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La città di M

di Cecilia Lolli

Settecentocinquanta milioni di persone l’hanno conosciuta, a partire dall’anno dalla sua fondazione, tutti con l’ambizione di divenirne l’unico padrone. Anche io, anche noi, probabilmente solo per noia, in un pomeriggio di pioggia, a casa di un’anziana parente, al posto delle carte. Per non doverci parlare, per non lasciarci nell’ultimo giorno delle vacanze d’agosto, che l’anno prossimo forse le faremo separati comunque: io al mare, tu in montagna. Settecentocinquanta milioni di persone assiepate in una città a pianta rettangolare, che sorge in una piana dove prima c’era natura e dove presto ci sarà di nuovo natura altra. Una pianta in vaso, un cesto di frutta, un bacino riflettente sul cui fondo si depositano metalli e minerali.

Settecentocinquanta milioni di persone che hanno in comune i primi passi mossi nella città di M., prima che ciascuno prenda il suo ritmo: la fortuna è semplice sorte per chi non le crede, per chi non si fida. Settecentocinquanta milioni di persone in una città che non promette alcuno stanziamento, dove andrebbero, dopotutto? Non c’è posto per loro, non ci sono tuguri, tane, cimiciai, case popolari, casermoni, caseggiati, Chruščëvka, Danchi, Mietskasernen, Tenements. O perlomeno, nessuno ci è mai arrivato, perché la città ha uno sviluppo orizzontale, lo sanno tutti che conviene investire poche risorse in ciascun lotto. In tempi di carestia, anche la nuda proprietà ripaga.

La città di M. unisce il mondo intero da decenni e decenni, la città di M. incrina rapporti intimi in un pomeriggio, in una sera – scagli la prima pietra chi non è un sore loser, scagli la prima pietra chi è senza peccato e senza memoria: avarizia, lussuria, invidia, in attesa dell’Apocalisse di Giovanni, in attesa che sopraggiunga la noia che spinge tutti a reclinarsi all’indietro, a distrarsi col cellulare, a dimenticarsi del proprio turno, in attesa che un umano movimento, repentino e improvviso, non sancisca la morte della città, per una rivolta silenziosa e occulta, per un rivolgimento che non miete vittime, per un colpo di stato senza delitti, per attimi di vita asettici, ciascuno chiuso nella propria bolla, come in una silent disco.

La città di M. ha quattro stazioni, una società elettrica, una società dell’acqua potabile, un posteggio gratuito, una prigione, una giustizia sommaria, quattro vie, quattro corsi, due larghi, cinque viali, un parco, due vicoli, un bastioni, tre piazze, una tassa patrimoniale, due tombini scoperti, due ascensori sociali, settecentocinquanta milioni di persone dall’anno della sua fondazione.

In Narrature

Organi

di Lorenzo Del Corso

Siamo sotto le arcate ingiallite di piazza Vettovaglie, in piedi con i drink in mano, perché la piazza è piena e non c’è posto per sedersi. Michele è appoggiato con la schiena alla colonna e guarda verso il lato opposto della piazza dove c’è la massa pressata della gente. Spera di vedere qualche suo amico, o magari sta solo guardando dei culi, non lo sappiamo. Dopo aver finito di rollarsi la cicca, Noemi ricomincia a parlare di Mau che si fa trovare sempre con i messaggi delle tipe su Tinder e Instagram e lei oggi gli ha preso il cellulare e gliel’ha buttato fuori dal finestrino e quindi ora hanno litigato e non si parlano più e forse lei lo vuole tradire per farlo incazzare e, mentre Noi le diciamo che fa bene e magari speriamo di essere Noi quello con cui lo tradisce, Michele ci dice di guardare dall’altro lato della piazza, nel marasma. Ci sono due bestioni con la testa quadra e rasata che stanno petto in fuori contro un africano col berretto di lana che vende fazzoletti. Lui urla qualcosa e loro non lo toccano, gli si stringono intorno con il mento in fuori. Allora il nero butta lo zaino pieno di fazzoletti in terra e tira un pugno nella pancia di uno dei due, l’altro però lo prende per il collo e lo tira via. Altri africani che sono nascosti nei vicoli a spacciare corrono come uno sciame di pirati saraceni e saltano addosso agli energumeni, che però sono pompati e anche se in minoranza li picchiano duro. Volano bicchieri tavoli sedie, i bangla sbattono giù le serrande e la piazza si trasforma sempre più in una gabbia, con la sua forma a chiostro di monastero, con la gente affacciata ai terrazzi a fare il tifo per l’una o l’altra parte, dalle finestre alte che spiovono sullo sgrondo della piazza si fanno dei video e le luci dei cellulari sono come dei riflettori, e si sentono degli strilli, la calca si sta attorcigliando su se stessa e vediamo gente che scappa via e altri sbronzi e drogati che si buttano nella mischia solo per fare casino, qualcuno comincia a rimbalzare sul pavé, c’è addirittura una tizia coi capelli sporchi di sangue che prende un sampietrino da terra e lo lancia nella mischia. Noi ridiamo e brindiamo a questo nuovo modello di aperitivo, molto più avvincente e partecipativo, e non sappiamo su chi puntare. Poi però la rissa si sposta sotto gli archi vicino a Noi, un uragano di braccia che scaraventa tavoli panche bottiglie persone insieme, allora ci allontaniamo e andiamo verso l’uscita, verso Borgo, da dove accorrono altri rinforzi a picchiare nella rissa. Mentre ci teniamo la pancia in mano dalle risate sentiamo degli urli bestiali, come di qualcuno che viene schiacciato, poi vediamo che uno degli energumeni ha la bocca piena di sangue e ha in mano un bastone di ferro. Dove cazzo lo ha preso? La città fornisce sempre ai suoi guerrieri motivi d’onore!

«Ragazzi usciamo, Mau mi ha mandato un vocale ma qui non sento un cazzo», e svicoliamo dietro Noemi mentre gettiamo un ultimo sguardo sullo spettacolo.

Scorriamo lentamente sotto il portico, pieno di gente, pieno di adulti intabarrati e avvolti da nubi di sigaro che escono dal teatro o dalla chiesa e dall’alto delle loro scarpe di pelle guardano in giù verso di Noi e soprattutto verso i loro figli, gli adolescenti mezzi nudi e mezze nude ubriachi e ubriache per i mix di liquori trasparenti urlare e piangere e ridere al di sopra dei subwoofer dei locali, e loro, gli adulti, se ne vanno alla spicciolata ai portoni delle loro case-torri coi soffitti affrescati oppure nei viali dove hanno lasciato le BMW per fare ritorno alle loro ville in periferia. Hanno guance lisce come intonaco e il mento alto allungato e affilato che ci puoi aprire una noce. La sera inizia e il cerchio si chiude, i ricchi se ne vanno a nanna e Noi ci prendiamo la città.

Nel frattempo Noemi e Cate sono accerchiate da un gruppo di ragazzi che ridono e sono in tiro e gli chiedono se c’è una festa da qualche parte. Una cosa tira l’altra e ci presentiamo, e insomma, ora siamo tutti insieme e andiamo a cercare una festa. Scopriamo che questi ragazzi non sono italiani, sono spagnoli, forse nemmeno tutti, e sono venuti a fare l’Erasmus e lunedì hanno tutti un esame, e Noi non sappiamo perché lo sappiamo. Sarà l’alcool che ti fa parlare e capire tutte le cose del mondo.

Il flusso intestinale delle vie del centro ci vomita sui lungarni. Lì scopriamo con un po’ di euforia che è notte, sarà passata mezzanotte nonostante la luce. Gli spagnoli come mosche li attira il neon viola di Palazzo Medici e così ci buttiamo sullo scalone monumentale di pietra serena e appena arrivati al secondo piano il locale ci accoglie con i suoi pavimenti a scacchi, e le poltrone lunghe e fosforescenti su cui sdraiarsi per bere, le imponenti finestre dell’antico salone da ballo nobiliare, sulle finestre i neon cangianti e le strobo fanno muovere gli affreschi con gli angeli e gli dei che sembrano vivi anche grazie alla vodka, vodka che ci tiene in vita. Servono un solo drink, un cocktail che si illumina al buio e fa illuminare la lingua e i denti. Questa cosa la scopriamo perché Noemi dopo aver bevuto si scambia la lingua con quella di Raoul e proprio in quel momento la chiama Mau, allora Noemi si stacca dalla bocca di Raoul e corre in strada stacchettando per lo scalone.

