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Atassia vs atarassia: sull’occupazione (?) alla Sapienza

di Antonio R. Daniele

Viviamo il regno della narrazione, giusta o sbagliata che sia, e dentro di essa ci dobbiamo barcamenare. Dopotutto A sangue freddo di Truman Capote (1966) ci insegnò, proprio negli anni di un cambiamento epocale quale quello della “visività” dei nuovi media d’allora, che eventi della cronaca, anche della cronaca nera o fatti di violenza spicciola, possono essere riutilizzati in una narrazione di secondo livello e mescolati a fatti inventati: a quel punto decrittare la realtà e cernerla da ciò che vero non è diventa un miraggio. E’ quel che è accaduto in questi giorni sui social, nei talk-show e sulle tribune più disparate.
Insomma, a proposito dell’occupazione della Sapienza si può dire quel che si vuole, meno che non serva sul piano puramente simbolico. E qualcuno dirà che, se si tratta di un fatto solo simbolico, non serve a nulla. Mica vero.
Oggi l’atto per l’atto è pressoché tutto.
Tanto è vero che tutti si affannano a ricostruire i fatti, a cercare di capire se il collettivo era veramente un collettivo o se al suo interno vi fossero degli infiltrati che ne hanno approfittato per inquinarne le ragioni o, magari, sono stati chiamati a dar manforte salvo poi perdere la misura delle cose; tutti cercano di capire se la polizia ha manganellato perché l’ordine pubblico era davvero in pericolo o perché qualcuno le ha ordinato di ricorrere alle maniere forti per mostrare che veramente “la pacchia è finita”; tutti si industriano nel reperire notizie certe e verificate circa la volontà degli studenti: volevano solamente contestare una manifestazione a loro dire di matrice fascista o impedire il suo concreto svolgersi?
Questioni secondarie. Resta l’impressione globale, complessiva, che se ne ha. Resta, in fondo, che qualcosa è successo e forse ancora sta succedendo. Non sentivo una frase come “hanno occupato l’università” da quando ancora non mi cresceva la barba. Forse è una frase anche inadatta al contesto, forse è anche eccessiva se messa a paragone coi tempi in cui le facoltà le si occupava davvero. Ma è un fatto che la frase è stata usata e che per qualche ora, forse qualche giorno, qualcosa è successo davvero. Certo, sciogliere l’occupazione “per il ponte dei morti” è il drammatico segno dei tempi, ma bisogna accontentarsi.
Questi ragazzi – è probabile – non sanno nemmeno perché hanno fatto quel che hanno fatto, ma lo hanno fatto: c’è qualcosa nei gesti che qualche volta supera il livello della coscienza, anche collettiva. Leggo che si doveva cercare il dialogo con Capezzone. Sì, sono d’accordo. Ma lo sono solo in linea di principio. Sostengo il principio del dialogo, ma lo faccio dal comodo della mia poltrona.
Il fatto è che il dialogo oggi non fa notizia, non va sui giornali e, soprattutto, non va in rete. Ci sarebbe stato un confronto, uno scambio di idee: Capezzone avrebbe detto la sua, qualche volenteroso studente avrebbe risposto e tutti a casa. Il vuoto.
Se parliamo di qualcosa che, forse (dico, forse), genererà altro lo si deve a un atto. Simbolico, velleitario, illusorio quanto vogliamo, ma che ha generato una narrazione in grado, tra l’altro, di generare una polemica. Forse, per una volta, fruttuosa.

Perciò, alla fine resta la forza sublimante di un atto: quella che è stata chiamata occupazione e che forse non lo è. Ma almeno è dissenso. Impastato di confusione, ma non importa. Per qualche ora il piattume della infinita zona grigia degli ultimi vent’anni ha subito una scossa. Un confuso turbamento di incontrollata passione ha aperto un varco.
Una atassia si oppone a una atarassia.