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Antonio R. Daniele

In Narrazioni

La tela e la scrittura

di Anna Potito

La storia narrata dall’Occidente comincia con Omero e sui temi della sua narrazione, in particolare l’Iliade, la cultura occidentale ha fondato la sua storia e la tradizione del suo pensiero. Tutto comincia con un atto violento, il rapimento della bella Elena, regina di Sparta e moglie di Menelao, da parte di Paride, giovane principe proveniente da una città lontana, Ilio, nell’odierna Turchia. Un gesto violento che chiede vendetta e riparazione, e dà inizio ad una guerra che provoca una catena di morti e che distrugge non solo i vinti ma anche i vincitori. È la prima “guerra totale”, dice Hannah Arendt, una guerra che coinvolge popoli e nazioni di varie lingue e culture con alleanze e schieramenti contrapposti che distrugge non solo il mondo visibile degli oggetti degli uomini ma anche quello invisibile delle relazioni umane, una guerra, voluta e combattuta dagli uomini, che le donne implorando e piangendo avevano tentato di evitare. Una guerra cui gli stessi uomini, poi cantati come eroi, avevano tentato di sottrarsi, Achille travestendosi da donna in un gineceo, Ulisse fingendosi pazzo. Ma la guerra è un affare di uomini e alle donne si addice il telaio, il fuso, il buon funzionamento della casa. È la definizione dello spazio femminile, domestico, in disparte da quello degli uomini, a loro, alle loro gesta spietate si addice il mythos, la parola, il canto per tramandare la loro fama nei secoli. E le donne? In disparte dagli uomini tessono nella loro stanza, insieme alle ancelle, tessono e cantano, con un ritmo cadenzato su quello del telaio, tessendo la tela, tessono la vita, amministrano la casa, ma anche loro raccontano non con le parole: affidano alla tela un racconto muto delle vicende che altri costruiscono su di loro per loro. Un’arte tessile che diventa strumento per uscire dal silenzio, una sorta di scrittura ad uso femminile, anche questo destinato a restare e tramandare. Ce lo racconta proprio Omero che nel terzo canto dell’Iliade descrive Elena intenta a questa opera. Elena, rapita da Paride, si trova ormai a Troia, sposa di Alessandro Paride; gli Achei hanno riunito un grande esercito di vari popoli della Grecia, sono accampati nella pianura antistante la città di Ilio e la guerra infuria con grande spargimento di sangue e di morti. Tutti sono stanchi e la vittoria non arride a nessuno dei due schieramenti. Dopo molte discussioni Achei e Troiani vengono a patti e decidono di affidare le sorti della guerra ad un duello. Alessandro e Menelao, i due che si contendono la “preda”, si sfidino in una contesa a due, chi vincerà prenderà Elena e tutti i beni e gli Achei torneranno alle loro case. In questo momento di tregua Laodice, cognata troiana di Elena, si reca da lei per accompagnarla da Priamo, sovrano di Troia e padre di Alessandro Paride, sulla torre più alta della città per aiutarlo a riconoscere, lei che viene da Sparta, i guerrieri in armi nella pianura. La sorprende intenta al telaio. “La trovò nella sala: tesseva una tela grande, doppia, di porpora, e ricamava le molte prove che Teucri domatori di cavalli e Achei chitoni di bronzo subivan per lei, sotto la forza di Ares.” (Iliade, III, vv. 125-129). Elena, quindi, racconta la guerra ancor prima di Omero e degli altri cantori. In contemporanea. È questo il tempo del telaio che, come dice Adriana Cavarero “ritaglia un luogo femminile dell’appartenersi e disloca altrove l’ordine patriarcale frapponendovi uno iato impenetrabile”. Che quest’arte fosse importante e stimata lo dimostra sempre Omero nell’Iliade quando, descrivendo la gara tra Aiace e Odisseo durante i giochi funebri per Patroclo, usa questa similitudine “come al petto di donna dalla bella cintura è vicina la spola, quando la tira con le mani, ben forte, passando la trama attraverso l’ordito, e accosto al petto la tiene, così vicino gli correva Odisseo e coi piedi ne ribatteva le impronte” (Iliade, XXIII, vv. 760-765).

Che la tessitura fosse un mezzo di comunicazione importante e di riconoscimento lo conferma la tragedia di Eschilo, Le Coefore, seconda  della trilogia Agamennone, Coefore, Eumenidi, dove l’incontro di Elettra e Oreste presso la tomba di Agamennone consente ai due fratelli che per molti anni erano stati lontani dopo l’uccisione del padre Agamennone da parte della moglie Clitemnestra, madre di entrambi, di riconoscersi tramite tre indizi, una ciocca di capelli tagliata e deposta sulla tomba, le impronte dei piedi e, ultimo indizio determinante, una fascia tessuta e ornata da disegni. Alla sorella ancora incredula ed esitante Oreste ribatte: “guarda questo tessuto, opera della tua mano, e i colpi di battente e le figure di animali” (vv. 231-234).

In Schede

“Dostoevskij” – Miniserie, 6 episodi, di Fabio e Damiano D’Innocenzo, 2024 – Sky

di Umberto Mentana

Quanto è difficile rincorrere un fantasma, soprattutto se poi si fa chiamare “Dostoevskij” e sulle sue vittime martoriate dai segni e dai colpi lascia solo parole, lunghe lettere autoriflessive sul making of dell’omicidio appena compiuto? La miniserie dei fratelli D’Innocenzo (La Terra dell’Abbastanza, Favolacce, America Latina) si apre infatti con altrettante parole impresse sulla carta, frasi disperate e di sofferenza, quelle di Enzo Vitello (Filippo Timi), capo della polizia depresso e affogato dai suoi “demoni”.

Vitello è a capo dell’indagine impossibile, i suoi metodi non sono ortodossi, anzi, e pare non preoccuparsi più di tanto di arrivare a capo e alla soluzione perché in Dostoevskij siamo immersi fino al collo di una fitta coltre di grigio: tutt’intorno è paranoico, claustrofobico e i D’Innocenzo ce lo fanno capire bene con il loro stile visivo, particolareggiato e denotato dalla scelta di immagini che restituiscono una grana di transitorietà, di ineffabile cattura: respiriamo su più canali lo sporco di quel mondo ritratto, dalle soggettive che si concentrano ad analizzare per un istante solo singoli oggetti e dettagli sfuggenti, a continue riprese con la macchina a mano ed un uso fotografico che sembra uscire — appositamente contestualizzato — dalle immagini di filmati casalinghi di un’era pre-smartphone (non è un caso l’utilizzo della pellicola 16 mm), perché siamo distanti, molto distanti dalla perfezione dei filtri social e dalle ottiche HD: non abbiamo e non esiste tutta quella luce quando la giustizia non solo brancola nel buio ma è parte di quella asfissiante oscurità. Forse il risultato di quell’immondo deserto a cui noi assistiamo per tutti i sei episodi della miniserie è innanzitutto la conseguenza del trauma che Vitello cerca di combattere nel suo presente, ossia l’ambiguo e travagliato rapporto con sua figlia Ambra (Carlotta Gamba), tossica apparentemente insalvabile che cerca di riprendersi con rabbia un tempo perduto che non ha mai vissuto in maniera spensierata, quello della sua infanzia, e una relazione sana con la sua famiglia: ricordiamo per tutte la sequenza del parco giochi nell’episodio due della serie, carica di un disagio e di una tristezza davvero pesante, a cui segue negli episodi successivi la confessione di Vitello, che disturba e disorienta nel profondo.

            Con questa miniserie, un vero e proprio film lungo circa duecentosettanta minuti siamo più dalle parti di un Zodiac di Fincher (2007) in salsa nostrana, dove l’orrore risiede in un passato che ha smarrito le sue tracce e a cui è impossibile risalire; bisogna scavare a fondo, considerare e riconsiderare piste ed indizi improbabili, oltre ad una buona dose di inventiva e caparbietà ed infine pensare come il mostro; e non è detto che questo poi non divenga parte del tuo mondo. Dostoevskij forse è la storia di una Genesi malata, che nasce dagli odori della melma e dalle cuciture della carne di cui è pregna la solitudine di certe vite.

In Tu con Zero - Le interviste

“L’isola e il tempo” di Claudia Lanteri: tra scrittura e memoria

Intervista a Claudia Lanteri di Carmen Rampino

– E allora i racconti a cosa servono, se non servono a nulla?  […]

– A cosa servono i racconti non lo so. Vorrei poterti dire che è più sicuro affidarsi alla scienza, ma anche da quella mi sento tradito. A qualche cosa servono: è come se tu potessi metterti un paio di occhiali a fantasia per vedere il mondo in un modo nuovo, che non avevi previsto o calcolato.

– E poi che fai?

– E poi te li levi.

Lanteri 2024, p. 144    

Sicilia, fine anni Cinquanta. Su un’isola senza nome arriva un barchino con a bordo un uomo stremato e il cadavere di una donna: sua moglie. La piccola comunità dell’isola siciliana all’inizio è sconvolta: il naufrago porta con sé una storia misteriosa. Ben presto, però, torna la piatta monotonia della quotidianità per tutti, tranne che per il giovane protagonista de L’isola e il tempo. Per Nonò, in quel giorno la vita si ferma, o forse proprio da lì prende avvio. Per lui si verifica un episodio che rappresenterà per il resto dei suoi giorni una materia da raccontare a chiunque incrocerà il suo percorso, un’ossessione che lo porterà a riflettere su sé stesso, sulla sua anima, sul suo stare al mondo e sul senso della sua stessa esistenza. Può un giallo convertirsi in un giallo dell’animo di chi racconta? Può diventare una lente di accesso per scovare i più reconditi anditi della nostra interiorità? L’esordio narrativo di Claudia Lanteri ci dimostra che è possibile e che una voce potente come la sua, optando per gli ibridismi, per le sfumature, per le intersezioni e gli incroci, può rivoluzionare dall’interno un genere.

Claudia Lanteri con L’isola e il tempo ha scritto un libro che, andando oltre i canoni del giallo, parla del più antico e ancestrale bisogno degli esseri umani: le storie. Che cosa sono le storie? Perché si narra? Quale segreto nascondono? Da sempre le storie hanno rappresentato un’arma di difesa e un modo per spiegarsi la realtà, soprattutto quella apparentemente inspiegabile. E così è anche per Nonò: il racconto gli serve per spiegare la realtà, in modo particolare quella più dolorosa. E allora Nonò diventa una novella Shahrazād che narra e racconta per salvarsi. Il protagonista del romanzo continua a raccontare sempre la stessa storia a svariati interlocutori: ogni versione cerca di avvicinarsi di più alla verità. La raggiugerà mai? Il mistero verrà sciolto? Non ha importanza. L’unica certezza è l’urgenza del narrare. Narrare gli serve, perché solo con le parole si può affrontare un grande dolore. E allora se Nonò è imprigionato in un trauma, la narrazione rimane l’unico rimedio possibile per continuare a stare a galla. Non è solo una questione di volontà, ma di bisogno. Così il racconto diventa salvifico e mistificatorio allo stesso tempo, perché ogni volta che si racconta, si tolgono gli elementi che più turbano e fanno soffrire.

Con una lingua intarsiata di gemme preziose eppure naturale, mai di maniera, Lanteri ci dimostra quanto la scrittura possa avere un potere magico e orfico. Ed è proprio di questo che parla il suo romanzo: del narrare come ultimo baluardo di resistenza e speranza. E alla fine di tutto, spogliati di ogni orpello, denudati del superfluo e di ogni artificio, cosa ci resta? Solo la parola. Così il racconto diventa il faro che illumina le notti buie delle nostre esistenze. Se, però, la scrittura talvolta può rivelarsi anche solitudine, una conversazione può riscattarla e ricordarci l’intrinseca natura sociale della letteratura. Ed è così che è andata con Claudia, a cui siamo infinitamente grati non solo per l’opera che ha scritto animata da infinito amore, ma anche per il tempo che ci ha dedicato.

Ciao Claudia, grazie per la tua disponibilità e complimenti per il libro. Come hai maturato l’idea di questa storia? Qual è la sua genesi?

