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Antonio R. Daniele

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“Beetlejuice…Beetlejuice” – Tim Burton 2024

di Umberto Mentana

Tim is back! Tim Burton è tornato. Quante volte stiamo leggendo e ascoltando questa tagline, in particolare sul web, nelle ultime settimane? Credo che innumerevoli volte sia il numero che più si avvicini. Da parte mia però utilizzerei un  vocabolo  più consono alla natura del regista/artista californiamo: Tim Burton è ri-tornato. È ritornato dove tutto è incominciato, trentasei anni fa e attenzione, non è esclusivamente un discorso di ripresa di un sequel perché, quello di Beetlejuice Beetlejuice è un vero e proprio percorso a ritroso sui propri passi, alla ricerca di un amore, di una firma, quella di sé stesso e del proprio Cinema.

Per Burton, la carriera di amante dei cimiteri incomincia da ragazzino, nel 1982, nei sobborghi californiani di Burbank con il cortometraggio Vincent, utilizzando la sua amata stop-motion e dotando questo piccolo-grande film della voce narrante di un “mostro” sacro come Vincent Price. Il corto è già un manifesto del suo stile e della sua idea di arte, della sua poetica dark e sulla forza emotiva di cui sono portatori i suoi outsider. Poco dopo avviene la sua incursione nel live-action con l’ancora incerto Pee-Wee’s Big Adventure (1985), ma sarà proprio Winter River, con lo “spiritello porcello” Beetlejuice (1988) a dare i natali alla sua inconfondibile firma d’autore  prima addirittura di quel 1990.  Questo decennio in assoluto porterà in  alto il suo nome per una  emotiva generazione, una folta schiera di  ragazzine e ragazzini amanti dell’oscurità e di altri strambi sentimenti. Il 1990 è l’anno di Edward Mani di Forbice e il suo Cinema diventa “burtoniano”, le sue storie dal forte imprinting visivo divengono fiaba, sì dark ma da batticuore. Da lì in poi si sussegue una filmografia distrofica ma allo stesso tempo coerente su vari registri: a volte con più humour, a volte più spettacolare…prima del grande buio avvenuto a tratti negli ultimi anni con opere decisamente minori dove una flebile voce sussurra al suo orecchio ricordando chi e cosa faceva Tim. Sono gli anni di una sovrabbondanza di CGI, a mio vedere la morte della meraviglia, e per Burton è assolutamente importante questa indicazione poiché per un autore che ha fatto dell’incanto, della reciprocità, del legame, in particolare con l’inconoscibile e del soprannaturale, la sua viscerale identità, “plastificare” tutto con una caterva di effettacci digitali – naturalmente abbinati ad una scrittura e ad uno storytelling visivo modesto – non è che espressione di un allontanamento, e l’allontanamento porta una mancanza di amore. Ed è questo che ha pian piano incominciato a provare il nostro caro poeta del macabro, Tim Burton, nei confronti del Cinema  È stato lui stesso a confermarlo più volte, soprattutto dopo l’insuccesso di Dumbo (2019), un film tronfio di CGI e spento di passione.

            Ma arriviamo a oggi. Non è passata un’eternità dal 2019, eppure, l’universo mediale si è assolutamente trasfigurato nelle forme e nei meccanismi: concluso il picco della parabola dei cinecomics con Avengers: End Game (sempre 2019, dir. Russo brothers), si assiste sempre più spesso a un ritorno,  un viaggiare all’incontrario per ricreare una autenticità perduta, con una certa dose di selvaggia materica. E le piattaforme di streaming on-demand non lasciano aleggiare a lungo questi “movimenti” della società non ascoltandoli, e le migliori storie di questi anni venti puntano tutto sulla nostalgia e sull’ “artigianato” (Stranger Things su tutti da capostipite del filone fin dal 2016).  Quale migliore nostalgia creativa, dunque, se non re-brandizzare e rimettere in pista Tim Burton in un contesto e con  un gusto del pubblico nuovamente più consono e vicino al suo sentire? Con l’uscita di Beetlejuice Beetlejuice (2024), secondo viaggio all’interno della difficile ma esilarante convivenza fra i morti e i vivi, i volti del cast storico hanno dichiarato ironicamente che Tim Burton ha aspettato trentasei anni per fare il secondo film perché doveva nascere Jenna Ortega. E infatti, forse può essere proprio questo il fulcro della sua parabola artistica in piena rinascita. Miss Ortega è infatti più nota al pubblico come Mercoledì Addams, protagonista della serie Netflix Wednesday di enorme ed incalcolabile successo di cui Burton ricopre il ruolo di creatore-ideatore (showrunner) e regista di alcuni episodi (la serie è stata rinnovata ad oggi per altre stagioni). Il mondo narrativo della famiglia Addams è un soggetto che il nostro Tim si portava dietro fin dall’infanzia, da cultore dei mitici fumetti della macabra famiglia creata da Charles Addams. Pertanto sì, Tim Burton è ritornato ad essere sé stesso, dichiarando di essersi innamorato di nuovo dopo l’esperienza seriale di Mercoledì.  Così, trentasei anni dopo, ritorna al Cinema a Winter River dove tutto è incominciato per ritrovarsi in compagnia di coloro che hanno dato avvio alla sua Storia Cinematografica: Winona Ryder, Michael Keaton, Catherine O’Hara, e ovviamente anche Jenna Ortega fautrice ed immagine simulacro di Mercoledì che rappresenta per Tim Burton una personificazione della sua rinascita. Tutto questo è Beetlejuice Beetlejuice, un film dalle sfiancanti e dovute citazioni e connessioni, partendo dalle carrellate iniziali sui luoghi della cittadina che in realtà, come nel primo capitolo, si riduce ad essere un plastico in miniatura della città stessa, quasi a svelare la natura paradossale e fantastica del film. E il tempo a River Winter non sembra essersi arrestato, con la piccola galleria di pittura rossa che viene attraversata in bicicletta non più da Winona Ryder (Lydia Deetz) ma da sua figlia Astrid (Jenna Ortega), in questo film personaggio apparentemente lontano dalle manifestazioni dark della madre. Più del plot mi vorrei concentrare invece a rintracciare questi frammenti dell’universo burtoniano in piena reconquista, e attenzione non è un lavoro di citazionismo fine a sé stesso. Quello che avviene in Beetlejuice Beetlejuice è tutto, a mio vedere, perfettamente incasellato con  un ritmo e una naturalezza che io non ho trovato stucchevole né stanca e ‘marchettata’, come invece era avvenuto spesso nelle sue ultime prove cinematografiche. Le gag di Michael Keaton (l’indemoniato Beetlejuice), coloratissime e spumeggianti, sono degne e vicine alle espressioni più efficaci del Joker burtoniano interpretato da Jack Nicholson (Batman, 1989), Monica Bellucci invece è…letteralmente una Sposa Cadavere (Tim Burton’s Corpse Bride, 2005), celebrata da tagli di cucitura su tutto il corpo visivamente vicini alla Sally de The Nightmare Before Christmas (1993, dir. Henry Selick) mentre la sequenza del racconto di Beetlegeuce – pronunciato Beetlejuice – nel quale illustra in medias res l’angusto incontro con la “succhianime” Delores (Monica Bellucci) è una celebrazione in bianco e nero dell’horror targato Universal – ma anche un po’ del Frankenstein di James Whale, 1931 – nonché, ovviamente, ritroviamo in questo fittissimo bianco e nero un pezzettino del suo, per me, immortale Ed Wood (1994) e del sensibilissimo Frankeenweenie (cortometraggio del 1984 e successivamente lungometraggio animato del 2012). Dunque Beetlejuice Beetlejuice segna un ritorno a quell’artigianato nella tecnica che poc’anzi ho cercato di individuare. Tim Burton accantona questa volta l’esasperazione della computer grafica per riabbracciare la tangibilità delle sue creazioni artistiche e il film ne guadagna esponenzialmente: memorabile è la sequenza in stop-motion incentrata sul povero capofamiglia Deetz de-umanizzato in puppet per l’animazione a passo uno. Infine, come non affezionarsi al tenerissimo ma allo stesso tempo inquietante Bob? Una corpulenta creatura, a capo di uno degli uffici infernali dell’aldilà, dalla testa minuscola la cui sproporzione anatomica fa il verso ai terrificanti alieni di Mars Attacks! (1996),e che riverbera presenze del primo capitolo del film. Insomma, scenari su scenari di riproposizione e di svecchiamento si confondono, si intrecciano, si amalgamano nascosti sotto la sabbia in Beetlejuice Beetlejuice, come gli spaventosi Vermi delle Sabbie, e questa cura maniacale e di puro divertimento di creazione manuale è ben tangibile in ogni angolo del film: le location dell’aldilà già perfettamente in mood con tutto lo “spirito” (battuta infelice ma dovuta!) dell’opera sono ricreate con una cura e con un design scompigliato e curveggiante di perfetta coerenza burtoniana, oltre a far popolare i numerosi ambienti della burocrazia infernale di una numerosissima pluralità di personaggi, caratterizzati da una vivida identità visiva che li fa risultare indimenticabili (e non solo l’ispettore-attore Wolf Jackson, interpretato da Willem Dafoe) anche esclusivamente per la loro presenza on-screen.

Le sequenze più folli di questo corale trip visivo tutte ricadono naturalmente quando è in scena il volgarissimo bio-esorcista Beetlejuice che a suon di scherzetti degni del Jim Carrey di The Mask, cerca in tutti i modi di coronare il suo sogno d’amore con l’antica amata darkettona Lydia Deetz, anche utilizzando gli escamotage del musical, cantando e proponendo canzoni spassosissime.

            Concludendo, dal Festival del Cinema di Venezia 81 dove Beetlejuice Beetlejuice è stato proposto come titolo di apertura, all’exhibition di grande successoThe World of Tim Burton (in Italia al Museo del Cinema di Torino presso la Mole Antonelliana dall’Ottobre 2023 ad Aprile 2024, ci sono stato e l’ho amata profondamente!), alla stella numero duemilasettecentottantotto sulla Hollywood Walk of Fame assegnatagli questo 3 Settembre, si può sinceramente dire che l’amico che costellava le mie giornate da spettatore ispirandomi con mostri e altre sensibilissime creature, quel corvo gracchiante che avevo sulla spalla e che non vedevo da un pezzo è ritornato…divertendosi come un pazzo. Beetlejuice Beetlejuice Beetl! Ops, non converrebbe pronunciarlo una terza volta, o forse sì? Per il momento fermiamoci qui e grazie di tutti questi fantastici orrori.

In Appunti di Lettura

Trilogia di Beckett: “Malone muore” #2 pp.707-846

di Demetrio Paolin

[le pagine citate nel testo si riferiscono al meridiano Mondadori, Samuel Beckett Romanzi, teatro e televisione a cura di G. Frasca]

Partiamo dall’inizio ovvero dalla fine. La prima cosa che colpisce di Malone muore è il titolo, che nasconde in sé alcune particolarità proviamo a vederle. Un certo tipo di ermeneutica, penso a Gadamer o Heidegger, vede nell’enunciazione del linguaggio una sorta di risposta a una domanda il più delle volte implicita. Cioè quando diciamo: “Il cielo è azzurro”, in realtà non stiamo enunciando un fatto, ma rispondendo a una domanda: “Di che colore è il cielo?”. Ho l’impressione che qualcosa di simile succeda con questo titolo, che si carica quindi una certa dose di ambiguità. Il titolo, Malone muore, sembra la riposta al quesito Ma alla fine del libro cosa succede? Insomma siamo dalle parti in gioco metalinguistico che riduce la storia, ciò che accade al personaggio – cosa è la storia di un romanzo se non i fatti che via via accadano al personaggio/ ai personaggi principali? – al semplice titolo. Beckett in questo modo risolve, se vogliamo, la trama, la svuota: la trama, l’intreccio, la fabula, il capriccioso intrecciarsi di queste linee narrative logiche e cronologiche è risolto da Beckett con il titolo. Lettore, sembra dire lo scrittore irlandese, sappi che il protagonista alla fine morirà. Il tema del romanzo, la sua parabola narrativa sono già conclusi nel giro delle due parole del titolo. C’è da pensare, leggendolo, che Beckett abbia voluto giocare con un altro stereotipo, abbiamo visto in Molloy una delle strutture portanti della narrazione sia la narrativa di genere. Molloy è costruito come noir, come un giallo, soprattutto quando entra in scena Moran, che possiede in parte le caratteristiche dell’investigatore privato. Siamo, quindi, in Molloy nell’ambito del giallo che però  ha una conclusione aperta: Moran non arriva a trovare Molloy e torna in casa e inizia forse a scrivere la storia di Molloy per giustificare il suo comportamento. In questo caso SB ci fornisce al soluzione della storia subito: Malone muore.

Morire o finire. Aggiriamoci ancora intorno al titolo e alle prime pagine del romanzo, uno dei termini che viene più spesso detto dall’io narrante, che solo molto più av,anti nel racconto saperemo chiamarsi Malone, ma noi sempre complice il titolo, indubitabilmente chiamiamo così, sappiamo anzi che questo è il suo nome; comunque Malone/Io narrante usa più volte la parola “finire”. Ora morire e finire pur avendo un dato connotativo vicino, non sono la stessa cosa. È tipico dell’uomo il morire, è tipico delle cose finire: un uomo muore e un libro finisce. L’esempio non è, in questo caso neutro, ma è pensato con raziocinio, perché Malone parla di finire, cosa è che finisce? In che modo Malone finisce? Finiscono forse le sue parole, le sue azioni, finisce la sua vita, ma in questo caso Malone muore. Che rapporto intercorre tra queste due realtà? L’uomo si è trasformato in oggetto e l’oggetto finisce. Eppure questa ipotesi non mi convince, leggendo il libro non mi pare mai che Malone si reifichi, si faccia cosa, potrebbe esserci una diversa tensione, una più complessa relazione tra finire e morire. Per capire meglio proviamo a guardare a fondo la struttura narrativa della storia.

Lo spazio bianco.  Guardiamo le pagine che compongono la trilogia nel suo insieme: l’impressione è quella di trovarci davanti a un muro di parole, con il passaggio da Molloy, a Malone muore e da quest’ultimo a L’innominabile questa impressione aumenta. Quando guardo queste pagine mi viene in mente la poesia: la poesia lavora sugli spazi bianchi, gli a capo, la strutturazione dei versi, una vera e propria composizione, alcune volte architettonica, la poesia, certa poesia secondo novecentesca, è l’esatto opposto di queste pagine di Beckett. Cosa significa lo spazio bianco e cosa significa negare lo spazio bianco? Leggendo Beckett ho pensato più volte a Celan, e mi sono chiesto se mai negli anni i due si siano mai incrociati, visti, parlati, scritti e/o letti, non ho fatto nessuna ricerca in merito, perché non volevo che la oggettiva e fredda realtà dei fatti si sostituisse alla mia immaginazione; perché penso a Celan, mentre leggo Beckett?

La riposta stra nel rapporto tra la parola e lo spazio nella pagina, tra il nero della parola e il bianco della pagina. Nero e bianco sono in Celan da sempre una coppia distintiva del suo pensiero, pensiamo solo a Fuga di morte e al “nero latte”. Celan costruisce le sue parole intorno al bianco della pagina, il nero della parola detta si fa spazio nel bianco silenzio; Beckett lavora su qualcosa di simile, ma riempie l’intero bianco, lo satura con le parole. A proposito di questo, si veda la nota di Frasca al Meridiano, dove riferendosi alla composizione di Malone muore, ragiona sulla scelta di Beckett di considerare concluso il romanzo, nel momento in cui avesse riempito l’ultima pagina del quaderno su cui andava componendo la prima stesura. La scrittura, quindi, occupa uno spazio fisico, deve completare la pagina per esistere. Celan e Beckett mostrano ai nostri occhi, nel senso di tipograficamente, due modi di lottare con lo spazio bianco, con lo spazio del silenzio.

Silenzio di cosa?. Verrebbe da chiedere cosa è questo silenzio? A chi appartiene questo silenzio, cosa significa? I personaggi di Beckett, tutti, compreso il clownesco duo di Aspettando Godot, sono spesso vittime di violenza, di soprusi, di incarcerazioni. Abbiamo visto come l’uomo che Beckett racconta è principalmente l’uomo seviziato, l’essere umano, che esce vivo dal disastro della lunga guerra mondiale, è l’uomo entrato in trincea nel 1914 e uscito scheletrico da Auschwitz, dissolto nell’atmosfera a Hiroshima o liquefatto a Dresda (tra il 1942 e il 1945). È quello l’uomo che Beckett racconta nei suoi romanzi e nelle sue opere: l’assurdo della vita è il fatto che la vita in qualche modo continui dopo che tutto ciò è stato. Qualcosa di simile accade a Celan, lascio da parte, perché ci poterebbe lontano, il discorso sulla scrittura in una lingua altra, l’uomo di Celan è come l’uomo di Beckett, sopravvissuto a qualcosa di così enorme e gigante, che butta via ogni cosa, che rimette in gioco la sintassi, il significato, il suono stesso delle parole, le parole in Celan pare proprio che prendano spinta, che sbuchino dalla pagina bianca, che vengano strappate a un silenzio che pare essere il vero destino delle parole.

