima guerra mondiale, abbia sofferto di acufeni, che hanno sicuramente prodotto un sentimento diverso, anzi divergente, rispetto ai suoni e alla esperienza degli stessi. Il dato uditivo, quindi, in Trilogia è molto forte, tanto che assistiamo ad un momento in cui musica e trauma uditivo trovano un punto comune.

Siamo alle pagine finali di Rigodon Céline, mentre fugge da una serie di esplosioni e bombardamenti, viene travolto da un crollo e un mattone lo colpisce in testa. Per le pagine seguenti assistiamo al continuo lamentarsi di questo colpo subìto e di come il trauma fisico abbia creato all’interno della sua mente una sorta di musica, di suono (immaginario?, reale?), che egli continua a sentire nel corso delle pagine.

Con la solita abilità Céline, nel suo procedere rapsodico, ci porta dalla Germania in fiamme e fumo della fine della guerra, alla quiete notturna della sua casa Meudon, quando, Lili ha finito le sue lezioni, e le ballerine hanno lasciato la casa, così – nel silenzio più totale – l’autore entra nel salone delle prove.. Quella musica, che lo ha tormentato per anni, è ancora nella sua testa, ronza nelle sue orecchie a segnare un tempo che non passa; quella piccola musica, una sorta di motivetto, Céline l’ha sentito per l’intero viaggio lungo le macerie dell’Europa e non l’ha mai abbandonato: «una tastiera adesso! L’altro capo della sala… forse per averci pensato così a lungo… strimpello… ci siamo!.. quasi giusto, sì!… sì!… il la di una tastiera così com’è… ci sono!… nessun prodigio! Ti spremi la testa per vent’anni, il diavolo se trovi!…. Per quanto limitato, per quanto poco melodioso sei!… riscendo giù, ho le quattro note… sol diesis! Sol!, la diesis!, …si! … rammentate!… avrei dovuto averle là giù» (TdN 802).

È un brano fondamentale per comprendere a fondo il lavoro stilistico di Céline sulla propria prosa; il brano, infatti, è una sorta di descrizione in atto dell’operazione di scrittura: è certo che la musica/scrittura, che Céline crea, nasce da un evento traumatico (l’esplosione è la perfetta metafora della II guerra mondiale), ma esse è costruito successivamente, è una ricerca – ti spremi la testa per venti anni –, una ricostruzione, che nasce da un punto di evidente sicurezza (la casa, il silenzio quieto della notte), e, infine, una riproduzione del trauma (le poche note che riportano lo scrittore “là giù”). Lo scrittore è venuto fuori dall’inferno, è risalito, ma qualcosa l’ossessiona, questa ossessione si coagula in una musica, in una serie di singole note, neppure un accordo, o un motivo, ma alcune note, come dei rimasugli, rovine, pezzi, la petite musique di Céline sono quattro note singole: sono ciò che rimane, infine, non c’è nessun prodigio o miracolo, semplicemente sono quattro suoni che rimangono impressi nella memoria dell’autore.

Il brano, inoltre, ci è utile anche per esplorare un tema centrale non solo della Trilogia, ma dell’intera letteratura del secondo ‘900: la tensione tra il silenzio (l’ineffabilità di ciò che è stato vissuto) e il linguaggio. Il linguaggio, quello letterario ne è la parabola più disperata, rappresenta il tentativo di produrre una rappresentazione e del nostro pensiero e del nostro pensare la realtà, come se la nostra realtà non fosse altro che un linguaggio di un linguaggio, una riflessione sullo stesso: quando descrivo una morte, ad esempio quando Céline descrive la morte del suo cane (lo vedremo nella postilla successiva), io/autore o io/lettore non faccio nessuna esperienza di quella precisa morte, ma ciò che compio è  ragionare, verbalizzare, su altre parole che descrivono un accadimento, di cui non so nulla se non le parole che lo esprimono, come se fossero un velo dalla spessa trama che nasconde la “cosa” reale. Il secondo ‘900 ha vissuto appieno questa crisi del linguaggio, il suo tendere al silenzio, tanto che possiamo  pensare

a) alla frase di Adorno, poi ritrattata, ma che getta la sua ombra su una buona parte della narrativa e della letteratura post-Auschwitz, della impossibilità – etica, ma anche estetica e fattuale – di scrivere poesia dopo il lager;

b) al brano de Il canto di Ulisse di Se questo è un uomo in cui Levi, citando Amleto, dichiara “il resto è silenzio” e si trova a spiegare a Pikolo, il compagno di lager, un sentimento confuso, misterioso e non chiaro, che vorrebbe egli afferrasse, ma che il brusio babelico, a chiusura del capitolo stesso, consegna a una paradossale incomunicabilità;

c) alle opere di Beckett più estreme in cui la parola è abbandonata in ampi spazi di silenzio.

L’afasia, quindi, può essere, lo è in effetti, una possibile risposta alla tragedia del secondo 900, pensiamo solo a Celan o al finale di Mosé e Aronne di Schoenberg. C’è, però, esiste tenace una possibilità di un linguaggio, che è precedente e più assoluto della linguaggio della parola, ovvero la musica: essa non ha bisogno delle parole o, meglio, le sue “parole” non hanno nulla a che vedere con quelle che ad esempio ora io e voi stiamo vedendo su questo bianco supporto. Céline, affascinato dalla danza, dalla delicatezza dei movimenti, ha vissuto la sua scrittura come una ricerca dello stile, che producesse musica: l’esperienza della terribilità della guerra, dell’inumanità, del tracollo di ogni speranza, della fine di un’epoca ha prodotto un semplice “blabla”; accettare tale insignificante brusio significherebbe condannare la propria scrittura al silenzio, e così con un tentativo ultimo Céline, ormai vecchio, vicino più di altri alla morte, alla regione del silenzio e allo svanire delle cose, recupera dalla sua memoria quattro singole note. È interessante questo dato, egli non riporta sulla pagina un accordo o una armonia, non un ritmo, o una sequenza, perché questo paradossalmente sarebbe ancora tentare un linguaggio: quelle quattro singole note sono ciò che rimane, sono ciò che si oppone al silenzio a cui la Storia ci ha costretto. “Sol diesis/sol/, la diesis/si”…il mondo non finisce né con uno schianto né con un lamento, ma con quattro singole e separate note, che  – come i quattro cavalieri dell’Apocalisse – annunciano il compiersi di tutto, infine.