La storia è stata ispirata da un articolo di cronaca, ma poi il processo immaginativo, che nei casi più felici assume i tratti di una vera ossessione, prende il sopravvento e del fatto non resta che un pretesto. Il nucleo alla base della mia riflessione è questo: una persona dà la sua versione di un incidente, irrefutabile fino al momento in cui entra in scena un’altra persona, sopravvissuta all’incidente, che con la sua sola esistenza corporea smaschera la versione precedente come falsa. Senza quel ritrovamento, la ricostruzione della verità sarebbe stata antitetica rispetto alla realtà fattuale. Questo tema mi affascina molto e mi attira, come autrice: il quantificare col minimo margine di errore che cosa sia e come si determini la verità di un fatto, e cosa accade quando invece questo margine di errore si allarga. Senza la presenza corporea della persona sopravvissuta, la costruzione narrativa messa in atto dalla prima persona – colpevole, e responsabile del fatto tragico – sarebbe stata efficace, sarebbe stata riconosciuta come una verità dalla comunità in ascolto. Quale sarebbe stato lo scenario, in questo caso? Sono arrivata a una storia di giustizia negata, nella quale il personaggio protagonista sente il bisogno di addossare comunque su di sé il carico della colpa, pur essendone relativamente estraneo, e della verità, che intuisce pur non essendo creduto.

Uno degli elementi che colpiscono più a prima vista è la voce narrante: Nonò, che è prima un bambino e poi un adulto. Che personaggio è e dove, nella realtà, hai trovato Nonò, così dolce, tenero e potente? 

I personaggi non sono nella realtà. I personaggi appartengono a un mondo all’incrocio tra le esigenze della narrazione, un tono di voce verso cui andare alla ricerca assecondando la lettura di altre narrazioni, specifiche o frutto di felici incontri casuali, di ricordi d’infanzia, di parti di noi, di stati d’animo e, sopra ogni altra cosa, sono il frutto di una grazia impalpabile che, se fossi capace di definire in coscienza, non verrebbe a visitarmi più.

Che ruolo svolge l’isola in questo romanzo e nella tua vita?

L’isola è uno spazio in miniatura che racchiude dinamiche universali, è simbolo di confinamento ma anche di libertà. Sull’isola ogni cosa può essere ambivalente: il mare – ricchezza e pericolo mortale; il cibo – accudimento e asfissia; la fauna – simbolo di eterna rinascita come di fragilità e perdita; la comunità – centro di un controllo sociale asfissiante, sanzionatorio, ma anche sistema di relazioni e di accudimento. Per il protagonista del romanzo – Nonò, Nofriu, Onofrio, a seconda dei diversi periodi in cui si svolge la storia – l’isola è uno spazio in cui si può assecondare un grande bisogno di connessione con la comunità circostante, ma, talvolta, anche di esperire la solitudine, amica necessaria. Anche per me l’isolamento è stato il momento in cui ho potuto trovare la determinazione per scrivere, nei mesi del lockdown, quando ho dovuto sospendere il mio lavoro nel marketing. Per me è stata l’occasione di un reset.

Il libro ha un forte sapore metaletterario, quasi un pretesto per parlare dell’arte della narrazione e di come possa essere anche malleabile, fallace, così come la memoria. È così? Che rapporto esiste tra letteratura e memoria?

Sì, è così. Nofriu è un narratore ferito, che sviluppa il suo racconto intorno a una perdita, a un vuoto, di cui a tratti pare consapevole ma che più spesso si rifiuta di riconoscere. Questo significa negare l’interezza di ciò che è accaduto, e aggrapparsi alla speranza che le cose, a furia di essere raccontate, possano giungere a un finale diverso. Quasi riconoscendo un potere salvifico alla parola stessa. Credo che sia questa fiducia ad accomunare la letteratura e la memoria, e a distinguerla da altre forme di intrattenimento: la letteratura non si può ridurre a un punto di vista univoco, si compone sempre di un conflitto tra le parti. La narrazione non è altro che una selezione delle parti del discorso, che preferendone alcune ne esclude inevitabilmente altre.  Anche la memoria si muove sul filo di un simile meccanismo. Questo apre la porta al pericoloso margine di ambiguità di chi si fa custode del passato, della Storia, con la maiuscola. Le storie sono anche di chi è sconfitto, degli esclusi, di chi non può autorappresentarsi.

E in effetti questo discorso di riconfigurazione della verità è confermato dallo stesso Nofriu, il quale stabilisce un parallelo tra la fonte di lavoro della sua famiglia – il padre è uno “sponsaro”, che ripulisce la spugna naturale dei detriti, prima di poterci guadagnare – e il meccanismo attraverso cui con la memoria selezioniamo alcuni dettagli e ne escludiamo altri, per raccontarci una versione del passato meno dolorosa. Per l’organizzazione così complessa dei piani temporali e per i continui giochi tra passato e presente ti sei ispirata ad alcune fonti?

No, al contrario. Questa è la parte del romanzo che a me pare più inedita, una strada stilistica ancora non battuta. Anche rischiosa, come scommessa, dove la posta in gioco è la possibilità di confondere il lettore, di perdere la sua attenzione. La stessa percezione della voce narrante è spesso fraintesa: chi racconta, l’adolescente, l’adulto, più della somma tra i due? Desideravo lasciare al lettore la libertà di percepire lo scorrere degli anni, senza mai dichiaralo esplicitamente, come se anche il tempo fosse un piccolo enigma da risolvere. La pergola di Tina, il cimitero, le calette progressivamente più affollate di turisti, sono tutti luoghi che si trasformano nel corso del romanzo. Anche questo contrasto è voluto: l’isola è un crocevia di persone che vanno e vengono, mentre Nofriu rimane come imprigionato in un eterno presente. Eppure ci sono degli indizi per me inequivocabili del tempo che è trascorso, come quando il “nuovo” maresciallo spiega a Nofriu che suo padre, ammesso che fosse davvero in combutta con lo skipper Surico, non può essere accusato di nulla, perché «per la legge la condizione di defunto è incompatibile con quella d’imputato», o quando, in un rovesciamento del rapporto tra chi accudisce e chi è accudito che ci si aspetterebbe, è il figlio che imbocca la madre Angelina di zuppa di fave, perdendo la pazienza e sgridandola.

In un periodo in cui prevalgono le narrazioni basate su un io ipertrofico, tu scrivi una storia inventata. A pagina 305, sempre assecondando quel discorso metaletterario che porti avanti in tutto il romanzo, scrivi: «le storie sono storie, e se c’entrano con le vite di chi le ha scritte importa poco». Anche se importa poco, ci racconti cosa c’è di te nel romanzo?

Hai ragione, non importa cosa c’è di me. Penso che le storie delle quali non riusciamo a scordarci hanno il dono di dirci qualcosa sul mondo che ancora non sapevamo, o di dirci qualcosa che abbiamo sempre saputo, e dimenticato, con un timbro stilistico fresco. In questo processo è impossibile che l’autore sparisca: lo sguardo di Nonò registra alcuni cortocircuiti del mondo degli adulti che il suo racconto mette in luce come contraddittori, questi dettagli sono io, scrivendo, ad averglieli prestati. E non a lui solo, ma ad Angelina, col suo proto-femminismo, al professor Dalmasso, con il suo sguardo che giudica il meridione e la sua mentalità anti-scientifica, al maresciallo Bonomo e al suo disincanto della prassi, intesa come possibilità di incidere su un reale complesso, intricato, labirintico. Perfino Bruno Surico, con tutta l’avversione che ho cercato di trasmettere a chi legge attraverso lo sguardo sospettoso di Nonò, perfino lui a volte ha finito per incarnare punti di vista e giudizi sul mondo che sono anche miei. In un romanzo corale è limitante sforzarsi di trovare quale parte della storia rispecchi la visione del mondo dell’autore. È l’insieme che la rispecchia; meglio, è il percorso autoriale che si ha (se lo si avrà) la fortuna di intraprendere che costruisce la sua poetica/politica.

È sempre brutto farlo, ma se lo volessimo etichettare, penseremmo al giallo, forse al noir, persino alla storia di un’amicizia/amore estivo tra bambini. Eppure nessuna di queste etichette sarebbe appropriata. Per quanto gli elementi del giallo ci siano tutti, questo è un romanzo che non si lascia imbrigliare facilmente. È un fiume in piena che straripa da ogni margine e chiede libertà. È piuttosto la storia di un trauma e di un senso di colpa. È così? Inizialmente lo avevi partorito proprio come un giallo? Il giallo è un depistaggio?

Tutta la narrativa più interessante “straripa” e “chiede libertà”, come dici tu. Il genere è sempre un pretesto, e se c’è uno steccato, un libro riuscito deve cercare di superarlo, ricontestualizzarlo. L’isola e il tempo è un giallo nella misura in cui ci sono dei morti, delle piste, scienziati e inquirenti all’opera per giungere a una ricostruzione dei fatti. Io non l’ho mai considerato un libro di genere: e d’altra parte tutta la narrativa che mi interessa di più è ibrida, mescola i confini, gioca con sé stessa. In un certo senso il libro è anche un romanzo di formazione, sebbene fallita. L’intensità del rapporto con il personaggio di Mattia, la bambina che, con la sua fragilità e il candore del suo sguardo, insegna a Nonò l’alfabeto dei sentimenti potrebbe renderlo un romance. D’altra parte, io sono uno scrittore femmina, per qualcuno sarebbe una considerazione appropriata.

Interessante è anche l’idea di far parlare il protagonista con diversi interlocutori. Questo mi ha fatto pensare al teatro. Durante la lettura mi è sembrato proprio di avere tra le mani un monologo che poi di volta in volta si trasformava in dialogo con vari interlocutori. Mentre lo si legge pare di ascoltare direttamente Nonò parlare, anche il tono è colloquiale. Non hai pensato ad una trasposizione teatrale?

Non è ancora un progetto a cui qualcuno abbia cominciato a lavorare, ma di certo mi farebbe felice. I miei genitori erano attori per passione, vederli muovere sul palco fin da piccolissima è stato il mio addestramento nella gestione dei dialoghi: senza barriere di genere, anche lì, da Scarpetta a Pirandello a Verga. Il dialetto è una forma espressiva che concede molte libertà: affettive, sociali, etnologiche, ritmiche e musicali. Credo che dipenda da questo l’effetto mesmerico della lettura: il racconto di Nofriu è fatto di descrizioni immaginifiche, in equilibrio tra vividezza e ricordo, ma che ho sempre costruito affidandomi al senso del ritmo, attorno a nuclei sillabici, con un orecchio teso alla parola poetica. Quando scrivo sono immersa in questa ricerca di suono, mi isolo dalla realtà che ho intorno. Conta solo il ritmo da scegliere, la musicalità delle parole, e tutto il resto è distante, come fossi sott’acqua.

E la lingua è davvero un pregio notevole del libro. Grazie alle molteplici parole siciliane e ad una ricchissima proprietà di linguaggio, il lettore riesce a immergersi nella mente di Nonò e ad indossare le sue lenti, quelle che ti permettono di guardare il mondo solo come lo guarda lui e nessun altro. Senza poi parlare di espressioni meravigliose come «i suoi occhi sono colore dei ricci di mare» (p. 11) o «i suoi capelli del color di pozzolana» (p. 24) o ancora «i bei capelli lunghi che hanno il colore delle bacche di lentisco» (p. 37), perché lui conosce quella lingua là, quella dell’isola, del mare. Come hai lavorato sulla lingua?

Credo che lo stile del racconto influenzi i fatti di trama in modo strettissimo: la voce di Nofriu aveva esigenze specifiche, dovendo sottolineare, col suo mutare di tono, lo scorrere degli anni. In un presente che in apparenza tutto livella, si aprono qualche volta degli squarci di consapevolezza che il tempo è passato, con frasi all’imperfetto, al trapassato prossimo. Anche la lingua che ho cercato di costruire nel romanzo è mobile, prova a mescolare continuamente alto e basso, ma la vicenda è ambientata in un contesto molto umile, così frequenti sono i calchi o i prestiti dal dialetto, le varietà regionali, i racconti registrati dalla viva voce degli isolani, la saggezza di proverbi, preghiere, scongiuri, i miei stessi ricordi d’infanzia. Poi c’è la tradizione letteraria che più ho fatto mia: tra i conterranei, Consolo, Sciascia, Bufalino; tra i singoli testi, L’isola di Arturo di Morante, l’Horcynus Orca di D’Arrigo, Conversazione in Sicilia di Vittorini; ho cercato di ricordare l’opera di grandi autrici mai abbastanza lette Ortese, Deledda, Loy, Ramondino, tra le altre.