La musica è triste è vuota è stanca è rallentata e le luci al neon ci lasciano scimmiare come girasoli arrugginiti lungo l’autostrada e allora anche noi rotoliamo giù per lo scalone e andiamo a cercare Noemi in strada, ma non si trova più Noemi, Noemi è fuggita sparita dissolta fra i corpi sudati e mezzi nudi che scantonano pieni di euforia per il viale. Allora ci buttiamo in una radura uno spazio d’aria nel pieno della gente per decidere cosa fare come farlo dove andare e vediamo che gli

spagnoli iniziano a stare un po’ per i fatti loro, perché forse loro volevano solo Noemi che ora si è iniettata in chissà quale vicolo per chissà dove. E mentre pensiamo ai colpi dei subwoofer che ti fanno tremare le ginocchia si sente un odore strano e dolce, che non è tabacco e non è vapore aromatizzato e non è hashish né erba, non è sudore né sangue, né piscio né vomito né alcool, ci guardiamo intorno e vediamo la Municipale che ci spinge e ci dice di fare largo e allora ci passa in mezzo questa processione con la croce in cima e il prete col cappello a punta e dietro la gente armata di candele allo zampirone, e borbottano fra loro e noi capiamo che quello è Dio che passa in mezzo a Noi. Allora chiediamo a Dio come trovare Noemi: Michele si butta in un minimarket e ne schizza fuori con due confezioni di lattine rubate e noi le apriamo e andiamo a bercele davanti al Papa con la croce e chiediamo alla croce Dov’è Noemi? Dov’è? Allora la Municipale comincia a spingerci e arrivano quelli con i manganelli e le mani alla fondina per cacciarci via ma non ci toccano, non ci toccano perché nel frattempo, più in là si è creato un vortice pieno di coltelli e uno spagnolo si è dovuto prendere l’intestino in mano, tipo orologio da taschino.

E allora scappiamo, scappiamo perché ora insieme ai subwoofer e all’incenso si sentono le sirene e gli urli e se facciamo attenzione si sente anche il rumore di ossa che si schiacciano, di nocche che si attaccano a zigomi, incollate con il sangue. Fuggiamo sui nostri motorini, li abbiamo usati per scappare dai professori a quattordici anni e li usiamo ancora dopo quattordici anni, via dalle sirene e dal marasma, via da Noemi e da quelle come lei che è tornata sulla lingua della città per farsi masticare digerire ancora e ancora come un corpo estraneo, e la strada che oscilla e rotea e sopra e sotto palazzi e finestre cave come occhi di un cadavere mangiati dagli insetti, e quegli insetti siamo Noi, Noi che di questa discarica millenaria siamo le feci e siamo il sangue, noi che la rendiamo viva mentre la uccidiamo.

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Città involucro

di Alessia Sacchitella

Al di là delle nuvole si celava una città bellissima con palazzi e costruzioni maestose; sembrava di vivere in una fiaba.

Una grande distesa blu la circondava, quasi abbracciandola, creando un paesaggio ricco di colori e forme magiche.

Non pensavo, potesse esistere davvero una città così incantevole; rimasi del tutto rapita dalla sua vitalità, energia, dai suoi rumori e poi quei profumi così inebrianti nelle strade deserte, mentre le altre affollate, piene di gente, uomini e donne, eleganti, indossavano abiti appariscenti e costosi e correvano, senza fermarsi mai, come se stessero cercando qualcosa, senza sapere dove trovarla esattamente.

Quella frenesia mi suscitava un senso di angoscia e preoccupazione perché erano tutti così distratti e immersi in una miriade di conversazioni senza fine, a nessuno importava, guardarsi intorno e proprio questo mi preoccupava.

In ogni angolo della città, era possibile scrutarne la bellezza, però era necessario fermarsi anche solo per un istante, basta così poco per essere felici; perché non rallentare?

Per trovare qualcosa di prezioso, bisogna osservare la meraviglia che c’è intorno a noi:

“ La città è un viaggio lento

dentro la bellezza di un sentimento.

Nelle storie della gente

che avvolgono la mente

tra antiche storie e leggende.

Una canzone accompagna il mio cammino

alla scoperta del destino

e poi alzo lo sguardo

verso le stelle,

nell’attesa del risveglio

dell’anima ribelle

che fa scintille

quando tutto intorno tace,

mentre la pace sussurra

una nuova parola

che darà forma

ad un’altra aurora.”

La città è una grande scatola, piena di tesori nascosti, storie e ricordi lontani che restano nelle mani, protetti con amore e poi misteri da svelare, strade colorate percorse da una marea di sentimenti che si intrecciano, ininterrottamente, anche tra le strade desolate e silenziose, dove la quiete riscalda i cuori, un soffio di vento accarezza dolcemente il viso di un passante che spaventato, la percorre frettolosamente per arrivare alla fine e ammirare il sole che tramonta.

Ci sono racchiusi frammenti di vita vissuta; la città è una piccola finestra sul mondo, uno spazio contaminato, ricco di speranze e nuovi giorni, in cui si può sempre rinascere, perdersi nel suo cammino, partire per poi ritornare.

Che sciocchi gli adulti! Sono talmente superficiali, grigi e spenti, privi di stupore e luce negli occhi che non riescono a valicare quel muro imponente che loro stessi amano costruire, seppur inconsciamente, vivendo in un’eterna infelicità che ha il suono silenzioso dei sogni infranti e desideri irrealizzabili, immersi in una nube colma di rassegnazione.

E’ il coraggio di cambiare prospettiva, percorrendo strade che non fa nessuno, l’unica salvezza per conoscere il vero valore delle nostre città, perché sono la nostra casa.

Oggi ho visto la città più bella di tutte perché son rimasta ferma ad aspettare che si rivelasse, che mi raccontasse la sua storia e le sue verità nascoste, eterne nelle strade del suo tempo.

Non è mai tardi, non esiste il momento “perfetto” ma anche solo un attimo per vivere, sognare e credere, nel fascino del divenire.

Spesso sono le sensazioni a condurci verso gli orizzonti più inaspettati e allora non smettiamo mai di cercare, solo così troveremo quell’armonia che darà una nuova forma al mondo, tracciato da migliaia di città sfavillanti, in attesa della loro rinascita.

Il passato resta ma il domani è ancora tutto da inventare, scoprire e creare.

In Narrature

CALL FOR PAPERS!

Dalla Kallipolis platonica alla Città del Sole di Campanella, dalla fervida Milano di Manzoni alle narrazioni sull’inurbazione selvaggia del secondo Dopoguerra: ogni epoca ha avuto a che fare con la propria idea di città, sia essa ideale o reale. In particolare, a partire da quella che Jean-François Lyotard ha chiamato La condizione postmoderna (1979), si è imposto un ripensamento dell’uomo in termini non più storici, bensì spaziali: la città è dunque diventata luogo privilegiato per la costituzione di quello «spazio sociale» teorizzato da Lefebvre (La produzione dello spazio, 1974) che permette, stimola e proibisce delle azioni. Ma esse sono anche altro. Nel 1972 Italo Calvino pubblica «l’ultimo poema d’amore alle città», Le città invisibili. Nella presentazione, scrive:

“Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, […] non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.”

Al contempo, sul versante strettamente letterario, in un’epoca come la nostra che privilegia la rapidità degli scambi e dei rapporti, legata molto spesso ad una superficialità degli stessi (si pensi a Bauman), la forma più adatta alla rappresentazione del contemporaneo sembra essere quella breve. Scrive Giulio Ferroni, in uno scritto fortemente polemico di qualche anno fa (Scritture a perdere. La letteratura degli anni zero, 2010):

“A me sembra che la forma «breve» del racconto […] sia oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica ed espressiva […] La relativa brevità dei racconti rispecchia in fondo lo spezzettarsi della realtà che oggi ci è dato.

A tal proposito, riteniamo opportuno calare la narrazione sulla città all’interno della forma del racconto, per tentare di dare una risposta alla domanda che già spingeva Calvino a comporre un libro (Le città invisibili, appunto), che “si deve leggere come si leggono i libri di poesie, o di saggi, o tutt’al più di racconti”: Che cosa è oggi la città, per noi?

Si accettano, pertanto, proposte di racconti di qualunque genere che raccontino la città, declinata sotto ogni aspetto possibile. 