20. Agli animali così recita la dedica in apertura di Rigodon, che sancisce, ove mai ce ne fosse bisogno, la centralità dell’immagine e della presenza degli animali in tutta la Trilogia. Pare ovvio e scontato il riferimento a Bébert, il gatto enigmatico, il sancio-panza felino, colui che infine rimane, e che, pur non essendo un cane, ritorna sempre dal padrone non per fedeltà, ma per scelta, opportunismo, intelligenza e sopravvivenza, a lui Céline dedica pagine bellissime, che si condensano nelle righe, presenti in Nord,  ove ne racconta la morte. È un brano breve, asciutto, pieno di malinconia e di leggerezza, adatto proprio al gatto che fu Bébert: «… era più giovanissimo ormai… è campato ancora sette anni, Bébert, l’ho riportato qui, a Meudon… è morto qui, dopo tante di quelle disgrazie, cellulari, bivacchi, ceneri, tutta l’Europa… è morto in forma e slanciato, impeccabile, saltava ancora per la finestra la stessa mattina…» (TdN 649). L’epitaffio di Bébert è commovente, proprio perché Céline trova l’immagine perfetta per renderlo memorabile, si noti che attengono a Bébert una serie di qualità aeree e leggere (lo slancio, il salto) che per Céline si oppongono al “peso” (il male) del mondo; c’è una forma di delicatezza e di riguardo nei confronti degli animali che Céline coltiva come a segnare un discrimine con gli altri esseri. Ne abbiamo la prova continuando la lettura di Nord; siamo consapevoli, Céline ci lascia diversi indizi testuali, che lo Zornhof sia un sito infernale, prova ultima di questa di questa dannazione è data dagli abitanti che non «amavano nessun animale, nessun cane o gatto alla fattoria» (TdN 495). A dominare queste pagine è Iago , il cane magro e ossuto, che il padrone affamava per far mostrare agli abitanti del luogo come la mancanza di cibo fosse comune a tutti, e ridotto a uno scheletro ambulante veniva portato in giro con orgoglio a riprova di queste terribile situazione.

Anche la sua morte, al pari di quella del gatto Bébert, è descritta da Céline con altrettanta delicatezza, «il corpo ancora tiepido… il cuore… il cuore ha ceduto» (TdN 554). Quella degli animali è una morte composta, serena; anzi per Céline gli unici esseri degni di “morte” sono gli animali, lungo tutta la Trilogia, infatti, gli uomini non muoiono, si crepano come case, si rompono, spariscono, vengono gettati nei liquami come cose di poco conto, rimangono impressi come una fluorescenza ai muri, sono pezzi di corpi bituminati – «qua così nel bitume?… un piede tutto nero… soltanto un piede… niente gamba né corpo… il corpo deve essere bruciato» (TdN 834); Céline concentra la sua pietas verso gli animali, ne sono un esempio altissimo le pagine iniziali di Da un castello all’altro in cui l’autore narra la morte del suo cane, Bessy. È uno degli episodi più strazianti del libro: «Io le tenevo la testa… l’ho abbracciata sino alla fine… era veramente una bestia splendida… una gioia guardarla… una gioia da vibrare… come era bella!… […]. è un fatto io penso sempre a lei, anche qui nella febbre […]. Posso dire che l’ho amata, con le sue folli scappate, l’avrei mica data per tutto l’oro del mondo… […] ma ha sofferto per morire… non volevo assolutamente toccarla con l’ago… farle neppure un poco di morfina… aveva paura della siringa… le avevo mai fatto paura […]… un bel momento, una mattina, ha voluto andare fuori […] voleva essere in un altro posto… dalla parte più fredda della casa sui sassi…si è stesa per bene… ha cominciato a rantolare… era la fine… il muso al nord, rivolto a nord… la cagna così fedele d’un modo… fedele anche alla vita atroce» (TdN 112-114).

In questo brano stupendo, lirico, pieno di grazia e rabbia, colmo di senso di dolcezza e colpa a emergere è l’immagine della fedeltà canina alla “vita atroce”, che è forse il segreto, il motivo reale, per cui Céline dedica agli animali la sua Trilogia. I tre romanzi possono essere letti come una profonda riflessione sulla fedeltà (alcune volte stigma della colpa, del collaborazionismo e del tradimento) alla vita, che è atroce. Céline ha esperienza di questo, la Trilogia è un campionario delle atrocità che l’uomo ha commesso e subìto, ma l’io narrante rimane fedele alla sua natura più profonda, proprio come gli animali, che per istinto cercando in qualche modo di rimanere se stessi. Abbiamo visto come nel corso delle pagine l’autore faccia riferimento alla teatralità, l’inganno, alla calunnia, al camuffamento: nessun personaggio della Trilogia è ciò che è (l’epitome, in questo senso, è Le Vigan definito l’uomo senza identità) e non è casuale che il teatro sia una delle metafore ricorrenti lungo le pagine del romanzo: questa scelta di rifiutare la propria identità, però, non è degli animali. Bébert è sempre lo stesso a Meudon come lungo l’Europa devastata, così come Iago o come Bessy: semplicemente sono rimasti fedeli alla vita atroce.

Un altra presenza animale costante nella Trilogia è quella degli uccelli, i volatili sono dovunque, in un romanzo che fa della migrazione, del movimento e del viaggio verso-una-qualche-meta-finale la propria ragion d’essere. A una prima lettura, quindi, gli stormi di uccelli che solcano i cieli sono una metafora prefetta della Trilogia; gli orizzonti, però, sono anche solcati dalle fortezze volanti, dagli aerei, dai bombardieri. Nel corso del racconto, quindi, il cielo non è solo orizzonte che contiene il movimento dei personaggi, ma è anche morte distruzione: gli uccelli, che abitano i cieli, sono creature ambigue, lontane insomma dalla rappresentazione che ne dà Leopardi nel brano delle Operette morali: «…la cerimonia è finita.. i bibel appiattiscono le zolle… nugoli di passeri spuntano e delle cince.. tutto questo dopo la terra smossa… i lombrichi… che bisogna essere uccelli per vedere sti piccoli vermi… tutti il cielo si può dire svolazza!… la festa!… anche i pettirossi!… e corvi e gabbiani» (TdN 643). Gli uccelli attengono alla morte (il brano riportato è la conclusione di una cerimonia funebre), e contemporaneamente alla festa (la l’immagine del cielo che svolazza): essi sono un enigma, che tale rimane fino alla conclusione del romanzo.

Nelle scene finali della Trilogia, Céline, Lili e Bébert sono a Copenaghen, sembrerebbe quasi una sorta di finale felice, sono giunti a Nord, sono salvi, Céline è guardingo, però, sente qualcosa di strano e così invita Lili a seguirlo in un piccolo giardino al riparo dagli occhi di tutti. In questo giardino Céline e Lili tornano ad essere loro stessi, riprendono possesso dei loro passaporti e il loro atto di matrimonio: li vediamo squarciare la pagina, liberarsi dalla finzione, di cui sono stati protagonisti e schiavi per più di ottocento pagine. Ora, infine, sono descritti loro dati anagrafici e dal loro stato civile. Nel leggere queste pagine ravvisiamo qualcosa di paradisiaco, il racconto ha il sapore di rinascita: la luce, il mare, le piante, la vegetazione, la loro stessa solitudine, infine, che ce li fa immaginare come i primi esseri viventi di un nuovo mondo. In questo momento di stupefazione e incanto, però lentamente la scena si popola, a circondarli sono uccelli «da collezione da Orto Botanico» (TdN 894): un ibis, un egretta, un pavone, un “uccello lira”; la loro presenza non è per nulla portatrice di paradiso e di quiete, anzi. Questi uccelli sono simbolo, figura, di un infinito esilio, dell’inesausto peregrinare, sono animali fuggiti e sopravvissuti alle distruzioni degli zoo (l’inferenza che compiano da lettori è con le pagine bellissime di Storia naturale della distruzione di Sebald) e che in qualche modo si ritrovano salvi in questa zona di Europa, risparmiata dai bombardamenti. La scena, che si svolge sotto i nostri occhi, si fa complessa e misteriosa come se ci trovassimo all’interno di un racconto sacro; gli uccelli sono giunti a queste latitudini per portare tale silenzioso annuncio: la felicità è un breve sogno, è qualcosa destinato a finire. Essi sono gli ambigui messaggeri di un dio sarcastico o malvagio, da un lato come Céline e Lili sono «sono “in fuga da scatenate voliere”… devono venire come noi da giù», ma nello stesso tempo, terribili come angeli di Rilke, annunciano in modo misterioso che «per noi tutto è pericoloso» (idem). L’animale, quindi, in Trilogia diviene una sorta di presenza demonica, che attiene a qualcosa di più profondo e oscuro, qualcosa che è vivo e senziente pur non essendolo o non essendolo del tutto, l’animale che conosce ogni cosa – «sanno, è tutto» (TdN 287) – è la prefigurazione della rappresentazione più inquietante di quella “nuda” vita , che culmina nella descrizione dei bambini “svedesi”.

