In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XIV

di Demetrio Paolin

Come abbiamo scritto, più volte, lungo queste riflessioni, il romanzo è una sorta di descrizione dell’uomo nel tempo, ma nei FK l’autore fa un passaggio, verrebbe da dire, ulteriore: mostra in qualche modo la fine del tempo, ovvero il limite del dire romanzesco. Il finale -con Alesa che parla della resurrezione- è appunto escatologico, e si riferisce alle cose ultime che si mostreranno quando il mondo finirà e ci sarà la parusia. 

Arrivati a questo punto delle nostre inquisizioni, forse, potremmo ragionare su quale forma di romanzo D ci lasci e su come i FK siano uno dei romanzi cardine della nostra cultura per quanto riguarda problemi filosofici, teologici e di morfologia del romanzo; in un certo senso, con questa narrazione, D modifica lo statuto del romanzo e lo fa in modo oscuro, per segni ed enigmi, tramite la Leggenda dell’inquisitore. Già in nota mi ero soffermato sull’impossibilità, perché non è compito di questo scritto, di fornire una precisa disamina di quelle pagine. Fatta questa premessa occorre a questo punto sottolineare l’erroneità di estrapolare questo capitolo e leggerlo come testo a sé, ma che – anzi – per comprenderle meglio e per capire più profondamente i FK è necessario tenerle all’interno del percorso narrativo che il lettore affronta in FK. Vediamone alcuni punti salienti dal punto di vista narratologico

a) il poema non è mai stato scritto, ciò che noi leggiamo è un “racconto” di Ivan della trama e dei temi di questo poema; 

b) l’esposizione del succo del poema avviene in maniera dialogica ovvero all’interno di un colloquio, più ampio e complesso, tra Ivan e Alesa. Quest’ultimo durante la narrazione di Ivan lo ferma, lo incalza; 

c) il poema stesso è dialogico, un esempio di sublimazione del dialogo, in cui uno (Inquisitore) parla e l’altro (Gesù, lo straniero) ascolta.

Riassumendo, abbiamo un’opera non scritta (La leggenda) che in qualche modo tocca un nodo centrale di un’opera scritta (FK) e riguarda, infine, la forma stessa del romanzo, così come sarà nel futuro. La mia impressione è che D tratteggi una nuova morfologia del romanzo, ne descriva appunto la sua possibile sopravvivenza rispetto al mondo che cambia. L’abbiamo sottolineato quando parlavamo dell’accostamento tra Amleto e Karamazov a proposito della lettura dei libri: i personaggi del romanzo e il protagonista della tragedia di Shakespeare vivono una situazione di crisi in un tempo nuovo, desiderano vivere in questa novità, ma nello stesso tempo sono prigionieri di ciò che non è più, del passato, che torna sotto forma di fantasma, di morte e di omicidio. 

Sono uomini che vivono una cesura storica fondamentale, in questo passaggio non può che essere letto come “politico”, nella categoria che Schmitt elabora: il politico è una “cosa costituita” che si oppone all’anomia, all’assenza di forma e di legge, è ciò che produce un freno alla deriva, ciò che trattiene il mondo dalla sua stessa fine. I personaggi dei Karamazov vivono questo momento, e la leggenda lo rappresenta teologicamente, ma con Schmitt abbiamo visto che ogni discussione teologica ha a che fare con il politico, e questo caso non è da meno, tanto che la Leggenda dell’Inquisitore assume in contorni del katechon. Per definire meglio ciò che esso rappresenta mi rifaccio alla puntuale e interessante riflessione in Katechon di Francesca Monateri (Bollati&Boringhieri), la quale riprende almeno nella sua ultima parte una riflessione “politica” sulle pagine dei Karamazov.  Monateri sostiene una tesi, condensata nella chiusa, che riporto e che mi pare centrale anche per queste mie riflessioni: «Al cuore delle interpretazioni novecentesche del katechon, si annida la possibilità di pensare a una morfologia politica intesa non solo come studio della forme politiche, come vera e propria proposta per una politica delle forme». Quindi, il tema in gioco non è soltanto -e non è meramente- politico ma è estetico, perché siamo di fronte a una questione di forma, di più se il katechon è una questione di relazione tra le forme, esso è quindi un problema economico (sempre nell’accezione che abbiamo usato in questo lavoro). 