Sharazade. Cosa è questo silenzio? Che cosa è questo bianco che Celan cerca di puntellare con le parole e che Beckett riempie di lemmi, frasi, paragrafi e capitoli? Io penso che che sia il silenzio dei persecutori. Prendo questo spunto da un bellissimo libro di Escobar, edito alcuni anni fa da Il Mulino, Il silenzio dei persecutori ovvero Il coraggio di Sharazade. I persecutori non hanno bisogno di parole, hanno potere sul corpo di coloro che torturano, la tortura non può essere espressa a parole, può diventare grido disarticolato, rumore, digrigno, ma non è parola, non è sintassi (ovvero armonia), i persecutori godono del silenzio, vogliono il silenzio, la vittoria dei persecutori è la bancarotta della parola, non abbiamo parole per dire ciò che è stato, o le parole per dirlo suonano strane, inoffensive. Il bianco è il colore dei persecutori, il bianco di chi non ha lasciato tracce, non è causale che gli atti più gravi e compromettenti ad esempio dell’organizzazione dello sterminio non siano disponibili o siano rintracciabili a fatica: la persecuzione funziona meglio nel bianco cristallino del silenzio, il torturatore è asettico, perché ha a che fare con il corpo, con la parte muta&animale dell’uomo: l’uomo torturato viene privato della propria parola e poi del proprio corpo. Alla fine della tortura l’uomo riavrà il proprio corpo, dolorante, arreso, perduto, sfatto, ma non riavrà mai più la parola.

Cosa si può opporre a questo? Si chiede Escobar. La risposta sta nel racconto de Le mille e una notte, dove Sharazade racconta per posticipare la morte, per ingannare il sultano, per mettere tra sé e lo spazio bianco della tortura un spazio di parole: le parole, le storie che Sharazade racconta sono il riempimento di quel silenzio. C’è sia in Molloy che in Malone Muore, questa idea del racconto dentro il racconto, di narrare per ingannare la morte che giunge che, mi pare, riprenda chiaramente il topos di Sharazade: Malone, ancor di più di Molloy, è descritto come un uomo che racconta storie, come se la possibilità di narrare la storia allontanasse da sé tutto il male possibile. In questo senso Celan e Beckett, in maniera stilisticamente diversa, ma simile nella tensione morale della scrittura, si oppongono al bianco silenzio dei persecutori: scrivono, producono parole, queste parole, il fatto stesso che siano pronunciate e scritte, differiscono la morte, spostano lo spazio della tortura a alcuni momenti dopo.

Questo ci porta a comprendere come la scelta narrativa della storia dentro la storia, di un racconto che si rifrange in mille rivoli, lungi dall’essere mera scelta narratologica o gioco combinatorio, caro e anticipatorio di un certo postmodernismo, è in primo luogo una scelta ideologica, di visione del mondo, di sguardo ultimo e disperato sull’esistere quotidiano.

[continua]

In Schede

“La notte della svastica” di Katharine Burdekin: cosa saremmo senza Memoria e senza Storia? Un libro proibito per scoprirlo

di Carmen Rampino

Murray Constantine, Katharine Burdekin, Daphne Patai: tre nomi, uno maschile e due femminili, legati da una storia incredibilmente affascinante che ha abbracciato diverse generazioni e che potrebbe non essere ancora finita.

È il 1937 quando l’editore socialista britannico Victor Gollancz pubblica il romanzo Swastika Night. Una copertina gialla su cui si staglia il nome dell’autore: Murray Constatine – il primo dei nomi citati -. Incontra un certo successo presso il pubblico, ma poi scoppia la guerra, gli eventi precipitano e di questo libro non se ne parlerà più, almeno così sembra.

Passano degli anni, precisamente 48. È il 1985, una accademica americana di nome Daphne Patai (terzo nome citato) cura una riedizione di quel libro per Feminist Press e svela al mondo che quel Murray Constantine non è altro che uno pseudonimo dietro il quale non si cela un uomo, bensì una scrittrice inglese poco conosciuta: Katharine Burdekin. Proprio a lei si deve il romanzo di fantascienza distopica, che in Italia fu tradotto per la prima volta nel 1993 per Editori Riuniti e curato da Carlo Pagetti, dal titolo La notte della svastica, «precursore non riconosciuto di tutte le successive distopie» (Gallo 2020, p. 316).

Due anni prima della Seconda Guerra Mondiale e ben dodici anni prima di 1984 di George Orwell, Burdekin ha immaginato un mondo in cui il nazismo ha trionfato e il pianeta è diviso in due tra l’impero tedesco e l’impero giapponese. Già solo l’idea di immaginare una situazione del genere addirittura prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale e dell’alleanza tra Germania e Giappone (al 1940 risale il patto tripartito firmato a Berlino tra Germania, Giappone e Italia), mostra una lucidità e una lungimiranza uniche. Se Orwell in quei dodici anni intercorsi tra la sua pubblicazione e quella de La notte della svastica ha potuto vedere chiaramente gli orrori del nazismo, Burdekin «legge nel futuro come Cassandra l’oscura profezia di un universo in dissoluzione sotto il peso di una ideologia folle e disperata» (Pagetti 1993, p. XI). Eppure proprio Orwell, così attento nei confronti dei suoi predecessori, non menziona mai Burdekin, pur essendo 1984, come confermato da Gallo, un tributo non dichiarato a La notte della svastica di cui uno dei più espliciti legami è proprio l’analisi del rapporto intimo tra sesso e dittatura (cfr. Gallo 2020, p. 319).

Settecento anni dopo il nazismo, nella parte del mondo sottomessa alla Germania, si coltiva il culto per una strana religione che ha deificato Hitler e in cui non c’è più memoria. Si è ritornati ad un feudalesimo senza scampo in cui si crede nell’orgoglio, nel coraggio, nella violenza, nella brutalità, negli spargimenti di sangue, nella spietatezza, nelle virtù marziali ed eroiche (cfr. Burdekin 2020, p. 11). Al centro vi è una realtà brutale in cui non c’è più scrittura e non c’è più memoria e in cui le prime vittime sono le donne. Non esistono sentimenti, affetto o eros. Le donne sono bestie senza dignità, non considerate proprio esseri umani ma macchine per produrre soldati. La natura, però, silenziosamente si ribella non facendole praticamente più partorire femmine, ma solo maschi – «e se le donne avessero cessato di riprodurre se stesse, come poteva continuare ad esistere il Regno di Hitler?» (Burdekin 2020, p. 19) -.

In questa realtà si prova ribrezzo, repulsione, schifo per le donne, abbruttite, rasate, non istruite. Per un uomo è preferibile amare un altro uomo piuttosto che avere rapporti con le donne, che vengono stuprate unicamente per procreare. Una volta nati, i figli vengono strappati via dalle madri perché non considerate idonee all’occuparsi della crescita, dell’allevamento e dell’educazione degli uomini. Solo le bambine vengono lasciate alle madri per ripetere in eterno questo ciclo bestiale. Le donne non si possono amare, non hanno anima e quindi non sono proprio umane. Il mettere in discussione l’umanità delle donne potrebbe apparire un’esagerazione fantastica eppure basti pensare che nell’anonima Disputatio nova contra mulieres (Un nuovo argomento contro le donne) del 1595 si legge un argomento molto simile: «La paroletta homo deriva da humo, dalla terra, e perciò la donna [in quanto nata dalla costola di Adamo, n.d.r.] non può né essere né venire chiamata umana». La fantascienza distopica, dunque, non parte mai dalla fantasia, ma sempre e comunque dalla realtà, anzi la fantascienza è quanto più può farci avvicinare alla realtà. In questa modalità l’autrice rileva soprattutto il legame tra dittatura e sessualità come base del regime nazionalsocialista e il suo esoterismo strutturale. «Nessuno prima di Burdekin ne aveva colto l’intima relazione tra violenza e sessualità, l’insito disprezzo verso le donne che risiede alla base della funzione tecnica di “madre fertile”, la valenza sociale della violenza e il ruolo delle caste quali elementi costituenti dello Stato, la componente religiosa e irrazionale del fanatismo politico e l’uso della dimensione collettiva per indebolire le diversità individuali e favorire il controllo e l’omologazione» (Gallo 2020, p. 319).

E i libri che fine hanno fatto? Solo dei vuoti manuali tecnici e il Libro di Hitler sono sopravvissuti. Altre parole scritte non esistono. I cavalieri e i tecnici sono gli unici a poter accedere alla scrittura. Non si dimentichi che uno degli episodi più emblematici legati al nazismo è proprio il rogo dei libri del 10 maggio 1933. Burdekin aveva insomma ben chiaro che un sistema in cui la cultura è azzerata, dovuta alla totale eliminazione del libro, porta ad una dittatura infinita. Eppure, proprio in questo mondo privato di ogni umanità, brutale, alienato e folle, una piccola fiammella si accende: qualcuno è riuscito a salvare qualche brandello di memoria, ultimo riparo contro l’annichilimento totale dell’umano. Un giovane inglese di nome Alfred, un unico eccezionale libro salvato, una fotografia – la cui ragazza rappresentata rimanda ad un tempo in cui la bellezza della donna derivava proprio «dal sapere di disporre della possibilità di scegliere  e rifiutare; e in parte dal sapere di poter essere  amata» (Burdekin 2020, p. 114) -, un cavaliere un po’ eretico e un giovane tedesco che dovrà fare i conti con tante scomode e dolorose verità, ci porteranno a scoprire come certe convinzioni ritenute assolute su ciò che ci circonda possano crollare e su come una speranza, anche se piccola, possa accendersi. Che non sia proprio il nome della piccola bambina appena nata, Edith, il segno di un futuro cambio di passo che alla fine del libro il lettore può solo immaginare e intravedere?

Ma chi è Katherine Burdekin? Perché ha pubblicato il libro sotto pseudonimo? E perché ha proprio scelto la distopia? Katharine Burdekin, in realtà Katharine Penelope Cade, nacque nel 1896 da una famiglia benestante. Nonostante fosse una studiosa e appassionata di lettura, la sua famiglia non le permise di iscriversi ad Oxford, a differenza dei fratelli maschi. Si sposò e con il marito partì per l’Australia. Ebbe due figlie ma, impossibilitata a vivere quella vita che per lei era una prigione, lasciò il marito, tornando in Inghilterra con le figlie e unendosi finalmente alla donna di cui era innamorata e con la quale vivrà fino al 1963, anno della sua morte. Scrisse numerosi romanzi, ma non tutti vennero pubblicati durante la sua vita. Segnata dalla tragica esperienza della Prima Guerra Mondiale (il fratello andò in contro a gravi problemi psichici dopo aver combattuto) il pacifismo rappresenterà sempre un faro nella sua vita, così come la volontà di superare il più possibile quelle storture legate al genere che esistevano anche in una famiglia benestante come la sua.

Pubblicherà La notte della svastica con un editore marcatamente connotato a livello politico, ma sceglierà lo pseudonimo visto il clima pesante che anche in Inghilterra gli antifascisti dovevano subire in quel periodo. La scelta della distopia si spiega perché si tratta del genere letterario che maggiormente fornisce gli strumenti per percorrere la strada verso la libertà. Attraverso la fantasia l’autrice riesce ancor di più a fare denuncia, molto più di quanto avrebbe potuto comportare una scelta realista. Può sembrare assurdo e paradossale, ma un’opera di questo tipo, così cupa, buia, per certi versi terribile, serve proprio per alimentare la speranza, serve per il futuro, serve per continuare a tutelare, ad avere cura e a proteggere tutte quelle risorse che tante volte mettiamo in discussione. La distopia è utile proprio a questo scopo. Ci scuote, fa traballare le nostre certezze e ci fa amare ancor di più ciò che diamo spesso per scontato. In questo modo l’autrice ci conduce per mano e ci fa va vedere cosa saremmo se non avessimo più memoria, scrittura, scienza, poesia, arte, ricordandoci quanto siano importanti e quanto continui ad essere necessario aggrapparci ad essi.

A partire dal 2021 negli Stati Uniti sono cresciute enormemente le richieste di gruppi organizzati per censurare libri ritenuti osceni e immorali per i giovani. Queste richieste portano in molti casi all’esclusione dalle biblioteche e dalle aule scolastiche libri che hanno come temi la lotta al razzismo, le disuguaglianze, le malattie mentali, il bullismo, la sessualità, le minoranze etniche e sessuali. Tra i libri più osteggiati c’è anche The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood, chiara epigona di Katherine Burdekin. Per situazioni come queste, frutto del nostro distorto presente e non della fantasia, dobbiamo tornare a leggere la fantascienza di queste autrici. Per farlo, però, bisogna innanzitutto tradurle. Non si dimentichi che di Katherine Burdekin in italiano è tradotto solo La notte della svastica. Ciò nonostante un libro come questo, pur non avendo uno stile così accattivante e pur non avendo una trama così ricca di azione visti i continui dialoghi, può considerarsi una lettura indispensabile e assolutamente consigliata.

«Ci sono due cose che le donne non hanno mai posseduto e gli uomini invece sì. Una è l’invulnerabilità sessuale e l’altra è un senso di orgoglio rispetto al proprio sesso, che è diritto di nascita anche per il maschietto di umilissimi natali. E tuttavia, finché le donne non disporranno di queste cose, che hanno perso nel momento in cui commisero il crimine di accettare l’idea tutta maschile dell’inferiorità della femmina, non potranno mai più rinfocolare la scintilla della propria identità e vitalità. Ma quella scintilla noi sappiamo che è ancora lì, altrimenti non sarebbero infelici» (Burdekin 2020, p. 172). Queste parole testimoniano l’attualità di un libro del genere, che ci porta a riflettere su noi stessi, sul presente rapporto tra condizione femminile e capitalismo e sulle nostre società contemporanee. Allora facciamola circolare questa letteratura che brucia, disubbidisce e disorienta, anzi diffondiamo soprattutto questa. Quale sarebbe altrimenti il senso di un libro? Scegliamo i libri eterodossi ed eretici. Burdekin ha scritto un libro radicale e atroce, con il precipuo scopo di spaventare, per questo di non facile lettura. Tuttavia leggere una descrizione del genere, così cruda, deprimente e talvolta ripugnante, può essere angosciante, ma tremendamente urgente. In questo senso La notte della svastica si rivela un romanzo più attuale che mai, un brandello di speranza cui aggrapparsi in un periodo di messa in discussione di poesia, dolcezza, umanità.

E sì, come si diceva all’inizio, questa storia così affascinante non è ancora conclusa, perché la storia di Katharine Burdekin e di tutte le autrici dimenticate è solo all’inizio e non certo si esaurisce con l’attribuzione di paternità, anzi maternità, di un’opera.

TESI CITATI.

Katharine Burdekin, 1993 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Roma, Editori Riuniti.

Katharine Burdekin, 2020 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Palermo, Sellerio Editore.

Domenico Gallo, 2020, Nota, in Katharine Burdekin, 2020 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Palermo, Sellerio Editore.

Carlo Pagetti, 1993, Prefazione, in Katharine Burdekin, 1993 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Roma, Editori Riuniti.

In Thema di Berio

Siamo tutti Sconosciuti Superstar – Umberto Mentana intervista Angelica

Angelica, al secolo Angelica Schiatti, inaugura la sua avventura solista nel 2018, con la pubblicazione dei singoli che precedono la release dell’album “Quando finisce la festa” (2019), che riscuote ottimi feedback di pubblico e critica, portandola a esibirsi nei principali club e festival italiani come MI AMI 2019, Home Festival e Zoo Music Fest. Nello stesso anno viene scelta per aprire il tour italiano di Miles Kane, cantautore inglese e co-fondatore, insieme ad Alex Turner, dei Last Shadow Puppets. A novembre 2019 collabora con l’attore Giacomo Ferrara (lo “Spadino” della serie Suburra) per il singolo “Vecchia novità”. Nel 2020 pubblica i singoli“C’est Fantastique”,“Il momento giusto”e“L’ultimo bicchiere”, trittico di brani che anticipa la pubblicazione, a febbraio 2021, di “Storie di un appuntamento”, album intimo, potente e allo stesso tempo leggero. Nello stesso anno i brani “De Niro’e “Karma” vengono inseriti nella serie“Guida Astrologica per cuori infranti”(Netflix) e nel film “Ancora più Bello”. Nel 2023 Angelica ritorna con i singoli Milano Mediterranee, SOS, Bye Bye e La mia metà che la portano ad esibirsi a MI AMI 2023 e durante la Milano Music Week. Lo stesso anno apre i live di Franz Ferdinand, Wilco ed Alan Sorrenti, in un tour durato tutta l’estate. L’8 Marzo 2024 è uscito il suo ultimo disco “Sconosciuti Superstar”.