Si dice spesso che in un libro, soprattutto in un buon libro, ognuno ha il diritto di riconoscersi anche solo in una frase, un passaggio, una parola. Nel tuo libro a me è successo in maniera eclatante a pagina 30, dove ho trovato un’immagine che io applico sempre quando parlo del mio paesino collocato alle pendici degli Appennini. Scrivi: «Il paese era come una casa, una volta: lo sbarcatoio faceva da balcone, la strada grande da corridoio, a destra e a sinistra le camerette, tutte di un piano, con le tende di cannucciato alle porte e un piede di geranio che cresce nelle latte, né scontento né allegro. Cammino per le stanze del paese di quand’ero ragazzino e potrei andarci a occhi chiusi come di notte, tanto lo so a memoria; troverei anche a tentoni la porta per il bagno o il bicchiere sul comodino». I paesi, soprattutto quelli del Mezzogiorno, molte volte li abbandoniamo. Quando lo facciamo ci sentiamo sempre divisi a metà, tra il lì e il qui e si finisce per non ritrovare più la pienezza. Ma anche chi resta, come Nonò, in fondo rimane incompleto. È questo il destino di chi nasce in un piccolo borgo? Che ruolo hanno i paesi nel tuo immaginario?

Il bisogno di mettersi in movimento è un sentimento ben radicato in chiunque nasca al sud. Il paradosso è che oggi assistiamo a un processo di rimozione collettiva: dimenticando di essere stati poveri, dimenticando di essere stati migranti, molti membri dell’attuale classe politica vogliono serrare le porte della mobilità sociale, criminalizzando chi preme alle frontiere, tralasciando di rimuovere gli ostacoli che impediscono di esplorare differenti possibilità di futuro anche a chi non è nato nel migliore degli scenari possibili. Per questo collegamento, credo che l’aver scelto un’isola piccolissima per la narrazione che avevo in testa possa fugare eventuali accuse di retroguardia.

Ho lavorato quasi immediatamente sulla comunità: i paesi sono stratificazioni di dinamiche ancestrali, di cui siamo imbevuti. Peraltro, mi è capitato di vivere ovunque, dalle megalopoli alle frazioni: posso dire che oggi la prospettiva del rapporto centro-periferie è saltata del tutto: la mentalità più provinciale e bigotta è stata fatta propria dai poli di governo, perlomeno in Occidente, mentre nei luoghi più decentrati c’è spesso più spazio, tempo e energie per l’innovazione.

In conclusione, puoi raccontarci quindi qual è il tuo rapporto con la scrittura?

Per molto tempo scrivere, pensare il mondo in termini narrativi, mi è sembrato un modo naturale di essere, una seconda pelle: un vestito che tirava lo stesso, perché il mio modo di concepire la realtà –

testuale, linguistica – qualche volta assomiglia a una prigione. Nelle relazioni, affettive come professionali, mi sono spesso trovata a sovrainvestire energie, o sbaragliata dalla mancanza di risposte di senso credibili, o insoddisfatta dall’assenza di risposte non univoche o banalizzanti a sistemi complessi, inediti. In breve, ho a lungo cercato di riporre la mia capacità immaginativa in contesti che non la volevano. Quando ho avuto – o preso – la possibilità di convogliarla su un progetto di scrittura, ho sentito che l’attrito svaniva, che padroneggiare un universo complesso diventava un divertimento. Lavorare a una storia corale ti fa mettere in scena un teatro di punti di vista opposti, contraddittori. È una sfida, si rischia di essere fraintesi. Ma il rapporto di ascolto che si è creato con tutte le persone che nelle diverse fasi mi hanno dato uno spunto di riflessione, un consiglio di lettura, o indicato una svista, mi ha permesso di definire meglio i miei processi e i miei obiettivi, anche quando questi erano ancora a livello di fragili intuizioni. Scrivere è un atto molto solitario, ma non si può restare soli, scrivendo. La letteratura è un sistema di relazioni.

TESTI CITATI.

Claudia Lanteri, 2024, L’isola e il tempo, Torino, Einaudi.

In Schede

Recensione a “La frattura spontanea della simmetria”

di Matteo Caputo

C’è sempre un momento nella vita di ogni uomo in cui si è costretti a fare i conti con la propria mediocrità. Non una mediocrità assoluta, s’intende, perché nulla in un uomo, nemmeno il peggiore dei difetti, è assoluto. Ma semplicemente il senso inaccettato del limite. E questa sensazione non risparmia nemmeno Ulrich Borromini, protagonista di La frattura spontanea della simmetria.

Classe 1957, diplomato al conservatorio e laureato in filosofia, Borromini è un uomo di mezza età, sposato, depresso e, soprattutto, morto. Il che non sarebbe un problema, se non fosse per il fatto che è lui stesso a raccontarci la propria vita: ma la letteratura dà possibilità che la realtà non è in grado di offrire e giustamente Papagni ne approfitta per darci un esempio di ‘narrazione postuma’ (rubiamo l’etichetta a Riccardo Castellana), inserendosi in una lunga tradizione di autori che hanno dato voce a gente che non avrebbe più potuto averla.

Non a caso la prima parte si intitola Dopo che me ne fui andato. Siamo alla fine di aprile 2019 e il protagonista racconta di come lo abbiano raggiunto le tenebre abbaglianti della morte. Risaliamo lungo il suo albero genealogico, il nonno da parte di madre austriaco e nazista, la famiglia borghese, la moglie comunista, l’inutile scavo psicanalitico – almeno fino alla scoperta di Lacan. Scrittore di successo, dopo la pubblicazione dell’ennesimo libro gli si dischiude, grazie ad un invito come docente all’Università, il Giappone, che lo affascina e gli consegna un mondo alternativo al quale potersi aggrappare, un mondo che ritorna più volte a contrappeso delle manifestazioni dell’Occidente.

Con un vorticoso salto indietro nel tempo torniamo al 1986 – quando inizia la seconda parte, quella che più abbiamo apprezzato. Disarcionato dal cavallo delle illusioni della lotta politica degli anni ’70 e sordo al consiglio senecano che invita a cambiare sé stessi piuttosto che il cielo sotto al quale si vive, Borromini ci mostra come la propria depressione possieda radici lontane, dal fallimento politico e personale, all’inquietudine di una ricerca senza fine di sé e di un posto che questo Io possa accogliere, al difficile rapporto con le donne.

Sballottato tra il cinismo e l’elegia, per riprendere, come fa anche l’autore, Cioran, Ulrich guarda e costruisce (o distrugge?) la propria vita attraverso la filosofia, finendo per raccontarci «la vicenda di un erramento, di un autoinganno della coscienza, dell’essere dimenticato». E dunque forse faremmo bene a dar ragione al padre di Addie, la celebre narratrice postuma di Mentre morivo, secondo il quale «la ragione per cui si vive è per prepararsi a restare morti».

Quasi un romanzo del contemptus mundi, si tratta di un libro che, al netto di alcuni refusi e a dispetto del contenuto denso e della straordinaria ricchezza di citazioni e riferimenti, si fa leggere senza problemi, frutto di un Papagni alla ricerca del proprio stile narrativo e indagatore della crisi dell’uomo occidentale contemporaneo.

Antonio Papagni

La frattura spontanea della simmetria

CAPIRE Edizioni 2023

17,50 €

In mdp

“Beetlejuice…Beetlejuice” – Tim Burton 2024

di Umberto Mentana

Tim is back! Tim Burton è tornato. Quante volte stiamo leggendo e ascoltando questa tagline, in particolare sul web, nelle ultime settimane? Credo che innumerevoli volte sia il numero che più si avvicini. Da parte mia però utilizzerei un  vocabolo  più consono alla natura del regista/artista californiamo: Tim Burton è ri-tornato. È ritornato dove tutto è incominciato, trentasei anni fa e attenzione, non è esclusivamente un discorso di ripresa di un sequel perché, quello di Beetlejuice Beetlejuice è un vero e proprio percorso a ritroso sui propri passi, alla ricerca di un amore, di una firma, quella di sé stesso e del proprio Cinema.

Per Burton, la carriera di amante dei cimiteri incomincia da ragazzino, nel 1982, nei sobborghi californiani di Burbank con il cortometraggio Vincent, utilizzando la sua amata stop-motion e dotando questo piccolo-grande film della voce narrante di un “mostro” sacro come Vincent Price. Il corto è già un manifesto del suo stile e della sua idea di arte, della sua poetica dark e sulla forza emotiva di cui sono portatori i suoi outsider. Poco dopo avviene la sua incursione nel live-action con l’ancora incerto Pee-Wee’s Big Adventure (1985), ma sarà proprio Winter River, con lo “spiritello porcello” Beetlejuice (1988) a dare i natali alla sua inconfondibile firma d’autore  prima addirittura di quel 1990.  Questo decennio in assoluto porterà in  alto il suo nome per una  emotiva generazione, una folta schiera di  ragazzine e ragazzini amanti dell’oscurità e di altri strambi sentimenti. Il 1990 è l’anno di Edward Mani di Forbice e il suo Cinema diventa “burtoniano”, le sue storie dal forte imprinting visivo divengono fiaba, sì dark ma da batticuore. Da lì in poi si sussegue una filmografia distrofica ma allo stesso tempo coerente su vari registri: a volte con più humour, a volte più spettacolare…prima del grande buio avvenuto a tratti negli ultimi anni con opere decisamente minori dove una flebile voce sussurra al suo orecchio ricordando chi e cosa faceva Tim. Sono gli anni di una sovrabbondanza di CGI, a mio vedere la morte della meraviglia, e per Burton è assolutamente importante questa indicazione poiché per un autore che ha fatto dell’incanto, della reciprocità, del legame, in particolare con l’inconoscibile e del soprannaturale, la sua viscerale identità, “plastificare” tutto con una caterva di effettacci digitali – naturalmente abbinati ad una scrittura e ad uno storytelling visivo modesto – non è che espressione di un allontanamento, e l’allontanamento porta una mancanza di amore. Ed è questo che ha pian piano incominciato a provare il nostro caro poeta del macabro, Tim Burton, nei confronti del Cinema  È stato lui stesso a confermarlo più volte, soprattutto dopo l’insuccesso di Dumbo (2019), un film tronfio di CGI e spento di passione.