In primo luogo, katechon è l’espressione utilizzata da Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi che indica un potere che trattiene, un concetto che l’apostolo introduce per spiegare ai cristiani di Tessalonica perché il giorno della seconda venuta di Cristo tarda a venire. Il concetto può avere una valenza ambigua, dacché può essere visto in modo negativo, perché appunto differisce l’arrivo di Cristo e, quindi, la salvezza finale, oppure in modo positivo perché questo potere fa in modo che il tempo non finisca, che l’esistenza dell’uomo continui.

Come sostiene Monateri, la filosofia politica del 900 ha a lungo riflettuto su questo termine, il che si comprende gettando un sguardo sulla storia del secolo XX, su questo sentimento di apocalisse in differita, di giorno finale rimandato procrastinato, ma sempre presente nell’orizzonte di ogni narratore, filosofo, artista, che ha raccontato lo scandalo di questo tempo, di cui si auspica e si   teme la fine. 

Nelle pagine del Grande inquisitore D compie una operazione interessante, vediamola insieme: assumiamo che ciò che è raccontato nella leggenda sia reale. Se ciò è vero, allora noi ci troviamo già in un mondo che ha assistito alla seconda venuta di Cristo. Infatti, l’Inquisitore riconosce nello straniero Cristo e lo straniero non nega mai questa sua identità: questa agnizione, forse la più importante, nella storia dell’uomo non produce nulla. Perché, se ciò che D tramite Ivan ci racconta è vero, se Cristo è già sceso in terra, perché il tempo non è finito? Perché il mondo è ancora mondo? Perché non si è disciolto tutto e non ci sono state rivelate le cose ultime?    

Nell’accorato rincorrersi di queste domande riconosco alcuni degli interrogativi che Sergio Quinzio pone alle sacre Scritture e alle loro rivelazioni ultime (in particolare in Dalla gola del leone, La croce e il nulla), ma diventano ancora più centrali nel suo ultimo scritto, un’opera a metà strada tra riflessione teologica e narrazione, che è il Mysterium iniquitatis. Nella finzione di Quinzio il testo raccoglie le ultime due encicliche di Pietro II, che secondo la profezia di Malachia sarà l’ultimo papa. Il pontefice, dopo aver consegnato le due lettere apostoliche, la prima sul mistero della resurrezione dei morti e la seconda sul mistero dell’iniquità, ovvero la riflessione intorno alla Chiesa come baluardo di quel male che si annida proprio all’interno della stessa, salirà sulla cupola di San Pietro e si suiciderà gettandosi da quell’altezza. Le profezie si compiono in modo misterioso e questo mistero – sembra suggerirci Quinzio- è quello dell’iniquità che, stando a Paolo, gli uomini e la chiesa dovranno vivere e soffrire. 

Seguendo tale suggestione forse lo straniero del poema di Ivan non è Cristo, ma la personificazione di tale mistero dell’iniquità: è il passaggio precedente alla rivelazione all’eschaton finale. In questo modo, forse, comprendiamo perché queste pagine ci turbano, perché con inquietudine D non parla della fine dei tempi, ma parla del tempo prima della fine, del momento esatto in cui il nostro tempo sta per finire. 

Tutto questo avviene all’interno di un romanzo, in qualche modo -quindi- se La leggenda dell’Inquisitore ha a che fare con katechon, ciò significa che ha a che fare con una idea di “forma” che si oppone ad un’assenza e così, traslando il ragionamento della Monateri dal piano politico al piano letterario, la storia dell’inquisitore e di Cristo è una riflessione sulla forma del romanzo e sul romanzo come forma.