21. Le ultime 100 pagine della Trilogia sono dominate dalla presenza costante, silenziosa, vivace e vivente dei bambini che la signora Odile affida a Céline. Questi bambini, quasi certamente spastici, handicappati, affetti da diverse malattie e patologie, non parlano mai nel corso del romanzo, si muovono in branco, sbavano, ridono, rumoreggiano, sono un numero imprecisato – quindici, sedici, diciassette. Céline usa il più ampio e degradante ventaglio della sua scrittura comica per descrivere una serie di bambini menomati; il grottesco alla Hugo qui trova il suo oggetto perfetto: essi sono veramente tanti “Quasimodo” che si muovono, che strisciano, che fanno bisogni dove gli pare, che fanno a meno della parola, che utilizzano un qualche modo di comunicare, a noi precluso; sono come animali, o meglio sono uomini, esseri umani, che per miracolo o malattia condividono una sorta di più semplice, ma nello stesso tempo, più profonda forma di esperienza della vita: in loro la “vita atroce” si mostra nella sua totalità, si mostra completamente. I bimbi seguono Céline come i topi seguono il pifferaio magico: essi rappresentano lo scolo dell’Europa il prodotto ultimo della sua putrefazione, della sua distruzione, sono il rifiuto e sono il “ciò-che-resiste”, perché nonostante tutto «i nostri mocciosi i nostri dico non erano fatti fatti per esistere ma erano arrivati lì» (TdN 822). Sono testardi questi mocciosi dalla dura cervice, esistono anche se dovrebbero essere morti, sono viventi anche se ogni cosa pare cospirare per la loro estinzione.

Lo sguardo di Céline è ambiguo, passa appunto da un sentimento di estraneità a un sentimento di possesso, l’aggettivo possessivo della prima citazione ne è spia palese, è desideroso di salvarli, di nutrili, di portarli in qualche modo, è come se si sentisse padre, come se ne dovesse prendere cura pur riluttante. Questo atteggiamento ricorda un racconto di Kafka, Il cruccio del padre di famiglia, e la figura di Odradek. Lo scrittore ceco in questo racconto prefigura, come spesso gli accade profeticamente, lo stadio di sub-umano che l’umanità attraverserà durante la Seconda Guerra Mondiale. La domanda del padre, il cruccio del titolo, appunto riferita a Odradek – “Può egli morire?” -, riecheggia anche nelle pagine finali di Rigodon. Possono questi bambini morire? Possono loro, che hanno attraversato l’essenza ultima dell’umano essere considerati ancora umani e quindi morire? Il racconto di Kafka è enigmatico, proprio perché non dà risposta. Odradek può essere il male totale, sordo, stupido che nessuno può togliere dal mondo, è, infine, la prova suprema dell’esistenza del non-essere, oppure Odradek è ciò che restio all’autorità, che s’oppone a un’autorità di morte, la sua esistenza stupida e persistente è di fatto una vittoria su ciò che vorrebbe distruggerla. Durante la lettura di Trilogia si oscilla spesso, almeno dal punto di vista di Céline, tra queste due tensioni: i bambini spastici, gli Svedesi così come infine verranno definiti e grazie a quella definizione verranno salvati, sono opachi, si oppongono a qualsiasi tipo di comprensione. Nella loro descrizione la mia memoria è tornata più volte alle pagine, che in queste sede potrebbero suonare stravaganti, de La tregua di Levi; in particolare l’episodio dedicato a Hurbinek, il bambino nato nel lager e nel lager morto. Hurbinek, così come i bambini di Céline, ha una esistenza che inquieta e turba il lettore: è vivo, ma non è umano, ci porta a sentire affetto e nello stesso tempo ci respinge e ci ripunga, è ciò che rimane del lager, è ciò che nonostante tutto è riuscito a fiorire nel lager, è qualcosa di tremendo, vivo e non umano: lo scandalo che non comprendiamo. Leggendo le pagine finali del romanzo di Céline abbiamo l’impressione che in questi bambini lui raffiguri qualcosa, qualcosa che non riesce neppure a nominare: e se i bambini spastici fossero la sua colpa? Se rappresentassero ciò che avrebbe dovuto odiare e che invece salva? (la mia fantasia ha pensato che questi bimbi raffigurassero gli ebrei, in fuga verso una salvezza). Nelle pagine della Trilogia vivamo, senza che Céline lo verbalizzi, un sentimento molto vicino, a quello che Levi riesce a formulare, descrivendo Hurbinek che muore “libero ma non redento”: la chiarezza leviana si scontra con il furore celiniano. E qui, avviandomi alla chiusa finale di queste postille, e alla luce di queste prossimità, vorrei tentare un azzardo avvicinando, infine, Trilogia del Nord e La Tregua.

21.1 La Tregua e Trilogia sono due odissee che non si concludono con un arrivo a casa, non c’è nessuna Itaca ad aspettare i due Ulisse, entrambi laceri e affaticati; da una parte vediamo ergersi il profilo del carcere, la detenzione, e dall’altra il nulla torbido in cui vive il sopravvissuto. Céline e Levi hanno attraversato l’Europa devastata dalla guerra, hanno scelto di raccontare questo sfacelo usando il comico, che non è un semplice far ridere, ma è indagare a cosa si riduce l’uomo svuotato di tutto, l’hanno fatto con due lingue diverse certo, partecipi di due nevrosi differenti, eppure lo spostarsi, il muoversi, il perdere e salire treni, la fame, le scarpe, la sporcizia e la merda sono medesime (si potrebbero mettere in relazione la scena delle latrine intasate Da un castello all’altro e con Campo Grande il grande capitolo iniziale de La tregua). L’uomo stravolto/grottesco, come risultato di un esperimento andato a male, è il centro di entrambe le narrazioni; da sottolineare, infine, anche un dato temporale: questi libri in parte furono composti negli stessi anni, al 1960-1961. C’è, infine, la presenza dei bambini in entrambi i testi, mediata dal Kafka del Cruccio del padre di famiglia e dalla domanda: Può egli morire?.