Noi di Lettera Zero abbiamo avuto l’opportunità di fare questa chiacchierata con lei e per questo la ringraziamo per l’opportunità e rivolgiamo i nostri più sentiti ringraziamenti anche alla sua agenzia RC Waves

U.M. Angelica, benvenuta su Lettera Zero. È un piacere inaugurare con te la sezione interviste della nostra rubrica Thema di Berio. La tua musica è adattissima a comparire tra i primi contenuti di questa rubrica proprio per il carattere riflessivo, o meglio, autoriflessivo, delle tue canzoni. Da dove partono, da dove nascono?

A. Grazie mille per l’invito!

Le mie canzoni nascono da un’esigenza di far dialogare pancia e cuore con testa e bocca, banalmente di dare una forma a quello che sento e a come mi sento, di raccontare, prima di tutto a me stessa.

U.M. Parliamo della tua ultima creazione, Sconosciuti Superstar, che sta avendo davvero un ottimo riscontro, penso in particolare al singolo Acqua Ossigenata. Questo album ti rappresenta molto di più rispetto ai tuoi precedenti lavori, possiamo dire che Angelica “back in blonde” (o meglio, blondie?). Dal punto di vista dei suoni, ho percepito una ricerca più marcatamente synth-pop 80s rispetto ai riferimenti di melodie, riff anni Settanta più essenziali, intimi di alcune canzoni precedenti come De Niro, C’est fantastique, Beviamoci. Mi confermi questa tua scelta di aver mutato e trasformato un po’ il tuo sound per questo disco? È stata una scelta voluta che anche la tua immagine “pubblica” in un certo senso ne risentisse di questo cambiamento ? Penso, per esempio, di nuovo al passaggio “mora-bionda” ma anche al taglio e ai colori degli abiti che risultano essere più, diciamo, barocchi rispetto all’essenzialità delle cose che hai fatto in precedenza.

A. Per questo disco mi sono voluta divertire, o meglio, è cominciata la genesi in un momento talmente pesante che quindi faceva nascere di conseguenze l’esigenza di divertirmi, di prendermi meno sul serio, di vivere una leggerezza che poi è stata propedeutica per riuscire ad affrontare la scrittura di tematiche molto difficili per me da accettare, seppur vestite di synth, di melodie pop e di capelli biondi.

I capelli biondi per me che sono nata coi capelli scurissimi, rappresentano la liberazione totale dagli schemi e l’allontanamento dal passato per vedere tutto da un’altra prospettiva, guardare sempre lo stesso panorama, dalla stessa finestra, dopo un po’ può diventare limitante no?

Gli altri due dischi li ho concepiti e registrati a Milano, questo disco invece è figlio di Bologna, Milano e Roma, figlio dell’autostrada A1 e dell’alta velocità.

U.M. Chi sono questi Sconosciuti Superstar?

A. Siamo tutti noi, chi più chi meno, è questa società.

C’è chi si sente Superstar dopo un solo flash di luce puntata addosso e chi si sente Sconosciuto e frustrato per aver assistito a quel flash senza esserselo sentito proprio. Pur di avere un po’ di luce vedo tanti tacere la propria natura ed assumere atteggiamenti che nel pezzo chiamo “democristiani”, per intenderci.

Diciamo che i 15 minuti di fama di Andy Warhol oggi sono diventati 15 secondi.

Per me sono solo il tempo e la bontà di quello che si fa che contano.

U.M. Le tue canzoni, e questo ultimo disco non fa eccezione, sono davvero canzoni non facilmente “digeribili”. Nel senso che ci dai un bel pugno nello stomaco con le tue parole, nonostante sei sempre delicata nel suonarle e cantarle. Le tue parole sono potenti, forti e tristemente malinconiche, impregnate di solitudine. Ad esempio nella title track del tuo ultimo lavoro ci canti così: “Ci si rivede quando il mondo finirà/Come due mani incastrate dentro ai jeans/Cercasi emozioni perse in mezzo alla routine.” Mi racconti qualcosa di più su questa scissione, che io ritengo di grande importanza?

A. È un po’ una sfida, cioè, ci si rivede alla fine del tragitto e vediamo chi aveva ragione. Mi ritengo ancora giovane ma allo stesso tempo ho accumulato una prospettiva temporale diversa da quando avevo 20 anni, ho capito tante cose, ho assistito a miracoli insperati operati naturalmente dal tempo.

Sto lì ad aspettare, ne ho viste tante, stare fermi non significa però essere “incastrati”, significa fare il proprio percorso ma avere dei punti cardinali fissi.

A me diverte dire cose poco digeribili con voce delicata, rappresenta molto la mia personalità, sono morbida e buona e non attacco mai per prima ma divento la più agguerrita quando mi devo difendere, passo al contro attacco.

La solitudine che percepisci credo derivi dal fatto che la maggior parte disco l’ho scritto da sola nel mio studio.

U.M. Inoltre, questo metodo di ibridare due direzioni opposte, quella delle parole e quella della musica lo ritrovo molto ricorrente fin dagli Smiths ma se vogliamo citare un esempio del pop nostro contemporaneo, anche Billie Eilish utilizza qualcosa di simile. Lei ci parla in modo molto diretto, dandoci davvero dei calci nella pancia. Cosa ne pensi?

A. Io penso alla voce come uno strumento che fa parte dell’arrangiamento di un pezzo, non ad una cosa a sè stante appoggiata sopra, sia per quanto riguarda il suono della voce che le parole intese come significato e significante.

Sia gli Smiths che Billie Eilish sono tra i miei ascolti, possibile che mi abbiano influenzata.

U.M. Senti, sempre in Sconosciuti Superstar si ritrova molte volte questa metafora dell’acqua, dell’annegare, è un disco “liquido” che ti scivola addosso, anche ritmicamente. È voluto inserire in più di una canzone questa sorta di sottotema ricorrente? Se non sono troppo indiscreto, quanto questa malinconia, questa solitudine presente nelle canzoni ci parla di te? Oppure tu canti riferendoti a personaggi esterni, vicende da cui eri attratta e ne volevi raccontare in forma canzone?

A. Mi fa piacere che tu abbia notato questa cosa, l’acqua per me è un tema molto importante, rappresenta il mio inconscio, la sogno spesso. È un termometro di come sto, se è pulita o torbida se è calma o agitata, se ci nuoto o ci annego. Nessuna canzone in questo disco (in quelli passati sì) non parla di me, sono tutte molto autobiografiche, fin troppo. Ho aperto un vaso che ora sarà difficile richiudere, sto già scrivendo molto per il disco nuovo.

U.M. Noi di  Lettera Zero siamo molto attenti alle parole, alla loro funzione e a come queste, utilizzate nel modo giusto, rendano potente una narrazione. Proprio per questo ho trovato molto interessanti i numerosi giochi di parole che proponi nei tuoi testi, oltre a tantissimi riferimenti alla pop-culture (ritorno su una delle mie preferite, ossia De Niro: “Mi guardo allo specchio imitando De Niro in Taxi Driver” e “Voglio restare a letto/Con te, senza parlare troppo/Fare un Bed-in come Yoko”). La tua è una scelta stilistica operata in base al sound, al suono che queste parole, queste lines già in sé contengono e che potrebbero funzionare in una canzone o è qualcosa di diverso?

A. La cultura pop mi piace, tanti miei riferimenti artistici sono pop e penso che il pop fatto bene sia tra le cose più difficili da fare.

Nel caso da te citato, quella strofa mi è uscita di getto, un po’ suonava bene, un po’ la sentivo mia e un po’ avevo visto Taxi Driver la sera prima…

In De Niro gioco molto con la self confidence, essendo di natura insicura, arrivare a essere sicura di me e delle mie scelte è stato un percorso travagliato e De Niro si inserisce in un momento chiave di presa di coscienza dei miei mezzi, da sola al pianoforte, quasi giocando.

U.M. Una cosa che da tanto sono curioso di conoscere è il tuo metodo compositivo. Mi racconti, anche per far conoscere ai nostri lettori, come costruisci un disco? Hai una squadra fissa oppure anche in rapporto ai tuoi lavori precedenti hai cambiato qualcosa nel tuo approccio metodologico alle canzoni e al gruppo di persone che ti accompagna?

A. Mi piace cambiare perché fare i dischi è un lusso e non so quanti ne potrò fare nella vita.

Scoprire nuovi metodi di scrittura e di produzione, nuove persone con cui condividere la mia musica, è anche un modo per trovare nuovi stimoli.

Rispetto ai lavori precedenti, in questo lavoro ero più consapevole, vuoi per l’esperienza che ho in più, vuoi per una maggiore dedizione che ci ho messo; sono curiosa di scoprire come sarà il prossimo disco perché sento di aver raggiunto un equilibrio che mi piace molto.

U.M. Parlando un po’ di te, Angelica. Oltre ad essere una bravissima cantautrice, compositrice, hai anche altre passioni come la fotografia e lavori con il video. Ricordo che sei stata tu stessa a realizzare il  videoclip per il tuo singolo “C’est fantastique”. Ci spieghi un po’ come ti rapporti a queste altre tecniche di storytelling? Quanto sono legate alla tua musica?

A. All’inizio mi sono approcciata alla fotografia, al montaggio video e un po’ alla questione “art direction” per necessità, nel senso che non c’era budget per avere figure che lo facessero per me ed eravamo in pieno primo lockdown quindi fare un videoclip era impensabile. Dopodiché ci ho preso gusto, ho iniziate a fotografare amici e amiche, luoghi a me cari, ho imparato ad usare una reflex manuale analogica che avevo a casa e ho capito che è un modo di esprimere la mia creatività che mi soddisfa molto, costruire immagini, sia per me che per altri, mi diverte tantissimo.

U.M. Angelica, io come te sono un super beatlesiano, credo che quelle dei Beatles siano state le prime canzoni che io abbia ascoltato nella mia vita, e per fortuna. Perdonami la curiosità ma voglio sapere la tua su di loro. Per aiutarti: Lennon o McCartney (o George o Ringo)? La tua top 5. E dimmi perché, anche brevemente. Altrimenti vai a ruota libera!

A. Ahiaaaa!

Che dolore dover scegliere, quando scelgo qualcosa in campo Beatles dico sempre che la mia scelta è una fotografia di questo momento preciso, domani potrebbe cambiare.

In questo periodo sono più McCartney (pure wings ecc ecc) anche se sono stata Lennoniana convinta per una vita.

5 titoli di pancia Beatles e non: yes it is, temporary secretary, love, blue Jay way, happiness is a warm gun. La discografia dei Beatles (anche solisti) è la mia bibbia da consultare quasi quotidianamente, è un percorso di studi che penso sia obbligatorio per fare musica. 

U.M. Ci sono altri modelli ispirazionali per il tuo lavoro? Oppure per ogni disco sei influenzata da qualcuno, qualcosa in particolare? Cioè, è il disco stesso per alcuni versi una conseguenza della tua influenza musicale di in un certo periodo?

A. Quando sto facendo un disco mi ritrovo ad ascoltare principalmente il disco stesso tra la fase di scrittura, di preparazione dei provini ecc ecc, quindi sì, si auto influenza ed alimenta. Però per cominciare a scrivere ed entrare in un flusso c’è una scintilla che deve scoccare e mi deve ispirare, un bel disco appena uscito o un vecchio lavoro da riscoprire, un film, un’immagine. Poi queste ispirazioni devono combaciare chiaramente con qualcosa che ho già dentro, come se mi accendessero.

U.M. Io ti ringrazio davvero tanto, anche da parte della redazione di Lettera Zero, per aver condiviso queste riflessioni con noi tutti. Concludendo, vuoi raccontarci i tuoi prossimi appuntamenti, novità in ballo? E se vuoi, consigliaci qualcosa da ascoltare prima di salutarci!

A. Grazie a te e a voi per la cura e per queste domande così stimolanti!

Sto preparando i live che è uno dei momenti che preferisco, molto concreto, a contatto con la band quindi pieno di momenti divertenti, senza la pressione della scrittura o della produzione. In realtà ho preparato anche un brano nuovo, che uscirà a Giugno! Non mi voglio fermare, sono stata ferma un sacco di tempo (e ho fatto bene!) per fare questo disco che adesso ho proprio voglia di stare sulla strada.

Il comunicato stampa di Sconosciuti Superstar di Angelica: https://www.rcwaves.it/angelica/newsletter30

Link al profilo Spotify di Angelica: https://open.spotify.com/intl-it/artist/3aFnXkfp5Z2Ac9DLorgJ4S?si=422bQj7vTt-nhAdFamLlsw

Link al profilo Instagram di Angelica:

https://www.instagram.com/santangelica

13 Maggio 2024.

In Schede

L’ultimo Gabo. Recensione a “Ci vediamo in Agosto” – G. Garcia Marquez

di Matteo Caputo

Molti anni dopo la sua morte, di fronte al plotone di esecuzione dei critici militanti, lo scrittore Gabriel Garcia Marquez si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio del 1999 in cui aveva letto, lasciando a bocca aperta il pubblico della Casa de America di Madrid, il primo racconto di un libro che stava scrivendo…

Sono passati due lustri da quando “Gabo” ci ha lasciati un po’ più soli. E quest’anno, nel giorno del suo compleanno – il 6 marzo –, esce per Mondadori “Ci vediamo in agosto”, il suo ultimo romanzo, con la traduzione d’autore di uno che, con lo spagnolo, ha un lungo e curioso passato, raccontato in un articolo di qualche tempo fa su Le parole e le cose: Bruno Arpaia.

Sull’interessante avventura del testo e sulla sua ricostruzione – a volte le storie hanno una propria storia che è altrettanto affascinante – vi rimando alla nota finale del curatore, Cristobal Pera, allegata in traduzione alla fine del volume, assieme ad alcune stupende riproduzioni dei fogli che l’autore stesso correggeva o faceva correggere da Monica Alonso, la sua segretaria.

Il breve romanzo narra la storia di Ana Magdalena Bach, madre e moglie cinquantenne che vive un matrimonio tutto sommato felice con Domenico Amaris, direttore del Conservatorio Provinciale. La protagonista, assecondando la richiesta della madre morente di voler essere seppellita in un’isola caraibica, torna ogni 16 agosto a visitarne la tomba, ripetendo ossessivamente lo stesso rituale. Sullo sfondo di un mondo che cambia e si adatta sempre più alla modernità, Ana Magdalena si concede una sola notte di passione con uomini ogni volta diversi, per tornare infine dal marito – che ama e che a propria volta la ama, si legge nel romanzo. A differenza dei primi anni, quando gli incontri avvengono in maniera totalmente accidentale, ad un certo punto la casualità nel concedersi ad un uomo in quel preciso giorno di metà agosto finisce per tramutarsi in necessità, mostrando così quanto si affidi ad un ordine più il caso che le direttive della volontà. La frustrazione che la difficoltà nel reiterare questi incontri con il fascino delle prime volte causa alla protagonista finisce per perforare lo strato di un amore privo di sofferenze. Sarà a questo punto che, nel finale, la donna, che porta con sé lo stesso nome della seconda moglie di Bach, prende una decisione inaspettata e carica di risvolti, soprattutto emotivi.

In questo racconto fanno capolino tutti i temi che percorrono senza tregua l’opera di Garcia Marquez, a partire dalla solitudine: una solitudine che è, ancora una volta, incomunicabilità. Col marito, con la figlia che vuole monacarsi, con il primo uomo che, scambiandola per una prostituta, le lascia venti dollari tra le pagine di Dracula. E dunque, come già accaduto ad alcuni personaggi femminili precedenti dello stesso autore, c’è una volontà attiva, consapevole, quasi di una sensibilità contemporanea diremmo, di aggredire l’ineludibile disegno del destino, che l’aveva prima di tutto indotta a piangere di rabbia contro sé stessa per la disgrazia di essere donna in un mondo di uomini.

In ciò è la forza e la novità di un libro su cui pesa l’assenza di un imprimatur da parte del suo autore: una protagonista come solo centro della storia. Una donna che consapevolmente decide di tradire per nient’altro che un briciolo di vita più intensa del normale. Non ha alibi e non ne cerca: ogni 16 agosto è una diversa corda pizzicata sul proprio cuore per ascoltare il suono che ne viene fuori. Del resto, tutto il romanzo, percorso da incessanti richiami alla musica, è una partitura composta da tante variazioni sul tema. A caratterizzare il ritorno del quasi uguale, infatti, troviamo i numerosi elementi che fanno da contrappunto alla ciclicità della situazione: dall’uomo con cui la protagonista si ritrova a letto, al libro che in quel preciso giorno sta leggendo, per finire ai tanti richiami al mondo della musica.

Tuttavia, non a caso abbiamo parlato di ciclicità: è un termine – o, per meglio dire, un’idea – con il quale il lettore di Gabo ha parecchia familiarità. Il tempo, molto spesso, anche in una storia piuttosto lineare e priva di notevoli salti temporali nel futuro o nel passato come questa di cui stiamo parlando, non è lineare. Non c’è un termine verso cui il cronometro del mondo viaggia, non un termine realmente ultimo, né divino, né tantomeno personale, dato che la morte, come abbiamo visto, non è un impedimento al continuare ad agire in vita. Lo dice e lo pensa bene Ursula, la protagonista più grande di Cent’anni di solitudine:

“Cosa volete farci,” mormorò [José Arcadio Segundo], “il tempo passa.”