In Teoria del romanzo Lukacs sostiene che D non scrive romanzi: tale affermazione mi è parsa sempre piuttosto strana rispetto alla mia comune esperienza di lettore; è da sottolineare, però, che il dubbio di Lukacs non è tanto legato a un dato compositivo (i libri di D sono romanzi), ma a un dato storico. Provo a chiarire: per Lukacs il romanzo – come epopea borghese – non ha più nulla da dire a Dostoevskij che, infatti, scrive di cose altre. Questa notazione è di certo vera, pensate ai personaggi dei FK e alla loro ossessione su Dio, provate a immaginare qualcosa di simile in Madame Bovary o, perché no?, nei Malavoglia. D annuncia con le sue opere un mondo diverso, che mette in crisi il romanzo borghese realista (realismo → naturalismo → verismo: Malavoglia e FK sono pubblicati nello stesso anno), tale criticità ha un riverbero nella leggenda dell’Inquisitore, come se fosse una riflessione meta-testuale. 

D sente che questo è il tempo dell’iniquità, il tempo in cui tale mistero può apparire e produrre una narrazione romanzesca; infatti tutti i personaggi di FK sentono su loro stessi il trionfo della anomia, della mancanza delle regole, dell’assenza della forma; solo comprendendo questo sentire la Leggenda dell’Inquisitore, questa narrazione di una narrazione, acquista una maggiore incisività. 

L’episodio dell’inquisitore è un capitolo di un romanzo, in cui un protagonista (Ivan) racconta all’altro (Alesa) una storia (il poema), che non ha scritto. Ciò che ci viene chiesto di analizzare non è tanto legato alla religione o all’etica: D non ci domanda di decidere su chi abbia ragione, se l’inquisitore o Gesù. Anzi il nucleo è da un’altra parte, è una questione di estetica, di forma e di morfologia. Esiste qualcosa che possa costruire una nuova forma narrativa che possa resistere a questo tempo senza forma, a questo tempo di iniquità? 

Esiste una forma romanzesca adatta alla nostra modernità? Sono queste le domande che la leggenda del Grande Inquisitore pone al critico letterario, più che al teologo o al politico. L’ipotesi è che nell’economia del romanzo, in questa sequela di relazioni teleologiche dei personaggi, il capitolo del grande Inquisitore sia il katechon, sia ciò che trattiene il romanzo dal suo dissolversi, dal suo morire, dal suo finire.  Il katechon è una forza ambigua che da un lato annuncia la distruzione e dell’altro preserva l’umanità: in un certo senso D fornisce una possibilità al romanzo di esserci ancora, di continuare a generare i suoi frutti nonostante l’uomo viva il tempo dell’iniquità, dell’approssimarsi della fine, un tempo che costantemente finisce, ma che non si conclude. Ecco, nonostante questo, il romanzo continua. 

Il romanzo, infatti, ha a che fare con il tempo; anzi, è la narrazione dell’uomo nel tempo, ma se il tempo finisse? Se questo tempo che scorre finisse? Cosa ne sarebbe dell’uomo e cosa ne sarebbe del romanzo che è lo strumento per raccontare l’uomo nel tempo? Dostoevskij, rispondendo a tali questioni, riesce a darci l’immagine nuova della narrazione per salvarla. L’ affermazione di Lukacs «D non scrive romanzi», che mi pareva un poco peregrina, è in realtà centrata, perché D pensa a un romanzo che non è più romanzo, perché è il romanzo dei tempi dell‘anomia, dove non c’è una forma, non c’è legge o regola. D nei FK annuncia e racconta quel tempo prima della fine del tempo, e il romanzo, l’ultima nostra e più profonda fonte/modalità di sapere, modifica se stesso per poterci ancora raccontare.