In Narrature

Il signor Alatri

di Michele Scarpelli

Per sentirmi davvero al sicuro dovetti salire sino al sesto piano. Ero finito in un antico palazzo del centro, avrà avuto un più di un secolo. I suoi interni erano alquanto malmessi, le scale piene di crepe e l’intonaco, un tempo bianco, ma ora tendente al giallognolo, si era scrostato in più punti. C’era odore di muffa e di cavolo. Mi sedetti su un gradino e restai in silenzio, attento a ogni rumore. Udivo soltanto delle voci provenire dagli appartamenti e riecheggiare nella tromba delle scale.

Trascorsa una quindicina di minuti, mi decisi a scendere e ad andarmene, ormai potevo considerarmi salvo. Fui sul punto di rimettermi in piedi, quando la porta dell’appartamento 6B si spalancò. Sbucò fuori la testa bianca di un vecchio in vestaglia e pantofole, che con cura poggiò a terra un sacco della spazzatura nero. Un gatto dal pelo rosso gli schizzò da sotto le gambe nude e scheletriche, ma venne riacchiappato con prontezza.

«Fermo qua!» gridò, acciuffando l’animale per la collottola e riportandolo dentro.

Rimasi interdetto. Quell’uomo era Nino Alatri, il mio vecchio insegnante di pianoforte.

«Signor Alatri,» dissi.

Il vecchio alzò la testa e mi fissò con curiosità.

«Chi è là?» chiese.

«Non mi riconosce? Sono Oscar Di Benedetto, è stato il mio maestro diversi anni

fa».

Il signor Alatri ci mise un po’ di tempo per ricordarsi, ma alla fine replicò:

«Oscar…».

«Già…».

«In effetti, non sei cambiato molto… Che ci fai qui?» domandò curioso.

«Mi nascondevo da un gruppo di cretini che mi voleva picchiare».

«Ah… Beh, vuoi entrare?» rispose senza battere ciglio.

«Se non disturbo…».

Il signor Alatri doveva essersi trasferito lì da qualche tempo, una volta abitava a soli cinque minuti da casa mia.

***

Entrai. L’appartamento era piuttosto angusto e c’era un forte odore di fumo e piscio di gatto. La TV era accesa su un canale di televendite e il volume era altissimo. Fogli di giornale e barattoli vuoti erano sparsi un po’ ovunque.

Notai, in un angolo in penombra, il pianoforte a muro sul quale avevo imparato a suonare.

«Lo riconosci?» mi chiese, vedendomi interessato.

«Come no,» risposi.

A suo tempo era stato un bel piano, tutto in legno di abete rosso e con i tasti in avorio. Sopra di questo Alatri teneva ancora la cornice con la foto di Duke Ellington.

«Continuo a fare qualche lezione, ma ormai di suonare non se ne parla più, soffro di artrite alle dita» disse lui.

«Mi dispiace…».

Il signor Alatri mi fece accomodare su un divano dalle molle rotte e disseminato di peli di gatto, lui invece si sistemò su una poltrona, sedendosi sopra una pila di cuscini.

«Senza contare poi che sono malato di orchite, ho le palle grosse come due noci di cocco!» continuò.

Annuii schifato. Alatri impugnò il telecomando che era appoggiato su un bracciolo della poltrona e spense la TV.

«Mi fa piacere un po’ di compagnia ogni tanto, io e Carletto siamo sempre soli…» disse, indicando il simpatico gattino che si era beatamente accoccolato su un termosifone.

«Sono molto felice anche io di rivederla, le devo molto,» risposi.

Il signor Alatri fece un gesto con la mano come a significare di lasciar perdere, poi disse:

«Hai sete?».

«Sì, grazie. Ho corso come un matto».

«Uff, non sai le volte che è capitato anche a me».

Il signor Alatri si alzò emettendo un flebile peto e si avviò verso la cucina.

«Allora, come vanno le cose?» mi chiese poi.

«Così…» risposi.

In effetti, non lo sapevo neanche io come mi andassero, ero sempre senza un soldo e la vita era dura. Suonare il pianoforte per professione non era facile, soprattutto dal momento che mi dedicavo esclusivamente al jazz. Avevo cominciato ad ascoltarlo da bambino, mio padre ne era un grande appassionato. Un giorno, quasi per caso, accesi lo stereo che avevamo in salone e l’album Walz for Debby del Bill Evans Trio partì come per magia. Rimasi folgorato, lo ascoltai dall’inizio alla fine senza muovere un muscolo, poi, una volta terminato, presi una decisione irrevocabile: sarei diventato un pianista jazz.