“È vero,” disse Ursula, “ma non così tanto.”

Appena Ursula l’ebbe detto, si rese conto di aver dato la stessa risposta che aveva ricevuto dal colonnello Aureliano Buendìa nella sua cella di condannato, e ancora una volta rabbrividì constatando che il tempo non passava, come lei aveva appena ammesso, ma girava in tondo.

Una presa di consapevolezza simile è quella di Ana Magdalena che, a un certo punto, illuminando con la mente i lati più oscuri della vita della madre, si rende conto che “non si sentì triste, ma animata dalla rivelazione che il miracolo della sua vita fosse aver continuato quella di sua madre morta.”

Ma il destino piega pure la volontà più granitica: ad Ana Magdalena, sempre più incapace di onorare con costanza e decenza il suo personale 16 di agosto, non resta che una soluzione, quella di portare con sé le ossa della madre per una nuova sepoltura, per spezzare la propria maledizione e polverizzare la propria immagine riflessa:

Allora Ana Magdalena vide sé stessa nella cassa aperta come in uno specchio a figura intera, con il sorriso gelato e le braccia incrociate sul petto. […] Non soltanto la vide com’era stata in vita, con la sua tristezza inconsolabile, ma si sentì vista da lei dalla morte, amata e pianta da lei.

Nelle crescenti recensioni si legge, con una certa sensazione di entusiasmo smorzato e di aspettative deluse, che questo non è certo il miglior romanzo di Gabo. Ma la domanda che qui sorge spontanea è: perché avrebbe dovuto esserlo? Perché un autore – soprattutto un Nobel – è costretto ogni volta, pure dal regno dei morti, a scrivere un capolavoro? È una cosa che cozza con la logica. E cozza anche con la volontà (tradita) dell’autore di non pubblicarlo, con la sua effettiva incapacità di rivederlo tenendo a mente il quadro completo, con la sua distanza – tutta da dimostrare per la verità – dalle sue opere più note. Del resto, c’era da aspettarselo: come dice lo stesso Arpaia, nella sua Introduzione al secondo volume di Opere narrative dei Meridiani, “bel problema, aver scritto appena quarantenne nientedimeno che Cent’anni di solitudine”. Che non sarebbe stata la sua opera migliore, in fondo, ce ne eravamo resi conto dal suo carattere di “scarto”. Ma ciò non toglie che stiamo parlando di uno scarto che vale la pena leggere col gusto con cui, dell’autore di Aracataca, si legge tutto il resto. Un ultimo incontro con un caro amico, un’ultima notte di passione con un vecchio amore: ecco come dovremmo accogliere questo gradito regalo consegnatoci, come fossimo in un romanzo di Gabriel, da un tempo e un mondo che non riusciamo ad afferrare.

Gabriel Garcia Marquez

Ci vediamo in agosto

trad. di Bruno Arpaia, Milano, Mondadori, 2024

€ 16,62

In Schede

“Dalla stessa parte mi troverai” di Valentina Mira: un puzzle di amore, lotta e tenerezza per chi ha «er còre grosso come ‘na Golia»

di Carmen Rampino

Roma, 13 aprile 2024. Fa caldo, davvero troppo caldo anche per la primavera romana. Potrebbe essere tranquillamente giugno. Il sole illumina le pareti sbiadite color pastello delle case del quartiere Garbatella, i murales sembrano rinati e tutto sembra avvolto dalla più dolce tranquillità, le persone sono gioviali, memori forse della recente vittoria della Roma contro il Milan. Partendo da viale di Villa Lucina giungere a Casetta Rossa, uno dei cuori pulsanti di questo colorato quartiere, è un’esperienza che ti ridà vita se un po’ di grigio ha invaso la tua anima.

Sono le 18.00, le sedie sono pronte, il pubblico è altrettanto pronto per ascoltare la voce di Valentina Mira, autrice di Dalla stessa parte mi troverai, in dialogo con Rossella Scarponi. Proposto da Franco Di Mare, il libro è stato incluso nella dozzina dei candidati al Premio Strega 2024. Anche l’aria che ha avvolto la pubblicazione del libro si è riscaldata troppo, e quindi l’eccessivo rumore delle polemiche ha sovrastato il valore dell’opera stessa. Cerchiamo allora di ripartire proprio da qui. Prima però è necessario fare una precisazione, un disclaimer doveroso: le parole che stanno per seguire sono del tutto inaffidabili, scritte di getto non appena è stata voltata l’ultima pagina del libro. Dunque, cari lettori, se ambite ad un giudizio lucido, rigoroso e razionale non fidatevi, ma se amate un libro proprio quando vi rende folli, vi scombussola e disorienta, allora fatevi questo regalo e non perdetevi questo viaggio.

La narrazione parte dalla leggenda della fondazione di Roma, da Acca Larentia che allattò Romolo e Remo:

Roma sorge dalla violenza. Da due parti inconciliabili, e dalla scelta di una delle due di prevalere sull’altra. Roma nasce dalla violenza. Inizia tutto con una lupa. Con il latte e con il sangue. E così continua. (Mira 2024, p. 11)

E di latte e sangue sarà intrisa tutta la storia delle pagine successive. I tempi che la compongono sono molteplici, come molteplici sono i binari narrativi che si incroceranno. Si parte dal 7 gennaio 1978, quando davanti alla sede del Movimento sociale italiano nel quartiere Appio Latino vengono uccisi due militanti di estrema destra. Dagli scontri con le forze dell’ordine successivi a questo evento morirà anche una terza persona appartenente al gruppo neofascista, ma il sangue che si porta dietro quel 7 gennaio non ha ancora finito di scorrere. Nove anni dopo, il 30 aprile 1987, la storia infatti ricomincia. Viene arrestato un militante di sinistra, Mario Scrocca, accusato di aver partecipato all’operazione che portò ai fatti di Acca Larentia. Il giorno dopo, il primo maggio 1987, Scrocca verrà trovato impiccato in una cella anti-impiccagione del carcere Regina Coeli: molti conti su questo triste epilogo però non tornano. Mira sceglie proprio di focalizzare l’attenzione su questo episodio correlato a quel 7 gennaio 1978 che la Storia sembra aver dimenticato. Accanto a questi primi due tempi se ne incrocia un terzo. Nel giugno 2021 Rossella Scarponi, vedova di Mario Scrocca, e Valentina Mira, l’autrice, si incontrano. Tra le due inizia un dialogo che porterà alla stesura di questo libro. Ma perché leggere un libro sugli anni ’70 raccontati da una giovane autrice poco più che trentenne che di certo non li ha vissuti? Perché decidere di fidarci? Perché si scoprirà pagina dopo pagina che ciò di cui parla incontra direttamente la sua vita personale e particolari episodi che l’hanno segnata. Infatti, i vari piani temporali e narrativi del racconto si alternano, per poi intrecciarsi e incontrare anche la vita di Valentina Mira, quella che l’ha portata a frequentare da vicino gli ambienti neofascisti, di cui soprattutto alcuni quartieri della capitale sono intrisi, vivendo una relazione sentimentale con un ragazzo di estrema destra. Allora perché scrivere di questo avvenimento? Di certo non per fare più luce su una vicenda che continua ad essere avvolta da troppe ombre. Infatti, non è un reportage o un’inchiesta. Il racconto, dichiara Mira, «ha a che fare con qualcosa di più difficile da esprimere. In parte con una sorta di colpa da espiare: il fascismo dentro e intorno a me» (Mira 2024, p. 191), e poi prosegue utilizzando una parola interessante «per provare a fornire anticorpi. Tentare di dare strumenti per salvarsi alle altre “te” che ci stanno in giro per il mondo» (Mira 2024, p. 191). Questa vicenda può riuscire a salvare altre persone e avrebbe potuto salvare lei stessa («Il punto è che, ne sono convinta, se avessi saputo tutta la realtà su Acca Larentia mi sarei salvata io stessa» – Mira 2024, p. 55). La storia che racconta intreccia quindi la sua biografia, i suoi sensi di colpa. Precisamente da pagina 46 l’autrice e la sua vita entrano a gamba tesa, prepotentemente, nella macrostoria: «La gente con i mocassini ha a che fare col motivo per cui ho scelto di raccontare questa storia. E a volte vorrei soffrire di vittimismo autoassolutorio come loro. Purtroppo non mi appartiene. Sono colpevole di averli frequentati: non una vittima ma una complice» (Mira 2024, p. 46). I due piani narrativi si intersecano fino a sovrapporsi e confondersi nel discorso sul vittimismo dei carnefici (Cfr. Mira 2024, pp. 212-214). Accanto a questo, l’altro grande motivo per cui ridare spazio pubblico alla vicenda, è quello più pratico e più pregno di speranza, la speranza che qualcuno si penta del suo silenzio e, anche dopo anni, contatti Rossella e le dica com’è morto il suo amato marito (Cfr. Mira 2024, pp. 243-244).

Dalla stessa parte mi troverai è prima di tutto la narrazione di un amore. Questo viene rivelato dall’autrice stessa: «questa storia è anche, e innanzitutto, una storia d’amore. E l’unico odio che la riguarda, è quello che da amore nasce. E di amore si alimenta. Per cui, piaccia o meno, è proprio da qui che partirò. Dall’amore» (Mira 2024, p. 18). Siamo nel 1978, Rossella vive alla Garbatella e fa parte del collettivo femminista del suo liceo. Mario, che vive alla borgata Alessandrina dove non c’erano (e non ci sono) marciapiedi, sceglie la via dell’impegno politico, ad esempio attraverso volantinaggi su argomenti semplici ma urgenti, come la mancanza di marciapiedi nel suo quartiere o il rincaro dei beni primari. Tutto inizia a San Valentino, il 14 febbraio 1978, a partire da un semplice sguardo. La sedicenne Rossella vede colui che poi scoprirà chiamarsi Mario e «le si forma in testa un pensiero strano. Un pensiero che non ha mai avuto prima. E che è come una giornata di sole, di quelle che ti mettono il buon umore, ma anche su cui non hai alcun controllo: cavolo, dice questo pensiero nuovo di zecca, io quello me lo sposo» (Mira 2024, p. 22). E così sarà. Una relazione intensa, tristemente breve, ma così ricca da permettere ai due protagonisti di vivere nel giro di pochi anni tutte quelle sfumature del sentimento d’amore che molti non provano mai, neppure nell’arco di una vita intera, neppure se la loro vita non viene prematuramente spezzata. Seguiamo da vicino il tempo dell’amore dei due adolescenti tra un motorino tonante, i molti maglioni oversize, le false Clarks ai piedi, le lotte dei compagni, gli appuntamenti presi tramite telefono fisso e i vivaci scambi di battute in vivo romanesco. 

La grande abilità di Mira nella narrazione si evince proprio dal modo in cui ci permette di accedere e vivere, attraverso le parole, questa dolce, malinconica e successivamente dolorosa relazione d’amore: per mezzo di una lente acuta e sensibile riesce a penetrare continuamente all’interno dei pensieri di Rossella, la vera protagonista, il focus attorno cui tutto si dispiega, quella che seguiamo per anni da quando è una ragazzina fino ad oggi.

Quando Mario, ormai infermiere professionale, verrà trovato morto a Regina Coeli, Rossella avrà solo venticinque anni e un bambino di due – il piccolo Tiziano – da crescere. Il bambino è in questo momento al centro di una scena tanto potente quanto struggente. Tiziano si trova dalla nonna e gli va di traverso del cibo, «nello stesso momento in cui succede che Tiziano sta soffocando, nel carcere di Regna Coeli suo padre muore impiccato. In una cella anti-impiccagione» (Mira 2024, p. 88). È come se tutto ciò che ci avevano insegnato i grandi autori del Novecento, tra cui Buzzati, su quella assurda e folle contemporaneità del tragico e del comico, del “mentre io piango tu ridi” che non permette mai pienamente di partecipare al dolore altrui, venisse meno di fronte al viso di un bambino, di un figlio privato di un padre.

Lattanzio, De Gregori, Catullo, Il muro del canto, Leonard Cohen, Andersen, Pink, Ovidio, Freud, Esopo, De André sono solo alcuni dei nomi che compongono il caleidoscopio, anzi il multiforme mosaico di tessere che in maniera perfetta si incastonano agilmente in un ricco pastiche di citazioni. Queste chiariscono come tutto è sfumato, non esiste più la netta separazione tra cultura alta e cultura bassa. Le citazioni sono sfaccettate come sfaccettati e sfumati siamo tutti noi. L’aspetto però più interessante è che l’esperienza della lettura va oltre la lettura stessa coinvolgendo, oltre alla vista, anche altri sensi, perché il lettore è stimolato continuamente e non appena verrà citato un video aprirà YouTube per vederlo, non appena verrà citata una canzone ascolterà la canzone. Ne viene fuori una fitta rete intertestuale, o meglio un universo narrativo esteso, che si allarga a dismisura coinvolgendo altri media e coinvolgendo integralmente il lettore. Lo si potrebbe chiamare libro transmediale, figlio del suo tempo, che straripa e vuole andare oltre i confini della carta stampata per colpire il lettore direttamente al cuore. Accanto a questo, utilizza una lingua composita, eterogenea e soprattutto sincera, piena di quella patina romanesca che solo una lingua così viva può dare: insomma una perfetta narrazione postmoderna che ha però ereditato anche la tradizione della scrittura breve e concisa del web e dei social tralasciando la loro frivolezza e accogliendo una grande profondità. La struttura dell’opera è poi gradevolissima: unità brevi, chiare, semplici, che diventano dei piccoli pezzi di un puzzle in cui tutto converge versol’emozione. Questo ritmo sostenuto crea nel lettore quell’effetto dipendenza tipico della serialità televisiva. I brevi capitoli con titoli accattivanti rendono tutto rapido, veloce. Il tono non cede mai.

Dalle citazioni alla lingua, dal desiderio di spiegare in poche parole questioni complesse agli argomenti scelti, fino alla struttura che, sebbene di sole parole, un po’ riprende quella del romanzo a fumetti, tutto (o quasi) ci riconduce ad un unico nome: Zerocalcare. La sua presenza ingombrante si percepisce chiaramente e non a caso è citato più di una volta, essendosi occupato anche lui in alcune tavole della stessa vicenda. D’altronde entrambi, pur in modo estremamente diverso, si sono nutriti dei simili orizzonti della controcultura della Capitale.

A questo libro si potrebbero fare tantissime critiche (tranne forse quelle che gli sono state rivolte da alcuni giornali molto orientati e da esponenti di alcuni partiti politici): dall’essere a volte troppo rapido e semplicistico su alcuni passaggi che meriterebbero un approfondimento maggiore, al rischio di sembrare molto manicheo; ma questi limiti nel complesso di tutta la narrazione perdono vigore. E poi ci sono dei luoghi in cui traspare chiaramente una certa onestà intellettuale. Si consideri ad esempio il capitolo Apri l’inchiesta, chiudi l’inchiesta. A pagina 115 si legge:

«dopo che sono uscite fuori le lettere da cui sembra che Mario si sia davvero suicidato, alcuni compagni si sono allontanati. Evidentemente, su un piano politico, stare vicino a una persona il cui marito si è suicidato viene reputato inutile e sconveniente. Serve solo se l’hanno sgobbato le guardie» (Mira 2024, pp. 114-115).

Al netto delle critiche, è sicuramente un’ottima prova narrativa per una giovane scrittrice come Valentina Mira. Un’opera che cattura l’attenzione dei lettori fin dal suo incipit che ti intrappola e ti irretisce fino all’ultima riga dell’ultima pagina senza alcun tipo di cedimento. Uno di quei libri che ti fanno soffrire di un’anticipata nostalgia perché, quando sei ancora a metà desideri che non finisca. Sarà che parla di Roma quando chi sta scrivendo si è appena trasferita in questa città un poco assurda, sarà la lingua utilizzata, saranno quelle imperfezioni formali che proprio rendono perfetto il risultato finale, fatto sta che questo libro è una scoperta, una vera rivelazione. Anche quando si rivela più retorico, dogmatico o semplicistico, questo libro ci fa innamorare, non lasciandoci indifferenti.

Ma ritorniamo al punto di partenza. È l’ora del tramonto quando la vivace presentazione finisce. L’autrice si intrattiene a firmare le copie e a fare due chiacchiere con gli ascoltatori. Il sole ormai sta morendo. Le case slavate del quartiere, che ricordano proprio quelle di carta di un presepe, si tingono di arancio e rimane la curiosità di leggere un libro che è necessario per ridestare la memoria antifascista e la cui tenerezza per certi aspetti «ti fa stringere il cuore fino a fartelo sentire piccolo come… io dico ‘na Golia» (Mira 2024, p. 220).

TESI CITATI.

Valentina Mira, 2024, Dalla stessa parte mi troverai, Milano, SEM.

In Schede

“Romanzo senza umani” o della soggettiva e provvisoria sensazione della fine

di Maila Cavaliere

È da parecchio che il romanzo di Paolo Di Paolo mi gira in testa, da quando l’ho letto qualche mese fa e ha fatto scattare nella mia memoria piccole serrature arrugginite.