Ho l’impressione che Céline e Levi abbiano intravisto qualcosa di più tremendo del lager, del nazismo, del disfacimento degli Stati, dei morti nei bombardamenti, dei morti gasati nei lager, qualcosa di più terribile dei sopravvissuti logori e cenciosi, degli impiccati di Norimberga, dei carcerati e dei suicidi degli amici, questa cosa terribile e tremenda è la vita, sorda, la biologica vita delle cose degli animali, degli esseri, questa vita prima e priva di ogni coscienza, intelletto e lingua, questa vita brutta (aggettivo caro a Levi) e atroce (aggettivo caro a Céline), come la materia stessa di cui è fatto il mondo concreto, questa vita sorda bassa minima, il cui unico obiettivo è esistere nonostante le guerre, nonostante le vittorie e le sconfitte, nonostante le cadute degli imperi e dei governi, questa vita basilare, minima, dura come un piccolo sasso, come un oggetto di forma bizzarra, come un bimbo spastico e bavoso è l’arcano che tiene in piedi questo mondo materiale. Questa vita è l’abisso più grande in cui gettare lo sguardo; qualcosa che loro hanno intravisto; qualcosa che è umano senza esserlo più, che partecipa all’esistente senza esserne parte; qualcosa – infine – che loro hanno visto con gli occhi mortali (gli occhi di Levi e di Céline a me sembrano così identici, chiari, acquatici) e che hanno provato a descrivere con le parole, fino a quando le Parche hanno deciso di recidere il filo e Céline e Levi sono morti, mentre quella cosa atroce e bruta, che è la vita, ha continuato e continua a esistere, e interroga noi che siamo rimasti.

* Voglio, infine, ringraziare tutti le persone del Gruppo di lettura condivisa di Lettera Zero, la loro presenza, il loro costante pungolo, la loro intelligenza mi hanno spinto a ragionare con ancora maggiore chiarezza rispetto a questo libro, mi hanno portato a capire che la strada per comprenderne il significato e ancora di là a venire. Nei prossimi mesi, qui su Lettera Zero, alcuni di loro pubblicheranno le loro impressioni che daranno vita ad un Dossier Céline, con il quale speriamo di approfondire ancora di più questo autore e questi libri così abissali.

In Schede

“R.L. Stine – Piccoli Brividi, Fear Street e altre scary stories” – Il nuovo saggio di Umberto Mentana. Edizioni Weird Book

R.L. Stine è lo scrittore per ragazzi più venduto al mondo. La sua serie horror di Piccoli Brividi ha venduto oltre quattrocento milioni di copie segnando irrimediabilmente l’immaginario di intere generazioni di lettori grazie al singolare connubio fra humour e horror attraversando una storia editoriale che incomincia e ha la sua golden age negli anni Novanta, diventando nel tempo un fenomeno sociale dalla portata rivoluzionaria.

Questo libro è il primo saggio italiano sullo Stephen King per ragazzi, ed è una ricerca non solo biografica ma anche sui processi di scrittura in un dialogo trasversale e serratissimo accompagnato dalle più note “scary stories” dell’autore: Fear Street, Piccoli Brividi, Just Beyond sono collane di successo che travalicano i limiti del singolo medium librario conversando parallelamente con il Cinema, il Fumetto, la Televisione. Impreziosito da un intervento in esclusiva per il pubblico italiano di Tim Jacobus, l’artista cult delle storiche copertine di Piccoli Brividi, questo libro si propone di porre l’attenzione su un Maestro dell’horror ancora troppo poco esplorato dalla saggistica italiana.

Cover di Giorgio Finamore.

TitoloR.L. Stine – Piccoli Brividi, Fear Street e altre scary stories
Autore: U. Mentana
Editore: Weird Book
CollanaRevolution
Genere: Saggio
Pagine: 180
Prezzo: 25,90 €
Formato: 15 x 22 cm
ISBN: 978-88-31373-89-0
Data di uscita: 31 gennaio 2023

In Narrature

Di che sa l’inverno

di Azzurra De Paola

La persona che odio di più al mondo e in generale nella vita è la postina: ha una brutta faccia ed è portatrice di sventure; la postina non mi piaceva nemmeno quando mi piacevano ancora le cose. Perché prima mi piaceva qualcosa, non tutto ma molto, quello che riconoscevo, quel fuori simile al dentro ed aveva un senso.