            Ma arriviamo a oggi. Non è passata un’eternità dal 2019, eppure, l’universo mediale si è assolutamente trasfigurato nelle forme e nei meccanismi: concluso il picco della parabola dei cinecomics con Avengers: End Game (sempre 2019, dir. Russo brothers), si assiste sempre più spesso a un ritorno,  un viaggiare all’incontrario per ricreare una autenticità perduta, con una certa dose di selvaggia materica. E le piattaforme di streaming on-demand non lasciano aleggiare a lungo questi “movimenti” della società non ascoltandoli, e le migliori storie di questi anni venti puntano tutto sulla nostalgia e sull’ “artigianato” (Stranger Things su tutti da capostipite del filone fin dal 2016).  Quale migliore nostalgia creativa, dunque, se non re-brandizzare e rimettere in pista Tim Burton in un contesto e con  un gusto del pubblico nuovamente più consono e vicino al suo sentire? Con l’uscita di Beetlejuice Beetlejuice (2024), secondo viaggio all’interno della difficile ma esilarante convivenza fra i morti e i vivi, i volti del cast storico hanno dichiarato ironicamente che Tim Burton ha aspettato trentasei anni per fare il secondo film perché doveva nascere Jenna Ortega. E infatti, forse può essere proprio questo il fulcro della sua parabola artistica in piena rinascita. Miss Ortega è infatti più nota al pubblico come Mercoledì Addams, protagonista della serie Netflix Wednesday di enorme ed incalcolabile successo di cui Burton ricopre il ruolo di creatore-ideatore (showrunner) e regista di alcuni episodi (la serie è stata rinnovata ad oggi per altre stagioni). Il mondo narrativo della famiglia Addams è un soggetto che il nostro Tim si portava dietro fin dall’infanzia, da cultore dei mitici fumetti della macabra famiglia creata da Charles Addams. Pertanto sì, Tim Burton è ritornato ad essere sé stesso, dichiarando di essersi innamorato di nuovo dopo l’esperienza seriale di Mercoledì.  Così, trentasei anni dopo, ritorna al Cinema a Winter River dove tutto è incominciato per ritrovarsi in compagnia di coloro che hanno dato avvio alla sua Storia Cinematografica: Winona Ryder, Michael Keaton, Catherine O’Hara, e ovviamente anche Jenna Ortega fautrice ed immagine simulacro di Mercoledì che rappresenta per Tim Burton una personificazione della sua rinascita. Tutto questo è Beetlejuice Beetlejuice, un film dalle sfiancanti e dovute citazioni e connessioni, partendo dalle carrellate iniziali sui luoghi della cittadina che in realtà, come nel primo capitolo, si riduce ad essere un plastico in miniatura della città stessa, quasi a svelare la natura paradossale e fantastica del film. E il tempo a River Winter non sembra essersi arrestato, con la piccola galleria di pittura rossa che viene attraversata in bicicletta non più da Winona Ryder (Lydia Deetz) ma da sua figlia Astrid (Jenna Ortega), in questo film personaggio apparentemente lontano dalle manifestazioni dark della madre. Più del plot mi vorrei concentrare invece a rintracciare questi frammenti dell’universo burtoniano in piena reconquista, e attenzione non è un lavoro di citazionismo fine a sé stesso. Quello che avviene in Beetlejuice Beetlejuice è tutto, a mio vedere, perfettamente incasellato con  un ritmo e una naturalezza che io non ho trovato stucchevole né stanca e ‘marchettata’, come invece era avvenuto spesso nelle sue ultime prove cinematografiche. Le gag di Michael Keaton (l’indemoniato Beetlejuice), coloratissime e spumeggianti, sono degne e vicine alle espressioni più efficaci del Joker burtoniano interpretato da Jack Nicholson (Batman, 1989), Monica Bellucci invece è…letteralmente una Sposa Cadavere (Tim Burton’s Corpse Bride, 2005), celebrata da tagli di cucitura su tutto il corpo visivamente vicini alla Sally de The Nightmare Before Christmas (1993, dir. Henry Selick) mentre la sequenza del racconto di Beetlegeuce – pronunciato Beetlejuice – nel quale illustra in medias res l’angusto incontro con la “succhianime” Delores (Monica Bellucci) è una celebrazione in bianco e nero dell’horror targato Universal – ma anche un po’ del Frankenstein di James Whale, 1931 – nonché, ovviamente, ritroviamo in questo fittissimo bianco e nero un pezzettino del suo, per me, immortale Ed Wood (1994) e del sensibilissimo Frankeenweenie (cortometraggio del 1984 e successivamente lungometraggio animato del 2012). Dunque Beetlejuice Beetlejuice segna un ritorno a quell’artigianato nella tecnica che poc’anzi ho cercato di individuare. Tim Burton accantona questa volta l’esasperazione della computer grafica per riabbracciare la tangibilità delle sue creazioni artistiche e il film ne guadagna esponenzialmente: memorabile è la sequenza in stop-motion incentrata sul povero capofamiglia Deetz de-umanizzato in puppet per l’animazione a passo uno. Infine, come non affezionarsi al tenerissimo ma allo stesso tempo inquietante Bob? Una corpulenta creatura, a capo di uno degli uffici infernali dell’aldilà, dalla testa minuscola la cui sproporzione anatomica fa il verso ai terrificanti alieni di Mars Attacks! (1996),e che riverbera presenze del primo capitolo del film. Insomma, scenari su scenari di riproposizione e di svecchiamento si confondono, si intrecciano, si amalgamano nascosti sotto la sabbia in Beetlejuice Beetlejuice, come gli spaventosi Vermi delle Sabbie, e questa cura maniacale e di puro divertimento di creazione manuale è ben tangibile in ogni angolo del film: le location dell’aldilà già perfettamente in mood con tutto lo “spirito” (battuta infelice ma dovuta!) dell’opera sono ricreate con una cura e con un design scompigliato e curveggiante di perfetta coerenza burtoniana, oltre a far popolare i numerosi ambienti della burocrazia infernale di una numerosissima pluralità di personaggi, caratterizzati da una vivida identità visiva che li fa risultare indimenticabili (e non solo l’ispettore-attore Wolf Jackson, interpretato da Willem Dafoe) anche esclusivamente per la loro presenza on-screen.

Le sequenze più folli di questo corale trip visivo tutte ricadono naturalmente quando è in scena il volgarissimo bio-esorcista Beetlejuice che a suon di scherzetti degni del Jim Carrey di The Mask, cerca in tutti i modi di coronare il suo sogno d’amore con l’antica amata darkettona Lydia Deetz, anche utilizzando gli escamotage del musical, cantando e proponendo canzoni spassosissime.

            Concludendo, dal Festival del Cinema di Venezia 81 dove Beetlejuice Beetlejuice è stato proposto come titolo di apertura, all’exhibition di grande successoThe World of Tim Burton (in Italia al Museo del Cinema di Torino presso la Mole Antonelliana dall’Ottobre 2023 ad Aprile 2024, ci sono stato e l’ho amata profondamente!), alla stella numero duemilasettecentottantotto sulla Hollywood Walk of Fame assegnatagli questo 3 Settembre, si può sinceramente dire che l’amico che costellava le mie giornate da spettatore ispirandomi con mostri e altre sensibilissime creature, quel corvo gracchiante che avevo sulla spalla e che non vedevo da un pezzo è ritornato…divertendosi come un pazzo. Beetlejuice Beetlejuice Beetl! Ops, non converrebbe pronunciarlo una terza volta, o forse sì? Per il momento fermiamoci qui e grazie di tutti questi fantastici orrori.

In Appunti di Lettura

Trilogia di Beckett: “Malone muore” #2 pp.707-846

di Demetrio Paolin

[le pagine citate nel testo si riferiscono al meridiano Mondadori, Samuel Beckett Romanzi, teatro e televisione a cura di G. Frasca]

Partiamo dall’inizio ovvero dalla fine. La prima cosa che colpisce di Malone muore è il titolo, che nasconde in sé alcune particolarità proviamo a vederle. Un certo tipo di ermeneutica, penso a Gadamer o Heidegger, vede nell’enunciazione del linguaggio una sorta di risposta a una domanda il più delle volte implicita. Cioè quando diciamo: “Il cielo è azzurro”, in realtà non stiamo enunciando un fatto, ma rispondendo a una domanda: “Di che colore è il cielo?”. Ho l’impressione che qualcosa di simile succeda con questo titolo, che si carica quindi una certa dose di ambiguità. Il titolo, Malone muore, sembra la riposta al quesito Ma alla fine del libro cosa succede? Insomma siamo dalle parti in gioco metalinguistico che riduce la storia, ciò che accade al personaggio – cosa è la storia di un romanzo se non i fatti che via via accadano al personaggio/ ai personaggi principali? – al semplice titolo. Beckett in questo modo risolve, se vogliamo, la trama, la svuota: la trama, l’intreccio, la fabula, il capriccioso intrecciarsi di queste linee narrative logiche e cronologiche è risolto da Beckett con il titolo. Lettore, sembra dire lo scrittore irlandese, sappi che il protagonista alla fine morirà. Il tema del romanzo, la sua parabola narrativa sono già conclusi nel giro delle due parole del titolo. C’è da pensare, leggendolo, che Beckett abbia voluto giocare con un altro stereotipo, abbiamo visto in Molloy una delle strutture portanti della narrazione sia la narrativa di genere. Molloy è costruito come noir, come un giallo, soprattutto quando entra in scena Moran, che possiede in parte le caratteristiche dell’investigatore privato. Siamo, quindi, in Molloy nell’ambito del giallo che però  ha una conclusione aperta: Moran non arriva a trovare Molloy e torna in casa e inizia forse a scrivere la storia di Molloy per giustificare il suo comportamento. In questo caso SB ci fornisce al soluzione della storia subito: Malone muore.

Morire o finire. Aggiriamoci ancora intorno al titolo e alle prime pagine del romanzo, uno dei termini che viene più spesso detto dall’io narrante, che solo molto più av,anti nel racconto saperemo chiamarsi Malone, ma noi sempre complice il titolo, indubitabilmente chiamiamo così, sappiamo anzi che questo è il suo nome; comunque Malone/Io narrante usa più volte la parola “finire”. Ora morire e finire pur avendo un dato connotativo vicino, non sono la stessa cosa. È tipico dell’uomo il morire, è tipico delle cose finire: un uomo muore e un libro finisce. L’esempio non è, in questo caso neutro, ma è pensato con raziocinio, perché Malone parla di finire, cosa è che finisce? In che modo Malone finisce? Finiscono forse le sue parole, le sue azioni, finisce la sua vita, ma in questo caso Malone muore. Che rapporto intercorre tra queste due realtà? L’uomo si è trasformato in oggetto e l’oggetto finisce. Eppure questa ipotesi non mi convince, leggendo il libro non mi pare mai che Malone si reifichi, si faccia cosa, potrebbe esserci una diversa tensione, una più complessa relazione tra finire e morire. Per capire meglio proviamo a guardare a fondo la struttura narrativa della storia.

Lo spazio bianco.  Guardiamo le pagine che compongono la trilogia nel suo insieme: l’impressione è quella di trovarci davanti a un muro di parole, con il passaggio da Molloy, a Malone muore e da quest’ultimo a L’innominabile questa impressione aumenta. Quando guardo queste pagine mi viene in mente la poesia: la poesia lavora sugli spazi bianchi, gli a capo, la strutturazione dei versi, una vera e propria composizione, alcune volte architettonica, la poesia, certa poesia secondo novecentesca, è l’esatto opposto di queste pagine di Beckett. Cosa significa lo spazio bianco e cosa significa negare lo spazio bianco? Leggendo Beckett ho pensato più volte a Celan, e mi sono chiesto se mai negli anni i due si siano mai incrociati, visti, parlati, scritti e/o letti, non ho fatto nessuna ricerca in merito, perché non volevo che la oggettiva e fredda realtà dei fatti si sostituisse alla mia immaginazione; perché penso a Celan, mentre leggo Beckett?

La riposta stra nel rapporto tra la parola e lo spazio nella pagina, tra il nero della parola e il bianco della pagina. Nero e bianco sono in Celan da sempre una coppia distintiva del suo pensiero, pensiamo solo a Fuga di morte e al “nero latte”. Celan costruisce le sue parole intorno al bianco della pagina, il nero della parola detta si fa spazio nel bianco silenzio; Beckett lavora su qualcosa di simile, ma riempie l’intero bianco, lo satura con le parole. A proposito di questo, si veda la nota di Frasca al Meridiano, dove riferendosi alla composizione di Malone muore, ragiona sulla scelta di Beckett di considerare concluso il romanzo, nel momento in cui avesse riempito l’ultima pagina del quaderno su cui andava componendo la prima stesura. La scrittura, quindi, occupa uno spazio fisico, deve completare la pagina per esistere. Celan e Beckett mostrano ai nostri occhi, nel senso di tipograficamente, due modi di lottare con lo spazio bianco, con lo spazio del silenzio.

Silenzio di cosa?. Verrebbe da chiedere cosa è questo silenzio? A chi appartiene questo silenzio, cosa significa? I personaggi di Beckett, tutti, compreso il clownesco duo di Aspettando Godot, sono spesso vittime di violenza, di soprusi, di incarcerazioni. Abbiamo visto come l’uomo che Beckett racconta è principalmente l’uomo seviziato, l’essere umano, che esce vivo dal disastro della lunga guerra mondiale, è l’uomo entrato in trincea nel 1914 e uscito scheletrico da Auschwitz, dissolto nell’atmosfera a Hiroshima o liquefatto a Dresda (tra il 1942 e il 1945). È quello l’uomo che Beckett racconta nei suoi romanzi e nelle sue opere: l’assurdo della vita è il fatto che la vita in qualche modo continui dopo che tutto ciò è stato. Qualcosa di simile accade a Celan, lascio da parte, perché ci poterebbe lontano, il discorso sulla scrittura in una lingua altra, l’uomo di Celan è come l’uomo di Beckett, sopravvissuto a qualcosa di così enorme e gigante, che butta via ogni cosa, che rimette in gioco la sintassi, il significato, il suono stesso delle parole, le parole in Celan pare proprio che prendano spinta, che sbuchino dalla pagina bianca, che vengano strappate a un silenzio che pare essere il vero destino delle parole.

Sharazade. Cosa è questo silenzio? Che cosa è questo bianco che Celan cerca di puntellare con le parole e che Beckett riempie di lemmi, frasi, paragrafi e capitoli? Io penso che che sia il silenzio dei persecutori. Prendo questo spunto da un bellissimo libro di Escobar, edito alcuni anni fa da Il Mulino, Il silenzio dei persecutori ovvero Il coraggio di Sharazade. I persecutori non hanno bisogno di parole, hanno potere sul corpo di coloro che torturano, la tortura non può essere espressa a parole, può diventare grido disarticolato, rumore, digrigno, ma non è parola, non è sintassi (ovvero armonia), i persecutori godono del silenzio, vogliono il silenzio, la vittoria dei persecutori è la bancarotta della parola, non abbiamo parole per dire ciò che è stato, o le parole per dirlo suonano strane, inoffensive. Il bianco è il colore dei persecutori, il bianco di chi non ha lasciato tracce, non è causale che gli atti più gravi e compromettenti ad esempio dell’organizzazione dello sterminio non siano disponibili o siano rintracciabili a fatica: la persecuzione funziona meglio nel bianco cristallino del silenzio, il torturatore è asettico, perché ha a che fare con il corpo, con la parte muta&animale dell’uomo: l’uomo torturato viene privato della propria parola e poi del proprio corpo. Alla fine della tortura l’uomo riavrà il proprio corpo, dolorante, arreso, perduto, sfatto, ma non riavrà mai più la parola.