È un libro intimo con un personaggio risentito, tenero e aspro, interlocutorio e spiazzante. E io non ho saputo a lungo da dove cominciare per parlarne, come accade a volte per i discorsi con cui vorresti davvero spiegare le tue ragioni alle persone a cui tieni ma ti sembrano sempre fatalmente inadeguati: ti riscaldi, prendi la rincorsa, ti alleni a essere perfetta e performante ed efficace e credibile ma poi ti viene l’ ansia da prestazione, ti chiedi se stai sbagliando, se manca qualcosa e nel tentennamento, il muscolo si raffredda, la rinuncia ti conquista o una reazione ostile ti gela, come in una sincope da idrocuzione.
Eh sì, perché, ora che ci penso, le prime domande su cui mi sono interrogata leggendo Romanzo senza Umani, appena entrato in dozzina al Premio Strega, hanno a che fare con il tempo, meteorologico e non.
Ma davvero il clima incide sul nostro modo di essere? Ma davvero alcune sensazioni, i brividi e il batticuore  che attribuiamo a stati emotivi sono influenzati dalla temperatura esterna o la modificano? Ma davvero noi e la Storia, il protagonista del libro e quella  piccola glaciazione del lago di Costanza avvenuta nel sedicesimo secolo siamo così intimamente e reciprocamente interdipendenti?

Il personaggio  del romanzo di Paolo Di Paolo è un uomo sulla quarantina, di professione storico, forse con qualche aspirazione frustrata, forse con qualche obiettivo non realizzato, forse non particolarmente empatico, né schiettamente comunicativo, che arranca come tanti nella vita, nelle relazioni, nella comune illusione che siano gli imprevisti e le cose che accadono a sottrarci a un successo o a una felicità per la quale crediamo ancora di avere i numeri.

Nel bel mezzo delle sue ricerche, il protagonista di Romanzo senza umani sente il bisogno di tornare sui suoi passi, sui luoghi dei suoi studi e, in una sorta di archeologia di sé stesso, il fiotto caldo di certi ricordi comincia a sciogliere gli anni del freddo dovere e delle abuliche occasioni perse, delle cose rimandate.

La memoria a quel punto si manifesta come una villana impostura e dimostra che ciò che gli altri ricordano di noi a volte non ci assomiglia per niente oppure ci disturba per la sua inconsistenza o stride, addirittura, con l’ idea che abbiamo di noi stessi.

La memoria degli altri mette in crisi le nostre certezze, è una crepa nel nostro fedele rispecchiamento, nel nostro ritratto ideale, quello che incorniciamo con tanto di passepartout vellutato.
Non sapevo da dove cominciare, dicevo. E allora ho cominciato da qui, da un’ ipotermia epifanica che cambia lo sguardo.

Romanzo senza umani che, a dispetto del titolo, invece pullula di figure e persone perdute, cercate, trattenute o lasciate andare, implorate, dimenticate, fraintese, è un libro che ti parla come uno che ti conosce bene, che sa che siamo sempre sul confine, in bilico tra lo sporgersi e il ritrarsi, in quel magico sospeso che fa parte di noi e dei nostri limiti.

Ti accorgi, leggendolo, che sono così tanti gli inganni della parola scritta, così tanti gli incanti, tante le suggestioni che attraversano il nostro sentire: portarsi dentro l’ elemento liquido, caldo, freddo, ghiacciato, perdersi volontariamente in posti dai nomi evocativi come segno della propria incoscienza e dell’ inesperienza dinanzi al mondo, del bisogno inestinguibile di conoscere il nuovo, di cercare il mistero, l’ inatteso, mettersi in tasca, per compagno di viaggio, il profumo amaro della separazione, accogliere l’ inganno dei sensi, usare la distrazione come strategia dell’ evitamento, svelare l’ inutilità della comunicazione che riempie solo uno spazio ma non sposta nessuna idea, accogliere il rischio di essere giovani o compresi e la fatale scoperta di non esserlo più, conoscere la condanna del restare, ricordare, confondersi e, soprattutto, dimenticare, dimenticarsi, facendo male, ferendo.

Romanzo senza umani mette in scena anche graficamente il senso incombente della fine, dentro la cui idea ci sentiamo stretti e costretti e che proviamo invano a eludere, lasciando aperti pertugi e vie di fuga.
Dalle pagine del romanzo arrivano echi di Landolfi e Casares, di Walser e Bufalino, libri e persone che accompagnano il nostro viaggio, ologrammi e pretesti che, all’ occorrenza, lo trasfigurano.
E si sente perfino il fischio del treno di Tabucchi che, attraverso una serie di piccole circostanze emotive, ci ricorda di essere così spesso in ritardo su noi stessi.

Paolo Di Paolo dopo Mandami tanta vita,  Lontano dagli occhi e Dove eravate tutti torna a indagare attraverso la letteratura il “sentimento del passato” e lo fa anche a costo di superare, per dirla con un verso di Leonardo Sinisgalli, “il confine oltre il quale le cose spariscono e non conviene più cercarle“.

Paolo di Paolo, Romanzo senza umani, Milano, Feltrinelli, 2023, pp. 224, € 16.15

In Appunti di Lettura

Appunti di lettura su “Molloy” di Samuel Beckett #1 (pp. 558-707)

di Demetrio Paolin

[le pagine citate nel testo si riferiscono al meridiano Mondadori, Samuel Beckett Romanzi, teatro e televisione a cura di G. Frasca]

La strana fine di Molloy. Le ultime pagine della prima parte sono dominate dall’ingresso di Molloy in un bosco, in cui il protagonista – nel tentativo di andare dalla madre –  si addentra e qui il cammino di Molloy si arresta. “La selva era tutt’intorno a me e i rami, intrecciandosi a un’altezza prodigiosa, in rapporto alla mia, mi proteggevano dalla luce e dalle intemperie” (p.592). Questa selva non è oscura, altrimenti sarebbe la selva infernale, infatti lo stesso Molloy sostiene: “Dire che brancolassi in tenebre impenetrabili, no, non posso proprio” (ibidem). Nella selva regna una sorta di “ombra bluastra” (ibidem) più che sufficiente per rischiare il cammino del protagonista, proprio come un personaggio dantesco, nella selva Molloy fa una serie di incontri, diversi dice Molloy, ma ce ne racconta uno solo quello con il carbonaio (p.593) che si conclude con l’uccisione dello stesso. Pare sempre, questo è reso evidente anche nella seconda parte, che ogni incontro debba concludersi con una morte, spesso accennata, raccontata come inevitabile e banale. La selva diventa per Molloy una sorta di prigione, di luogo dal quale non può uscire: “E tanto più mi sembrava auspicabile uscire dal più presto da questa selva in quanto sarei stato fin troppo presto nell’impossibilità di uscire da ovunque mi trovassi, fosse pure un boschetto” (p.599). Il cammino di Molloy diventa faticoso, uno sprofondare all’interno della terra, della selva.  Infine “giunse il giorno in effetti in cui la selva finì e vidi la luce della pianura” (p.601), il viaggio di Molloy sembra destinato a concludersi, ma in realtà l’uomo cade, decide di abbandonarsi?, in un fossato: “Mi lasciai ruzzolare fino al fondo del fossato” (p.602); qui come in altri punti nel momento di massima debolezza, di deposizione dell’umano, dell’arrendersi dell’uomo al suo essere niente avviene una sorta di commistione, di trasformazione con l’ambiente circostante: “Mi sembrava di sentire gli uccelli, forse delle allodole. Era tanto che non li sentivo. Com’era possibile che non li avessi sentiti nella selva? Né visti. Allora non mi era sembrato strano. (ibidem). La caduta nel fossato è una sorta di nostos al grembo materno? Forse proprio il fosso, la sepoltura in vita, in regresso alle origini, sono alla base del viaggio e della fine di Molloy, Molloy deve tornare alla madre, ma la madre è la terra, è la selva che lo ha protetto come quando era nel grembo: “Avevo voglia di tornare nella selva” (p.603).

Abramo e Isacco. Dal punto di vista della lettura la seconda parte del romanzo è più usuale, Beckett usa una serie di stratagemmi, di strutture, di modi che ricordano il giallo e il noir. Moran ha un po’ i modi spicci, le malinconie e le ubbie di tanti detective privati di certe letture noir: l’indolenza, la aggressività passiva nei confronti della sua missione, la meticolosità dell’organizzazione del viaggio, lo sguardo sconfortato rispetto all’umanità che si trova a frequentare lo rendono molto simile allo stereotipo di quel tipo di personaggio. Dal punto di vista squisitamente narrativo: abbiamo Moran che deve andare a cercare Molloy.  È un lavoro come un altro, il dialogo con Gaber sembra un canovaccio che Moran conosce sa cosa dirai lui e cosa gli risponderà emissario, ma ad un tratto qualcosa di nuovo accade. “Suo figlio l’accompagnerà, disse Gaber. Tacqui. Quando le cose si fanno serie noi tacciamo” (p. 608). L’entrata in scena del figlio modifica l’intreccio del racconto. Non c’è nessun motivo particolare perché il figlio debba seguire il padre in questa avventura, pare infatti un capriccio di Gaber e del datore di lavoro di Moran. Il rapporto tra padre e figlio è un rapporto che non esiteremmo a definire sadico, il padre punisce, accusa attacca il figlio di cui spesso non sentiamo neppure la voce. Il figlio è una sorta di proiezione del padre sin da nome identico. L’aggiunta quindi di questo personaggio, quasi per capriccio, è a tutti gli effetti il romanzesco, o meglio è ciò che rende queste pagine un romanzo: non c’è nessun motivo per cui il figlio segua il padre, perché faccia parte di questa spedizione se non per il fatto che solo il questo modo l’incarico del padre può diventare un romanzo. Il romanzesco, spesso, non sempre, è proprio il gratuito accadere delle cose all’interno di una congerie di fatti logicamente uniti gli uni dagli altri. Pensiamo anche alla prima parte, al muoversi di Molloy, ci sono motivi concreti per cui egli si sposti nel tempo e nello spazio? No. Perché va all’avventura? No, non rintracciamo nessuno motivo fondamentale e/o logico. Semplicemente ci viene detto che Molloy deve andare dalla madre, così come Moran deve portare il proprio figlio con sé. Vista in questa luce anche la presenza di Gaber assume una sfumatura nuova e diversa: egli è un messaggero che porta un annuncio per la partenza della missione, è anche colui che dice a Moran che può tornare a casa (p.693). Gaber porta i messaggi di Youdi, personaggio di cui Frasca – nelle note al romanzo – ne spiega l’origine: “Dieu/Ideu/Udie” (p.1669). C’è un “Dio” che manda un suo messaggio per dire a un padre di mettersi in cammino con suo figlio; credo che sia abbastanza chiaro il riferimento all’episodio di Abramo e Isacco e all’ipotetico sacrificio di quest’ultimo. Il figlio è un Isacco perfetto, ignaro del motivo di questa avventura fuori casa, cosa di cui il padre è perfettamente consapevole: “Perché sapevo quello che ancora lui non sapeva, fra le altre cose che una simile prova gli sarebbe stata utile” (p.627). Il cammino di Moran e del ragazzo, quindi, ha una valenza diversa e avviene nel nome del padre, così come quello di Molloy è avvenuto nel nome della madre (non ho idea se parte prima → fase anale e parte seconda → fase genitale abbiano a che fare con questo diverso punto d’arrivo). Per Moran la ricerca di Molloy che dovrebbe essere la spinta al cammino è, però, spesso oscurata dai rapporti con il figlio, con le schermaglie con esso: Molloy è un pretesto. Così come Abramo si alza di prima mattina e parte con Isacco così fa Moran, egli non dubita mai di quello che deve fare, perché ciò che Gaber gli annuncia, cioè la parola Youdi, è sempre la verità. La scomparsa del figlio di Moran alla fine del libro e la solitudine del padre sono il segno della vicinanza tra l’episodio biblico e la seconda parte del romanzo. Infatti il centro dell’episodio della Genesi non è il sacrificio, ma la fede di Abramo, l’obbedienza cieca ai voleri di Dio, Isacco è un semplice oggetto della narrazione, il motivo gratuito, romanzesco, per mettere alla prova Abramo, per questo motivo infine lui è inconsapevole di ciò che sta per accadere e che solo l’angelo ferma. Allo stesso modo in Molloy tutta la consapevolezza di ciò che accade è nel padre, che come Abramo porta il peso di questa scelta.

Moran → Molloy. C’è nel romanzo una trasformazione interessante. Verrebbe da dire che ogni romanzo è romanzo di formazione ovvero prevede e ipotizza che il personaggio principale si formi, si trasformi da ciò che non è a ciò che è: è una apprendimento di consapevolezza, che alcune volte è felice (pensiamo a Renzo nei Promessi Sposi) e altre volte è infelice (il triste finale di Don Chisciotte). Anche in Molloy assistiamo a qualcosa di simile o meglio alla messa in scena di questa formazione: Moran nel corso delle pagine lentamente, senza che alcuno ne abbia contezza, si trasforma in Molloy, il problemi di deambulazione, la ricerca della bicicletta. Come se il ricercatore diventasse tutt’uno con il ricercato, l’inquisitore con l’inquisito e l’omicida con l’ucciso (forse l’omonimia tra padre e figlio potrebbe essere un indizio di tale convergenza?) questo passaggio è tale che ci conduce a sviluppare una serie di ragionamenti. Dobbiamo, secondo me, rispondere ad alcune domande legate allo statuto del racconto che abbiamo davanti, forse non abbiamo a che fare con due personaggi (due Io che parlano), ma con ben altro.

Moran = Molloy. Ricapitoliamo: nella prima parte abbiamo un personaggio, Molloy, che scrive la sua storia; ciò che ci è dato di sapere che è  arrivato nella camera di sua madre, si pensa in ambulanza, forse qualcuno l’ha raccatto nel fosso dove si conclude la narrazione della prima parte. Nella seconda parte abbiamo un personaggio, Moran, che scrive la sua storia, per ciò che sappiamo è stato inviato a cercare Molloy, la sua ricerca è infruttuosa, così viene invitato per tornare a casa e una volta rientrato si mette a scrivere. Sappiamo che lentamente Moran ha assunto alcune delle caratteristiche fisiche di Molloy, la zoppia su tutti e il suo spostarsi in bici. Non abbiamo nessun dato reale che Molloy esista, perché l’unico che potrebbe raccontarci qualcosa di lui, Moran, è stato mandato prima a casa e scrive un rapporto. Il racconto di Moran è ordinato: si sviluppa in senso cronologico (l’arrivo del messaggero, i preparativi, il viaggio, la crisi, il nuovo apparire del messaggero che intima il ritorno et et). Sappiamo che il racconto di Molloy (vd appunto precedente) possiede, invece, un doppio inizio: “Avevo cominciato dall’inizio, figuratevi, come un vecchio coglione” (p.498). Potremmo anzi supporre che esistano due racconti, il primo che Molloy consegna all’uomo della domenica, e l’altro che leggiamo noi. Quindi abbiamo un racconto che inizia dall’ “inizio”, ma che è posto in seconda battuta, e un racconto che non inizia dall’inizio, ed è la prima cosa che il lettore legge. A questo punto possiamo provare a elaborare un’ipotesi: le vicende di Moran sono antefatto di ciò che leggiamo prima (la storia di Molloy). Ciò che noi leggiamo come una testimonianza di Molloy altro non è che il racconto che, alla fine del romanzo, Moran inizia a comporre. Se così fosse, questa struttura ricorda molto da vicino la struttura della narrazione nella Recherche di Proust: le pagine conclusive dell’opera ci narrano del protagonista, che prende la decisione di scrivere il romanzo che noi abbiamo appena finito di leggere. E se quindi fosse Molloy fosse una invenzione di Moran?

Uno strano io. Molloy, come romanzo, pone in maniera radicale la difficoltà di spiegare cosa indichi “io” in narrativa. In primo luogo entrambe le parti che compongono il romanzo sono scritte in prima persona: questo dal punto di vista grammaticale è facilmente individuabile, ma rimane molto più complesso scoprire cosa si nasconda dietro questo lemma “io”. Il pronome “io” fa nascere una catena di interrogazioni: Chi è il vero io di questa storia? chi è che fa dire io a Molloy e io a Moran, essi sono due “io” diversi o sono il medesimo “io”. Possiamo provare a fare due ipotesi.

a) Part I → Molloy → io: Molloy e Part II → Moran → io: Moran.

b) Part I →Molloy → io→ Moran: Molloy e Part II→ Moran → io: Moran, che sottintende la trasformazione di Moran in Molloy, e la strana struttura ciclica della narrazione.