Ora invece riconosco poco, quasi tutto è significativamente estraneo, come essere sul mondo ma essere atterrata qui due giorni fa da un’altra galassia, più o meno, pur tenendo conto che non ho idea di come sia venire da un’altra galassia e nemmeno da un altro pianeta, perché il massimo che sono riuscita a fare in questa minuscola vita è stato cambiare continente, cosa che gli antropologi oltretutto non vedono tanto di buon occhio perché ogni volta che masse di esseri si spostano da un posto all’altro portano con sé specie infestanti, malattie e ossessioni del paese d’origine, e per questo poi alla fine siamo tutti pazzi allo stesso modo e ovunque ci prendiamo la candida se andiamo col primo che passa, che poi è un peccato. Insomma, prima ci tenevo, appartenevo, anche poco, e ora neanche quel poco perché non riconosco più il fuori e niente mi somiglia, per quanto mi giri, e mi giro tanto, diecimila volte su me stessa fino a vomitare o a cadere per terra, purché qualcosa significhi. Invece niente. È cominciato il natale che ho avuto la bronchite, credo, anche se la bronchite a natale spesso è un cliché. Cerco di evitare sempre i raffreddori di febbraio o l’antistaminico di aprile, le nausee mattutine o il consumismo di inizio dicembre, le paranoie ecologiste dei verdi e tante altre cose che normalmente si fanno e nessuno ci fa caso perché le fanno anche gli altri. Ecco, io non le faccio, e ci vuole anche una certa conoscenza approfondita delle abitudini socio-culturali delle persone per fare il contrario, non è per niente facile come molti credono, anni e anni di studio, osservazione sul campo e simili. Però la bronchite di quel natale non me l’ha tolta nessuno, perché si sa che la vita se ne frega degli ideali, delle ideologie, dei fanatismi e di come uno si era pianificato che dovessero andare le cose. Anzi, ci vedo una sorta di accanimento e di godimento sarcastico nel modo in cui la vita se ne fotte sistematicamente delle regole e dei programmi e delle speranze di tutti, per questo in fondo la vita mi piace e quando c’è stato da scegliere se vivere o morire ho optato per la prima; non per quella sorta di scelta scontata che fanno tutti, del tipo: ok ormai sono viva, tanto vale vivere. No, più una scelta cosciente, la decisione quotidiana di non morire nei modi più stravaganti e originali (chi di noi non sogna una morte col botto?) solo perché life’s a bitch, e questo non me lo perderei per niente al mondo, nemmeno per la tentazione, forte, di stupire tutti e morire in modo improbabile ad un’età ridicola. Neanche questo è stato facile ma so essere determinata, talvolta. Quando ho preso la bronchite, quel natale, è stato così banale che non l’ho detto a nessuno, nemmeno al dottore che, come mia madre, è sempre l’ultimo a sapere le cose. Non mi piacciono le personalità giudicanti né tantomeno quelle sinceramente preoccupate. Perciò mi sono tenuta con pazienza e rassegnazione la tosse e il raffreddore ed è stato quello il momento in cui, il giorno dopo averli comprati, ho buttato tutti i mandarini. E sì che se li ha comprati chissà che figura ci fa San Nicolaus con i bambini, mi sono detta mentre rovesciavo la casetta di legno nel sacchetto dell’umido. Li ho buttati tutti. Poi ho buttato: le fragole perché non era stagione, i crostini all’aglio perché forse li avevo aperti da troppo e avevano perso la fragranza, una scatola di cioccolatini del discount che, si sa, non sempre hanno il sapore che ci si aspetta. Ma è stato quando stavo per buttare la tisana alla cannella che ho iniziato a sospettare che qualcosa non andasse. La tisana alla cannella ha sempre avuto lo stesso sapore da quando la compro e presumibilmente ce l’aveva anche prima che la comprassi. Al primo sorso il mio cervello era lì lì per sentirsi che aveva sapore di cannella, che è il sapore di cannella che tutti conoscono, era sul punto di sentirlo, o almeno io credevo che fosse sul punto di sentirlo perché diamo sempre per scontati i sapori delle cose che conosciamo, e invece sapeva di acqua calda che non sa di niente. Ho allontanato la tazza dalla bocca e ho riflettuto con aria impegnata. Per sicurezza ho bevuto un altro sorso e anche lì il mio cervello è stato vicinissimo a sentire il sapore di cannella che conosce così bene ma non ce l’ha fatta. La seconda volta è stato castrante, come cercare di avere un orgasmo senza riuscirci, che ti resta dentro inespresso e fa male. Come quando non ti viene una parola che ti serve subito. Come quando (ognuno finisca la frase come vuole). Acqua calda, e ditemi cosa c’è di peggio. Ho rovesciato la tisana nel lavandino con rammarico perché è un piacere non solo legato al gusto ma anche al riscaldarsi, al sentirsi a casa, al gusto dell’inverno. Un effetto domino di emozioni negate. A quel punto ho capito perfino io che qualcosa non stava andando nel verso giusto. Ho iniziato ad infilarmi in bocca di tutto: limoni, olio di semi, grani di bicarbonato. Niente, tutto uguale. Il macinato di caffè come leccare la polvere da terra, una fetta biscottata come mangiare un cartone di Amazon. Il pranzo di natale un disastro: non distinguevo l’insalata dall’involucro dei cioccolatini e la lasagna aveva lo stesso sapore del vomito del cane. Quello che riuscivo a distinguere con chiarezza erano il salato, il dolce, l’amaro. Questo lo capivo, capivo che la torta è dolce mentre le arance sono acri, questo sì. Ma poi riuscire a trovare nel mio cervello il loro sapore era tutt’altra cosa. Non me lo ricordavo, lo sapevo, sapevo di saperlo, il mio cervello sapeva di averne memoria ma non lo ricordavo. Non ero nemmeno più sicura di avere fame. Mangiare era diventato una specie di gioco: la matita è legnosa, il miele è come il moccio, il passato di verdure solo se hai una cisti in gola altrimenti non c’è ragione di mangiarlo, per non parlare dei fagioli o dei ceci, come mangiare blatte, croccanti fuori e farinosi dentro. I cetrioli usateli per come vi hanno insegnato le nonne, è meglio. Ma è stata la notte di capodanno a determinare la profonda frustrazione: stanca ormai di non mangiare ed esaurita la curiosità per oggetti improbabili come pietre, plastica, bulloni, dopo giorni di vomito e crampi alla pancia, dopo aver ingoiato lo zucchero a velo del pandoro con tutta la bustina di carta, non sapevo che direzione prendere per il nuovo anno. Mi piace avere buoni propositi e pormi obiettivi irrealizzabili. Perciò alla fine, mentre ascoltavo buon blues in una città piena di anima, ho bevuto una bottiglia intera di champagne perché aveva lo stesso sapore dell’acqua del water, parlo per esperienza. Il fatto che non si sentano i sapori manda in tilt molti altri istinti elementari, quello della fame l’ho già detto, e anche altri che adesso non so esprimere a parole ma comunque non funzionano: tipo io che mi attacco alla bottiglia la notte di capodanno con tutti i maniaci che ci sono in giro e che non aspettano altro che trovare una come me. La festa è stata leggera e allegra nonostante il rischio concreto di coma etilico. Guidi tu?, mi chiede l’amica alcolizzata ma le dico che ormai non posso fare la parte dell’astemia, forse se me l’avesse chiesto qualche ora prima. A quel punto ognuno prende la propria strada, andiamo tutti via da soli perché è la vera natura degli uomini, l’illusoria comunione di dna e idee innate è posticcia e comunque ci crede solo qualche comunità primitiva del Togo. Per noi borghesi bianchi eterosessuali è più facile accettare che Babbo Natale esista e che adesso invece della letterina basta mandargli un whatsapp. Andavo per la strada interrogandomi sui meccanismi che regolano il desiderio di cibo e di come differisca dalla fame effettiva, quando finalmente si decide ad avvicinarsi un maniaco, che poi non era nemmeno un maniaco. Ma esistono ancora? Si avvicina questo uomo belloccio e insignificante che mi fa domande d’altri tempi su come mi senta, che poi a lui cosa importa, e gli chiedo che finché respiro direi che ho tutto sotto controllo ma non sembra convincerlo, a me questi altruisti del rimorchio mi fanno venire la tosse o il prurito, la tosse e il prurito insieme, la nausea, i giramenti di testa, ah no, quello è lo champagne. Credo di aver bevuto troppo, dico. Non bevo mai non sono  quel tipo di donna, dico. Lo dicono tutte?, chiedo. Lui mi prende sotto braccio. Vuoi violentarmi?, chiedo, no, risponde ma alla fine chi è che ammette una cosa del genere. Poi ci penso: perché no, scusa? Non sono quel tipo di uomo, dice. Allora sono brutta, replico. No, mi assicura ma questo è un altro genere di cosa che nessuno ti dice in faccia. Domani andrai in palestra a dire ai tuoi amici che hai aiutato un cesso di ubriacona ad attraversare la strada, dico. Non vado in palestra, risponde ma chi è che non va in palestra di questi tempi. Però se ci andassi lo diresti?, insisto. Non sono uno che violenta le donne e che si vanta con gli amici, sentenzia. Non ho mai conosciuto qualcuno che mi abbia fatta sentire così brutta. All’improvviso lo odio, gli auguro ogni male, mi allontano dal suo braccio vestito in modo ordinario e vaneggio qualcosa sull’andare a cagare ma meno volgare. Tipo: vai a caxxre anche se è sempre difficile rendere le censure a voce. Viene fuori qualcosa tipo vai a ca()are con una pausa tra le vocali “a”. Brutto pezzo di mexxa che diventa brutto pezzo di me()()a. Cose così. Bastardo lo dico fingendo di starnutire. Lo facevo anche io al liceo, mi urla da lontano. La smetti di seguirmi?, gli dico piantandomi in mezzo alla strada. Pensavo di seguirti fino ad una strada fuori mano e poi violentarti così domani posso iscrivermi in palestra per raccontarlo a qualcuno, dice senza espressione. Ci penso su. Ok, dico facendo spallucce e ricomincio a camminare. Lui mi segue a debita distanza, come ci si aspetta da un maniaco. Cammina con quel suo giaccone borghese, di un blu da impiegato d’ufficio, con le braccia dietro la schiena, è carino ma banale, attraente ma ordinario. È solo a quel punto, accertata la sua ordinarietà, che mi giro e gli dico puntando l’indice verso la sua faccia comune: di solito sono l’amica che guida. Si ferma e non replica, non ha espressione, non è. Così insisto: non sento i sapori e mi sono bevuta una bottiglia di champagne come se fosse acqua. Forse stavolta un po’ si meraviglia che sia ancora viva ma non ribatte. Odio la gente che non si lascia coinvolgere, la amo, mi fa impazzire. È già la mia cosa preferita del nuovo anno. Mi avvicino. Sento il dolce, l’amaro, il salato… sussurro sulla sua bocca. L’umami, sussurra lui sulla mia. Non ho mai conosciuto qualcuno che dica le m bene. U-m-a-m-i, scandisco. Ci baciamo bene come solo due sconosciuti possono fare, la sua lingua è morbida e consistente, scivolosa, liscia, insapore, come leccare una rana però calda. Una lumaca appena tolta dalla padella. In fondo una lingua non l’ho mai assaggiata, e a dirla tutta nemmeno una lumaca però a pensarci bene, ora che siamo qui, visto che mi è capitato, non vedo momento migliore per fare entrambe le cose. Dopotutto si sa che bisogna sempre avere qualche nuovo proposito per l’anno nuovo, e comunque non credo che avrei il coraggio di farlo una volta ripreso il controllo dei miei sapori. Non sono quel tipo di donna.