***

Il vecchio fece ritorno con un bicchiere d’acqua in mano. Io bevvi, lui si risistemò alla poltrona, ma tra noi piombò il silenzio. Credo che a quel punto il signor Alatri temette che fossi già intenzionato a salutarlo, perché, nel tentativo di farmi cosa gradita, mi domandò:

«Le vuoi vedere?».

«Cosa?» chiesi.

«Le mie palle gonfie».

Trattenendo a stento un conato di vomito, feci segno di no con il capo.

«Come vuoi…».

Era sempre stato un tipo particolare il signor Alatri, ma di certo con l’avanzare degli anni non era migliorato.

«Ho anche smesso di bere per colpa di questa orchite, un vero strazio!».

«Complimenti,» dissi.

«Sono quattro anni che non ne bevo nemmeno uno goccio».

Ero sinceramente sorpreso, non riuscivo a ricordare una lezione di pianoforte in cui non avesse avuto un bicchiere di grappa in mano.

Il signor Alatri si accese una sigaretta senza filtro, afferrò un posacenere da un tavolo vicino e lo poggiò sul bracciolo destro della poltrona, l’altro era occupato dal telecomando della TV.

Carletto saltò giù dal termosifone e venne a farmi le fusa, io lo carezzai dietro le orecchie, mentre il mio vecchio insegnante si godeva la scena.

«Non è bellissimo?» domandò.

«Altroché,» replicai.

«È un gatto educato…».

«Un gatto davvero educato…» ripeté.

Annuii e percorsi con lo sguardo l’intero appartamento, poi mi soffermai a osservare Nino Alatri. Ormai doveva aver superato l’ottantina, era un uomo piccolo ed esile, il naso gli si era allungato ulteriormente, tanto che la punta era a pochi centimetri di distanza dalla bocca. Il suo viso si era come rinsecchito e i capelli, scompigliati in tanti ciuffetti dritti, si erano fatti ora più radi e bianchi. Le sue mani rugose con le dita sottili tremavano leggermente.

Il signor Alatri aspirò la sigaretta e lasciò fuoriuscire dalle sue enormi narici un fumo azzurrognolo.

«E così continua a fare lezioni di piano…» dissi, nel tentativo di portare avanti la conversazione.

«Sì, al figlio di una famiglia del primo piano, ma quel bambino è negato come pochi. Ed è cinese!».

«Mica tutti i cinesi nascono con il talento per la musica,» risposi. Alatri tacque qualche istante, perso nei suoi pensieri.

«Avrei bisogno di uno psichiatra…» disse infine.

«Ora so che esistono diversi specializzati nel trattare le persone anziane».

«Non per me, idiota! Per il bambino. È così timido che per insegnargli a suonare dovrei avere uno psichiatra accanto».

«Oh, scusi…» replicai, imbarazzato per aver frainteso. Alatri scosse la testa e sospirò profondamente.

«Ce l’hai una ragazza?» chiese.

«Sì, si chiama Erica».

«È carina?».

«Molto».

Alatri emise un grugnito di disapprovazione.

«Male, pessima scelta. Devi puntare alle racchie, le belle ragazze portano solo guai. Quelle brutte sono fedeli e ti lasciano con la testa sgombra, dammi retta, me ne intendo di queste cose» disse.

«Lo terrò a mente…».

«Tanti anni fa sono stato fidanzato con una ragazza di nome Marina. Era talmente brutta che la prima volta che la vidi pensai che fosse un uomo, ma era una brava persona, così gentile che me ne innamorai subito, nonostante il suo aspetto. Quello fu il periodo più felice della mia vita. Mai una discussione, mai una parola fuori posto, mai una scenata di gelosia».

«E com’è finita?» chiesi.

«Io ero spesso in giro a suonare, avevo tanti impegni e lei avrebbe voluto che la sposassi, che rigassi dritto e che mi cercassi un lavoro stabile. Volevamo cose diverse e le nostre vie si separarono… Certe volte però ci ripenso…».