In Narrature

The Bitter End

di Leonardo Gliatta

You try to break the mould

Before you get too old

You try to break the mould

Before you die

Questi siamo noi tre, giugno del millenovecentonovantotto, io, Carlo e Emanuela, pugni alzati e gole squarciate sotto il palco dei Placebo, in bella vista le unghie mie e di Carlo laccate nere, lui più emo di me, Emanuela col contorno occhi bistrato tutto sciolto dalle litrate d’acqua che scolavamo, mica solo dagli occhi, grondavamo sudore che ci potevi strizzare, tanto che quando siamo tornati al parcheggio e ci siamo ficcati in macchina, la Seicento scassata rubata al fratello di Carlo, le schiene si incollavano ai sedili in ecopelle, e sarà stato anche per quello, forse, che abbiamo fatto incidente, la stanchezza di tante ore di guida e del concerto, e l’inesperienza al volante, sarà stato anche perchè eravamo fradici, eravamo tutti e tre neopatentati, e farsi duecento chilometri di notte in autostrada non era uno scherzo, e tutto per vedere Brian Molko per la prima volta a Milano, quanto ci faceva strippare Brian, all’epoca, e devo dire che a quel primo concerto, sarà l’età, sarà che avevamo gli ormoni a palla e quando Carlo si è tolto la maglietta tutta bagnata ed è rimasto alla guida a petto nudo, e chi se lo scorda più, sia io che Emanuela eravamo in sollucchero alla vista di tutto quel popò di roba, certo è che non abbiamo fatto troppi drammi, sì, lo spavento c’è stato, il botto è stato forte ma s’è risolto con un’ammaccatura e una gita sul carroattrezzi, a diciannove anni ti senti pure eroico a poter raccontare agli amici che hai salvato le penne per miracolo, chi andava mai a pensare che c’era qualcosa che non andava.

Since we’re feeling so anaesthetized

In our comfort zone

Reminds me of the second time

That I followed you home

Siamo sempre noi tre, maggio del duemilaequattro, io, Carlo e Emanuela, post-punk, post-rock, post-adolescenti, e post pure tutti i fervori e le crisi di identità, Emanuela se l’è sposato, Carlo, pur sapendo che io ci morivo dietro, e tanto che vuoi farci, a te non te lo dava mica il culo, quindi meglio che la merce sia rimasta in famiglia, dice lei, famiglia dico io, quale famiglia, tu sei solo una vacca che calpesta i miei sentimenti, però poi mi passa, dopo un annetto buono che stanno insieme mi passa e vado addirittura al loro matrimonio e per poco non mi chiedevano di fare da testimone, e vissero tutti felici e contenti, e per suggellare il nostro ricomponimento compriamo tre biglietti per i Placebo, sfidando la sorte, e ridendocela su, ti ricordi la sfiga, quella volta, l’incidente e tutto il resto, senonchè decidiamo di mangiarci un boccone prima del concerto in una pizzeria di Assago, e tra una margherita e una Peroni spunta il matto armato che fa una rapina proprio sotto i nostri occhi, come nei film, col passamontagna e tutto il resto in regola, si mette a strillare dammi la cassa, dammi la cassa e io che mi butto sotto il tavolo e Carlo che molto amorevolmente si butta sopra Emanuela per proteggerla, e finisce tutto in uno, due minuti di panico, poi sotto schock ci guardiamo e pensiamo che no, questa non è sfiga, è qualcosa di più, è un segnale che Dio in persona ci sta mandando, Dio è contro i Placebo, Dio è contro i post-punk, i post-rock e i post-adolescenziali e forse faremmo meglio a levarci dal cazzo subito e tornare a casa, se non vogliamo che ci crolli il palazzetto addosso, io non ci vengo mai più a vederli, e ci sputa pure sulla sentenza che ha appena emesso, Carlo, e invece poi si lascia convincere da Emanuela, che peggio di così non può andare, la sventura cosmica ce la siamo già vissuta, ora è tutto in discesa, e così seguiamo lei mogi mogi per i cancelli del Forum e passiamo tutte le due ore di concerto a guardarci intorno, nel timore di vedere volare sulle nostre teste oggetti contundenti di qualsiasi natura.

I saw you jump from a burning building

I’ve seen your moves, like Elvis set on fire

This search for meaning is killing me

Ping pong ball at the back of my throat

Ancora noi tre, ottobre del duemilaventidue, io, Carlo e Emanuela, sono passati diciotto anni, diciotto perdio, dal nostro ultimo concerto insieme, Brian ha i capelli lunghi, i baffi e il cappello nero che assomiglia più a Lemmy dei Motorhead che a Bowie, e noi non siamo da meno, due uomini adulti che fingono di essere più giovani e una donna che smania per un nuovo marito che le restituisca un senso alla sua seconda vita, sì, perchè Carlo non è più suo marito da un pezzo, da quando lei ha sgamato le sue chat con Rodrigo e Manolo e Sergio, e dopo un bel pò di anni è diventato il mio compagno ufficiale, e abbiamo esaurito così tutte le combinazioni, e Emanuela l’ha presa sportivamente, quando io le ho detto, visto, che poi il culo me lo ha dato e la merce è rimasta sempre in famiglia? e così l’abbiamo presa molto alla lontana, prima ho passato ad Emanuela i singoli su Spotify, poi ho fatto sentire tutto il nuovo album a martello settegiornisusette a tutti e due e ho fatto la proposta indecente, dai, ragazzi, dobbiamo sfatare la cosa, è come quando torni sul luogo del delitto, sono passati troppi anni ormai che vuoi che ci succeda, non facciamoci vincere dalla superstizione, siamo tre affermati professionisti, viviamo nella città più razionale d’Italia, che ci frega, e dopo varie insistenze alla fine acconsentono e ai cancelli ripassiamo tutte le canzoni storiche e fingiamo di ignorare quel leggero turbamento che ci aleggia intorno, finché le luci non si accendono di colpo, e il boato sale e tutti a invocarli manco fossero i Rolling Stones e sul palco salgono Brian e Stefan con le chitarre imbracciate e Brian va al microfono con una faccia da cencio e dice:

Questa sera sul palco siamo solo in due, il nostro storico batterista Steve Hewitt ha avuto un malore durante le prove e sta lottando tra la vita e la morte in un ospedale qui in città. Dedichiamo a lui questa serata!

In Narrature

Di che sa l’inverno

di Azzurra De Paola

La persona che odio di più al mondo e in generale nella vita è la postina: ha una brutta faccia ed è portatrice di sventure; la postina non mi piaceva nemmeno quando mi piacevano ancora le cose. Perché prima mi piaceva qualcosa, non tutto ma molto, quello che riconoscevo, quel fuori simile al dentro ed aveva un senso.