In Sesto Potere

Audiolibri: i pro e i contro di questo nuovo modo di fruire la lettura

di Ilaria Orzo

Come abbiamo già potuto vedere, gli audiolibri sono ormai più che diffusi. Nonostante questo, non tutti sono ancora realmente convinti che utilizzarli possa essere vantaggioso. Infatti, sebbene siano sempre di più i lettori che si affidano a piattaforme come Storytell e Audible, per citare le più famose, sono tanti anche quelli che continuano ad accostarsi a questa modalità di lettura con diffidenza e, talvolta, ostilità.

Da che parte sta la ragione? Ovviamente, non può esistere una risposta valida in termini assoluti: le esperienze di lettura sono assolutamente personali e individuali. Possiamo, però, provare a individuare i pro e i contro della “lettura ascoltata” per avere un quadro generale più completo e capire se può fare al caso nostro o no.

Indubbiamente, i vantaggi che si traggono dall’audiolettura sono numerosi e molto significativi.

Per prima cosa, sfruttare gli audiolibri significa ottenere un notevole risparmio da due punti di vista: lo spazio e il denaro. Materialmente parlando, gli audiolibri non sono voluminosi, tutto ciò che occupano è una parte di memoria dello smartphone o tablet, su cui è necessario scaricare l’applicazione associata alla piattaforma. Dunque, non si corre il rischio di ritrovarsi sepolti in casa a furia di comprare libri; siate onesti: sebbene il sogno di tutti i più accaniti lettori sia quello di avere una casa che ricordi anche solo vagamente quella di Umberto Eco, la realtà può essere ben diversa. Ma anche dal punto di vista economico il risparmio è palese: un abbonamento mensile ad una piattaforma per audiolibri ha, in media, il costo di un libro cartaceo in versione economica. Allo stesso prezzo, quindi, si potrà accedere ad un numero infinitamente superiore di titoli: non male.

Ma non è tutto. Gli audiolibri consentono di leggere in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, come si fa quando si ascolta la radio o un album musicale: che ci si trovi a letto, ai fornelli, in auto, sull’autobus, al parco o sotto la doccia, non è importante. Questo punto a favore convince soprattutto i pendolari e coloro che, per un motivo o per un altro, non riescono a fermarsi se non alla fine della giornata, quando ormai sono troppo stanchi per leggere e possono dire addio ai libri abbandonati per mesi e mesi sul comodino prima di essere conclusi.

C’è poi un vantaggio assai pratico. Quando si hanno uno spazio limitato a disposizione e un portafoglio con cui dover fare i conti, si è costretti a scegliere quali volumi acquistare e quali no. Potendo accedere a una libreria virtuale molto vasta e potendolo fare ad un costo fisso, invece, ci si può concedere di ascoltare anche quei libri che sappiamo destinati a non stravolgere i nostri interessi e non avranno un posto speciale nel nostro cuore, ma che comunque suscitano la nostra curiosità: l’abbonamento è comunque pagato, tanto vale approfittarne.

L’ultimo vantaggio che abbiamo individuato, invece, colpirà sicuramente i lettori più romantici e sognatori. Se è vero che c’è un libro giusto per ogni umore e ogni situazione, infatti, è anche vero che non è possibile avere la propria libreria fisicamente sempre con sé e, quindi, ci sono delle situazioni in cui la lettura da fare potrebbe rivelarsi obbligata e, per questo, poco piacevole e partecipata. Pensiamo, ad esempio, ad un viaggio: la scelta delle letture da portare con sé viene fatta con anticipo, ma chi ci assicura che i libri che al momento del fare la valigia ci sembrano interessanti e adatti siano gli stessi che vorremo leggere anche una volta giunti a destinazione? Certo, si può sempre correre ai ripari provando a raggiungere una libreria e comprando qualcosa di nuovo, ma non è detto che questo sia possibile. Sfruttando gli audiolibri, invece, il problema non si pone: basterà sfogliare il catalogo e scegliere la lettura che ispira il momento, senza neanche il rammarico di aver occupato invano spazio in valigia.

Insomma, i punti a favore sono davvero tanti e tutti molto importanti. Ma, se qualcuno non è ancora del tutto convinto, un motivo forse c’è. Anzi, più di un motivo.

I primi “contro” individuati sono di carattere pratico. Innanzitutto, bisogna tenere conto del fatto che il telefonino e il tablet possono scaricarsi in qualsiasi momento, e non è detto che si sia nelle condizioni di poter ricaricare il dispositivo; in quel caso, si dovrebbe forzatamente interrompere la lettura in ascolto, magari proprio sul più bello. Un libro cartaceo, invece, è sempre pronto all’uso.

Inoltre, mentre con un volume tra le mani è semplice ritrovare l’eventuale segno perso o una frase che ha colpito particolarmente, con un audiolibro è un qualcosa di meno immediato; non impossibile, certo, ma meno immediato. Anche rimandando indietro l’audio, infatti, ci potrebbe volere un po’ di tempo prima di individuare il punto esatto che si sta cercando: questo significa che la soglia dell’attenzione durante l’ascolto deve essere sempre alta.

Le altre perplessità, invece, sono più “romantiche” e legate al valore che l’esperienza della lettura ha per ciascun individuo.

Un audiolibro non permette di sottolineare le citazioni più belle e i passaggi che si ritengono più significativi. Tra i lettori, quella della sottolineatura è una pratica molto comune e spontanea, l’espressione di un legame con il libro che si ha tra le mani e del processo di empatia. E questa, per qualcuno, è una pecca da non poter ignorare.

Altri, invece, puntano il dito contro l’influenza che si può subire concentrandosi sul tono di voce del lettore. Chi legge il libro conosce già la storia che sta per raccontare e, dunque, adegua il tono di voce non solo al personaggio che interpreta, ma anche ai fatti narrati. Questo, sebbene aiuti a sentirsi coinvolti, a volte può fungere da rivelazione circa ciò che sta per accadere: un tono di voce che diventa improvvisamente più grave, ad esempio, non lascia presagire nulla di buono. Insomma, più che una lettura, ci si sente quasi di fronte ad film di cui si può ascoltare solo l’audio.

Infine, quello di cui i lettori più incalliti sentono più la mancanza quando approcciano agli audiolibri è la possibilità di vivere in prima persona i loro amici più preziosi: l’odore della carta, la delicatezza delle pagine a contatto con i polpastrelli, il vedere i volumi posizionati l’uno accanto all’altro in quell’ordine che si è scelto con tanta cura e quella sensazione di sicurezza che riescono a trasmettere sanno essere insostituibili.