Cosa si può opporre a questo? Si chiede Escobar. La risposta sta nel racconto de Le mille e una notte, dove Sharazade racconta per posticipare la morte, per ingannare il sultano, per mettere tra sé e lo spazio bianco della tortura un spazio di parole: le parole, le storie che Sharazade racconta sono il riempimento di quel silenzio. C’è sia in Molloy che in Malone Muore, questa idea del racconto dentro il racconto, di narrare per ingannare la morte che giunge che, mi pare, riprenda chiaramente il topos di Sharazade: Malone, ancor di più di Molloy, è descritto come un uomo che racconta storie, come se la possibilità di narrare la storia allontanasse da sé tutto il male possibile. In questo senso Celan e Beckett, in maniera stilisticamente diversa, ma simile nella tensione morale della scrittura, si oppongono al bianco silenzio dei persecutori: scrivono, producono parole, queste parole, il fatto stesso che siano pronunciate e scritte, differiscono la morte, spostano lo spazio della tortura a alcuni momenti dopo.

Questo ci porta a comprendere come la scelta narrativa della storia dentro la storia, di un racconto che si rifrange in mille rivoli, lungi dall’essere mera scelta narratologica o gioco combinatorio, caro e anticipatorio di un certo postmodernismo, è in primo luogo una scelta ideologica, di visione del mondo, di sguardo ultimo e disperato sull’esistere quotidiano.

[continua]

In Schede

“La notte della svastica” di Katharine Burdekin: cosa saremmo senza Memoria e senza Storia? Un libro proibito per scoprirlo

di Carmen Rampino

Murray Constantine, Katharine Burdekin, Daphne Patai: tre nomi, uno maschile e due femminili, legati da una storia incredibilmente affascinante che ha abbracciato diverse generazioni e che potrebbe non essere ancora finita.

È il 1937 quando l’editore socialista britannico Victor Gollancz pubblica il romanzo Swastika Night. Una copertina gialla su cui si staglia il nome dell’autore: Murray Constatine – il primo dei nomi citati -. Incontra un certo successo presso il pubblico, ma poi scoppia la guerra, gli eventi precipitano e di questo libro non se ne parlerà più, almeno così sembra.

Passano degli anni, precisamente 48. È il 1985, una accademica americana di nome Daphne Patai (terzo nome citato) cura una riedizione di quel libro per Feminist Press e svela al mondo che quel Murray Constantine non è altro che uno pseudonimo dietro il quale non si cela un uomo, bensì una scrittrice inglese poco conosciuta: Katharine Burdekin. Proprio a lei si deve il romanzo di fantascienza distopica, che in Italia fu tradotto per la prima volta nel 1993 per Editori Riuniti e curato da Carlo Pagetti, dal titolo La notte della svastica, «precursore non riconosciuto di tutte le successive distopie» (Gallo 2020, p. 316).

Due anni prima della Seconda Guerra Mondiale e ben dodici anni prima di 1984 di George Orwell, Burdekin ha immaginato un mondo in cui il nazismo ha trionfato e il pianeta è diviso in due tra l’impero tedesco e l’impero giapponese. Già solo l’idea di immaginare una situazione del genere addirittura prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale e dell’alleanza tra Germania e Giappone (al 1940 risale il patto tripartito firmato a Berlino tra Germania, Giappone e Italia), mostra una lucidità e una lungimiranza uniche. Se Orwell in quei dodici anni intercorsi tra la sua pubblicazione e quella de La notte della svastica ha potuto vedere chiaramente gli orrori del nazismo, Burdekin «legge nel futuro come Cassandra l’oscura profezia di un universo in dissoluzione sotto il peso di una ideologia folle e disperata» (Pagetti 1993, p. XI). Eppure proprio Orwell, così attento nei confronti dei suoi predecessori, non menziona mai Burdekin, pur essendo 1984, come confermato da Gallo, un tributo non dichiarato a La notte della svastica di cui uno dei più espliciti legami è proprio l’analisi del rapporto intimo tra sesso e dittatura (cfr. Gallo 2020, p. 319).

Settecento anni dopo il nazismo, nella parte del mondo sottomessa alla Germania, si coltiva il culto per una strana religione che ha deificato Hitler e in cui non c’è più memoria. Si è ritornati ad un feudalesimo senza scampo in cui si crede nell’orgoglio, nel coraggio, nella violenza, nella brutalità, negli spargimenti di sangue, nella spietatezza, nelle virtù marziali ed eroiche (cfr. Burdekin 2020, p. 11). Al centro vi è una realtà brutale in cui non c’è più scrittura e non c’è più memoria e in cui le prime vittime sono le donne. Non esistono sentimenti, affetto o eros. Le donne sono bestie senza dignità, non considerate proprio esseri umani ma macchine per produrre soldati. La natura, però, silenziosamente si ribella non facendole praticamente più partorire femmine, ma solo maschi – «e se le donne avessero cessato di riprodurre se stesse, come poteva continuare ad esistere il Regno di Hitler?» (Burdekin 2020, p. 19) -.

In questa realtà si prova ribrezzo, repulsione, schifo per le donne, abbruttite, rasate, non istruite. Per un uomo è preferibile amare un altro uomo piuttosto che avere rapporti con le donne, che vengono stuprate unicamente per procreare. Una volta nati, i figli vengono strappati via dalle madri perché non considerate idonee all’occuparsi della crescita, dell’allevamento e dell’educazione degli uomini. Solo le bambine vengono lasciate alle madri per ripetere in eterno questo ciclo bestiale. Le donne non si possono amare, non hanno anima e quindi non sono proprio umane. Il mettere in discussione l’umanità delle donne potrebbe apparire un’esagerazione fantastica eppure basti pensare che nell’anonima Disputatio nova contra mulieres (Un nuovo argomento contro le donne) del 1595 si legge un argomento molto simile: «La paroletta homo deriva da humo, dalla terra, e perciò la donna [in quanto nata dalla costola di Adamo, n.d.r.] non può né essere né venire chiamata umana». La fantascienza distopica, dunque, non parte mai dalla fantasia, ma sempre e comunque dalla realtà, anzi la fantascienza è quanto più può farci avvicinare alla realtà. In questa modalità l’autrice rileva soprattutto il legame tra dittatura e sessualità come base del regime nazionalsocialista e il suo esoterismo strutturale. «Nessuno prima di Burdekin ne aveva colto l’intima relazione tra violenza e sessualità, l’insito disprezzo verso le donne che risiede alla base della funzione tecnica di “madre fertile”, la valenza sociale della violenza e il ruolo delle caste quali elementi costituenti dello Stato, la componente religiosa e irrazionale del fanatismo politico e l’uso della dimensione collettiva per indebolire le diversità individuali e favorire il controllo e l’omologazione» (Gallo 2020, p. 319).

E i libri che fine hanno fatto? Solo dei vuoti manuali tecnici e il Libro di Hitler sono sopravvissuti. Altre parole scritte non esistono. I cavalieri e i tecnici sono gli unici a poter accedere alla scrittura. Non si dimentichi che uno degli episodi più emblematici legati al nazismo è proprio il rogo dei libri del 10 maggio 1933. Burdekin aveva insomma ben chiaro che un sistema in cui la cultura è azzerata, dovuta alla totale eliminazione del libro, porta ad una dittatura infinita. Eppure, proprio in questo mondo privato di ogni umanità, brutale, alienato e folle, una piccola fiammella si accende: qualcuno è riuscito a salvare qualche brandello di memoria, ultimo riparo contro l’annichilimento totale dell’umano. Un giovane inglese di nome Alfred, un unico eccezionale libro salvato, una fotografia – la cui ragazza rappresentata rimanda ad un tempo in cui la bellezza della donna derivava proprio «dal sapere di disporre della possibilità di scegliere  e rifiutare; e in parte dal sapere di poter essere  amata» (Burdekin 2020, p. 114) -, un cavaliere un po’ eretico e un giovane tedesco che dovrà fare i conti con tante scomode e dolorose verità, ci porteranno a scoprire come certe convinzioni ritenute assolute su ciò che ci circonda possano crollare e su come una speranza, anche se piccola, possa accendersi. Che non sia proprio il nome della piccola bambina appena nata, Edith, il segno di un futuro cambio di passo che alla fine del libro il lettore può solo immaginare e intravedere?

Ma chi è Katherine Burdekin? Perché ha pubblicato il libro sotto pseudonimo? E perché ha proprio scelto la distopia? Katharine Burdekin, in realtà Katharine Penelope Cade, nacque nel 1896 da una famiglia benestante. Nonostante fosse una studiosa e appassionata di lettura, la sua famiglia non le permise di iscriversi ad Oxford, a differenza dei fratelli maschi. Si sposò e con il marito partì per l’Australia. Ebbe due figlie ma, impossibilitata a vivere quella vita che per lei era una prigione, lasciò il marito, tornando in Inghilterra con le figlie e unendosi finalmente alla donna di cui era innamorata e con la quale vivrà fino al 1963, anno della sua morte. Scrisse numerosi romanzi, ma non tutti vennero pubblicati durante la sua vita. Segnata dalla tragica esperienza della Prima Guerra Mondiale (il fratello andò in contro a gravi problemi psichici dopo aver combattuto) il pacifismo rappresenterà sempre un faro nella sua vita, così come la volontà di superare il più possibile quelle storture legate al genere che esistevano anche in una famiglia benestante come la sua.

Pubblicherà La notte della svastica con un editore marcatamente connotato a livello politico, ma sceglierà lo pseudonimo visto il clima pesante che anche in Inghilterra gli antifascisti dovevano subire in quel periodo. La scelta della distopia si spiega perché si tratta del genere letterario che maggiormente fornisce gli strumenti per percorrere la strada verso la libertà. Attraverso la fantasia l’autrice riesce ancor di più a fare denuncia, molto più di quanto avrebbe potuto comportare una scelta realista. Può sembrare assurdo e paradossale, ma un’opera di questo tipo, così cupa, buia, per certi versi terribile, serve proprio per alimentare la speranza, serve per il futuro, serve per continuare a tutelare, ad avere cura e a proteggere tutte quelle risorse che tante volte mettiamo in discussione. La distopia è utile proprio a questo scopo. Ci scuote, fa traballare le nostre certezze e ci fa amare ancor di più ciò che diamo spesso per scontato. In questo modo l’autrice ci conduce per mano e ci fa va vedere cosa saremmo se non avessimo più memoria, scrittura, scienza, poesia, arte, ricordandoci quanto siano importanti e quanto continui ad essere necessario aggrapparci ad essi.

A partire dal 2021 negli Stati Uniti sono cresciute enormemente le richieste di gruppi organizzati per censurare libri ritenuti osceni e immorali per i giovani. Queste richieste portano in molti casi all’esclusione dalle biblioteche e dalle aule scolastiche libri che hanno come temi la lotta al razzismo, le disuguaglianze, le malattie mentali, il bullismo, la sessualità, le minoranze etniche e sessuali. Tra i libri più osteggiati c’è anche The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood, chiara epigona di Katherine Burdekin. Per situazioni come queste, frutto del nostro distorto presente e non della fantasia, dobbiamo tornare a leggere la fantascienza di queste autrici. Per farlo, però, bisogna innanzitutto tradurle. Non si dimentichi che di Katherine Burdekin in italiano è tradotto solo La notte della svastica. Ciò nonostante un libro come questo, pur non avendo uno stile così accattivante e pur non avendo una trama così ricca di azione visti i continui dialoghi, può considerarsi una lettura indispensabile e assolutamente consigliata.

