In Narrazioni

DI CASE PIENE E CITTÀ VUOTE. Indagine letteraria sui luoghi che abitiamo

di Maila Cavaliere

Sono tornata nella casetta al mare due anni dopo la morte di mio padre. Di quella breve visita ricordo il freddo umido e pungente e la sensazione di vita sospesa. Un atto lievemente distopico. Come se gli echi di un passato lontano dovessero manifestarsi in quelle stanze da un momento all’altro.

Vedevo me bambina attraversare il piccolo soggiorno, girare intorno al tavolo tondo, in braghe corte e canottiera, o solo in pantaloncini, senza maglietta, quando non conoscevo ancora il senso del pudore per la nudità, la pelle arsa dal sole e la pipì trattenuta fino all’ultimo per non rimandare il tempo del gioco. Mia madre stava lì, con un prendisole chiaro, a piegare i panni raccolti prima che la canicola di agosto li indurisse come carta.

Quella casa ancora oggi resta per me lo scenario di tanti sogni.

A nessun altra casa sono riuscita ad affezionarmi, nemmeno alla prima abitazione da sposata, la prima che sia stata mia. Avverto una distanza tra gli ambienti che abito e la vita, contenitori vuoti a cui non affido mai la parte più intima di me.

Da bambina cantavo le canzoni che sentivano i grandi della famiglia. Tra queste c’era Casa mia dell’Equipe ’84. Diceva: dopo tanti mesi di lavoro / mi riposerò / dietro quella porta / le mie cose io ritroverò / la mia lingua sentirò / quel che dico capirò . Non mi ha mai convinto del tutto, nemmeno da bambina, perciò quando un libro o una canzone parlano di casa mi aspetto sempre un sottotesto, un segreto, il cigolio di una porta nascosta.

Da sempre una certa letteratura trova nella casa l’ambientazione ideale, esercitando la curiosità morbosa e voyeuristica verso certi intérieur nei quali si consumano storie, drammi ed esistenze.

Anche di recente, lungi dall’esaurire nel perimetro delle pareti domestiche una narrazione intima, dai tratti autobiografici, la casa incarna sovente il luogo dell’inquietante consapevolezza che da nido, può diventare, per i suoi abitanti, incubo e prigione e che i mostri non sono poi così diversi da noi e nemmeno tanto lontani. È ciò che accade nel romanzo di Antonella Lattanzi Questo giorno che incombe (Harper Collins 2021). La matrice gotica di ispirazione ottocentesca, unitamente a una sottile indagine psicologica contaminano la narrazione, sbreccando la solidità dei riferimenti razionali e le certezze della mentalità comune.

Il dispositivo letterario della casa stregata torna dal passato delle storie di Henry James, per esempio, a contaminare ilmicrocosmo intimo della protagonista de L’altra casa di Simona Vinci (Einaudi Stile Libero, 2021) e funge da aggregante di paure, solitudini, analisi, rispecchiamenti.

Il racconto della casa esercita anche la sottile seduzione del non detto. È quanto accade nel romanzo La porta di Magda Szabò , (scritto nel 1987 e ripubblicato da Einaudi nel  2005) in cui lo straordinario personaggio di Emerenc, l’anziana e scontrosa domestica della protagonista, delinea il labile confine tra ciò che è pubblico e ciò che è privato, tra come si è e come ci si mostra agli altri.

Dietro la porta_ titolo peraltro di un romanzo di Giorgio Bassani del ‘64 ma anche di una canzone di Cristiano De André del ’93_si aprono scenari immaginati o inimmaginabili, capaci di allargare prospettive con un blow up narrativo o di provocare, nel lettore accorto, anamorfosi e cadenze d’inganno.

Ne La casa delle madri e La casa del mago, per citare i romanzi di Daniele Petruccioli ( Terrarossa, 2021) e di Emanuele Trevi (Ponte alle grazie, 2023) le case sono luoghi cari e magici dove generazioni si inseguono e si rincorrono, in un dialogo costante tra vivi e morti, tra vissuto e inconscio e in una tensione continua tra fuga e avvicinamento.

La soglia di casa è insieme l’intrigante via d’accesso alle esistenze altrui e un gioco del rovescio con cui, guardando dentro, si può, se non comprendere, almeno intuire il mistero del fuori. Della mia casetta al mare, forse non a caso, lo spazio che preferivo era la veranda. Era un altrove prossimo, fuori ma non troppo, un luogo di passaggi e contropassaggi da cui era facile ritrarsi come una lumaca nel guscio, quasi incastrata nell’angolo interno su una sdraio reclinabile in stoffa, per non essere vista da chi veniva dal lato sinistro della strada.

Nei più recenti processi di rappresentazione e comunicazione narratologici mi pare di avvertire un sostanziale allargamento dell’inquadratura, un’incursione nel campo lungo e lunghissimo del quartiere e della città.

In questa attuale tendenza letteraria, le storie degli uomini che abitano i luoghi, che pure sono spesso collocate in primo piano, sono il portato di una relazione più ampia e spesso disfunzionale con la città e i luoghi circostanti.

“E so che la città/ vuota mi sembrerà/ se non torni tu” così cantava Mina in Città Vuota e metteva in scena il tema terribilmente letterario della solitudine, dell’inutilità della folla e di ogni struttura urbanistica, quando il nostro stato d’animo è talmente compreso nel suo dolore da non vedere intorno a sé null’altro.