Ora invece riconosco poco, quasi tutto è significativamente estraneo, come essere sul mondo ma essere atterrata qui due giorni fa da un’altra galassia, più o meno, pur tenendo conto che non ho idea di come sia venire da un’altra galassia e nemmeno da un altro pianeta, perché il massimo che sono riuscita a fare in questa minuscola vita è stato cambiare continente, cosa che gli antropologi oltretutto non vedono tanto di buon occhio perché ogni volta che masse di esseri si spostano da un posto all’altro portano con sé specie infestanti, malattie e ossessioni del paese d’origine, e per questo poi alla fine siamo tutti pazzi allo stesso modo e ovunque ci prendiamo la candida se andiamo col primo che passa, che poi è un peccato. Insomma, prima ci tenevo, appartenevo, anche poco, e ora neanche quel poco perché non riconosco più il fuori e niente mi somiglia, per quanto mi giri, e mi giro tanto, diecimila volte su me stessa fino a vomitare o a cadere per terra, purché qualcosa significhi. Invece niente. È cominciato il natale che ho avuto la bronchite, credo, anche se la bronchite a natale spesso è un cliché. Cerco di evitare sempre i raffreddori di febbraio o l’antistaminico di aprile, le nausee mattutine o il consumismo di inizio dicembre, le paranoie ecologiste dei verdi e tante altre cose che normalmente si fanno e nessuno ci fa caso perché le fanno anche gli altri. Ecco, io non le faccio, e ci vuole anche una certa conoscenza approfondita delle abitudini socio-culturali delle persone per fare il contrario, non è per niente facile come molti credono, anni e anni di studio, osservazione sul campo e simili. Però la bronchite di quel natale non me l’ha tolta nessuno, perché si sa che la vita se ne frega degli ideali, delle ideologie, dei fanatismi e di come uno si era pianificato che dovessero andare le cose. Anzi, ci vedo una sorta di accanimento e di godimento sarcastico nel modo in cui la vita se ne fotte sistematicamente delle regole e dei programmi e delle speranze di tutti, per questo in fondo la vita mi piace e quando c’è stato da scegliere se vivere o morire ho optato per la prima; non per quella sorta di scelta scontata che fanno tutti, del tipo: ok ormai sono viva, tanto vale vivere. No, più una scelta cosciente, la decisione quotidiana di non morire nei modi più stravaganti e originali (chi di noi non sogna una morte col botto?) solo perché life’s a bitch, e questo non me lo perderei per niente al mondo, nemmeno per la tentazione, forte, di stupire tutti e morire in modo improbabile ad un’età ridicola. Neanche questo è stato facile ma so essere determinata, talvolta. Quando ho preso la bronchite, quel natale, è stato così banale che non l’ho detto a nessuno, nemmeno al dottore che, come mia madre, è sempre l’ultimo a sapere le cose. Non mi piacciono le personalità giudicanti né tantomeno quelle sinceramente preoccupate. Perciò mi sono tenuta con pazienza e rassegnazione la tosse e il raffreddore ed è stato quello il momento in cui, il giorno dopo averli comprati, ho buttato tutti i mandarini. E sì che se li ha comprati chissà che figura ci fa San Nicolaus con i bambini, mi sono detta mentre rovesciavo la casetta di legno nel sacchetto dell’umido. Li ho buttati tutti. Poi ho buttato: le fragole perché non era stagione, i crostini all’aglio perché forse li avevo aperti da troppo e avevano perso la fragranza, una scatola di cioccolatini del discount che, si sa, non sempre hanno il sapore che ci si aspetta. Ma è stato quando stavo per buttare la tisana alla cannella che ho iniziato a sospettare che qualcosa non andasse. La tisana alla cannella ha sempre avuto lo stesso sapore da quando la compro e presumibilmente ce l’aveva anche prima che la comprassi. Al primo sorso il mio cervello era lì lì per sentirsi che aveva sapore di cannella, che è il sapore di cannella che tutti conoscono, era sul punto di sentirlo, o almeno io credevo che fosse sul punto di sentirlo perché diamo sempre per scontati i sapori delle cose che conosciamo, e invece sapeva di acqua calda che non sa di niente. Ho allontanato la tazza dalla bocca e ho riflettuto con aria impegnata. Per sicurezza ho bevuto un altro sorso e anche lì il mio cervello è stato vicinissimo a sentire il sapore di cannella che conosce così bene ma non ce l’ha fatta. La seconda volta è stato castrante, come cercare di avere un orgasmo senza riuscirci, che ti resta dentro inespresso e fa male. Come quando non ti viene una parola che ti serve subito. Come quando (ognuno finisca la frase come vuole). Acqua calda, e ditemi cosa c’è di peggio. Ho rovesciato la tisana nel lavandino con rammarico perché è un piacere non solo legato al gusto ma anche al riscaldarsi, al sentirsi a casa, al gusto dell’inverno. Un effetto domino di emozioni negate. A quel punto ho capito perfino io che qualcosa non stava andando nel verso giusto. Ho iniziato ad infilarmi in bocca di tutto: limoni, olio di semi, grani di bicarbonato. Niente, tutto uguale. Il macinato di caffè come leccare la polvere da terra, una fetta biscottata come mangiare un cartone di Amazon. Il pranzo di natale un disastro: non distinguevo l’insalata dall’involucro dei cioccolatini e la lasagna aveva lo stesso sapore del vomito del cane. Quello che riuscivo a distinguere con chiarezza erano il salato, il dolce, l’amaro. Questo lo capivo, capivo che la torta è dolce mentre le arance sono acri, questo sì. Ma poi riuscire a trovare nel mio cervello il loro sapore era tutt’altra cosa. Non me lo ricordavo, lo sapevo, sapevo di saperlo, il mio cervello sapeva di averne memoria ma non lo ricordavo. Non ero nemmeno più sicura di avere fame. Mangiare era diventato una specie di gioco: la matita è legnosa, il miele è come il moccio, il passato di verdure solo se hai una cisti in gola altrimenti non c’è ragione di mangiarlo, per non parlare dei fagioli o dei ceci, come mangiare blatte, croccanti fuori e farinosi dentro. I cetrioli usateli per come vi hanno insegnato le nonne, è meglio. Ma è stata la notte di capodanno a determinare la profonda frustrazione: stanca ormai di non mangiare ed esaurita la curiosità per oggetti improbabili come pietre, plastica, bulloni, dopo giorni di vomito e crampi alla pancia, dopo aver ingoiato lo zucchero a velo del pandoro con tutta la bustina di carta, non sapevo che direzione prendere per il nuovo anno. Mi piace avere buoni propositi e pormi obiettivi irrealizzabili. Perciò alla fine, mentre ascoltavo buon blues in una città piena di anima, ho bevuto una bottiglia intera di champagne perché aveva lo stesso sapore dell’acqua del water, parlo per esperienza. Il fatto che non si sentano i sapori manda in tilt molti altri istinti elementari, quello della fame l’ho già detto, e anche altri che adesso non so esprimere a parole ma comunque non funzionano: tipo io che mi attacco alla bottiglia la notte di capodanno con tutti i maniaci che ci sono in giro e che non aspettano altro che trovare una come me. La festa è stata leggera e allegra nonostante il rischio concreto di coma etilico. Guidi tu?, mi chiede l’amica alcolizzata ma le dico che ormai non posso fare la parte dell’astemia, forse se me l’avesse chiesto qualche ora prima. A quel punto ognuno prende la propria strada, andiamo tutti via da soli perché è la vera natura degli uomini, l’illusoria comunione di dna e idee innate è posticcia e comunque ci crede solo qualche comunità primitiva del Togo. Per noi borghesi bianchi eterosessuali è più facile accettare che Babbo Natale esista e che adesso invece della letterina basta mandargli un whatsapp. Andavo per la strada interrogandomi sui meccanismi che regolano il desiderio di cibo e di come differisca dalla fame effettiva, quando finalmente si decide ad avvicinarsi un maniaco, che poi non era nemmeno un maniaco. Ma esistono ancora? Si avvicina questo uomo belloccio e insignificante che mi fa domande d’altri tempi su come mi senta, che poi a lui cosa importa, e gli chiedo che finché respiro direi che ho tutto sotto controllo ma non sembra convincerlo, a me questi altruisti del rimorchio mi fanno venire la tosse o il prurito, la tosse e il prurito insieme, la nausea, i giramenti di testa, ah no, quello è lo champagne. Credo di aver bevuto troppo, dico. Non bevo mai non sono  quel tipo di donna, dico. Lo dicono tutte?, chiedo. Lui mi prende sotto braccio. Vuoi violentarmi?, chiedo, no, risponde ma alla fine chi è che ammette una cosa del genere. Poi ci penso: perché no, scusa? Non sono quel tipo di uomo, dice. Allora sono brutta, replico. No, mi assicura ma questo è un altro genere di cosa che nessuno ti dice in faccia. Domani andrai in palestra a dire ai tuoi amici che hai aiutato un cesso di ubriacona ad attraversare la strada, dico. Non vado in palestra, risponde ma chi è che non va in palestra di questi tempi. Però se ci andassi lo diresti?, insisto. Non sono uno che violenta le donne e che si vanta con gli amici, sentenzia. Non ho mai conosciuto qualcuno che mi abbia fatta sentire così brutta. All’improvviso lo odio, gli auguro ogni male, mi allontano dal suo braccio vestito in modo ordinario e vaneggio qualcosa sull’andare a cagare ma meno volgare. Tipo: vai a caxxre anche se è sempre difficile rendere le censure a voce. Viene fuori qualcosa tipo vai a ca()are con una pausa tra le vocali “a”. Brutto pezzo di mexxa che diventa brutto pezzo di me()()a. Cose così. Bastardo lo dico fingendo di starnutire. Lo facevo anche io al liceo, mi urla da lontano. La smetti di seguirmi?, gli dico piantandomi in mezzo alla strada. Pensavo di seguirti fino ad una strada fuori mano e poi violentarti così domani posso iscrivermi in palestra per raccontarlo a qualcuno, dice senza espressione. Ci penso su. Ok, dico facendo spallucce e ricomincio a camminare. Lui mi segue a debita distanza, come ci si aspetta da un maniaco. Cammina con quel suo giaccone borghese, di un blu da impiegato d’ufficio, con le braccia dietro la schiena, è carino ma banale, attraente ma ordinario. È solo a quel punto, accertata la sua ordinarietà, che mi giro e gli dico puntando l’indice verso la sua faccia comune: di solito sono l’amica che guida. Si ferma e non replica, non ha espressione, non è. Così insisto: non sento i sapori e mi sono bevuta una bottiglia di champagne come se fosse acqua. Forse stavolta un po’ si meraviglia che sia ancora viva ma non ribatte. Odio la gente che non si lascia coinvolgere, la amo, mi fa impazzire. È già la mia cosa preferita del nuovo anno. Mi avvicino. Sento il dolce, l’amaro, il salato… sussurro sulla sua bocca. L’umami, sussurra lui sulla mia. Non ho mai conosciuto qualcuno che dica le m bene. U-m-a-m-i, scandisco. Ci baciamo bene come solo due sconosciuti possono fare, la sua lingua è morbida e consistente, scivolosa, liscia, insapore, come leccare una rana però calda. Una lumaca appena tolta dalla padella. In fondo una lingua non l’ho mai assaggiata, e a dirla tutta nemmeno una lumaca però a pensarci bene, ora che siamo qui, visto che mi è capitato, non vedo momento migliore per fare entrambe le cose. Dopotutto si sa che bisogna sempre avere qualche nuovo proposito per l’anno nuovo, e comunque non credo che avrei il coraggio di farlo una volta ripreso il controllo dei miei sapori. Non sono quel tipo di donna.