«Ci sono due cose che le donne non hanno mai posseduto e gli uomini invece sì. Una è l’invulnerabilità sessuale e l’altra è un senso di orgoglio rispetto al proprio sesso, che è diritto di nascita anche per il maschietto di umilissimi natali. E tuttavia, finché le donne non disporranno di queste cose, che hanno perso nel momento in cui commisero il crimine di accettare l’idea tutta maschile dell’inferiorità della femmina, non potranno mai più rinfocolare la scintilla della propria identità e vitalità. Ma quella scintilla noi sappiamo che è ancora lì, altrimenti non sarebbero infelici» (Burdekin 2020, p. 172). Queste parole testimoniano l’attualità di un libro del genere, che ci porta a riflettere su noi stessi, sul presente rapporto tra condizione femminile e capitalismo e sulle nostre società contemporanee. Allora facciamola circolare questa letteratura che brucia, disubbidisce e disorienta, anzi diffondiamo soprattutto questa. Quale sarebbe altrimenti il senso di un libro? Scegliamo i libri eterodossi ed eretici. Burdekin ha scritto un libro radicale e atroce, con il precipuo scopo di spaventare, per questo di non facile lettura. Tuttavia leggere una descrizione del genere, così cruda, deprimente e talvolta ripugnante, può essere angosciante, ma tremendamente urgente. In questo senso La notte della svastica si rivela un romanzo più attuale che mai, un brandello di speranza cui aggrapparsi in un periodo di messa in discussione di poesia, dolcezza, umanità.

E sì, come si diceva all’inizio, questa storia così affascinante non è ancora conclusa, perché la storia di Katharine Burdekin e di tutte le autrici dimenticate è solo all’inizio e non certo si esaurisce con l’attribuzione di paternità, anzi maternità, di un’opera.

TESI CITATI.

Katharine Burdekin, 1993 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Roma, Editori Riuniti.

Katharine Burdekin, 2020 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Palermo, Sellerio Editore.

Domenico Gallo, 2020, Nota, in Katharine Burdekin, 2020 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Palermo, Sellerio Editore.

Carlo Pagetti, 1993, Prefazione, in Katharine Burdekin, 1993 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Roma, Editori Riuniti.

In Thema di Berio

Siamo tutti Sconosciuti Superstar – Umberto Mentana intervista Angelica

Angelica, al secolo Angelica Schiatti, inaugura la sua avventura solista nel 2018, con la pubblicazione dei singoli che precedono la release dell’album “Quando finisce la festa” (2019), che riscuote ottimi feedback di pubblico e critica, portandola a esibirsi nei principali club e festival italiani come MI AMI 2019, Home Festival e Zoo Music Fest. Nello stesso anno viene scelta per aprire il tour italiano di Miles Kane, cantautore inglese e co-fondatore, insieme ad Alex Turner, dei Last Shadow Puppets. A novembre 2019 collabora con l’attore Giacomo Ferrara (lo “Spadino” della serie Suburra) per il singolo “Vecchia novità”. Nel 2020 pubblica i singoli“C’est Fantastique”,“Il momento giusto”e“L’ultimo bicchiere”, trittico di brani che anticipa la pubblicazione, a febbraio 2021, di “Storie di un appuntamento”, album intimo, potente e allo stesso tempo leggero. Nello stesso anno i brani “De Niro’e “Karma” vengono inseriti nella serie“Guida Astrologica per cuori infranti”(Netflix) e nel film “Ancora più Bello”. Nel 2023 Angelica ritorna con i singoli Milano Mediterranee, SOS, Bye Bye e La mia metà che la portano ad esibirsi a MI AMI 2023 e durante la Milano Music Week. Lo stesso anno apre i live di Franz Ferdinand, Wilco ed Alan Sorrenti, in un tour durato tutta l’estate. L’8 Marzo 2024 è uscito il suo ultimo disco “Sconosciuti Superstar”.

Noi di Lettera Zero abbiamo avuto l’opportunità di fare questa chiacchierata con lei e per questo la ringraziamo per l’opportunità e rivolgiamo i nostri più sentiti ringraziamenti anche alla sua agenzia RC Waves

U.M. Angelica, benvenuta su Lettera Zero. È un piacere inaugurare con te la sezione interviste della nostra rubrica Thema di Berio. La tua musica è adattissima a comparire tra i primi contenuti di questa rubrica proprio per il carattere riflessivo, o meglio, autoriflessivo, delle tue canzoni. Da dove partono, da dove nascono?

A. Grazie mille per l’invito!

Le mie canzoni nascono da un’esigenza di far dialogare pancia e cuore con testa e bocca, banalmente di dare una forma a quello che sento e a come mi sento, di raccontare, prima di tutto a me stessa.

U.M. Parliamo della tua ultima creazione, Sconosciuti Superstar, che sta avendo davvero un ottimo riscontro, penso in particolare al singolo Acqua Ossigenata. Questo album ti rappresenta molto di più rispetto ai tuoi precedenti lavori, possiamo dire che Angelica “back in blonde” (o meglio, blondie?). Dal punto di vista dei suoni, ho percepito una ricerca più marcatamente synth-pop 80s rispetto ai riferimenti di melodie, riff anni Settanta più essenziali, intimi di alcune canzoni precedenti come De Niro, C’est fantastique, Beviamoci. Mi confermi questa tua scelta di aver mutato e trasformato un po’ il tuo sound per questo disco? È stata una scelta voluta che anche la tua immagine “pubblica” in un certo senso ne risentisse di questo cambiamento ? Penso, per esempio, di nuovo al passaggio “mora-bionda” ma anche al taglio e ai colori degli abiti che risultano essere più, diciamo, barocchi rispetto all’essenzialità delle cose che hai fatto in precedenza.

A. Per questo disco mi sono voluta divertire, o meglio, è cominciata la genesi in un momento talmente pesante che quindi faceva nascere di conseguenze l’esigenza di divertirmi, di prendermi meno sul serio, di vivere una leggerezza che poi è stata propedeutica per riuscire ad affrontare la scrittura di tematiche molto difficili per me da accettare, seppur vestite di synth, di melodie pop e di capelli biondi.

I capelli biondi per me che sono nata coi capelli scurissimi, rappresentano la liberazione totale dagli schemi e l’allontanamento dal passato per vedere tutto da un’altra prospettiva, guardare sempre lo stesso panorama, dalla stessa finestra, dopo un po’ può diventare limitante no?

Gli altri due dischi li ho concepiti e registrati a Milano, questo disco invece è figlio di Bologna, Milano e Roma, figlio dell’autostrada A1 e dell’alta velocità.

U.M. Chi sono questi Sconosciuti Superstar?

A. Siamo tutti noi, chi più chi meno, è questa società.

C’è chi si sente Superstar dopo un solo flash di luce puntata addosso e chi si sente Sconosciuto e frustrato per aver assistito a quel flash senza esserselo sentito proprio. Pur di avere un po’ di luce vedo tanti tacere la propria natura ed assumere atteggiamenti che nel pezzo chiamo “democristiani”, per intenderci.

Diciamo che i 15 minuti di fama di Andy Warhol oggi sono diventati 15 secondi.

Per me sono solo il tempo e la bontà di quello che si fa che contano.

U.M. Le tue canzoni, e questo ultimo disco non fa eccezione, sono davvero canzoni non facilmente “digeribili”. Nel senso che ci dai un bel pugno nello stomaco con le tue parole, nonostante sei sempre delicata nel suonarle e cantarle. Le tue parole sono potenti, forti e tristemente malinconiche, impregnate di solitudine. Ad esempio nella title track del tuo ultimo lavoro ci canti così: “Ci si rivede quando il mondo finirà/Come due mani incastrate dentro ai jeans/Cercasi emozioni perse in mezzo alla routine.” Mi racconti qualcosa di più su questa scissione, che io ritengo di grande importanza?

A. È un po’ una sfida, cioè, ci si rivede alla fine del tragitto e vediamo chi aveva ragione. Mi ritengo ancora giovane ma allo stesso tempo ho accumulato una prospettiva temporale diversa da quando avevo 20 anni, ho capito tante cose, ho assistito a miracoli insperati operati naturalmente dal tempo.

Sto lì ad aspettare, ne ho viste tante, stare fermi non significa però essere “incastrati”, significa fare il proprio percorso ma avere dei punti cardinali fissi.

A me diverte dire cose poco digeribili con voce delicata, rappresenta molto la mia personalità, sono morbida e buona e non attacco mai per prima ma divento la più agguerrita quando mi devo difendere, passo al contro attacco.

La solitudine che percepisci credo derivi dal fatto che la maggior parte disco l’ho scritto da sola nel mio studio.

U.M. Inoltre, questo metodo di ibridare due direzioni opposte, quella delle parole e quella della musica lo ritrovo molto ricorrente fin dagli Smiths ma se vogliamo citare un esempio del pop nostro contemporaneo, anche Billie Eilish utilizza qualcosa di simile. Lei ci parla in modo molto diretto, dandoci davvero dei calci nella pancia. Cosa ne pensi?

A. Io penso alla voce come uno strumento che fa parte dell’arrangiamento di un pezzo, non ad una cosa a sè stante appoggiata sopra, sia per quanto riguarda il suono della voce che le parole intese come significato e significante.

Sia gli Smiths che Billie Eilish sono tra i miei ascolti, possibile che mi abbiano influenzata.

U.M. Senti, sempre in Sconosciuti Superstar si ritrova molte volte questa metafora dell’acqua, dell’annegare, è un disco “liquido” che ti scivola addosso, anche ritmicamente. È voluto inserire in più di una canzone questa sorta di sottotema ricorrente? Se non sono troppo indiscreto, quanto questa malinconia, questa solitudine presente nelle canzoni ci parla di te? Oppure tu canti riferendoti a personaggi esterni, vicende da cui eri attratta e ne volevi raccontare in forma canzone?

A. Mi fa piacere che tu abbia notato questa cosa, l’acqua per me è un tema molto importante, rappresenta il mio inconscio, la sogno spesso. È un termometro di come sto, se è pulita o torbida se è calma o agitata, se ci nuoto o ci annego. Nessuna canzone in questo disco (in quelli passati sì) non parla di me, sono tutte molto autobiografiche, fin troppo. Ho aperto un vaso che ora sarà difficile richiudere, sto già scrivendo molto per il disco nuovo.

U.M. Noi di  Lettera Zero siamo molto attenti alle parole, alla loro funzione e a come queste, utilizzate nel modo giusto, rendano potente una narrazione. Proprio per questo ho trovato molto interessanti i numerosi giochi di parole che proponi nei tuoi testi, oltre a tantissimi riferimenti alla pop-culture (ritorno su una delle mie preferite, ossia De Niro: “Mi guardo allo specchio imitando De Niro in Taxi Driver” e “Voglio restare a letto/Con te, senza parlare troppo/Fare un Bed-in come Yoko”). La tua è una scelta stilistica operata in base al sound, al suono che queste parole, queste lines già in sé contengono e che potrebbero funzionare in una canzone o è qualcosa di diverso?

A. La cultura pop mi piace, tanti miei riferimenti artistici sono pop e penso che il pop fatto bene sia tra le cose più difficili da fare.

Nel caso da te citato, quella strofa mi è uscita di getto, un po’ suonava bene, un po’ la sentivo mia e un po’ avevo visto Taxi Driver la sera prima…

In De Niro gioco molto con la self confidence, essendo di natura insicura, arrivare a essere sicura di me e delle mie scelte è stato un percorso travagliato e De Niro si inserisce in un momento chiave di presa di coscienza dei miei mezzi, da sola al pianoforte, quasi giocando.

U.M. Una cosa che da tanto sono curioso di conoscere è il tuo metodo compositivo. Mi racconti, anche per far conoscere ai nostri lettori, come costruisci un disco? Hai una squadra fissa oppure anche in rapporto ai tuoi lavori precedenti hai cambiato qualcosa nel tuo approccio metodologico alle canzoni e al gruppo di persone che ti accompagna?

A. Mi piace cambiare perché fare i dischi è un lusso e non so quanti ne potrò fare nella vita.

Scoprire nuovi metodi di scrittura e di produzione, nuove persone con cui condividere la mia musica, è anche un modo per trovare nuovi stimoli.

Rispetto ai lavori precedenti, in questo lavoro ero più consapevole, vuoi per l’esperienza che ho in più, vuoi per una maggiore dedizione che ci ho messo; sono curiosa di scoprire come sarà il prossimo disco perché sento di aver raggiunto un equilibrio che mi piace molto.

U.M. Parlando un po’ di te, Angelica. Oltre ad essere una bravissima cantautrice, compositrice, hai anche altre passioni come la fotografia e lavori con il video. Ricordo che sei stata tu stessa a realizzare il  videoclip per il tuo singolo “C’est fantastique”. Ci spieghi un po’ come ti rapporti a queste altre tecniche di storytelling? Quanto sono legate alla tua musica?