Come dicevamo all’inizio, è impossibile schierarsi da una parte o dall’altra: tutte le motivazioni per apprezzare o disdegnare gli audiolibri sono valide e assolutamente soggettive, proprio perché soggettiva è l’esperienza della lettura. E, comunque, è bene tenere a mente che una cosa non esclude l’altra: i cartacei e gli audiolibri possono essere alternati in base alle necessità e alle voglie del momento, nessuno ci obbliga a fare una scelta. L’importante è leggere, in qualsiasi modo si preferisca farlo.

In Sesto Potere

Siamo ancora nazionalpopolari (ma Gramsci non c’entra: c’entra Pippo Baudo) – II e ultima parte

di Antonio R. Daniele

Con gli ultimi mondiali Mamma Rai ha tentato di giocarsi il jolly, anzi due, e ha portato al microfono e dietro le telecamere due prodotti eccentrici rispetto alla tradizione, nella persuasione – evidentemente – che ormai il racconto del calcio debba andare in una certa direzione. Ed ecco Daniele Adani e la BoboTV, il primo portabandiera della narrazione da bar sport (per quanto mescolata a un atteggiamento da nerd della materia), la seconda frutto dell’autogestione nella giungla della rete che, come tutte le giungle, ha la propria scimmia urlatrice e sulla quale parole non ci appulcro. Quanto ad Adani, invece, è accaduto qualcosa di strano, ma fino a un certo punto: l’Italia calcistica e non solo lo ha messo sotto processo, rimproverandogli il fanatismo del calcio sudamericano, soprattutto quello di lingua ispanica, nell’incrocio tra Argentina e Uruguay. Il neopaganesimo adanico – lo sappiamo – si traduce nella commossa idolatria per Messi e per tutto quel che con lui ha a che fare. Più estesamente, con tutto ciò che viene dall’altezza cosmogonica del Rio de la Plata. E così, ad ogni alito platense, si udiva al microfono il ruggito del nostro eroe, nelle pasticciate (e spesso inventate) catene semantiche di una millantata e improbabilissima cultura argentino-uruguaiana (“uruguagia!”, mi rimbrotterebbe Danielito da Correggio, dall’alto del suo culatello della Pampa). E, per quella approssimazione che solo i governativi della tv sanno avere, gli strepiti virulenti e naïf di Adani sono stati accostati alla sobrietà asburgica del bolzanino Bizzotto, il quale ha dovuto sacrificare la sua notevole competenza nell’arte della telecronaca per non apparire troppo fuori luogo rispetto ai fragori di Adani che intanto latrava dalla sua cabina-barrio. Dopo le prime telecronache, è scoppiata la polemica: Adani è inascoltabile, è troppo “tifoso”; è inaccettabile che faccia telecronache sulla rete di Stato, ha sentenziato il popolo del web, tra un post e l’altro. Cosa davvero curiosa, a pensarci. Prima di tutto perché l’Adani che i nostri timpani hanno udito nelle settimane passate è lo stesso Adani che ha imperversato su Sky per anni e anni; in secondo luogo perché il popolo del web – che si presume non avere l’età media di coloro che sono nati alla tv con Pippo Baudo e Mike Bongiorno – non solo dovrebbe conoscere i vezzi di certi commentatori, ma con buona probabilità ha un abbonamento a una delle piattaforme dello sport a pagamento. Dunque, da dove vengono tanta meraviglia e tanta insofferenza?

Forse il popolo del web non è poi così piegato alle regole dell’odierno calcio mediatico e, magari, nonostante la passione, dovendo scegliere preferisce comprare un maglione in più ai propri figli che pagare per vedere pettinatissimi damerini appresso a un pallone; forse c’è chi pensa che quel che vale in un contesto non possa o non debba valere in un altro e si reagisce come con l’amico compagnone che in casa di estranei condivide le stesse gag che usa con i suoi amici di sempre: scatta la gelosia e se ne parla male. Forse c’è ancora una discreta fetta di pubblico legata alla tv di Pippo Baudo o cresciuta sulla base di certi fenomeni culturali: sono quelli che passano più tempo davanti al teleschermo, che affondano col corpo nella poltrona e cercano il telecomando che si è andato a infilare tra il cuscino e la mantella. Ed è accaduto che una delle più note voci del commento tecnico italiano – a torto o a ragione –, uno dei nomi mediaticamente più sfruttati e celebrati, è stato ripudiato dal pubblico della tv in chiaro, che è ancora quello che genera “l’opinione pubblica”, perché non è volatile e liquido come quello che paga gli abbonamenti o smanetta in rete. Il pubblico dei ballerini sotto le stelle e delle cronache in diretta, degli “accendiamo”, dei pacchi, doppi pacchi e delle ghigliottine è ancora vasto. Ed è ancora quello che decreta i destini di dirigenti e direttori di rete. E non è bastato il clamore sorto attorno a certe telecronache per far sì che le ragioni del richiamo reclamistico (“chissà cosa dirà Adani in finale commentando Messi”, si chiedevano in molti) avessero la meglio sul profilo dell’azienda e sugli accordi fatti a monte: nessuno se l’è sentita di negare ad Alberto Rimedio e Antonio Di Gennaro la telecronaca della finale per promuovere i ringhiosi rintroni di Adani, specie dopo che i due dovettero dare forfait per quella degli europei, vittime del Covid proprio alla vigilia. Certo, altrove se ne sarebbero infischiati. Anzi, altrove Rimedio e Di Gennaro non potrebbero sperare di commentare nemmeno la finale di un torneo di scopetta. Non ce ne vogliano: Adani è certamente improponibile nelle sue arringhe calienti ad ogni mossetta di Messi, ma la coppia di punta della Rai è coinvolgente quanto due cacciatori di iceberg. Sta di fatto che certi fenomeni non sfondano sulla tv di Stato, dove va ancora molto di moda il “popolare” inteso esattamente come quello che Enrico Manca credette di rimproverare agli italiani più di trent’anni fa, quando si lamentava del fatto che amassero Baudo e la Carrà. Chiamò “nazionalpopolare” quel fenomeno (scatenando le ire del presentatore siciliano) e qualcuno pensò a Gramsci, a finissime analisi di ordine socio-storico. No: era solo la constatazione che la fiamma resta più facilmente accesa quando è lenta ma costante, piuttosto che alta e guizzante. Che il modello Baudo tira ancora più di Adani: appiattire, modellare, livellare su comode certezze, rassicuranti come una balia. In barba a tutte le garre charrue e a tutti i cammelli dribblati nel deserto.