Durante il racconto Moran inizia a parlarci dei suoi casi, che Youdi gli ha affidato, e nel parlare di questi  li definisce “storie” (p.660) e aggiunge: “Che turba nella mia testa, che galleria di crepati. Murphy, Watt, Yerk, Mercier” (ibidem). I personaggi delle storie/casi di Moran sono tutti i personaggi delle opere precedenti di SB. Moran continua dicendo: “Storie, storie. Non ho saputo raccontarle. Nemmeno questa avrò saputo raccontare” (ibidem). Questo potrebbe portarci a un’altra riflessione: se questo io che scrive io non fosse né Moran né Molly, ma fosse SB che, tramite Molloy e di Moran, mostra il meccanismo del romanzo, nel quale un personaggio postula il fallimento dello stesso meccanismo che viene descritto. L’autore ci suggerisce come io sia un solo un pronome, che può scivolare nell’egli.

Le voci e egli. Molloy è scritto in prima persona, questa affermazione è vera tranne che per una eccezione, un periodo che chiude la prima parte, vediamolo insieme: “Mi sembrava che piovesse, ci fosse il sole, a rotazione. Un vero e proprio tempo primaverile. Avevo voglia di tornare della selva. Oh non proprio voglia, per davvero. Molloy poteva restare lì, dov’era.” (p. 603). C’è questo passaggio repentino tra la prima persona e la terza, senza nessuna segnalazione di questo movimento. Mentre leggiamo viene da chiederci: Chi pronuncia/scrive questo ultimo enunciato? Il narratore? Possiamo escluderlo, perché appunto il narratore è in prima persona. È un intervento dell’autore? Anche rileggendolo non sembra uno di quei momenti tipici dei romanzi ottocenteschi, nei quali l’autore prende la parola e discute con i lettori [in Molloy, infatti, quando  il protagonista vuole chiamare il causa il lettore, non ha problemi a farlo direttamente: “Voi mi direte che questo fa parte delle mie storie…” (p. 589)].

L’effetto di tale chiusa, quindi, è di costringerci a guardare Molloy dall’esterno e dell’alto (non dobbiamo dimenticare che in queste ultime pagine il protagonista è supino in un fosso): qualcuno dice che, infine Molloy, può restare dov’è. Di chi p questa voce che è estranea al romanzo?  L’enunciato è una sorta di ordine: Lasciamo Molloy lì dove sta, come se non lo dicesse tanto a noi lettori, quanto a colui che scrive. È una voce esterna che detta i comportamenti a colui che scrive, una voce esterna e al narratore e l’autore.

In Molloy, sia nella prima parte che nella seconda, leggiamo spesso di voci, che i personaggi dicono di sentire e di avvertire lungo il loro cammino. Leggiamone alcuni passi: “Perché io mi sono tanto sottratto, sempre, tanto sottratto ai miei suggeritori” (p.597), oppure qualche pagina dopo leggiamo: “E ogni volta che dico, Io mi dicevo questo o quell’altro, o parlo di una voce interiore che mi diceva, Molloy, e poi una bella frase più o meno chiara e semplice, o mi ritrovo a prestare a terzi parole intelligibili”(p.598). Molloy racconta di avere nella sua testa, dentro di sé o intorno a sé, questo non ci è chiaro, dei suggeritori, di avere una voce che gli parla e gli detta parole. Il tema della voce diventa ancora più presente nella seconda parte, Moran ci suggerisce: “Se vi piace, è una voce abbastanza ambigua e non sempre facile da seguire, nei suoi ragionamenti e decreti. Come che sia la seguo, più o meno, la seguo in questo senso, che la comprendo, e in quest’altro senso, che le obbedisco” (p.654) e infine aggiunge: “Ho parlato di una voce che mi dava delle istruzioni, o meglio dei consigli. Fu durante quel ritorno che la udii la prima volta” (p.700). Questi due personaggi, che sono i due io che narrano, raccontano una sorta di svuotamento: non sono loro che agiscono, ma qualcuno che detta loro come comportarsi, sono passivi. Se è vero che Moran è il narratore della prima e autore della seconda parte,  che è narrata da Molloy, entrambi sono accomunati da una sorta di inoperosità. Questa voce che detta i comportamenti, che li svuota di ogni volontà propria, che è superiore a ogni sentimento umano, a ogni passione, che anzi svilisce tali passioni, è molto simile a quella che Dante descrive in Purg. XXIV: “E io a lui: «I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando»”.  Anche Dante, il Dante dello stilnovo, racconta la scrittura come una sorta di dettatura, di uno svuotamento di sé, per essere riempiti d’amore, schiavi e servi d’amore. Pensiamo solo all’incipit della famosa canzone della Vita Nova “Amor che ne la mente mi ragiona” che potremmo parafrasare come una sorta di possessione in cui è Amore che ragiona e ha preso possesso della mente del poeta. L’amore è uno svuotamento dell’uomo, che nel momento in cui prova Amore previene a una sorta di noluntas, come la descriveCavalcanti in uno dei suoi sonetti più famosi: “I’ vo come colui ch’è fuor di vita,/che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia fatto/di rame o di pietra o di legno,/che si conduca sol per maestria/e porti ne lo core una ferita che sia,/com’ egli è morto, aperto segno.”. La condizione di Moran e di Molloy è simile: entrambi sono “fuor di vita”, entrambi sono un uomo che non pare reale ma “fatto di rame o pietra”. C’è un qualche legame tra questa “prepotenza” descritta da Dante e Cavalcanti e l’egli che prende la parola e intima di lasciare Molloy lì dove sta e che detta e suggerisce la storia a Moran? E sopratutto chi è questo egli?

egli o Egli?. Per rispondere all’ultima domanda che ci siamo posti partiamo da una citazione di Denis De Rougemont da L’amore e l’occidente, lo scrittore francese analizzando Tristano e Isotta nota come molti degli accadimenti del romanzo siano gratuiti, siano creati dall’autore stesso: “quando non vi siano  ostacoli, se ne inventano”, perché esiste un “fenomeno che accomuna il romanziere e il lettore, […], una sorta di complicità che li leghi: la volontà che il romanzo continui, o per così dire, scatti in avanti”. Questa volontà, che desidera che il romanzo proceda, che le complicazioni si moltiplichino, che le scene si susseguano, è il demone del romanzesco, che “in fondo è tutt’uno” con il demone dell’amore cortese, “poiché il demone dell’amore cortese ispira il cuore degli amanti da cui nasce il loro soffrire, è il demone del romanzo come piace agli occidentali”. 

Tale coazione al procedere del racconto è così pervasiva che leggendo Molloy si ha l’impressione di trovarsi in una struttura narrativa simile a Tristano e Isotta. Sia chiaro non ci sono episodi comuni o simili, ma è il modo con cui si sviluppa la narrazione a sembrarci simile; infatti nel romanzo cortese le scene che si succedono, germogliano per creare complicazioni, e con esse una maggiore sofferenza, ostacolo che differisce e allontana l’amore totalizzante. Similmente in Molloy le scene si susseguono non tanto per logica narrativa, ma per semplice differimento della fine, quasi SB avesse in mente l’origine della letteratura occidentale, una letteratura che postula come origine l’infelicità, sempre De Rougemont: “Il prodigioso successo del romanzo di Tristano rivela in noi, lo si voglia o meno, una intima preferenza per l’infelicità”. I personaggi dei romanzi, proprio come in Molloy, “sono attratti dalla morte, lontani dalla vita”. Il tema dell’amore nel romanzo cortese, però, nasconde, proprio come racconta De Rougemont, qualcosa di più complesso: dietro la retorica e la narrativa d’amore c’è una vertigine religiosa, c’è la sopravvivenza di una ideologia popolare e ben più antica di quella cristiana. L’amore cortese per lo scrittore francese è una sorta di metaforizzazione di un di un Dio che “si libra al di sopra del cielo”: esso mostra “già la stessa Divinità dei grandi mistici eterodossi, il Dio che precede la Trinità di cui parlano la gnosi e maestro Eckhardt, e più precisamente ancora, il Dio ‘sopraessenziale” che secondo Bernard de Chartes risiede al di sopra dei cieli”. A spiegare questa dismisura che precede il mondo, che precede Dio stesso, ci sono le parole di Bernard De Ventadour, che avrebbero potuto essere pronunciate da un personaggio di SB: “M’ha tolto il cuore, m’ha tolto il mondo, m’ha tolto a me stesso; e infine si è sottratta anche lei, lasciandomi solo con il mio desiderio e il mio cuore assetato”.

Questo Dio che sfugge a ogni definizione è al centro di Molloy della sua inchiesta, e non perché non penso né credo che Molloy sia un romanzo teologico, ma perché è il romanzo  che si interroga sulle cose “penultime”,  come bene lo si intravede nella nella domanda 13 di Moran: “Che cazzo faceva Dio prima della creazione?” (p.697). Questa domanda è centrale per comprendere lo sguardo di SB: cosa c’è prima della creazione, cosa è il principio che genera il mondo?

egli → Egli → Nulla. Potremmo rispondere, riprendendo la riflessione sulla litote che avevamo fatto (vd appunto precedente). Il “non” è centrale per comprendere la descrizione dell’uomo in SB. L’uomo, nell’universo di Molloy, è condannato a vita assurda, pensiamo alle lunghe elucubrazioni di Molloy rispetto ai suoi sassi (pp.578-579), che riprendono certamente Il mito di Sisifo di Camus (1942), e non è causale che il riferimento all’eroe mitologico sia ripreso, quasi in un gioco di specchi, nella seconda parte da Moran: “Ma persino a Sisifo non penso che sia imposto di grattarsi,  o di gemere, o di esultare…”(p.655). L’uomo di Molloy ha perduto la speranza, ha la disperazione come orizzonte principale: “Questo alimenterebbe la sua speranza, non è così, la speranza che è la disperazione infernale per eccellenza” (ibidem). L’orizzonte assurdo in cui l’uomo vive è un orizzonte di nullità,  di nullafacenza, di non agire: “Perché non è nulla, non sapere nulla, né tanto meno non voler saper nulla, ma non poter saper nulla, sapere di non poter saper nulla, ecco dove trascorre la pace, nell’animo del ricercatore curioso” (p. 568). Oppure la negazione di Moran nel momento in cui Gaber gli intima l’ordine di tornare a casa: “Non posso camminare, dissi. Come?, disse lui. Sto male, non mi posso muovere, dissi. Non intendo una sola parola di quello che dice, disse. Gli gridai che non potevo spostarmi” (p. 692). Questa negazione dell’umano, dell’essere umano, è totalizzante tanto che alla fine del romanzo Moran dichiara: “Non sopporterò più di essere un uomo, non ci proverò più. Non accenderò più questa lampada” (p.707). L’umanità definita tramite il “non”. Mi pare interessante qui sottolineare una strana convergenza, tra due autori non facilmente accostabili, ma che secondo me è invece centrale. L’immagine di Moran come sicario o similare mi porta a mettere a fianco Molloy e I 49 racconti di Hemingway, pubblicati nel 1938, in particolare il racconto I sicari. La vicinanza tra questo racconto e Molloy è secondo me evidente, da un lato abbiamo appunto l’atmosfera noir con i due sicari, duri, sadici, strafottenti, ma che infine falliscono, che ricordano in parte il Moran del romanzo di SB, ma be più interessanti sono a mio parere le parti finali del racconto in cui compare Ole Anderson, il bersaglio dei due killer. La sua apparizione modifica profondamente il racconto, nella prima parte era stato sincopato e ansioso, la sua entrata in scena è invece all’insegna della negazione. Nel dialogo tra lui e Nick Adams il numero delle negazioni è altissimo: “- Non posso farci niente – disse Ole Anderson.//  – Le dirò che aspetto avevano. // – Non voglio sapere che aspetto avevano. […] // – Non vuole che vada a dirlo alla polizia?// – No, – disse Ole Anderson – Non servirebbe. // – Non c’è niente che possa fare?//  – No. Non c’è niente da fare”. Il mondo di Hemingway e quello di SB hanno in comune questo dominio del nulla, del niente che avvolge e costringe tutti i personaggi: il destino di ogni uomo è infine negazione.

Ora forse possiamo provare a rispondere alla domanda di Moran. Che cosa faceva  Dio prima della creazione? Dio prima della creazione faceva nulla, Dio era nel nulla, era attraversato dal nulla. La risposta migliore è, quindi, nella preghiera che Moran recita: “Padre nostro che non sei né in cielo né in terra né all’inferno, né voglio né desidero che sia santificato il Tuo nome, a Te è dato di sapere quello che ti conviene” (p. 697). Il Dio che prega Moran è un Dio indefinibile, comprensibile solo per via negativa, le parole di Moran sono molto simili a quelle del protagonista hemingwaiano di Un posto pulito e illuminato bene : “Era un niente che conosceva troppo bene. Era tutto un niente, e anche un uomo era niente. […] lui sapeva che era tutto nada y pues nada y nada y pues nada. Nada nostro che sei nel nada, nada sia il nome tuo il regno tuo nada sia la tua volontà nada in nada come in nada. Dacci questo nada il nostro nada quotidiano e nadaci il nostro nada come noi nadiamo i nostri nada e non nadarci in nada ma liberaci dal nada, pues nada. Ave niente pieno di niente”. La vicinanza tra le due preghiere è fortissima, entrambe mettono in evidenza qualcosa che precede l’uomo, la creazione e Dio stesso: il mondo, l’uomo, ciò che c’è prima dell’uomo e del mondo, quindi Dio stesso, è niente, avvolto nel niente e risolto nel niente; questa nothingness è l’egli che detta i movimenti dei personaggi di Molloy. Il mondo descritto da SB in Molloy è il mondo del nulla, il mondo che non solo è andato in frantumi, tali frantumi stanno scomparendo: non esiste più bellezza, natura, amore, sentimento, ma solo un nulla enorme che avvolge tutte le cose. Per quanto riguarda SB, Adorno parla di “nulla positivo”, il nulla delle opere beckettiane non è una semplice negazione, ma è l’esistenza di una negazione, e il comprendere che il “non essere” è comunque, che in qualche modo esiste ed è il prodotto di questa nostra vita e nostra storia. Nella lingua francese la parola “niente” può essere resa con “rien”, che mantiene al suo interno memoria della parola latina res/cosa; e quindi rien dice niente dicendo “cosa”, rien suggerisce che esiste una cosa che è niente, che il niente non si oppone all’essere, ma ne è involucro.

Si può vedere il niente, il niente è qualcosa, perciò è positivo, possibile, dicibile: la scrittura di SB per Adorno è tutta in questo sforzo: “Qualcosa che potrebbe definirsi come il tentativo di raggiungere un nulla positivo e cioè un nulla che non possa essere inteso che come negazione di qualcosa che esiste. Tutta l’indescrivibile energia di questo scrittore non fa che gravitare attorno a questo stesso punto facilmente spiegabile dicendo che il nulla non può essere pensato né immaginato se non come il nulla di qualcosa. […] non è logicamente concepibile che il nulla sia altro che il nulla di qualcosa”.

Il finale. “Allora rientrai a casa e scrissi, È mezzanotte. La pioggia batte contro i vetri. Non era mezzanotte. Non pioveva” (p. 707).  La frase suona stravagante, sembra negare qualcosa che ha poco prima affermato. C’è in questa chiusa, a parer mio, una possibile descrizione della poetica di SB. In primo luogo possiamo notare che le due frasi sembrano uguali, ma non lo sono. La prima cosa che ci colpisce è l’alternanza tra presente e imperfetto: gli enunciati affermativi sono al presente, quelli negativi sono all’imperfetto. Tale slittamento grammaticale mette in risalto la differenza, ci mette davanti a uno stridore, SB vuole mostrarcelo, così come nella fine della prima parte aveva introdotto la stortura del passaggio dalla prima alla terza persona, come ad avvertici del dato teologico che avremmo visto più  pienamente nella seconda parte.

Nella chiusa del libro l’autore vuole suggerici di guardare un evento che si conclude tutto nel linguaggio.  Moran entra in casa e scrive “è mezzanotte”/“piove”, ma ciò non significa che realmente stia piovendo e che sia realmente mezzanotte. E infatti le due frasi successive sembrano suggerire: ho scritto che “piove” e “è mezzanotte”, ma in realtà mentre scrivevo tali parole, che hanno per significato “piove” e “è mezzanotte”, non stava né piovendo né era mezzogiorno.

SB ci suggerisce che non esiste la verità in letteratura, che ciò che leggiamo è un’illusione linguistica, una combinazione di parole; il mondo è andato, è svanito, lasciando appena ombre e macerie; la letteratura non ha più la forza di produrre qualcosa di vero e di reale, ogni sforzo in questo senso è ormai vano; la letteratura non può che mostrare l’assurdo di ciò che è, e di ciò che ci pare essere; lo scollamento con la realtà è totale: io posso scrivere una cosa assolutamente logica e corretta, ma ciò non significa che sia vera o reale. La letteratura è altra rispetto al reale. Proprio a ragione di ciò Moran può entrare in casa e scrivere frasi che per quanto grammaticalmente e logicamente vere non sono per forza reali.

Esiste la realtà e esiste la realtà nel linguaggio: le due tensioni non sempre coincidono, anzi lo scrittore vive proprio nel mezzo di tali possibilità, aspettando qualcosa che non arriverà o tarderà, infine.