In Narrature

Lo spioncino

di Danilo Grasso

“Un gruppo di ragazzi, tra i quindici e i diciotto anni, fa irruzione in un appartamento e accoltella il ragazzo che vi abitava. Si indaga sull’accaduto”.

Una brutta figura. È così che ricordavo quella giornata. Non mi era mai successo di addormentarmi durante una lezione. Tornai a casa frastornato, non so se più dallo strano sogno o dal rimprovero del professore. Salutai rapidamente mia madre e andai in camera, evitando ogni domanda. Volevo stare solo. Poco dopo sentii pesanti passi avvicinarsi alla porta. Era mio padre, che come ogni sera mi avvisava della cena. «Cinque minuti e arrivo». Non avevo voglia di sedermi a tavola e sottopormi al solito interrogatorio.

Dopo un po’ il mio stomaco cominciò a brontolare. Non riuscii a resistere e andai a cenare. Durante la cena ci fu uno strano silenzio, quasi innaturale. Può darsi che i miei fossero sconvolti per la notizia di quel ragazzo del nostro quartiere che aveva subito un’aggressione e forse sarebbe morto.

La cena terminò senza domande, così ne approfittai e tornai nella mia stanza. Guardai la tv fino a tarda ora, certo di un rimbrotto. E invece non mi fu detto nulla.

In piena notte sentii suonare il campanello. Mi spaventai. Mi recai in soggiorno, ms non c’era nessuno. Non sapevo cosa fare. Bussarono una seconda volta. Il suono era più prolungato. Mi avvicinai alla porta. Guardai dallo spioncino per vedere chi fosse. Non c’era nessuno nemmeno stavolta. Mi allontanai pensando che qualcuno avesse bussato alla porta sbagliata.

Poco dopo suonarono sempre più forte e con insistenza. Riguardai dallo spioncino e intravidi un individuo. Era buio, non riuscii a vederlo chiaramente, così accesi la luce del pianerottolo. Era un uomo anziano, indossava un abito scuro e aveva un foglio in mano. Cominciai a spaventarmi. Doveva esserci una buona ragione  per cui un uomo anziano bussava alla porta in piena notte e con una certa insistenza.Non sapevo chi fosse, ma di certo non avrei aperto.Feci per allontanarmiquando riconobbi la voce: «Anastasio, sono tuo nonno».

Tremai. Era impossibile. Mi riavvicinai allo spioncino, era di nuovo tutto buio. Riaccesi la luce e lo vidi. In preda all’emozione, gli urlai dall’altra parte della porta: «Mio nonno è morto dieci anni fa. È impossibile che tu sia lui»; «Sono io Anastasio, sono davvero io – mi disse – . Sono qui solo per parlarti». Aprii la porta ed era lui: lo strinsi forte.

«Non ho molto tempo e ora posso parlarti. La scorsa notte un gruppo di ragazzi è entrato in casa tua. Hanno cominciato a rubare. In casa c’eri solo tu. Non appena li hai visti li hai affrontati, ma ti hanno colpito. Il ragazzo che si trova in ospedale e sta lottando per la sua vita sei tu. Io sono qui per chiederti se vuoi vivere o venire via con me». Ero sconvolto e pensai alla mia vita fino a quel momento, poi guardai mio nonno: «Voglio vivere. Il mio unico desiderio è vivere per le persone che amo. Come mi hai sempre insegnato, se c’è anche solo una persona al mondo che ti ama, allora vale la pena continuare a vivere». Mi sorrise: «Sei diventato un uomo». Lo abbracciai e svanì.

Di colpo ricordavo ogni cosa: dovevo salvare la mia famiglia. Non era stato un furto mancato: avevano ucciso delle persone e io sono l’unico testimone.

Si sentirono degli spari, passi veloci nei corridoi. «Sono arrivati». Provai a camminare, ma ero troppo debole. Mio padre mi fece sedere su una sedia a rotelle e cominciò a correre. Arrivammo all’uscita d’emergenza. Fuggimmo con un’ambulanza. Un camion ci travolse. Il tempo sembrava si fosse fermato. Mi passò davanti il mio tempo. Non era quello il mio momento.

In Narrature

Un’altra stagione

di Francesco Gallo

A mio padre.

Grazie a un opuscolo che mi capitò, chissà come, tra le mani, venni a sapere che presso il Museo Civico di Palazzo Fulcis, a Belluno, si teneva una mostra intitolata Le stagioni di Buzzati. L’allestimento mi avrebbe consentito di osservare dal vivo, assieme ai quadri più celebri, alcuni degli oggetti personali del grande scrittore e giornalista: la giacca indossata il 28 gennaio 1972, giorno della scomparsa; il frustino per andare a cavallo, monogrammato DBT (Dino Buzzati Traverso); un paio di sci risalenti ai primi anni Sessanta, con gli attacchi a sganciamento frontale; e la fusione in bronzo del calco mortuario della sua mano destra. Un cimelio, questo, che – non lo nego – mi serrò la gola.
Si presentava solo un problema: l’esposizione era terminata da più di un mese, il 6 gennaio 2020. Parlandone con un collega, tuttavia, scoprii che la casa avita di Buzzati era poco distante dall’albergo che ci ospitava. Un’occasione da non perdere. Avrei visto l’alberone sotto il quale Buzzati era solito scrivere, circondato – come disse all’amico Arturo Brambilla – dagli abitanti del piccolo popolo. Era forse quello il segreto della sua formidabile inventiva? Risiedere al confine tra quello che è e quello che potrebbe essere? Storie, in fondo. Nient’altro che storie. Eppure.

In poco tempo raggiunsi l’indirizzo. Lunghe file di carpini mi scortarono fino al cancello. Sulla sinistra, lungo il vialetto, lasciai il campanile di San Pellegrino; poi intravidi la Villa. Una costruzione del 500; l’ampia facciata era color terracotta e sul tetto, ricoperto di tegole, spuntavano coppie di comignoli gemelli.
Suonai al citofono. Mi guardai attorno. Alla finestra del secondo piano mi parve di scorgere una sagoma familiare – allora non avrei saputo dire perché. Sollevai un braccio in cenno di saluto. Non rispose.
Oltre il cancello spuntò una donna. Aveva un fisico minuto e una folta capigliatura. Quando fu abbastanza vicina disse: «Cosa vuole ancora?»
Ancora? Doveva avermi scambiato per qualcun altro. Le spiegai le ragioni della mia presenza in città. L’omaggio. Aggiunsi che sarebbe stato un onore, per me, visitare la Villa. La donna mi scrutò. Teneva le mani strette intorno alle sbarre. La pelle era bianca e liscia. «Se vuole sapere di Buzzati parli con Croda,» disse. «L’ha conosciuto. Lo trova in paese, alle panchine. Sta sempre lì.» Mi rivolse un sorriso incerto. Fui sul punto di chiederle come avrei fatto a riconoscerlo, Croda, ma la donna si era già ritirata.
Cos’altro potevo fare?

Venti minuti di cammino ed eccomi in piazza. C’era il Museo Civico, un’infilata di negozi – un’edicola, un fioraio, un panificio – e un giardino, occupato da altalene e dondoli e da una sabbiera nella quale un gruppo di bambine e bambini giocava a rincorrersi. Graffiavano l’aria con urla euforiche. Tate e genitori erano poco distanti; fumavano o parlavano al telefono e fingevano di sorvegliare un raduno di monopattini e biciclette.
Sul lato opposto c’erano lunghi sedili di marmo. Un uomo solo occupava quello centrale. Mi avvicinai. Dissi: «È lei, Croda?»
Parve non sentire. Riprovai. Soltanto a quel punto annuì. Per quale motivo credetti subito che si trattasse di lui? L’aspetto, innanzitutto. Era anziano. Se aveva conosciuto Buzzati doveva avere perlomeno settant’anni. L’eleganza, poi, mi suggestionò. Indossava un cappotto a spina di pesce dal quale affiorava il risvolto di una giacca nera, una camicia bianca e una cravatta dritta come una penna. In mezzo alle scarpe lucide, tra i fili d’erba, affondava la punta di un bastone dal manico ricurvo.

«Buzzati. Per Buzzati… mi hanno detto di chiedere a lei. Che lo ha conosciuto.»

«Conosciuto
La sua voce era un sibilo.
«Una donna, alla Villa – »

«Dica, dica», e appoggiò il palmo sul marmo. Gli angoli della bocca s’incurvarono appena.

Mentre gli sedevo accanto – ero certo a quel punto fosse lui – vidi emergere una curiosa somiglianza. Possedeva un volto magro, senza barba, con un naso un po’ grosso. Gli occhi erano scuri come piombini e ben distanziati. I capelli ingrigiti portavano la riga e la sfumatura alta.

«Sì, possiamo dire così. L’ho conosciuto verso la fine degli anni 50.»
Lo osservai torcere le mani attorno all’impugnatura del bastone. Era una piccola testa d’animale. Distinsi un becco.