Alatri fece una pausa per spegnere la sigaretta e per rimuginare.

«Penso a come sarebbe stata la mia vita da sposato, magari anche da padre, da impiegato di una qualche ditta o da proprietario di un piccolo negozio di musica… Sono cose che fanno riflettere a quest’età…».

«L’amore fa sempre riflettere. Io ho addirittura scritto un pezzo per la mia ragazza…» dissi vantandomi un pochino.

«Molto romantico,» rispose lui con sarcasmo.

«Non gliel’ho ancora fatto ascoltare però».

«E perché?».

«Non è finito e poi mi vergogno un po’…».

«Fesserie!» rispose stizzito il signor Alatri, «Cosa c’è da vergognarsi? Credi forse che sia stato l’uomo a inventare la musica?».

Esitai qualche secondo, conoscevo bene quel suo tono iracondo e sapevo che in quei casi era meglio restare in silenzio.

«Guarda che dico a te! Avanti, rispondimi: credi che sia stato l’uomo a inventare la musica?» mi incalzò lui, irritato.

«No?» replicai incerto.

«Certo che no! La musica esiste da molto tempo prima dell’uomo. È Dio che l’ha inventata per alleviarci la sofferenza di una vita così meschina!».

Carletto, stancatosi di fare le fusa, si allontanò dalle mie gambe e tornò al suo termosifone caldo.

«Per cui non devi aver mai alcun motivo di vergognarti nell’evocare la parola del Signore, ricordatelo!» continuò Alatri.

«Ho sempre pensato che lei fosse ateo,» dissi sorpreso.

«Vuol dire che non hai capito un cavolo di ciò che sono! Ora alzati e va a quel piano. Sentiamo un po’ quale stupidaggine melensa hai composto per questa Erica».

***

Perplesso, riflettei qualche istante. Non avevo compreso cosa intendesse Alatri con quel discorso su Dio e la musica, ma ciò che mi faceva esitare davvero era che nessuno avesse mai ascoltato Per Erica.

Alla fine, mi convinsi pensando che se c’era una persona a cui dovevo far sentire per prima il mio brano, quella era il mio vecchio insegnante. Mi alzai dal divano e mi sistemai sul panchetto del pianoforte. Suonai un paio di note per vedere se fosse accordato, sorprendentemente mi parve di sì.

«Quando vuole, maestro,» disse Alatri seduto alle mie spalle sulla sua poltrona anti-orchite.

Mi feci coraggio e cominciai, il brano me lo ricordavo a memoria.

Iniziai suonando in modo un po’ incerto, ma dopo qualche secondo di assestamento presi confidenza e riuscii a esibirmi senza avvertire il timore di esser giudicato. Anzi, quel pianoforte mi riportò con la mente alle mie lezioni pomeridiane, quando i turbamenti erano pochi e l’ottimismo per un futuro da grande pianista jazz mi faceva sognare ad occhi aperti.

***

Avevo scritto Per Erica in una notte d’estate in cui non riuscivo a dormire. Dal nulla avevo cominciato a suonare un buffo ritornello, «Niente di che…» pensai all’inizio, ma poi, poco alla volta, le note cominciarono a uscir fuori l’una dopo l’altra senza che io potessi nemmeno rendermene conto. Quella melodia prese lentamente forma, non si trattava di un buffo ritornello, ma di qualcosa di più grande e profondo. Riuscivo a esprimermi con la musica come mai avevo fatto prima. Si trattava di un motivo triste, ma con una vena leggera e per certi versi allegra che sembrava presagire un qualcosa di misterioso. Ricordava vagamente Autumn In Washington Square di Dave Brubeck. Ero fiero di quella creazione, non avevo mai composto nulla del genere.

***

Suonando, misi tutta la passione che provavo in quelle note. Lasciai scivolare le dita sulla tastiera come fossero su una lastra di ghiaccio e mi feci trascinare dalla melodia. Percepii per un breve istante dietro di me la figura immobile e imperscrutabile di Alatri, quasi come quella di una sfinge, ma non me ne preoccupai, anzi, il mio battito cardiaco accelerò e il sudore cominciò a scendermi dalla fronte tanto ero preso. Le lenti dei miei occhiali si appannarono e gli occhi mi si inumidirono. Dopo tutti gli avvenimenti della serata avevo proprio bisogno di una suonata che mi facesse riconciliare con i miei sensi. Mi sentivo carico di emozioni e cercai di trasmetterle attraverso la poliritmia delle mie note.