A. All’inizio mi sono approcciata alla fotografia, al montaggio video e un po’ alla questione “art direction” per necessità, nel senso che non c’era budget per avere figure che lo facessero per me ed eravamo in pieno primo lockdown quindi fare un videoclip era impensabile. Dopodiché ci ho preso gusto, ho iniziate a fotografare amici e amiche, luoghi a me cari, ho imparato ad usare una reflex manuale analogica che avevo a casa e ho capito che è un modo di esprimere la mia creatività che mi soddisfa molto, costruire immagini, sia per me che per altri, mi diverte tantissimo.

U.M. Angelica, io come te sono un super beatlesiano, credo che quelle dei Beatles siano state le prime canzoni che io abbia ascoltato nella mia vita, e per fortuna. Perdonami la curiosità ma voglio sapere la tua su di loro. Per aiutarti: Lennon o McCartney (o George o Ringo)? La tua top 5. E dimmi perché, anche brevemente. Altrimenti vai a ruota libera!

A. Ahiaaaa!

Che dolore dover scegliere, quando scelgo qualcosa in campo Beatles dico sempre che la mia scelta è una fotografia di questo momento preciso, domani potrebbe cambiare.

In questo periodo sono più McCartney (pure wings ecc ecc) anche se sono stata Lennoniana convinta per una vita.

5 titoli di pancia Beatles e non: yes it is, temporary secretary, love, blue Jay way, happiness is a warm gun. La discografia dei Beatles (anche solisti) è la mia bibbia da consultare quasi quotidianamente, è un percorso di studi che penso sia obbligatorio per fare musica. 

U.M. Ci sono altri modelli ispirazionali per il tuo lavoro? Oppure per ogni disco sei influenzata da qualcuno, qualcosa in particolare? Cioè, è il disco stesso per alcuni versi una conseguenza della tua influenza musicale di in un certo periodo?

A. Quando sto facendo un disco mi ritrovo ad ascoltare principalmente il disco stesso tra la fase di scrittura, di preparazione dei provini ecc ecc, quindi sì, si auto influenza ed alimenta. Però per cominciare a scrivere ed entrare in un flusso c’è una scintilla che deve scoccare e mi deve ispirare, un bel disco appena uscito o un vecchio lavoro da riscoprire, un film, un’immagine. Poi queste ispirazioni devono combaciare chiaramente con qualcosa che ho già dentro, come se mi accendessero.

U.M. Io ti ringrazio davvero tanto, anche da parte della redazione di Lettera Zero, per aver condiviso queste riflessioni con noi tutti. Concludendo, vuoi raccontarci i tuoi prossimi appuntamenti, novità in ballo? E se vuoi, consigliaci qualcosa da ascoltare prima di salutarci!

A. Grazie a te e a voi per la cura e per queste domande così stimolanti!

Sto preparando i live che è uno dei momenti che preferisco, molto concreto, a contatto con la band quindi pieno di momenti divertenti, senza la pressione della scrittura o della produzione. In realtà ho preparato anche un brano nuovo, che uscirà a Giugno! Non mi voglio fermare, sono stata ferma un sacco di tempo (e ho fatto bene!) per fare questo disco che adesso ho proprio voglia di stare sulla strada.

Il comunicato stampa di Sconosciuti Superstar di Angelica: https://www.rcwaves.it/angelica/newsletter30

Link al profilo Spotify di Angelica: https://open.spotify.com/intl-it/artist/3aFnXkfp5Z2Ac9DLorgJ4S?si=422bQj7vTt-nhAdFamLlsw

Link al profilo Instagram di Angelica:

https://www.instagram.com/santangelica

13 Maggio 2024.

In Schede

L’ultimo Gabo. Recensione a “Ci vediamo in Agosto” – G. Garcia Marquez

di Matteo Caputo

Molti anni dopo la sua morte, di fronte al plotone di esecuzione dei critici militanti, lo scrittore Gabriel Garcia Marquez si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio del 1999 in cui aveva letto, lasciando a bocca aperta il pubblico della Casa de America di Madrid, il primo racconto di un libro che stava scrivendo…

Sono passati due lustri da quando “Gabo” ci ha lasciati un po’ più soli. E quest’anno, nel giorno del suo compleanno – il 6 marzo –, esce per Mondadori “Ci vediamo in agosto”, il suo ultimo romanzo, con la traduzione d’autore di uno che, con lo spagnolo, ha un lungo e curioso passato, raccontato in un articolo di qualche tempo fa su Le parole e le cose: Bruno Arpaia.

Sull’interessante avventura del testo e sulla sua ricostruzione – a volte le storie hanno una propria storia che è altrettanto affascinante – vi rimando alla nota finale del curatore, Cristobal Pera, allegata in traduzione alla fine del volume, assieme ad alcune stupende riproduzioni dei fogli che l’autore stesso correggeva o faceva correggere da Monica Alonso, la sua segretaria.

Il breve romanzo narra la storia di Ana Magdalena Bach, madre e moglie cinquantenne che vive un matrimonio tutto sommato felice con Domenico Amaris, direttore del Conservatorio Provinciale. La protagonista, assecondando la richiesta della madre morente di voler essere seppellita in un’isola caraibica, torna ogni 16 agosto a visitarne la tomba, ripetendo ossessivamente lo stesso rituale. Sullo sfondo di un mondo che cambia e si adatta sempre più alla modernità, Ana Magdalena si concede una sola notte di passione con uomini ogni volta diversi, per tornare infine dal marito – che ama e che a propria volta la ama, si legge nel romanzo. A differenza dei primi anni, quando gli incontri avvengono in maniera totalmente accidentale, ad un certo punto la casualità nel concedersi ad un uomo in quel preciso giorno di metà agosto finisce per tramutarsi in necessità, mostrando così quanto si affidi ad un ordine più il caso che le direttive della volontà. La frustrazione che la difficoltà nel reiterare questi incontri con il fascino delle prime volte causa alla protagonista finisce per perforare lo strato di un amore privo di sofferenze. Sarà a questo punto che, nel finale, la donna, che porta con sé lo stesso nome della seconda moglie di Bach, prende una decisione inaspettata e carica di risvolti, soprattutto emotivi.

In questo racconto fanno capolino tutti i temi che percorrono senza tregua l’opera di Garcia Marquez, a partire dalla solitudine: una solitudine che è, ancora una volta, incomunicabilità. Col marito, con la figlia che vuole monacarsi, con il primo uomo che, scambiandola per una prostituta, le lascia venti dollari tra le pagine di Dracula. E dunque, come già accaduto ad alcuni personaggi femminili precedenti dello stesso autore, c’è una volontà attiva, consapevole, quasi di una sensibilità contemporanea diremmo, di aggredire l’ineludibile disegno del destino, che l’aveva prima di tutto indotta a piangere di rabbia contro sé stessa per la disgrazia di essere donna in un mondo di uomini.

In ciò è la forza e la novità di un libro su cui pesa l’assenza di un imprimatur da parte del suo autore: una protagonista come solo centro della storia. Una donna che consapevolmente decide di tradire per nient’altro che un briciolo di vita più intensa del normale. Non ha alibi e non ne cerca: ogni 16 agosto è una diversa corda pizzicata sul proprio cuore per ascoltare il suono che ne viene fuori. Del resto, tutto il romanzo, percorso da incessanti richiami alla musica, è una partitura composta da tante variazioni sul tema. A caratterizzare il ritorno del quasi uguale, infatti, troviamo i numerosi elementi che fanno da contrappunto alla ciclicità della situazione: dall’uomo con cui la protagonista si ritrova a letto, al libro che in quel preciso giorno sta leggendo, per finire ai tanti richiami al mondo della musica.

Tuttavia, non a caso abbiamo parlato di ciclicità: è un termine – o, per meglio dire, un’idea – con il quale il lettore di Gabo ha parecchia familiarità. Il tempo, molto spesso, anche in una storia piuttosto lineare e priva di notevoli salti temporali nel futuro o nel passato come questa di cui stiamo parlando, non è lineare. Non c’è un termine verso cui il cronometro del mondo viaggia, non un termine realmente ultimo, né divino, né tantomeno personale, dato che la morte, come abbiamo visto, non è un impedimento al continuare ad agire in vita. Lo dice e lo pensa bene Ursula, la protagonista più grande di Cent’anni di solitudine:

“Cosa volete farci,” mormorò [José Arcadio Segundo], “il tempo passa.”

“È vero,” disse Ursula, “ma non così tanto.”

Appena Ursula l’ebbe detto, si rese conto di aver dato la stessa risposta che aveva ricevuto dal colonnello Aureliano Buendìa nella sua cella di condannato, e ancora una volta rabbrividì constatando che il tempo non passava, come lei aveva appena ammesso, ma girava in tondo.

Una presa di consapevolezza simile è quella di Ana Magdalena che, a un certo punto, illuminando con la mente i lati più oscuri della vita della madre, si rende conto che “non si sentì triste, ma animata dalla rivelazione che il miracolo della sua vita fosse aver continuato quella di sua madre morta.”

Ma il destino piega pure la volontà più granitica: ad Ana Magdalena, sempre più incapace di onorare con costanza e decenza il suo personale 16 di agosto, non resta che una soluzione, quella di portare con sé le ossa della madre per una nuova sepoltura, per spezzare la propria maledizione e polverizzare la propria immagine riflessa:

Allora Ana Magdalena vide sé stessa nella cassa aperta come in uno specchio a figura intera, con il sorriso gelato e le braccia incrociate sul petto. […] Non soltanto la vide com’era stata in vita, con la sua tristezza inconsolabile, ma si sentì vista da lei dalla morte, amata e pianta da lei.

Nelle crescenti recensioni si legge, con una certa sensazione di entusiasmo smorzato e di aspettative deluse, che questo non è certo il miglior romanzo di Gabo. Ma la domanda che qui sorge spontanea è: perché avrebbe dovuto esserlo? Perché un autore – soprattutto un Nobel – è costretto ogni volta, pure dal regno dei morti, a scrivere un capolavoro? È una cosa che cozza con la logica. E cozza anche con la volontà (tradita) dell’autore di non pubblicarlo, con la sua effettiva incapacità di rivederlo tenendo a mente il quadro completo, con la sua distanza – tutta da dimostrare per la verità – dalle sue opere più note. Del resto, c’era da aspettarselo: come dice lo stesso Arpaia, nella sua Introduzione al secondo volume di Opere narrative dei Meridiani, “bel problema, aver scritto appena quarantenne nientedimeno che Cent’anni di solitudine”. Che non sarebbe stata la sua opera migliore, in fondo, ce ne eravamo resi conto dal suo carattere di “scarto”. Ma ciò non toglie che stiamo parlando di uno scarto che vale la pena leggere col gusto con cui, dell’autore di Aracataca, si legge tutto il resto. Un ultimo incontro con un caro amico, un’ultima notte di passione con un vecchio amore: ecco come dovremmo accogliere questo gradito regalo consegnatoci, come fossimo in un romanzo di Gabriel, da un tempo e un mondo che non riusciamo ad afferrare.

Gabriel Garcia Marquez

Ci vediamo in agosto

trad. di Bruno Arpaia, Milano, Mondadori, 2024

€ 16,62

In Schede

“Dalla stessa parte mi troverai” di Valentina Mira: un puzzle di amore, lotta e tenerezza per chi ha «er còre grosso come ‘na Golia»

di Carmen Rampino

Roma, 13 aprile 2024. Fa caldo, davvero troppo caldo anche per la primavera romana. Potrebbe essere tranquillamente giugno. Il sole illumina le pareti sbiadite color pastello delle case del quartiere Garbatella, i murales sembrano rinati e tutto sembra avvolto dalla più dolce tranquillità, le persone sono gioviali, memori forse della recente vittoria della Roma contro il Milan. Partendo da viale di Villa Lucina giungere a Casetta Rossa, uno dei cuori pulsanti di questo colorato quartiere, è un’esperienza che ti ridà vita se un po’ di grigio ha invaso la tua anima.

Sono le 18.00, le sedie sono pronte, il pubblico è altrettanto pronto per ascoltare la voce di Valentina Mira, autrice di Dalla stessa parte mi troverai, in dialogo con Rossella Scarponi. Proposto da Franco Di Mare, il libro è stato incluso nella dozzina dei candidati al Premio Strega 2024. Anche l’aria che ha avvolto la pubblicazione del libro si è riscaldata troppo, e quindi l’eccessivo rumore delle polemiche ha sovrastato il valore dell’opera stessa. Cerchiamo allora di ripartire proprio da qui. Prima però è necessario fare una precisazione, un disclaimer doveroso: le parole che stanno per seguire sono del tutto inaffidabili, scritte di getto non appena è stata voltata l’ultima pagina del libro. Dunque, cari lettori, se ambite ad un giudizio lucido, rigoroso e razionale non fidatevi, ma se amate un libro proprio quando vi rende folli, vi scombussola e disorienta, allora fatevi questo regalo e non perdetevi questo viaggio.