«Eravate amici? Scusi, sa. Resto in città solo un paio di notti e –»

«Quando finiva la scuola davo una mano a mio padre. Faceva il giardiniere. Era lui che potava le piante della Villa. Buzzati d’estate lasciava Milano e tornava. Tornava qua.»
Non riuscivo a smettere di fissare il modo in cui le sue dita si attorcigliavano al manico del bastone. Sembravano lucidarlo.

«La prima volta che lo vidi stava seduto sotto la magnolia. Aveva sulle gambe una Olivetti DL. Che impressione mi fece: un uomo della stessa età di mio padre impegnato in un’attività così futile. Chi era mai? Mio padre spiegò che era famoso. Uno scrittore. Anche se scriveva storie di finzione. È vero. E cronaca. Buzzati scriveva racconti come fossero articoli e articoli come racconti.»

Soltanto quando riconobbi il motivo in rilievo sotto l’elsa del bastone — un arnese per lavorare il legno; un seghetto, trasalii – presi parola: «Be’, era un modo per aggirare la censura fascista.»

«Quello era un bel problema, in effetti. Un vero orrore, perdoni. Ma la questione è un’altra. I due piani, sa? Ha presente? Sì che ce l’ha. Sennò non sarebbe qui.»

Il profilo di Croda sembrò indurirsi contro i pioppi bui che gli facevano da quinta. La sua mandibola, il cranio intero era la linea di un cammeo impolverato.

«Ogni volta che mio padre e io entravamo in Villa,» disse Croda, «Buzzati era sotto la magnolia a scrivere. Molti dei Sessanta racconti li compose a pochi metri da me. Iniziai a leggerlo avidamente. Racconti, romanzi, pezzi di cronaca. Le storie dipinte. Il Poema a fumetti. A un certo punto mi contagiò, sa? Mi cimentai anch’io. Ne ho vergogna, adesso. Lei sarà mica immune», si voltò piazzandomi in faccia pupille fonde come pozzi artesiani.

«Be’, io –»

«Con scarsi risultati, certo. Io. Fors’anche lei. Sa perché? Per via dei piani. Qualunque cosa scrivessi suonava falsa. Anzi, era falsa. M’iscrissi ad Agraria. Diventai giardiniere. Quando mio padre morì presi il suo posto. Oggi sono il Custode. Gliel’ha detto, la Signora?» Croda sorrise guardando fisso davanti a sé. Nel frattempo l’edicola, il fioraio e il panificio avevano tirato giù le serrande. Le famiglie erano scomparse. Si sentiva soltanto il cigolio di un’altalena. Allora, tra le siepi, comparve una figura – la stessa che avevo notato alla finestra della Villa. Com’era apparsa si ritirò. Per via del cambio di luce, certo. Con l’avanzare del crepuscolo, le ombre dei bossi s’erano allungate sotto la spinta di un vento gelido.

«Lei pensa davvero che quella di Buzzati fosse finzione? Che fosse, che so, fantasia
«Che intende, scusi?»
«Vuol farmi credere che non ha appena visto anche lei –» chiese, puntando d’improvviso il bastone come un rabdomante.
«Non la seguo, abbia pazienza.»
«Mi segua, invece. Le faccio vedere,» disse, alzandosi con sorprendente agilità.

Tornammo alla Villa. La facciata pareva ora verniciata di viola scuro. Croda estrasse una lunga chiave da una tasca del cappotto. Aprì il cancello. Le ombre in fuga s’erano aggrappate ai contorni delle finestre, deformandoli come occhiaie. I comignoli erano le corna di una maschera diabolica.
Croda mi riscosse chiamandomi per nome. Come poteva conoscerlo? Lo vidi girare intorno alla magnolia – c’era ancora! Mastodontico altare verticale – e sparire in una porticina della Villa. Gli tenni dietro. L’ingresso rivelò un disimpegno odoroso di pietra umida. Solo una candela raccontava il contorno degli spazi e delle cose. Immobile vicino a un pendolo silenzioso e guasto, una figura emerse dall’ombra: la Signora del cancello – medesimi ricci, medesima corporatura. Mi vide e si tappò la bocca con le mani: ora erano ricoperte di macule, solcate da rughe profonde.

«Su,» disse Croda, il bastone già al primo gradino di una scala a chiocciola che scavava la sommità del granaio come la tana di un roditore.

Lo seguii. Superate due rampe varcai la soglia di un andito in legno. «Chiuda,» disse, «presto.» Faticai a udire la sua voce. Pareva giungere da un’altra parte – un altro piano.
«Come…?»
«Zitto. Guardi, ora. Veda
Nella stanza c’era uno scrittoio. Era occupato da una macchina per scrivere e una risma di fogli. Sotto l’unica finestra, poco più che una feritoia affacciata sul giardino, stava un sofà in velluto con lo schienale altissimo. Accanto c’era un cavalletto con pennelli e tavolozza. Dai vetri colava una luce azzurrognola che rischiarava ogni cosa. Mi accostai alla tela. Era incompleta: uno scorcio cittadino, piazza e porticato e, sulla destra, una creatura informe e trionfale a spezzare l’orizzonte. Il tratto mi parve inconfondibile: la sua Val Morel, impossibile e miracolosa. O certi incubi di Bosch, Il maestro del Giudizio universale.
Croda lasciò cadere il bastone e raddrizzò la schiena, sedendo allo scrittoio. Sollevate le braccia sospese le mani sulla Olivetti. Disse: «Eccolo.» Le dita iniziarono a battere sui tasti. Prima lentamente, poi più veloci. Il rumore, simile al ticchettio di un ordigno, si trasformò in una gragnuola di colpi. Quando anche l’ultimo rigo fu completo il foglio – come trovare le parole? – schizzò verso l’alto mentre un secondo volteggiava da sé nel rullo.
«Eccomi,» disse Croda. La voce era quella di un altro. «Non c’è differenza tra i piani. Il reale è fantastico. Il fantastico è reale. Solo la storia conta. Vedi

Alzai gli occhi ai vetri. Le tenebre avevano ceduto il posto a un etereo chiarore. In fondo al giardino, al cancello, c’era una persona. Alzò la destra in segno di saluto. Scosso, mi riconobbi all’arrivo nel gesto e nel volto. Ero io! Com’era possibile? Il tempo e lo spazio, frantumati nell’intelaiatura della finestra come in una tavola a fumetti, mi risucchiarono in vignette dissolventi.
C’era un giovane sottotenente appena divenuto ufficiale, Giovanni Drogo, assegnato a una misteriosa Fortezza nel deserto: la Bastiani. Partiva per affrontare il nemico più grande. Non la morte, bensì la paura di morire. C’era la distesa ordinata e dolorosa di 43 piccole bare che, come colombe, si sollevarono in cielo. Ospitavano i corpi degli esserini morti ad Albenga il 16 luglio 1947, quando l’imbarcazione che li portava in gita alla Gallinara s’inabissò. C’era l’architetto Antonio Dorigo che soffriva d’amore. Desiderava con le donne lo stesso rapporto di confidenza che aveva con gli amici ma, purtroppo, per lui le donne restavano enigmi insolubili. C’era un’onda possente come il fianco di una montagna. S’inarcava e s’abbatteva ininterrottamente dal 9 ottobre 1963, trascinando l’esistenza putrefatta degli abitanti della valle del Vajont. C’era Roberto Paudi, assessore in fuga dal Babau: un’entità color marmo nero, leggera e volubile come la nuvola d’un temporale. Era tornata a perseguitarlo dopo che le raffiche dei mitra di un plotone d’esecuzione l’avevano mandata gambe all’aria, con la pelle tesa del ventre rischiarata dalla luce della luna. Il maelstrom di storie evocava una tormenta d’anime in pena; calavano dalle creste dalla Gran Fermeda, là dove gli ultimi Re delle Favole si avviavano verso l’esilio; procedevano maestosi nel deserto del Kalahari, verso le nubi dell’eternità –

«Basta,» supplicò Croda. Il martellio dei tasti s’interruppe. Sul foglio restò una frase a metà, la finestra tornò nera e vuota. Mi ritrovai in ginocchio sulle assi del pavimento. Sentii Croda allontanare la sedia, urtare i pochi mobili, crollare sul sofà. La voce era di nuovo la sua: rotta, un sibilo. «Non ne posso più.»
Sentii schegge di legno sotto i palmi. Cercai di alzarmi. Rinunciai. Afferrai il bastone. «Non è che lei, per caso…? Non è che vuole aiutarmi a farla finire, questa storia?», sorrise Croda.
Mi voltai. Non c’era nessuno accanto a me. Né nella Villa, sotto la magnolia, oltre il vetro. E l’ombra della notte scendeva.