Per un’ iperbole solipsistica, esiste una letteratura di qualche decennio fa che ha messo in scena l’assenza umana, la sua scomparsa, come segno tangibile di una difficoltà di collocazione in ruoli riconosciuti o in relazioni reciproche.

Quando l’umanità sparisce, (e sparisce davvero, dopo che il protagonista aspirante suicida, decide di ripensarci e tornare indietro) cosa rimane di lei oltre agli oggetti? È forse questa la domanda principale che pone il romanzo di Guido Morselli Dissipatio H.G., ( 1973) scritto pochi mesi prima che il suo autore scegliesse veramente di porre fine alla propria vita, e forse anche a causa dei ripetuti rifiuti editoriali e di una vita vissuta sempre al margine.

E quando tra noi e il resto dell’umanità si frappone un muro invalicabile che impedisce ogni comunicazione, ogni contatto, chi si accorge davvero della nostra assenza? Cosa resta di noi e quanto possiamo fare a meno degli altri?

Se lo chiede l’autrice austriaca Marlene Haushofer nel romanzo La parete (1963), distopica rappresentazione di una vita improvvisamente separata dal resto del mondo a causa di una parete trasparente e invalicabile.

Che sia l’umanità a dissiparsi o la protagonista a non poter più avere alcun contatto con gli altri, il paesaggio intorno, in queste due storie, non è vittima di nessun evento catastrofico, la natura, anzi, fatta eccezione per alcuni relitti fonico-visivi, uniche traccedi chiara matrice umana, appare rigogliosa e  intatta, libera da ogni vincolo o soggezione urbana e antropica. Appare evidente come ogni decisione o stato d’animo umano sia fortemente legato al gruppo, alla collettività e il fulcro della riflessione scaturita da queste letture abbia a che fare con il senso della vita all’interno di una anomala socialità, di un’umanità guasta. Scrive Morselli: “il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo.”E Haushofer sembra fargli eco. “ Era meglio distogliere i pensieri dagli uomini. Il grande gioco del sole, della luna e delle stelle sembrava riuscito, difatti non era stato inventato dagli uomini”, in una sorta di materialismo e di meccanicismo senza finalità, tanto simile al pessimismo leopardiano del Dialogo della Natura e di un islandese.

E a che serve, a questo punto, esistere, identificarsi con la propria casa o uno spazio definito se gli altri si dimenticano presto di noi o, nemmeno da vivi, ci considerano o danno valore ai nostri sentimenti e ai nostri talenti?

L’invenzione di Morel, romanzo psico-fantascientifico di Adolfo Bioy Casares, amico fraterno di Borges, pubblicato per la prima volta nel 1940, interroga proprio la nostra paura della morte e il terrore di rimanere invisibili agli altri. Morel è un inventore e ha creato una macchina capace di replicare immagini e ricordi. Grazie alla sua invenzione ologrammi eterni di uomini e donne popolano un’isola sperduta e deserta su cui approda il protagonista, un fuggiasco.

La strana compagnia di questi esseri virtuali che non lo possono vedere è inaccettabile per l’uomo, come è insopportabile, per ognuno di noi, rimanere escluso dalla considerazione degli altri. Ma l’indifferenza prima e la morte poi corrompono tutto. L’eternità, come si potrà concludere, appartiene solo alla scrittura.

In questo strano tempo, la casa non è più soltanto filtro di un altrove degradato, né fortezza Bastiani che affaccia sul deserto e nemmeno luogo di inquietudini amplificate dal lessico famigliare. Nella raccolta di racconti che compongono L’ubicazione del bene (Einaudi, 2009) per Giorgio Falco la casa di proprietà è il desiderio medio della gente comune, un onesto compromesso tra aspirazioni abortite e fallimenti conclamati, sintesi perfetta di una sconfitta umana che dirotta su obiettivi alla  propria portata gli abusi della vita.

Giorgio Falco dissezione con ferocia i tratti della provincia italiana, che si allontana dalla città caotica e tentacolare ma trasferisce i suoi abitanti in una zona grigia di solitudine e incomunicabilità in cui, quando va bene, il tempo è fagocitato da lavoro e pendolarismo e dove, quando va male, si consumano silenziose tragedie e immani disfatte.

Il lettore ben presto coglie lo scivolamento di significato del lemma: “ bene”, inteso come puro oggetto catastale e non come concetto immateriale ed etico e si sente stanato.

Per l’incauto capriccio di possedere un immobile, ci si impaluda in un drammatico status quo dell’anima, cedendo il passo all’unico bene che ci riteniamo, a torto, in grado di gestire.

Nessun fuoco sacro brucia più negli abitanti dell’immaginaria frazione di Cortesforza se non quello che, per effetto di una esaltazione collettiva, spinge milioni di persone ad accendere mutui pluridecennali. L’ho fatto anch’io per una serie di ragioni oggettivamente opinabili che Falco ti sbatte in faccia, riuscendo a farti assomigliare ai personaggi angoscianti dei suoi racconti, a farsi sentire addosso l’odore del disinfestante a basa di piretro.

La casetta al mare, invece, ha sempre lo stesso odore: quello del sale che si mangia la pelle e anche i muri. Sale dalle narici, ti invade e mette i brividi. Forse perché ha l’odore dei ricordi e quello si fa più penetrante man mano che te ne allontani. L’ubicazione di quel bene è sempre la stessa ma quella, da un po’, non è più casa mia.