Finalmente, svuotato, terminai il pezzo, ma, proprio mentre ero intento a eseguirne le battute conclusive, scorsi con la coda dell’occhio il volto di Alatri e mi parve di intravedere una lacrima pendere da una sua guancia. Si trattò di un batter di ciglia, di un fuggevole attimo, ma quel luccichio che notai sul suo viso granitico lo giudicai inequivocabile. Ne fui turbato, non ritenevo possibile che un uomo di quella pasta potesse commuoversi ascoltando della musica, la mia per di più!

Mi voltai nel tentativo di accertarmi di ciò che avevo appena visto, ma il signor Alatri si affrettò a passarsi una mano sul viso e a riprendere il suo consueto atteggiamento impassibile.

Trascorse qualche attimo di silenzio.

«Che ne pensa?» domandai.

«Vedo che il jazz è ancora la tua passione…» si limitò a dire. Lo presi come un complimento.

«Le è piaciuto?».

Il signor Alatri non rispose, emise un grugnito, poi spostò il suo sguardo verso il gatto. I suoi occhi mi parvero lucidi, ma non fui in grado di cogliere niente di più.

«Chi erano quei ragazzi che volevano dartele?» mi chiese d’un tratto. Già, mi ero dimenticato di quei deficienti.

«Sono stato chiamato per suonare a una festa di compleanno qui vicino. Il festeggiato è un ventenne viziato figlio di ricconi».

«Che bellezza…» osservò Alatri.

«Lui e un gruppetto di suoi amici hanno pippato tutta la sera e a un certo punto hanno incominciato a infastidire gli invitati rovinando la festa. Se la sono presa anche con me, accusandomi di suonare musica di merda ed è finita che ci è andato di mezzo un povero cameriere del catering che ha cercato di prendere le mie parti. Lo hanno pestato, mentre io sono riuscito a scappare. Mi hanno inseguito, ma per fortuna ho trovato rifugio nel suo palazzo».

«Bravo, in queste situazioni pensa sempre prima a te stesso e poi agli altri, come in guerra. Chissenefrega di quel cameriere!».

Gli diedi ragione, sebbene non fossi affatto d’accordo.

«La droga… Potrei raccontartene mille di disavventure che ho dovuto passare per colpa di quello schifo…» disse Alatri, interrompendosi per riflettere.

«La tua storia mi ricorda quella volta in cui rischiai di essere gonfiato di botte da Chet Baker» aggiunse poi.

«Lei ha conosciuto Chet Baker?» domandai stupito.

«Sì e molto bene anche».

«Non me lo aveva mai detto!».

«Vuoi sentire la storia o continuare a interrompermi?» replicò Alatri seccato.

«Mi scusi, prosegua…».

***

«Era la metà degli anni Sessanta e lui venne a Roma per registrare un disco. Chet capitava spesso in Italia, così mi chiamò e mi domandò se fossi disponibile per suonare il piano. Sapevo da passate esperienze che lavorare con Chet era un vero incubo, ma accettai, ero giovane e bisognoso di soldi. Cominciammo le registrazioni e tutto sembrava filare per il verso giusto, finché una mattina decise di non presentarsi in studio. Nessuno aveva sue notizie dalla sera prima, né aveva la più pallida idea di dove finito. Visitai l’hotel dove alloggiava, ma di lui nessuna traccia. Alla fine, dopo una ricerca estenuante, lo trovai disteso su una panchina della stazione. Era ridotto una larva, puzzava da vomitare e i suoi abiti erano tutti rovinati e sgualciti. Mi pregò di procurargli dell’eroina da un tizio che conosceva, era in astinenza e aveva bisogno di farsi. Io lo feci alzare e lo trascinai fuori dalla stazione, ma mi rifiutai di andargli a comprare la droga. Lui prima cominciò a supplicarmi piangendo come una bambina, poi passò alle minacce. Mi accusò di volerlo vedere morto, di non tenere a lui e di essere un approfittatore come tutti gli altri. Mi licenziò e mi spinse via, facendomi volare a terra. Lo rincorsi come un matto per strada, finché lui non si fermò. Mi afferrò per il bavero della giacca, era pronto a darmele pur di convincermi a procurargli l’eroina, ma io gli dissi: ‘Puoi farmi quello che ti pare Chet, ma non riuscirai a obbligarmi. Sei mio amico e non voglio che ti rovini in questo modo’. Chet mi fissò dritto negli occhi e lasciò finalmente la presa. Disperato, si accoccolò sul marciapiede. ‘Sei l’unico amico che ho al mondo Nino,’ mi disse, dopodiché mi domandò scusa e scoppiò a piangere… Era un tipo difficile il vecchio Chet, ma suonava la tromba come nessun altro ed una brava persona, su questo non ci piove…».