In Narrature

Derrman – parte seconda

di Barbara Scalco

“Cazzo!” getta un’ultima occhiata alla bestia, per poi retrocedere in
direzione della panda. Nel momento in cui la maniglia scatta sotto le sue dita, un’ombra corre veloce oltre la fiancata opposta. Il ragazzo entra in auto e intravede a terra la mole dell’animale, immobile e morente. Un urlo rimbomba fra le pareti di roccia; straziante e disumano. Bred ingrana la prima e accelera, le ruote stridono sul cemento; il bosco tace.
La notte seguente il cielo è coperto ma ha smesso di piovere. Le gocce tintinnano fra gli alberi, precipitano a terra a ogni folata di vento. Bred è alla Tessilbrotto, i fari della panda illuminano il bosco. La radio è spenta ma a parlare è il silenzio; racconta storie di fantasmi, leggende alle quali nemmeno i bambini danno più retta.
A un tratto gli manca l’aria e abbassa il finestrino, sospira. Avvinghia il termos dal sedile posteriore, svita il tappo e lo riempie fino all’orlo di caffè nero. Si bagna appena le labbra e impreca, scotta; poche gocce cadono sul cavallo dei pantaloni e lungo il sedile di stoffa grigia.
Lecca il caffè dalle dita bagnate cercando di bilanciare il termos, aperto, sul sedile passeggeri. Afferra il pacchetto di sigarette liberandolo dal nylon trasparente, ne sfila una direttamente con le labbra, l’accende. Inspira ed espira, come a una lezione di yoga.
Lo schianto improvviso di una lamiera sull’asfalto lo scuote come a contatto con un defibrillatore e decilitri di caffè bollente precipitano sui jeans.
“Cazzo cazzo cazzo” Bred combatte a stento il dolore stritolando il volante di pelle lucida.
A pochi metri dall’auto, il coperchio argentato del cassonetto gira su se stesso per qualche secondo, si ferma. Bred stringe le labbra fra i denti mentre l’ennesimo gatto zampetta, furtivo, dal bidone riverso a terra. Il felino rivolge uno sguardo ipnotizzato in direzione del bosco, per poi correre via.
Il ragazzo ne osserva la fuga mentre il panico gli strizza l’intestino; lo sguardo rivolto al fogliame scuro. Oltre i primi pini lo fissa immobile una sagoma nera dalle fattezze umane.
Alberi, cemento e nuvole si confondono fra loro; tutto il mondo sembra girare mentre Bred combatte contro i capogiri. Deve andarsene da lì ma i muscoli non rispondono.
La sagoma dista pochi metri dalla luce dei fari; non ne distingue il volto, sembra un uomo ma è troppo basso. Stringe qualcosa fra le mani.
Passano pochi attimi, secondi eterni durante i quali Bred non riesce a scollare lo sguardo dallo sconosciuto. Lo vede muoversi, ne è quasi certo e le dita corrono violente alla chiave d’accensione. Frizione, retromarcia, acceleratore; l’auto è colta alla sprovvista e sobbalza, Bred ingrana la prima e inforca il viale d’uscita.
Destra, sinistra, ancora destra. Vola lungo i tornanti e la ferita del giorno prima pulsa dolorante a ogni scossone. Odore di caffè risale dai tappetini luridi di fango e polvere. Getta un’occhiata al termos e lo vede rotolare, ritmicamente, da una parte all’altra del sedile passeggeri zuppo di liquido marrone.
Lo sguardo rimbalza dalla strada al bosco; ogni fusto assume forme diaboliche agli occhi spaventati del ragazzo. Lo stanno seguendo, potrebbe giurarci.
Oltre il tornante una sagoma fa capolino tra i pini; Bred la supera senza voltarsi, ne ignora il riflesso all’interno dello specchietto retrovisore. Si morde un labbro e un senso di nausea gli accarezza la bocca dello stomaco. Frizione, acceleratore, le marce schizzano su e giù. Altro tornante, la vede di nuovo e con essa tornano i capogiri.
“Chi sei!” l’urlo gli raschia la gola come carta vetrata.
Di fronte a lui si apre un bivio e Bred sa bene da che parte andare: sinistra, verso casa. Alza i fari pronto a svoltare ma la sagoma nera occupa ora il centro della carreggiata.
“No…” nella frazione di un secondo sterza il volante verso destra; le ruote posteriori tracciano scie nere sull’asfalto e l’auto si immette nella strada sbagliata.
“Un incubo, dev’essere un incubo” Bred si asciuga il sudore dalle labbra; le guance rigate da gocce salate, corruga la fronte e sospira, esausto. Un pensiero rimbalza nel cervello, adesca un’intuizione che corre alle mani e l’attimo dopo il ragazzo si ritrova fra le dita la pistola di servizio. A poche centinaia di metri si scolpisce, nella notte, un arco di pietra.
Frizione, terza, 60 chilometri orari. Frizione, quarta, 70 chilometri orari. 75, è questione di precisione. 80, come la matematica.
Una mano al freno a mano, l’altra al volante; l’arcata in pietra affonda per un attimo l’abitacolo nell’oscurità ed ecco di nuovo la strada. Dannata sagoma, dannato incubo.
Bred inchioda; quasi affoga nel suo stesso sudore, immerso nell’odore pregnante di caffè e terrore allo stato gassoso. La pistola inchiodata fra dita ghiacciate e biancastre.
“Basta.” Bred ingoia un grumo di saliva, studia il profilo nero al centro della carreggiata: ha gambe unite e braccia penzoloni, la mano destra impugna un oggetto, forse un’arma.
Poco distante il guard rail è come l’ha lasciato la notte precedente: aghi di pino e rami spezzati ricoprono l’asfalto ma, del cervo, nessuna traccia.
Bred sussurra parole di rabbia, invoca una divinità qualsiasi per trovare il coraggio di uscire allo scoperto. L’indice avvia le quattro frecce per poi aggrapparsi alla maniglia; nell’altra mano, la pistola è pronta a sparare. Legittima difesa.
Uscito dall’auto Bred si sente preso in giro, avanza trattenendo il fiato ma lo sconosciuto non si muove.
“Chi sei?” la voce esce stridula e tremante; sillabe strozzate all’altezza della gola. La lingua, patinata, si incolla al palato.
Nessuna risposta; Bred avanza, il braccio nascosto dietro la schiena e le spalle dolenti, in allerta. Silenzio.
“Che cosa vuoi? Rispondi!”
Una raffica di vento rincorre la vallata; Bred ha un tremito e piccoli vortici di foglie danno avvio a un frenetico danzare.
Lui avanza e, poco alla volta, distingue i tratti dello sconosciuto: pelle olivastra e labbra sottili. Quella che Bred si trova di fronte è una ragazza, quasi una bambina.
La mente si affolla di sensazioni contrastanti; è confuso ma l’ossigeno ritrova la strada verso cervello e polmoni. Nota il viso della sconosciuta teso in una smorfia di dolore, la vede stringere fra i denti il labbro inferiore. Lungo la fronte sono incise piccole rughe, abbassa lo sguardo verso il terreno.
Bred riconosce delle macchie rossastre tingerle l’abito; anche le braccia sono sporche ed è scalza, i piedi incrostati di fango verdastro. Fra le mani ha un corno mozzato. Il viso del ragazzo impallidisce.
“Dimmi chi sei!” lui urla, lei tace.
Ha lo sguardo incollato al suolo e una lacrima le riga una guancia, infine solleva il capo. Ha occhi neri, neri come dev’essere nero l’inferno. Le labbra si schiudono.
“Non hai fatto nulla” la sua voce esce in un sussurro ma Bred non fatica a sentirla.
Gli si avvicina lentamente; il corpo teso in avanti, esile ma forte.
“Perché non hai fatto nulla?” il tono è grave, troppo profondo per una ragazzina, carico di rabbia.
Lei avanza, lui indietreggia; instabile. “Di cosa stai parlan…”
“L’hai lasciato morire.”
“Non è vero… Io…”
“L’hai lasciato morire!”
L’urlo improvviso percuote Bred che per poco non cade a terra. Si guarda attorno e sente la testa girare, blocca a stento un conato.
“Tu.” Lei avanza di un passo. “Hai ucciso.” Altro passo. “Mio padre.”
All’improvviso si ferma, stringe il corpo fra le braccia per ripararsi dal freddo. Dalla bocca, semiaperta, escono piccoli sbuffi di alito caldo; trema, lasciandosi andare al dolore di un pianto disperato.
Bred è confuso, spiazzato di fronte all’incubo più reale che riesca a ricordare.
“Ammettilo.” Occhi ancora rivolti al terreno, denti digrignati e corno stretto all’altezza del cuore.“Ammettilo!”
Bred esita. Pochi secondi in cui il tempo sembra fermarsi.
“Io non l’ho ucciso.”
Lei scuote la testa, delusa. Un senso di morte e rimpianto lo penetrano nell’anima. Deve fuggire.
“È tutta colpa tua.”