In Schede

“Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud”: tra memoria, amore e psicoanalisi

di Carmen Rampino

Sono nata in una fredda mattina di dicembre in Berggasse 19, “la strada della psicoanalisi”, così la chiamavano a Vienna. Ultima di sei figli, sono sempre stata una bambina schiva, incapace di conciliare la timidezza con la presenza degli altri (Lombardo 2024, p. 15).

A parlare è Anna Freud in Bergasse 19. Una donna di nome Anna Freud (Lombardo 2024), ultimo parto letterario di Lucrezia Lombardo. Oggi sono tante le narrazioni che cercano di raccontare storie di donne rimaste nell’ombra per secoli. Pochi, però, ci riescono in una maniera così chiara, dolce e appassionante come Lombardo con il suo libro pubblicato dalla casa editrice Les Flâneurs. Il libro inaugura la collana Le innominate il cui precipuo scopo è proprio dare voce a quelle sorelle che la storia ha relegato ai margini, pur avendo svolto un ruolo determinante nella storia del pensiero, dando così giustizia alla memoria tradita e rivendicando il posto che spetterebbe loro nella memoria collettiva. Infatti queste donne sono state tradite due volte: la prima volta in vita, quando hanno lottato il triplo per farsi ascoltare; una seconda volta quando sono state depositate nell’oblio, quando è stato attribuito loro il ruolo di moglie di, figlia di – condizione che in alcuni casi le ha sicuramente aiutate: quante non hanno proprio potuto parlare perché non si sono ritrovate in questa fortunata condizione? -, quando a loro è stato dedicato sui manuali, sempre se glielo è stato dedicato, un piccolo paragrafo con una menzione del tipo letteratura femminile. Quando una scrittrice viene identificata non attraverso l’appartenenza ad un genere letterario, a una corrente o a un fenomeno culturale, ma attraverso il proprio genere biologico c’è un problema, dal momento che, se parliamo di Montale, Manzoni, Pavese, non certo usiamo l’espressione letteratura maschile: non riusciamo, quindi, ancora ad identificarle all’interno di un contesto più ampio, ma sentiamo il bisogno di ghettizzarle, di marginalizzarle.

Allora la memoria, pur essendo facilmente manipolabile, è pur sempre l’unico strumento che rappresenta la dimensione pubblica della storia, e anzi, proprio in virtù del fatto di essere un artefatto, un costrutto prodotto collettivamente, deve riappropriarsi della storia di quella che banalmente rappresenta almeno la metà della popolazione mondiale. Nello svolgere operazioni di questo tipo è senz’altro difficile non abbandonarsi a vuoti cliché e luoghi comuni che non aiutano e, forse, sviliscono la causa. È riuscita, però, efficacemente Lucrezia Lombardo nel far conoscere e amare la storia di Anna Freud, donna sempre e quasi unicamente accostata al nome del padre.

Uscito il primo marzo in libreria, Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud risulta un lavoro vincente fin dalla forma scelta: una lunga lettera che Anna scrive a una tale Dorothy, di cui, se non conosciamo la storia vera, solo a p. 95 scopriremo il cognome, iniziandola a inquadrare socialmente: si tratta Dorothy Tiffany Burlingham, proveniente da una delle famiglie più ricche e potenti degli Stati Uniti, giunta a Vienna tanti anni prima in cerca di una scuola per i suoi figli e, soprattutto, di aiuto (cfr. Lombardo 2024, p. 21 e p. 97).

È una lettera inventata, ma basata sulla storia vera, ricostruita a partire dai carteggi di Anna, di Sigmund e di tutto il materiale proveniente dal Sigmund Freud Museum di Vienna: un non fiction novel. Tutto parte da Berggasse 19, via in cui visse la famiglia Freud. La strada solitamente associata a Sigmund, qui viene legata ad Anna, perché la memoria va ricostruita, non certo annullando quella pregressa, ma integrandola e completandola.

Questa è, quindi, proprio la storia di Anna che, attraverso il potente strumento della scrittura, pone finalmente sé stessa sotto la lente di ingrandimento della psicoanalisi.

La lettera, ovvero il lungo monologo, dà concretamente voce ad Anna, che al centro della scena, illuminata da una luce finalmente puntata tutta su di lei, in modo discreto, delicato e mai morboso ci racconta la sua vita, anche quella più intima. Pagina dopo pagina, attraverso una scrittura semplice e piana, dolce e rassicurante, veniamo sempre più inclusi, all’interno degli spazi che attraversa, degli odori che annusa, delle persone che incontra, della vita che vive, e ci sembrerà di essere a fianco a lei. Vivremo la Vienna liberty di primo Novecento, l’arte di Klimt, il sapore dolce amaro di chi, in diretta, stava piano piano sempre più precipitando verso il male, e poi il Nazismo, le persecuzioni, la fuga, la condizione di essere apolidi. L’autrice è riuscita ad immergersi integralmente in questo contesto storico-culturale e, prendendoci per mano, ci conduce in modo profondo all’interno di esso.

Anna richiama, evocandoli, i vari episodi e le varie persone che hanno segnato la sua vita, in primis suo padre: Sigmund Freud. D’altronde come può aprirsi un libro sulla psicoanalisi se non sulla descrizione del rapporto con il padre? Ed è proprio lui a venirne fuori in maniera diversa da quella che ci si aspetterebbe. Viene de-monumentalizzato e umanizzato: scopriamo che, per assurdo, proprio il padre della psicoanalisi non si è certo sottratto al meccanismo più tipico e basilare analizzato dalla psicoanalisi stessa, cioè al malsano rapporto con la figlia e ai traumi che le ha causato. Nella finzione letteraria Anna scrive: «Ho trascorso buona parte della mia infanzia priva del calore di un abbraccio paterno» (Lombardo 2024, p. 27). L’Anna bambina va incontro alle disattenzioni e alla freddezza del padre, all’insofferenza verso la figura materna, al sentirsi una figlia non voluta. Eppure, finirà per ringraziare quelle disattenzioni: «Credo di dover ringraziare le disattenzioni iniziali dei miei genitori, perché hanno permesso alla mia pena di trasformarsi in opportunità» (Lombardo 2024, p. 29). L’essere stata una bambina infelice le darà, quindi, la forza e lo stimolo per portare avanti la sua grande rivoluzione elaborando un metodo psicoanalitico per l’infanzia. Da figlia non voluta, riuscirà a farsi strada, ma dovrà lottare prima di tutto all’interno della sua stessa famiglia per emergere. E sì, con il tempo creerà un legame fortissimo con il padre, ma a costo di duri sforzi. Ecco perché nel tentativo di emancipazione, il rapporto con la figura paterna, comunque, occupa tutto il libro, che è la storia di un progressivo affrancamento. Tutto parte dal padre e attraverso un percorso di formazione e ostacoli si finisce per superarlo. Ciò è suggellato dalle parole dello stesso Freud: «Tu, figlia mia, mi hai già superato» (Lombardo 2024, p. 120). E Anna è riuscita nell’impresa, nonostante fosse destinata dalla società e dalla famiglia ad una vita segnata dall’invisibilità e da quei rigidi schemi patriarcali che la volevano subalterna, che la volevano semplicemente una moglie o una figlia di qualcuno, priva di una identità. Questa condizione, però, Anna non l’avrebbe tollerata. Anna prova disprezzo e rabbia verso le donne come sua madre o come sua sorella, le sembra che, pur felici e serene in quella condizione, gettino via il tempo prezioso delle loro vite tra visite e convenevoli artificiosi (cfr. Lombardo 2024, p. 38). La curiosità le deriva, invece, dalla vita del padre, e sarà a quella che tenderà durante tutta la sua esistenza. E determinante in questo viaggio di liberazione, per il suo coraggio e per il suo essere refrattaria ad ogni autorità, sarà Dorothy.

Ma perché Anna scrive una lettera proprio a Dorothy? Quale legame le lega? Più volte viene sottolineato che si tratta di una lettera di ringraziamento, di gratitudine a quella persona che le ha permesso di ritrovare la speranza. Se approcciamo al libro con uno sguardo vergine e senza conoscerne la storia vera, progressivamente attraverso tante spie testuali e dettagli sparsi qua e là, veniamo a conoscenza del legame che lega Dorothy alla scrivente. Capiamo così che si tratta di una lunga, dolce, intensa lettera d’amore. Non a caso la lettera viene definita, a p. 30, un «ultimo gesto d’amore». Tra le due esiste quell’amore che mette a nudo e distrugge le maschere, che rende vulnerabili, ma anche potenti, infatti Anna le scriverà: «Tu sei stata la prima persona che si è accostata a me senza alcun pregiudizio» (Lombardo 2024, p. 28). Le due sono state compagne di vita, lotte e studio. Hanno lavorato insieme per trovare dei metodi in grado di aiutare bambini traumatizzati, orfani di guerra, vittime di maltrattamenti, bambini senza una casa, attraverso i “War Nurseries” a Londra, gli asili di guerra, che poi inizieranno ad ospitare anche bambini sopravvissuti ai campi di concentramento. Il loro è un amore che è anche dedizione, condivisione di intenti, slancio per una causa che si converte in ragione di vita. Il libro è dunque una storia di amore, lotta, emancipazione, volontà di autodeterminarsi. E se a p. 126 scopriamo che l’Eros è l’antidoto contro la guerra, tutta questa lettera che trasuda di Eros, è considerabile un disperato tentativo di argine alla guerra.

Anche Dorothy fugge da una famiglia opprimente, intenta sempre a salvare le forme e le apparenze a scapito della sostanza. Da qui si capisce, dunque, come le classi sociali sono tutte, indifferentemente, toccate da un’organizzazione patriarcale oppressiva, solo che con livelli di ipocrisia diversi e con possibilità di salvezza diverse (non dimentichiamo che pur con tutto il coraggio che la contraddistingue, Dorothy ha avuto la fortuna di poter fuggire in Europa per salvare sé stessa e i suoi figli da una situazione dolorosa).

Durante tutta la lettera, la nostra attenzione sarà attratta sempre da Anna che, con il suo frizzante temperamento, con le sue lacerazioni, in lei presenti fin da bambina, la sua malinconica insofferenza, non viene mai restituita come un personaggio piatto o privo di sfumature. Fin da subito è contraddistinta da insanabili lotte interiori. Anna si troverà a vivere il conflitto tra la sua femminilità e l’irrefrenabile istanza all’autonomia (cfr. Lombardo 2024, p. 41), tra il desiderio di aiutare i bambini sofferenti e il suo rifiuto della vita familiare tradizionale, scelta da lei considerata egoistica perché finalizzata al perseguimento dell’esclusivo benessere dei propri cari (cfr. Lombardo 2024, p. 41), tra la sua volontà di aiutare i poveri e i sofferenti e la fortuna e il senso di colpa per provenire da un mondo confortante, borghese (cfr. Lombardo 2024, p. 44). E Anna, si diceva, ci attrae proprio perché in queste fessure e conflitti ci riconosciamo, perché è rassicurante sapere che il nostro essere sfaccettati, il nostro dover imparare a convivere con tutte le varie contraddizioni insanabili, caratterizza tutti. Senza Dorothy, però, forse non ci sarebbe stata salvezza per Anna, e viceversa. Lo slancio per l’aiuto del prossimo le ha legate, il trovare un complice, però, ha salvato entrambe.

Perché leggere queste pagine? Innanzitutto, ognuno vi troverà un pezzettino di sé stesso, anche semplicemente in alcuni stati d’animo o atmosfere evocate e, se si lascerà travolgere dalla potenza delle parole, troverà in alcuni angoli anche un pezzetto del nostro presente. Si legga a titolo esemplare l’elogio della condizione degli apolidi:

Ci abituammo all’idea che l’Inghilterra sarebbe diventata la nostra nuova casa, non certo una patria, gli apolidi non hanno appartenenza, né una nazione di cui sentirsi parte ma questa, forse, è la condizione migliore per proteggersi dallo spirito del nostro tempo, assetato com’è d’identità violente e di prevaricazione. (Lombardo 2024, p. 124)

Questo, però, è solo uno dei molteplici spunti offerti da un libro che riesce a tenere insieme mitologia, arte, tragedie greche, scultura, amore, psicoanalisi. La lettura del libro conduce ad una nuova consapevolezza, e forse aggiunge anche quel briciolo di rabbia in più alle nostre vite che ci porta a chiedere: Quanto ci siamo persi? A quali vette sarebbe giunto il pensiero se una parte di umanità per secoli non fosse stata ammutolita? E con quest’acre sapore in bocca proseguiamo nelle nostre personali lotte quotidiane.

TESI CITATI.

Lucrezia Lombardo, 2024, Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud, Bari, Les Flâneurs.

In Tu con Zero - Le interviste

FALLA TU L’EROTICA A FOGGIA. La prima fanzine fotografica di Giuseppe Petrilli. Conversazioni e disquisizioni su vent’anni di Arte Erotica e passione per la provocazione.

di Umberto Mentana

Giuseppe Petrilli è nato a Lucera (Fg) nel 1970 dove vive e lavora. La sua attività artistica si sviluppa in una doppia produzione, tra arte figurativa e fotografia. In particolare la serie erotica “Piante Carnivore” è il risultato di una personale ricerca volta a trovare la giusta alchimia tra il gesto artistico più classico, il disegno, e le nuove tecniche digitali, al fine di utilizzare e sviluppare le numerose soluzioni espressive che esse offrono. Ha partecipato a diverse mostre collettive e personali a Miami, Chicago, Los Angeles, San Francisco, Montreal, Berlino, Zurigo, Roma, Milano, Firenze, Verona, Napoli, Salerno, Catania, Bari, Lecce, Taranto, Foggia.

            Giuseppe Petrilli e io condividiamo le origini, siamo entrambi lucerini e questo per noi è stato spesso motivo di confronto. La nostra affinità va però oltre. Da sempre, infatti, sono  affascinato dalla sua Arte Erotica che è mutaforme, provocatoria, trasgressiva ed estremamente poetica e sinceramente interessato a comprendere i meccanismi che la muovono. In passato ho avuto la possibilità, e la fortuna, di realizzare con lui un progetto di illustrazione dedicato alla Valentina di Crepax, basato su un mio racconto. Da qui  il titolo  Oplà_A Tribute to a Valentina. (https://www.frammentirivista.it/cara-valentina-il-tempo-non-fa-il-suo-dovere/). Così, quando ho appreso che in questi giorni è stata pubblicata una fanzine dedicata interamente alla sua produzione fotografica, edita da CAVIE PROJECT (https://www.instagram.com/cavie_project/)

 ho ritenuto importante, condurvi nello “studio dell’artista. Cavie Project è il nome del collettivo di editoria indipendente nato a Milano. Paolo Coppolella e Milo Mussini, i due fondatori, hanno deciso di dedicare un intero numero ad una selezione di scatti provocatori di Giuseppe con il titolo, anche questo provocatorio, “Falla tu l’erotica a Foggia”. I due editori tengono a specificare però che: “Il titolo ha un senso ironico, è come per dire la provincia è viva, viva la provincia! Non ha un’accezione denigratoria, anzi tutt’altro. Giuseppe ci vive e lavora lì e il fatto che degli editori di Milano come noi vogliano collaborare e sviluppare un progetto con lui è una cosa bella anche per il territorio ma è un modo per parlare in modo positivo della provincia.”

Di seguito vi riporto la mia lunga chiacchierata con Giuseppe, decisamente informale, rilassata e rock and roll.

U.M. Insomma, Giuseppe. Come e dove sta andando questa fanzine?

G.P. Di sicuro c’è molto entusiasmo da parte di Paolo e Milo, i due editori. Tant’è che di solito per CAVIE si stampano trenta copie a tiratura limitata e invece per la mia hanno fatto un’eccezione, partendo da una tiratura di cinquanta copie. Io stesso ho dedicato molta dedizione per questa fanzine, soprattutto perché si tratta della mia prima pubblicazione fotografica. Quindi ho inviato a CAVIE all’inizio un bel po’ di scatti, più di un centinaio, anche foto molto vecchie. E non ho voluto interferire nella scelta di cosa doveva esserci e cosa no nella pubblicazione finale. Dopodiché loro hanno scelto le prime sessanta fotografie ed infine le trenta finali che sono finite in pubblicazione; il principio scelto da Paolo e Milo per la fanzine è stato quello di creare una sorta di racconto unitario, uno storytelling che attraversa tutte le pagine, insieme naturalmente alla continuità cromatica, un’altra scelta importante per la selezione delle opere.

U.M. Loro di Cavie Project trattano esclusivamente fotografia, giusto?

G.P. Sì, anche perché professionalmente appartengono al mondo della fotografia e il fatto di essere entrato con la Fotografia in una realtà artistica qual è quella di Milano per me è una grande soddisfazione perché è molto complicato come contesto, a differenza dell’arte figurativa, con la quale è stato più facile essere introdotto in determinati ambienti. Il mondo dell’arte figurativa è più inclusivo secondo me, quello della fotografia lo è molto meno.

U.M. Questa cosa la riscontro anche io con il Fumetto e il Cinema. Con il primo ho avuto meno difficoltà a introdurmi e farmi conoscere.

G.P. Sì, ci sono dei circoletti, c’è molta competizione.