A quel punto, Alatri fece una pausa, poi aggiunse:

«Mi hai chiesto come mai non ti avessi raccontato questa storia. Francamente non lo so, forse credevo che non ti potesse interessare o non volevo che crescessi pensando che per fare grande jazz fosse necessario fare la fine che ha fatto Chet…».

«Sì, ma poteva dirmelo che lo aveva conosciuto».

«Cosa vuoi che ti dica, sono vecchio…» rispose sbrigativamente.

«Il tempo cambia molte cose, ma non può cancellarle. Mai,» concluse poi.

Alatri s’incupì, rimase assorto nei suoi pensieri e io capii, o almeno credetti di aver capito, la ragione per cui non me ne aveva mai fatto menzione: si trattava di un ricordo doloroso, un ricordo doloroso di una persona a lui cara.

«È tardi, è meglio che vada,» dissi, un po’ a disagio.

Il mio vecchio insegnante annuì, senza rispondere nulla. Mi alzai dal panchetto e salutai Carletto che ricambiò con un miagolio. Feci per andare verso la porta, quando Alatri mi afferrò con la sua mano scheletrica il braccio.

«Prima di andartene, ti va di farci un goccio insieme per celebrare il nostro incontro?» chiese.

«Ma poco fa mi ha detto di aver smesso».

«Un bicchierino dopo due anni non può farmi male,» concluse lui.

«Va bene…» risposi.

Il signor Alatri, ringalluzzitosi, si alzò e si avviò verso il pianoforte. Spostò la cornice con la foto di Duke Ellington e mi mostrò una bottiglia semivuota di sambuca. C’era anche un bicchiere accanto, già pronto per l’occasione. Mi assalì il dubbio che Alatri non fosse rimasto poi così tanto sobrio negli ultimi tempi come voleva dar a intendere.

Versò un dito di sambuca nel bicchiere e me lo porse, dopodiché disse:

«Alla tua!» e si attaccò al collo della bottiglia.

Io, per non sentirmi da meno, mandai giù tutto d’un fiato.

«Ci voleva proprio,» aggiunse lui, una volta finito di tracannare.

Imbarazzato, mi guardai attorno.

«Beh, io andrei…» dissi infine.

«Va’ pure,» replicò, stringendomi la mano.

«È stato un piacere rivederla».

«Anche per me… e mi raccomando, continua così».

Lessi nel suo sguardo ciò che quella sera non era riuscito a dirmi. Mi sorrise e mi diede una pacca sulla spalla: era orgoglioso di me. Ma fu allora, proprio mentre quella sua dura mano scheletrica si poggiava sulla mia spalla, che me ne accorsi. Rimasi atterrito, non riuscivo a credere di non averlo notato prima. Non avevo mai neanche osato sospettare che dietro quel velo di scontrosità e durezza di Alatri si potesse celare una verità tanto atroce.

L’avambraccio sinistro del mio maestro, lasciato scoperto dalla manica della vestaglia, mostrava lungo l’ulna un piccolo tatuaggio, una serie di numeretti neri ancora perfettamente leggibili. Lui non sembrò accorgersi di niente, ma io finalmente compresi quello che aveva voluto intendere quando aveva detto:

«Il tempo cambia molte cose, ma non può cancellarle».

Alle volte, per quanto lo vorremmo, dimenticare è più difficile che ricordare. Provai tristezza, ma anche molta stima per lui e non m’importava se la storia su Chet Baker era solo una favola, mi era piaciuta e tanto mi bastava.

Lo ringraziai, diedi un ultimo sguardo all’appartamento, poi salutai di nuovo il gatto e uscii. Quella fu l’ultima volta che vidi il caro signor Alatri.