In Narrature

Deerman – parte prima

di Barbara Scalco

2:10 del mattino, sabato. Bred odia i turni del fine settimana, abbassa lo schienale sgualcito della panda bianca abbandonandosi alla noia. La radio spara nell’abitacolo una canzone dei Queen mentre Bred tracanna un lungo sorso dalla lattina di Cola e allunga il braccio nello sforzo di cambiare stazione. Vano tentativo, le casse gracchiano accavallando voci meccaniche e stonate. Dannate colline. Ecco un nuovo appunto mentale: procurarsi una chiavetta USB. Malgrado sia ormai autunno l’aria è calda e il ragazzo fatica a mantenersi sveglio. Spalanca la portiera e un acuto di Freddy Mercury si diffonde per la vallata, solenne. Sfila il cellulare dal taschino della divisa, due nuovi messaggi, un’immagine. Dopo qualche secondo la foto di cinque ventiquattrenni riempie lo schermo: sono seduti a un tavolo circolare e tengono alzati in aria dei grandi bicchieri pieni di ghiaccio e liquido trasparente, Gin tonic. Un labbro si alza ma più che un sorriso sembra una smorfia che scompare dopo pochi secondi. Blocca lo schermo, ripone il cellulare e rivolge lo sguardo allo spiazzo desolato della Tessilbrotto s.r.l. Pochi neon equidistanti illuminano le mura dell’enorme capannone, l’intonaco è scrostato in più punti e anche i portoni avrebbero bisogno di qualche restauro. Bred non capisce perché il titolare abbia pagato tanto per un servizio di vigilanza notturna. Credeva che la fabbrica avesse fallito da tempo, invece eccolo qua. Sospira, si getta in gola le ultime gocce di Cola e prende la mira verso il bidone della spazzatura a una decina di metri dall’auto. Il lancio non è buono e la lattina rimbalza sull’asfalto con un tonfo metallico. Un gatto sbuca da un angolo chissà dove; è spaventato e anche il ragazzo ha un leggero sobbalzo, li odia i gatti. Rotea una delle leve accanto al volante e due fari abbaglianti penetrano la distesa di pini che delimita il piazzale; il gatto si blocca e con occhi fluorescenti fissa per pochi secondi l’abitacolo. Altri due colpi di luce e il torace del felino si abbassa, le zampe tese in posizione d’allerta, quindi, corre verso il bosco e scompare. I gatti gli mettono la pelle d’oca. Alla radio è iniziata la campagna di Mr. Planet, questo significa che sono le 2:30 e la vescica chiama. Abbassa il volume al minimo e sfila una Camel dal pacchetto nuovo scendendo dall’auto. Sapori di catrame e tabacco penetrano le papille gustative mentre un fiume di nicotina aderisce alle pareti dei polmoni. Bred raggiunge le mura e allenta la zip dei pantaloni tenendo la sigaretta stretta fra le labbra, una nuvola di fumo raggiunge gli occhi, li pizzica. Alle sue spalle un rumore di foglie, si volta ma non c’è nessuno, forse il vento, silenzio. La concentrazione torna allo stimolo di urinare. Di nuovo, più chiaro, un rumore di rami spezzati. Il ragazzo richiude in fretta la zip portando una mano alla pistola allacciata alla cintura. “Chi è?” non che si aspetti una risposta. Il bosco tace ma sembra osservarlo, studiarne le reazioni per poi prenderlo in giro. Vede qualcosa, si muove, una pioggia di foglie sfila nell’aria nascondendogli la visuale. Un passo ancora… non può essere il vento. I neon del capannone illuminano solo i primi metri di boscaglia oltre i quali tutto è confuso. All’ennesimo gracchiare di foglie Bred non ha più dubbi. Estrae dalla fondina la pistola puntandola in direzione degli alberi a gambe divaricate, come nei film. Nulla, il bosco risponde alla minaccia passando il turno in attesa della prossima mossa; al contrario, il ragazzo non ha voglia di giocare e un rivolo di sudore gli bagna la fronte mentre il taschino della divisa inizia a vibrare. Suona a ritmo cadenzato, la pistola scivola fra le dita mentre Bred sfila a fatica il telefono e la sigaretta finisce a terra. Lo sguardo fisso in direzione del bosco. Ancora uno squillo. “Pronto?!” un’ombra marrone compare, si muove, scompare. “Bred, devi andare alla fabbrica dei Zambon. C’è un furgone senza targa.” “Ok, ora vado.” La linea cade assieme ai nervi del ragazzo, il quale, rilassa il braccio teso e ripone la pistola. Il cellulare ancora stretto fra le mani. Spegne il mozzicone con le dita; lo lancia lontano, tra rami e aghi di pino. “Dannati gatti”. Frizione, acceleratore, ingrana la quarta e vola nel circuito di secchi tornanti che portano alla fabbrica Zambon. Pozze di pioggia ricoprono l’asfalto e a ogni curva l’auto slitta, perde aderenza. Il ragazzo gira la rotella del volume e un classico dei Red Hot invade l’abitacolo. Sovrasta la suoneria che ora quasi non si sente. Al bivio svolta a destra, doppia curva verso sinistra, un tornante più secco degli altri costringe Bred a improvvisare un testa coda degno di una gara di rally. Sulla bocca si disegna una smorfia di autocompiacimento. Eccolo, il passaggio che preferisce; comincia la discesa e il suo piede preme sull’acceleratore. 60, 70, tiene sott’occhio i chilometri orari. 75, è questione di precisione, 80. Lungo la strada si disegna il profilo di un arco scavato nella roccia. Una mano avvinghia il freno a mano, l’auto slitta sfiorando il guard rail di pochi centimetri. Mentre una goccia di sudore si schianta sul volante, la vecchia panda inforca lo stretto passaggio di pietra. Bred urla di gioia, adrenalina pura manda in cortocircuito ogni stimolo nervoso. All’improvviso un’ombra nera sbuca dagli alberi precipitando in strada, si muove. Il cuore del ragazzo si ferma, il sorriso scompare, l’auto è veloce, troppo. Bred inchioda, i freni scappano da sotto i piedi e uno stridio acuto rimbomba tra le colline. Sotto la luce dei fari anche l’ombra diventa più chiara. Grandi occhi gialli penetrano l’abitacolo in pochi secondi, uno schianto e infine, l’atteso silenzio. La sensazione è quella di una lama che perfora il cervello. Bred apre gli occhi e qualche attimo dopo riesce a mettere a fuoco il volante. Ok, è ancora vivo. Una stretta linea rossastra colora il finestrino, sembra acquerello. Porta una mano alla testa e qualcosa di umido si appiccica alle dita dichiarando che non si tratta di colore. Attiva le quattro frecce ed esce dall’auto, aria fresca e pioggia lo aiutano a schiarirsi le idee. Il lato destro della panda è un disastro: lunghi solchi e strisce di vernice scrostata confermano l’impatto. Il ragazzo impreca, pensando all’ennesimo stipendio andato. Un urlo profondo e gutturale attira la sua attenzione verso il corpo di una creatura ricoperta di fango e foglie, è un cervo. Alla luce lampeggiante delle quattro frecce l’animale compare e scompare; Bred si avvicina cauto, terrorizzato all’idea che la bestia possa aggredirlo da un momento all’altro. Gocce di pioggia gli graffano il viso accompagnando i lamenti del cervo, acuti e strazianti. Ora può sentirne il respiro, affaticato, quasi stentato. Una ferita incide per intero il fianco destro; sanguina ma, vista la mole del corpo, non sembra grave. A ipnotizzare il ragazzo sono i palchi: immensi e robusti, grossi alla base del cranio e ramificati verso l’alto, fino a formare una decina di piccole punte affilate. Uno di essi è mozzo e il frammento mancante è proprio ai suoi piedi. Si china, lo afferra rigirandosi la superficie ruvida e pelosa fra le mani. All’improvviso il cervo inizia a dimenarsi, le zampe scalciano mentre urla gutturali attraversano il cranio ancora dolente del ragazzo; Bred si copre le orecchie lasciando cadere a terra il palco mozzato. Al contatto con il suolo produce un suono sordo, come un giocattolo rotto. L’animale smette di urlare, Bred schiude le palpebre e il suo sguardo incrocia due enormi occhi gialli, carichi d’odio e rancore. Trattiene il fiato e un brivido scorre lungo la spina dorsale mentre il cellulare ricomincia a vibrare. Bred scatta nervoso sul posto, le narici riprendono aria e nel giro di un secondo risponde alla chiamata. “Pronto?!” “Lascia perdere Bred, falso allarme, torna al tuo giro.” La linea cade, al contrario dei nervi del ragazzo che, questa volta, schizzano alle stelle.