La narrazione parte dalla leggenda della fondazione di Roma, da Acca Larentia che allattò Romolo e Remo:

Roma sorge dalla violenza. Da due parti inconciliabili, e dalla scelta di una delle due di prevalere sull’altra. Roma nasce dalla violenza. Inizia tutto con una lupa. Con il latte e con il sangue. E così continua. (Mira 2024, p. 11)

E di latte e sangue sarà intrisa tutta la storia delle pagine successive. I tempi che la compongono sono molteplici, come molteplici sono i binari narrativi che si incroceranno. Si parte dal 7 gennaio 1978, quando davanti alla sede del Movimento sociale italiano nel quartiere Appio Latino vengono uccisi due militanti di estrema destra. Dagli scontri con le forze dell’ordine successivi a questo evento morirà anche una terza persona appartenente al gruppo neofascista, ma il sangue che si porta dietro quel 7 gennaio non ha ancora finito di scorrere. Nove anni dopo, il 30 aprile 1987, la storia infatti ricomincia. Viene arrestato un militante di sinistra, Mario Scrocca, accusato di aver partecipato all’operazione che portò ai fatti di Acca Larentia. Il giorno dopo, il primo maggio 1987, Scrocca verrà trovato impiccato in una cella anti-impiccagione del carcere Regina Coeli: molti conti su questo triste epilogo però non tornano. Mira sceglie proprio di focalizzare l’attenzione su questo episodio correlato a quel 7 gennaio 1978 che la Storia sembra aver dimenticato. Accanto a questi primi due tempi se ne incrocia un terzo. Nel giugno 2021 Rossella Scarponi, vedova di Mario Scrocca, e Valentina Mira, l’autrice, si incontrano. Tra le due inizia un dialogo che porterà alla stesura di questo libro. Ma perché leggere un libro sugli anni ’70 raccontati da una giovane autrice poco più che trentenne che di certo non li ha vissuti? Perché decidere di fidarci? Perché si scoprirà pagina dopo pagina che ciò di cui parla incontra direttamente la sua vita personale e particolari episodi che l’hanno segnata. Infatti, i vari piani temporali e narrativi del racconto si alternano, per poi intrecciarsi e incontrare anche la vita di Valentina Mira, quella che l’ha portata a frequentare da vicino gli ambienti neofascisti, di cui soprattutto alcuni quartieri della capitale sono intrisi, vivendo una relazione sentimentale con un ragazzo di estrema destra. Allora perché scrivere di questo avvenimento? Di certo non per fare più luce su una vicenda che continua ad essere avvolta da troppe ombre. Infatti, non è un reportage o un’inchiesta. Il racconto, dichiara Mira, «ha a che fare con qualcosa di più difficile da esprimere. In parte con una sorta di colpa da espiare: il fascismo dentro e intorno a me» (Mira 2024, p. 191), e poi prosegue utilizzando una parola interessante «per provare a fornire anticorpi. Tentare di dare strumenti per salvarsi alle altre “te” che ci stanno in giro per il mondo» (Mira 2024, p. 191). Questa vicenda può riuscire a salvare altre persone e avrebbe potuto salvare lei stessa («Il punto è che, ne sono convinta, se avessi saputo tutta la realtà su Acca Larentia mi sarei salvata io stessa» – Mira 2024, p. 55). La storia che racconta intreccia quindi la sua biografia, i suoi sensi di colpa. Precisamente da pagina 46 l’autrice e la sua vita entrano a gamba tesa, prepotentemente, nella macrostoria: «La gente con i mocassini ha a che fare col motivo per cui ho scelto di raccontare questa storia. E a volte vorrei soffrire di vittimismo autoassolutorio come loro. Purtroppo non mi appartiene. Sono colpevole di averli frequentati: non una vittima ma una complice» (Mira 2024, p. 46). I due piani narrativi si intersecano fino a sovrapporsi e confondersi nel discorso sul vittimismo dei carnefici (Cfr. Mira 2024, pp. 212-214). Accanto a questo, l’altro grande motivo per cui ridare spazio pubblico alla vicenda, è quello più pratico e più pregno di speranza, la speranza che qualcuno si penta del suo silenzio e, anche dopo anni, contatti Rossella e le dica com’è morto il suo amato marito (Cfr. Mira 2024, pp. 243-244).

Dalla stessa parte mi troverai è prima di tutto la narrazione di un amore. Questo viene rivelato dall’autrice stessa: «questa storia è anche, e innanzitutto, una storia d’amore. E l’unico odio che la riguarda, è quello che da amore nasce. E di amore si alimenta. Per cui, piaccia o meno, è proprio da qui che partirò. Dall’amore» (Mira 2024, p. 18). Siamo nel 1978, Rossella vive alla Garbatella e fa parte del collettivo femminista del suo liceo. Mario, che vive alla borgata Alessandrina dove non c’erano (e non ci sono) marciapiedi, sceglie la via dell’impegno politico, ad esempio attraverso volantinaggi su argomenti semplici ma urgenti, come la mancanza di marciapiedi nel suo quartiere o il rincaro dei beni primari. Tutto inizia a San Valentino, il 14 febbraio 1978, a partire da un semplice sguardo. La sedicenne Rossella vede colui che poi scoprirà chiamarsi Mario e «le si forma in testa un pensiero strano. Un pensiero che non ha mai avuto prima. E che è come una giornata di sole, di quelle che ti mettono il buon umore, ma anche su cui non hai alcun controllo: cavolo, dice questo pensiero nuovo di zecca, io quello me lo sposo» (Mira 2024, p. 22). E così sarà. Una relazione intensa, tristemente breve, ma così ricca da permettere ai due protagonisti di vivere nel giro di pochi anni tutte quelle sfumature del sentimento d’amore che molti non provano mai, neppure nell’arco di una vita intera, neppure se la loro vita non viene prematuramente spezzata. Seguiamo da vicino il tempo dell’amore dei due adolescenti tra un motorino tonante, i molti maglioni oversize, le false Clarks ai piedi, le lotte dei compagni, gli appuntamenti presi tramite telefono fisso e i vivaci scambi di battute in vivo romanesco. 

La grande abilità di Mira nella narrazione si evince proprio dal modo in cui ci permette di accedere e vivere, attraverso le parole, questa dolce, malinconica e successivamente dolorosa relazione d’amore: per mezzo di una lente acuta e sensibile riesce a penetrare continuamente all’interno dei pensieri di Rossella, la vera protagonista, il focus attorno cui tutto si dispiega, quella che seguiamo per anni da quando è una ragazzina fino ad oggi.

Quando Mario, ormai infermiere professionale, verrà trovato morto a Regina Coeli, Rossella avrà solo venticinque anni e un bambino di due – il piccolo Tiziano – da crescere. Il bambino è in questo momento al centro di una scena tanto potente quanto struggente. Tiziano si trova dalla nonna e gli va di traverso del cibo, «nello stesso momento in cui succede che Tiziano sta soffocando, nel carcere di Regna Coeli suo padre muore impiccato. In una cella anti-impiccagione» (Mira 2024, p. 88). È come se tutto ciò che ci avevano insegnato i grandi autori del Novecento, tra cui Buzzati, su quella assurda e folle contemporaneità del tragico e del comico, del “mentre io piango tu ridi” che non permette mai pienamente di partecipare al dolore altrui, venisse meno di fronte al viso di un bambino, di un figlio privato di un padre.

Lattanzio, De Gregori, Catullo, Il muro del canto, Leonard Cohen, Andersen, Pink, Ovidio, Freud, Esopo, De André sono solo alcuni dei nomi che compongono il caleidoscopio, anzi il multiforme mosaico di tessere che in maniera perfetta si incastonano agilmente in un ricco pastiche di citazioni. Queste chiariscono come tutto è sfumato, non esiste più la netta separazione tra cultura alta e cultura bassa. Le citazioni sono sfaccettate come sfaccettati e sfumati siamo tutti noi. L’aspetto però più interessante è che l’esperienza della lettura va oltre la lettura stessa coinvolgendo, oltre alla vista, anche altri sensi, perché il lettore è stimolato continuamente e non appena verrà citato un video aprirà YouTube per vederlo, non appena verrà citata una canzone ascolterà la canzone. Ne viene fuori una fitta rete intertestuale, o meglio un universo narrativo esteso, che si allarga a dismisura coinvolgendo altri media e coinvolgendo integralmente il lettore. Lo si potrebbe chiamare libro transmediale, figlio del suo tempo, che straripa e vuole andare oltre i confini della carta stampata per colpire il lettore direttamente al cuore. Accanto a questo, utilizza una lingua composita, eterogenea e soprattutto sincera, piena di quella patina romanesca che solo una lingua così viva può dare: insomma una perfetta narrazione postmoderna che ha però ereditato anche la tradizione della scrittura breve e concisa del web e dei social tralasciando la loro frivolezza e accogliendo una grande profondità. La struttura dell’opera è poi gradevolissima: unità brevi, chiare, semplici, che diventano dei piccoli pezzi di un puzzle in cui tutto converge versol’emozione. Questo ritmo sostenuto crea nel lettore quell’effetto dipendenza tipico della serialità televisiva. I brevi capitoli con titoli accattivanti rendono tutto rapido, veloce. Il tono non cede mai.

Dalle citazioni alla lingua, dal desiderio di spiegare in poche parole questioni complesse agli argomenti scelti, fino alla struttura che, sebbene di sole parole, un po’ riprende quella del romanzo a fumetti, tutto (o quasi) ci riconduce ad un unico nome: Zerocalcare. La sua presenza ingombrante si percepisce chiaramente e non a caso è citato più di una volta, essendosi occupato anche lui in alcune tavole della stessa vicenda. D’altronde entrambi, pur in modo estremamente diverso, si sono nutriti dei simili orizzonti della controcultura della Capitale.

A questo libro si potrebbero fare tantissime critiche (tranne forse quelle che gli sono state rivolte da alcuni giornali molto orientati e da esponenti di alcuni partiti politici): dall’essere a volte troppo rapido e semplicistico su alcuni passaggi che meriterebbero un approfondimento maggiore, al rischio di sembrare molto manicheo; ma questi limiti nel complesso di tutta la narrazione perdono vigore. E poi ci sono dei luoghi in cui traspare chiaramente una certa onestà intellettuale. Si consideri ad esempio il capitolo Apri l’inchiesta, chiudi l’inchiesta. A pagina 115 si legge:

«dopo che sono uscite fuori le lettere da cui sembra che Mario si sia davvero suicidato, alcuni compagni si sono allontanati. Evidentemente, su un piano politico, stare vicino a una persona il cui marito si è suicidato viene reputato inutile e sconveniente. Serve solo se l’hanno sgobbato le guardie» (Mira 2024, pp. 114-115).

Al netto delle critiche, è sicuramente un’ottima prova narrativa per una giovane scrittrice come Valentina Mira. Un’opera che cattura l’attenzione dei lettori fin dal suo incipit che ti intrappola e ti irretisce fino all’ultima riga dell’ultima pagina senza alcun tipo di cedimento. Uno di quei libri che ti fanno soffrire di un’anticipata nostalgia perché, quando sei ancora a metà desideri che non finisca. Sarà che parla di Roma quando chi sta scrivendo si è appena trasferita in questa città un poco assurda, sarà la lingua utilizzata, saranno quelle imperfezioni formali che proprio rendono perfetto il risultato finale, fatto sta che questo libro è una scoperta, una vera rivelazione. Anche quando si rivela più retorico, dogmatico o semplicistico, questo libro ci fa innamorare, non lasciandoci indifferenti.

Ma ritorniamo al punto di partenza. È l’ora del tramonto quando la vivace presentazione finisce. L’autrice si intrattiene a firmare le copie e a fare due chiacchiere con gli ascoltatori. Il sole ormai sta morendo. Le case slavate del quartiere, che ricordano proprio quelle di carta di un presepe, si tingono di arancio e rimane la curiosità di leggere un libro che è necessario per ridestare la memoria antifascista e la cui tenerezza per certi aspetti «ti fa stringere il cuore fino a fartelo sentire piccolo come… io dico ‘na Golia» (Mira 2024, p. 220).

TESI CITATI.

Valentina Mira, 2024, Dalla stessa parte mi troverai, Milano, SEM.