Sono molto contento perché quello di produrre una fanzine era uno dei miei progetti in cantiere, ne ho una pronta che volevo autoprodurre o proporre ad una di queste case editrici che trattano fanzine e neanche a farlo apposta sono venuti loro da me.

U.M. Volevo chiederti, visto che la tua arte e il tuo nome sono sempre stati legati all’illustrazione e all’arte figurativa, come mai questo “passaggio” alla fotografia?

G.P. Il passaggio è stato molto naturale, nel senso che io ho sempre utilizzato la fotografia nelle mie opere, perché il mio obiettivo è ed è sempre stato realizzare le mie opere da zero, utilizzando sempre immagini esclusive come riferimenti. Quindi ho sempre usato la fotografia come medium per realizzare le immagini finali, come reference. E il passaggio perciò è stato naturale perché realizzando gli scatti certe volte mi rendevo conto che alcuni dovevano rimanere così  e non essere trasformati in disegni o in dipinti. Ho iniziato così a pensare di fare una produzione parallela a quella figurativa formata da scatti fotografici. È nata così.

U.M. Perché dici che alcuni scatti devono rimanere “solo” fotografia e non essere trasformati in illustrazioni?

G.P. Ci sono alcuni scatti che hanno una forza espressiva, delle ombre, un contrasto tra chiari e scuri.. Ci sono delle foto che devono rimanere così, non riuscirei a ritrovare la stessa tensione ed energia incastonandola in un disegno. C’è una cosa che tengo particolarmente a precisare e cioè che io non mi ritengo un fotografo ma mi considero un creatore di immagini e per me la fotografia è un modo alternativo di disegnare. Il mio approccio alla foto è molto più istintivo che tecnico, anche se ho fatto dei corsi base di fotografia non ci tengo particolarmente ai costrutti tecnici come le regolazioni di ISO, il diaframma e così via. Mi piace più fare degli esperimenti strani con le luci, gli effetti. Mi piace sperimentare ogni aspetto perché, ribadisco, io sono un creatore di immagini e non un fotografo.  Quello a cui anche tu facevi riferimento prima, ossia  che il pubblico mi conosce più per l’arte figurativa che per le fotografia non nego che per me, ad un certo punto della mia carriera, è stato motivo di crisi. Mi sono sentito come un pesce fuor d’acqua, fino a qualche tempo fa, quando, nel 2020, ho dato vita ad un progetto in collaborazione Creo Gallery di Foggia e decidemmo di fare una mostra con opere di piccolo formato così da venderle anche ad un prezzo abbordabile per chiunque e in quell’occasione mi sono inventato questa nuova serie che ha unito la fotografia con la pittura: praticamente ho stampato delle mie foto in bianco e nero e le ho colorate a mano, si chiama Ex Voto ed ha riscosso molto successo, devo dire. Stava andando benissimo, era il Febbraio 2020 e avevamo intenzione di fare esperimenti interessanti, come fare interagire gli spettatori ma poi ovviamente c’è stato il lockdown e tutto si è bloccato. Quell’esperienza è rimasta sospesa nel limbo però ho sempre un pensiero di tornarci su.

Ritornando invece a quel mio “passaggio” fra arte figurativa e fotografia, c’è il fotografo praghese Jan Saudek che indirettamente mi aiutato in un certo senso a fare pace con me stesso, poiché anche lui è un artista in questo senso perché le sue fotografie le dipinge poi a mano e questa tecnica mi ha messo il cuore in pace. E il fatto che Cavie Project hanno voluto realizzare questa fanzine è la prova che sono sulla buona strada, è un grande piccolo traguardo per me!

U.M. Certo, alla fine quello di arrivare ad una pubblicazione che venga distribuita su un certo tipo di circuiti e in un certo tipo di realtà, principalmente come quella di Milano, molto attenta all’arte erotica, è motivo di orgoglio.

G.P. Senti, per me l’arte erotica è un processo nato vent’anni fa e che continua ad andare avanti. Ogni step raggiunto è importante, ogni traguardo nuovo è solo un passo per andare avanti, progredendo in altre direzioni. Io non sono uno a cui dire che in vent’anni ha fatto sempre le stesse cose, no. Io in vent’anni ho lavorato e creato sullo stesso genere ma mai le stesse cose, uso mille stili, mille tecniche, come il digitale, lapittura, la fotografia. Cerco sempre di diversificarmi.

U.M. E qual è secondo te il tuo racconto? Qual è il racconto globale che porti avanti nella tua arte, se lo sai?

G.P. Se qualcuno mi chiedesse, come spesso lo fanno, perché faccio arte erotica, mi andrebbe di rispondere per il gusto della provocazione. A me piace che la gente rimanga scandalizzata, di rompere un po’ le regole di una società un po’ ingessata come può essere la nostra. Forse adesso siamo un po’ più aperti ma vent’anni fa, più o meno nel 2006, la mia arte è stato un fulmine a ciel sereno. Ma anche io stesso non pensavo di intraprendere questa cosa, ho iniziato in maniera del tutto naturale con la serie Piante Carnivore ma non avrei mai avuto mai il coraggio di espormi, soprattutto in una realtà di provincia come la nostra, a Lucera. Ciononostante la mia prima mostra fu nel 2007 nell’ambito del Festival della Letteratura Mediterranea in città perché quell’anno il tema era l’eros. Quindi qualcuno sapeva di questa cosa che stavo facendo e mi chiese di realizzare una mostra e perciò fui anche fortunato perché entrai dalla “porta principale” perché, immagina, un Festival di letteratura è  una cornice interessante. Devo dire tuttavia che ho sempre avuto ottimi riscontri, anche in zona, nonostante c’è chi mi dice: “Le tue cose mi piacciono molto ma non le metterei mai in casa”. Questo ragionamento lo posso capire magari sulle mie fotografie che sono molto esplicite ma non credo che i miei disegni siano più trasgressivi di quelli di un Milo Manara o anche di artisti classici, il nudo è sempre esistito e in varie forme. Questa è insomma un po’ la lettera scarlatta che mi porto dietro, però devo dire che ho sempre avuto degli ottimi riscontri.

U.M. Il rapporto con le modelle ha sempre affascinato un po’ tutti, ci racconti qualcosa?

G.P. Quando ho iniziato a fare Piante Carnivore ovviamente non c’erano modelle per me che posassero dal vivo, era impossibile trovare modelle che posassero nude vent’anni fa. Poi non esisteva neppure Facebook e i social in generale non esistevano.

U.M. Sì, è vero. C’era MySpace.

G.P. C’era MySpace e c’erano dei siti che potevano essere antesignani di Facebook, però di settore. Tipo, nell’arte c’era MySpace che era arte e musica ma anche Equilibriarte, che era un sito, non era fatto con chat ma c’erano forum dove poter entrare in contatto con altre artiste.

Le mie prime modelle infatti erano altre artiste che si fotografavano, mi mandavano gli autoscatti e io così ho realizzato la mia prima serie di disegni per Piante Carnivore.

U.M. Quindi il progetto ed il rapporto con le modelle era tutto “consumato” a distanza?

G.P. Sì, sì. E infatti una persona affascinata da questa cosa fu un noto editore del territorio che era solito dirmi: “Giuseppe, dobbiamo fare una cosa.” E l’idea infatti era molto bella e magari, perché no, la riprendiamo! Voleva che pubblicassi gli stralci delle email tra me e le modelle dove io in un certo senso le dirigevo a distanza per lo scatto che poi loro si scattavano da sole. Lui mi diceva di mettere oltre a questi stralci anche poi i disegni che io ho realizzato partendo da quelle indicazioni. Poi purtroppo questa cosa non si è mai realizzata.

U.M. È molto interessante perché in questa maniera metti in mostra tutto il processo creativo di quelle opere.

G.P. È vero, perché ora  ho iniziato a fare le foto,  le faccio io di persona in studio, invece per i disegni sono ritornato al vecchio metodo, nel senso che i disegni che realizzo li faccio sugli autoscatti delle modelle, perché a me piace rappresentare la sensualità nel suo lato più naturale possibile. Mi piace che la modella si mostri come si piace mostrarsi.

U.M. Certo, senza un occhio e un intervento esterno. Ed è importante questo, anche da un punto di vista, se vogliamo, dei gender studies visto che si parla molto del fatto che l’erotismo viene trattato molto e quasi esclusivamente da un punto di vista di un occhio maschile, mentre quello che stai dicendo è molto interessante e democratico.

G.P. Sì, esatto. Io devo solo rappresentare la realtà, quindi il mio unico compito è quello di dare delle dritte dal punto di vista tecnico per una rappresentazione quanto più corretta, come ad esempio: “Se fai un autoscatto in piedi mostrati in piano americano” e cose così, anche perché è complesso farsi degli autoscatti. Un’altra metodologia utilizzata è quella di inviarmi dei video dove io poi scelgo dei fotogrammi per renderli in disegno. Io dico loro sempre di indossare quello che vogliono, di mostrarsi come vogliono. Comunque sia anche oggi è sempre difficile trovare modelle anche perché in questo tipo di opere la nudità è sempre uno scoglio complesso da superare, soprattutto sul nostro territorio. E infatti le mie modelle decidono di mantenere l’anonimato e quindi nelle foto purtroppo posano con passamontagna, maschere. Ed i motivi che spingono ad una ragazza a posare nuda sono diversi, ad esempio perché lei sta uscendo da un momento difficile e vuole ritrovarsi…io in tutto questo ho avuto quasi una funzione da psicologo, molte volte. Questa cosa dell’arte è che è catartica, alcune di loro hanno ritrovato se stesse, si sono viste sotto una luce diversa; una ragazza che fa una dieta rigorosa ad esempio e poi si vede per la prima volta, per la sua scala di valori, bella e vuole mostrarsi in un certo modo. È molto importante.

U.M. Quindi possiamo dire che l’arte erotica fa bene, da vari punti di vista.

G.P. Certo, perché l’arte erotica va maneggiata con cura anche da un punto di vista psicologico. Non è quella cosa frivola come di solito si pensa, è tutto legato alla natura umana e quindi è qualcosa di normalissimo. E per me, il valore e il ruolo che ha la modella riesce a dare per la realizzazione dell’opera finale è importantissimo.

U.M. Poi io credo che rispetto ad altre forme d’arte come il Cinema, nella fotografia il rapporto fra fotografo/a e modella/o è quasi individuale, molto intimistico e stretto.

G.P. È proprio come lo psicologo, di solito le pazienti rimangono legate al proprio psicoterapeuta. Lo stesso vale per me, si crea un rapporto di amicizia.

U.M. E infatti nelle tue opere c’è spesso la riproposizione di alcune tue modelle storiche, sono tornate spesso ad essere protagoniste dei tuoi lavori.

G.P. Certo, anche quelle dei primi lavori, nonostante la vita poi le abbia portate a seguire altri percorsi, continuano a supportarmi, a seguirmi. Per me questa è una cosa importantissima perché sì, io scatto ma a me piace che la modella senta che quello che sta facendo è anche qualcosa di suo. Deve trasmettere attraverso la fotografia la sua personalità. A me non interessa che la modella si sieda lì, in un angolo e rimanga lì. Deve partecipare alla creazione dello scatto. Quella cosa che sta facendo la deve sentire propria. Ci sono poi altri elementi che entrano in gioco, come l’aspetto ludico e l’aspetto ironico che per me sono fondamentali nell’erotismo e quindi quando si crea quel rapporto con le modelle dove ci si chiede: “Dai, ora cosa facciamo? Inventiamoci qualcosa di divertente.” Cerchi quindi quell’abito particolare, quella posa particolare e così via.

U.M. E infatti poi in alcune tue opere ho notato che c’è anche più di una modella in campo.  Una sorta di gioco tra le parti.

G.P. A me piace particolarmente il coinvolgimento, la partecipazione attiva tra i modelli e le modelle durante la realizzazione degli scatti. Infatti, ad esempio la prima volta che ho scattato con un ragazzo è stato grazie ad un’altra modella che venne da me e mi propose un suo amico con cui si stava frequentando in quel periodo ed entrambi avevano intenzione di fare uno scatto di coppia.

E a tal proposito ho un altro aneddoto che può essere interessante. Da sempre il mio soggetto preferito è quello femminile e navigando su Instagram sono entrato in contatto con Jerry Saltz, critico e scrittore d’arte che scrive per il New Yorker. Io gli inviai un messaggio privato su Instagram dove gli chiesi di andare a visionare le mie cose, non pensando assolutamente che mi potesse rispondere. E invece lo fece! E mi disse, in maniera molto laconica: “I tuoi lavori sono molto interessanti ma perché solo donne?” E basta. Da lì mi è scattato qualcosa, alla fine pensai: “Quello è Jerry Saltz, non è uno qualunque che me lo sta dicendo”. E quindi ho iniziato a macinare qualcosa. Sono un artista, non sono uno che scatta o disegna perché gli piacciono le donne, è troppo scontato. Un artista deve sperimentare e l’erotismo non è solo femminile ma anche maschile e perché non dovrei presentare anche il corpo maschile? Però non avevo avuto mai la possibilità di sperimentare questo tipo di lavori finché non è arrivata questa ragazza e mi ha proposto di fare degli scatti di coppia. E naturalmente non mi sono tirato indietro anche se c’è la necessità per il corpo maschile di poterlo inserire solo in un certo tipo di contesti quali mostre o pubblicazioni editoriali, visto che non posso postare questo tipo di lavori sui social media, soprattutto perché sono otto volte che mi chiudono il profilo Instagram! Infatti, la prima cosa che mi ha detto Paolo di Cavie Project è stata : “Sì, Giuseppe facciamo questa cosa ma non farti bannare più, altrimenti dobbiamo ripartire da zero.” Proprio riguardo ai nudi maschili, fu davvero una delle condizioni della fanzine, perché mi chiesero espressamente foto esplicite e nudi maschili e se non li avessi avuti sarebbe stato, non dico un problema ma una forte mancanza nel mio corpus di opere.

Infatti dopo la prima tranche di opere che inviai loro, volevano più nudi maschili e foto esplicite perché, per essere notati oggi non ci può essere un tipo di erotismo vedo-non-vedo. L’erotismo deve essere provocatorio: il nudo artistico non esiste ed è una balla, come convengono anche i più importanti artisti del settore e io sono assolutamente d’accordo.

I miei maestri sono artisti come Araki, Eric Kroll, Robert Mapplethorpe…bisogna creare una poetica anche nella figura esplicita, mettere il bello anche in una immagine esplicita. Ed è questa la difficoltà. E non so se il nostro ambiente è pronto.

U.M. Vero, anche perché io personalmente credo che l’erotismo in generale nelle sue forme artistiche sia mutato radicalmente perché è mutata la società, anche rispetto a vent’anni fa.

G.P. Anche i maestri che seguo io, come Mapplethorpe ora si dedica ad un sacco di nudi maschili e anche Terry Richardson, il fotografo americano delle star, anche lui. Oppure Ren Hang, fotografo cinese morto giovanissimo che però è diventato famosissimo in poco tempo scattando con quelle prime macchinette digitali con il flash. Lui pure scattava nudi maschili, femminili, non esiste più oggi una distinzione, è tutto più fluido ed è cambiato l’approccio rispetto al passato. Non ricordo, infatti, dei nudi maschili di Helmut Newton, scattava uomini ma solo per i ritratti.

E infatti dire una cosa del tipo: “io gli uomini non li scatto” è sintomo di una mentalità molto provinciale, e invece si deve puntare oltre. Io quello che faccio lo faccio guardando altrove e non cosa accade nella piccola realtà.

Questa fanzine infatti è la dimostrazione del fatto che dello scatto perfettino, realizzato in studio con la luce perfetta, lo sfondo nero, la modella sullo sgabello non importa assolutamente a nessuno. Ce ne sono milioni sulla rete, invece lo scatto deve essere esplicito perché si deve far notare.

Una vera sublimazione del fatto che deve essere la modella a farsi notare e a mostrarsi come vuole mostrarsi è la serie In the Mirror. Nel mio studio ho uno specchio e io ad un certo punto metto lo specchio a terra, porgo la macchinetta alla modella e lei inizia a fotografarsi allo specchio. Loro perciò si fotografano allo specchio come vogliono, io mi limito a dirigere l’illuminazione sulla figura, sono a loro a scattare e a farsi questi “selfie”, in completa autonomia.

U.M. In questa serie, In the Mirror, dunque è proprio l’assenza dell’artista a farla da padrone. Tu guidi quindi esclusivamente il concept, è l’artista che scompare dietro la prevalenza del soggetto fotografato.

G.P. Sul mio profilo Instagram infatti troverai degli scatti proveniente da questa serie.

U.M. Non mancherò di farlo e invito infatti a tutti di seguirti sui tuoi canali e ovviamente a recuperare online la fanzine FALLA TU L’EROTICA A FOGGIA!

Per seguire il lavoro di Giuseppe Petrilli rinvio al sito internet www.petrilliartworx.it e alle seguenti pagine social: https://www.instagram.com/giuseppepetrilliart/ (per l’arte figurativa) e https://www.instagram.com/petrilliartworx_shots8/ (per la fotografia).