(qui la I parte: https://www.letterazero.it/siamo-ancora-nazionalpopolari-ma-gramsci-non-centra-centra-pippo-baudo/

In Sesto Potere

Siamo ancora nazionalpopolari (ma Gramsci non c’entra: c’entra Pippo Baudo) – I parte –

di Antonio R. Daniele

Mentre al cospetto di un emiro sbalordito non più che compiaciuto Emiliano Martínez compiva le sue prodezze priapee (Mérimée diceva che “la storia, come un idiota, meccanicamente si ripete”: ecco, se Messi è il predestinato come Maradona, di questa massima il portiere argentino è solo l’idiota), pensavo che quasi trent’anni di tentata rivoluzione mediatica, di sconvolgimenti televisivi, di albe di nuovi giorni, in Italia non sono serviti a nulla: dalle nostre parti è ancora la terna poltrona-pantofola-telecomando a dettare legge. E il telecomando che va per la maggiore è ancora quello cantato da Arbore molti anni fa. Il “popolare” sta ancora lì: tra il telegiornale e il quiz. E tutto quello che prova a mettersi in mezzo finisce come nelle crisi di rigetto di una operazione chirurgica mal riuscita. I recenti mondiali televisivi Rai ne sono stati l’ultima e, forse, definitiva conferma (per inciso, avrete notato che, quando l’Italia non si qualifica, Mamma Rai ci offre il pacchetto intero; altrimenti un malloppetto di partite scelte, chiaramente le più noiose, tra le quali quelle della Nazionale. Tuttavia, c’è di buono che, con questi chiari di luna, possiamo legittimamente sperare nella All Inclusive anche per il 2026). Siamo televisivamente conservativi, anzi retrogradi. E lo siamo con un certo grado di orgogliosa fierezza. Quando nella primavera del 2012 il Digitale Terrestre si spalmò su tutto il territorio nazionale, completammo il celebre “switch-off” con soddisfatto slancio tecnologico: mai più interferenze, una offerta molto più ampia, un palinsesto infinito. Soprattutto, giungeva la grande novità del canale tematico: chi ama il cinema avrà i suoi canali, chi ha bimbi in casa (anche di 40 anni) ne avrà altri e i fanatici dello sport potranno passare 24 ore al giorno su spazi televisivi appositamente dedicati. E così la Rai, che misurava il polso del Paese e sapeva che siamo un popolo di poeti, di navigatori, di santi, di eroi ma anche di lettori della Gazzetta dello Sport che fingono di leggere Proust, aprì non uno ma due canali per lo sport, al 57 e al 58 del Digitale Terrestre. E sembrò a tutti l’inizio di un’altra era: finalmente coloro che consideravano una seccatura dover aspettare un film, un varietà, un quiz, le previsioni del tempo e il telegiornale prima di vedere il grande evento sportivo avevano non uno ma addirittura due canali sui quali la nostra tv di Stato ci avrebbe garantito tutto lo sport in diretta e in chiaro. Quello che vedevamo a spizzichi e bocconi tra un canale e l’altro, quello che intercettavamo tra le pieghe del palinsesto stantio della vecchia tv generalista sarebbe stato spazzato via dalla mirabolante offerta televisiva del 57 e del 58. Ebbene, a dieci anni di distanza si può dire che la rivoluzione è stata mancata. Del tutto. E non soltanto perché coloro che ingenuamente credevano che il 57 e il 58 sarebbero stati il faro di fatti sportivi destinati ad entrare nella storia hanno ben presto capito che la maggior parte del palinsesto sarebbe stato occupato dal curling, dal biliardo (nelle funamboliche varianti della carambola o del pool o dello snooker) e dalle repliche della Domenica Sportiva dei tempi di Alfredo Pigna, ma anche perché gli eventi di maggior richiamo avrebbero riguardato al massimo il calcio della serie C e, quando andava di lusso, un po’ di pallavolo e di pallacanestro. E soprattutto, perché i dati Auditel dicevano che gli italiani non si abituavano e non si volevano abituare al criterio del canale tematico, che riscuoteva un successo modesto, tanto che un paio di anni fa Rai Storia, Rai Movie e Rai Premium hanno rischiato il taglio. Quanto allo sport, lo scarso appeal dei nuovi canali ha riguardato non soltanto il tempo, diciamo così, “ordinario”, ma anche le occasioni dei grandi appuntamenti sportivi. Da quando esiste il DT, abbiamo avuto – solo per restare al calcio – tre campionati del mondo e tre campionati europei: nessuno di essi è stato trasmesso sui canali tematici. La Rai ha preferito offrirli sulle reti ammiraglie/generaliste. O, forse, col tempo ha compreso che i suoi utenti più fedeli, quelli che garantiscono gli ascolti e, quindi, gli inserzionisti che pagano meglio, non stanno sul 57 e sul 58, ma ancora sul “primo” e sul “secondo”. E anche un po’ sul “terzo”. Col risultato, però, che con gli anni Rai Sport 2 è diventato il canale SD rispetto all’altro, passato in alta definizione, fin quando è servito soltanto come riempitivo, per repliche di repliche o per il freestyle e il ciclocross (con tutto il rispetto che si deve, non proprio eventi di portata mondiale) e ora non esiste più: nel piano di riorganizzazione, l’azienda ha dovuto alzare bandiera bianca e riconoscere che quei due canali tematici per lo sport, nati dal convincimento di poter sollecitare la passionaccia degli italiani, creduti esperti di pallone come di polo e di cricket, erano troppi ed erano una spesa inutile. Per cui ora ne abbiamo uno solo che, nel momento in cui scrivo (e da stamattina), sta trasmettendo in esclusiva le repliche del mondiale senza soluzione di continuità. Naturalmente in tutto questo hanno pesato trent’anni di pay tv, da Tele+ a Sky a Dazn, che hanno inciso sia sulle dinamiche di fruizione dello sport più popolare sia sulla sua narrazione. Hanno inciso anche su alcune abitudini degli italiani che parevano eterne: se oggi un ventenne non sa e non è in grado nemmeno di immaginare cosa sia stato il Totocalcio e la “schedina”, cosa volesse dire “montepremi” e fare un “tredici”, lo si deve al fatto che i diritti televisivi ci hanno privato di uno dei cardini della storia mediatica del nostro calcio, ossia la simultaneità dell’intera giornata di campionato. Il 29 agosto del 1993 il primo posticipo ci parve un po’ una bestemmia, un po’ un fenomeno destinato a non durare e al massimo la concessione fatta dalla intoccabile domenica pomeriggio. Fu, invece, uno scisma. Perché a quel primo dogma infranto seguirono molti altri fino alla situazione attuale in cui praticamente si gioca tutti i giorni e a tutti gli orari tranne la domenica pomeriggio. Così il Totocalcio, che fondava la sua fortuna sulla possibilità di incolonnare 13 pronostici esatti fino al sabato sera e all’ultima ricevitoria aperta, è affogato nello spezzatino delle piattaforme. E sono sparite (o sono in forte declino o si sono dovute “ripensare” se non proprio rivoluzionare) anche storiche trasmissioni. “Quelli che il calcio” ha resistito finché ha potuto: già molto cambiata rispetto alla rutilante versione di Fazio (indubbiamente la migliore) e passata a essere un varietà in cui il calcio era un pretesto (ma in cui il calcio esisteva ancora), è diventato un programma non più collocabile nel palinsesto perché anche quel minimo pretesto (almeno tre o quattro partite in programma la domenica pomeriggio) è venuto meno. “90° minuto” da tempo non è più il programma che dava le prime immagini e le prime trepidazioni agli italiani. Anche Mediaset ha dovuto rinunciare alla simpatica “corrida” di Piccinini e Mughini perché ben presto non ha avuto più senso allestire un salotto per parlare di partite giocate tre giorni prima e sulle quali avevano già detto tutto Caressa e i suoi accoliti, con giacca e senza giacca. E poi Mangiante, Trevisani, Marchegiani, Adani. E tutta la corte dei miracoli dei “Dilettanti” Dazn (intesi come Diletta e i suoi colleghi, ça va sans dire…), tra una storia e un reel.

(qui la II parte: https://www.letterazero.it/siamo-ancora-nazionalpopolari-ma-gramsci-non-centra-centra-pippo-baudo-ii-e-ultima-parte/)