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Inquisizioni sui Karamazov – Parte III

di Demetrio Paolin

In FK, Parte Prima, Libro Terzo, cap. III, leggiamo: «Ma innamorarsi non significa amare. Ci si può innamorare e odiare». E poi continuiamo: «Cammino e non so se sono capitato tra tanfo e vergogna o tra luce e gioia. È questa la vera disgrazia, che al mondo tutto è mistero». Poi poco più avanti leggiamo: «Perché sono un Karamazov, io. Perché se finisco nell’abisso, mi ci tuffo a capofitto a testa in giù e piedi all’aria, e a caderci in quel modo umiliante è una soddisfazione, per me, addirittura una bellezza». E ancora: «La bellezza è una cosa spaventosa e tremenda! Spaventosa perché non definibile, e definirla non si può perché Dio ci ha lasciato enigmi. […] Troppi enigmi opprimono l’uomo su questa terra». 
Il movimento della prosa di D è, a mio avviso, affascinante: è uno continuo correre, una breve ripresa di fiato, e nuovamente al massimo di frequenza possibile, alcune volte a questa velocità, che è una vera e propria furia, incontriamo frasi come quelle appena proposte, che ci costringono a un inciampo o a una frenata brusca. A pronunciare queste parole è Dimitri, che è il personaggio a cui presto più attenzione. Dimitri, lontano dal fascino oscuro di Ivan e dalla luce di Alesa, mi si è imposto come il grande personaggio del romanzo, come colui che veramente uccide il padre, che compie il parricidio per mettersi in viaggio verso la coscienza di sé. 
D fa di tutto per convincerci che sia Dimitri a commettere l’omicidio, perché narrativamente è lui che prende il largo, è lui che farà l’esperienza dell’altrove. Queste frasi citate racchiudono, in maniera precisa, la figura sfuggente di Dimitri o, meglio, racchiudono il modo in cui lui si sente: sono la voce del personaggio, non sono né la voce del narratore (che sappiamo “segue” per Alesa), né quella di D che ho sempre pensato detestasse, amandolo Ivan. 
Dimitri descrive una forma di tensione in cui amore e odio sono mostri che agiscono così nell’intimo dell’essere da renderli simili: si ama ciò che si odia più profondamente, perché ciò che si ama mostra di te l’abisso che non vuoi vedere, mostra la parte di te più terribile, quella che tieni nascosta quando cammini per strada o siedi al bar a sorseggiare il caffè; l’amore diventa odio, perché l’amore ti mostra la tua totale insignificanza rispetto al mondo, alle cose, cosicché l’unico modo che tu hai per impossessarti di loro è odiarle più profondamente; è ciò produce luce e gioia, tanfo e vergogna, l’uomo non è buono, o cattivo, è una mescolanza in cui l’abietto sta con la bellezza, e la bellezza arriva a toccare il punto più basso della vergogna.
Si può desiderare qualcosa, sentirla come necessario al tuo essere, e sapere che ciò che desideri è sbagliato, disgustoso, possiamo amare ciò che ci disgusta, ciò che è considerato sbagliato dalla società e della morale, lo possiamo amare perché in parte lo odiamo: ne facciamo così esperienza che diventiamo noi stessi disgusto abiezione, diventiamo peccato, facciamo diventare ciò che amiamo peccato: e il peccato diventa bellezza, perché conserva intatta, in qualche angolo nascosto, la gioiosa luminosità dell’amore e la sua purezza, di quando vedemmo la bellezza prima che ogni singola parola la corrompesse. 
La bellezza diventa tremenda, e solo nell’accettare la mostruosità di questa bellezza potremmo comprendere a fondo la possibilità che la bellezza salvi il mondo, perché la bellezza in D non ha nulla della quieta immobilità greca, ma è contemplare in sé l’orrendo, il negativo; è questo l’enigma del nostro essere: la tensione o il desiderio a fare il bene, e il compiere nelle opere nostre il male, come dice Paolo: «Io scopro allora questa contraddizione: ogni volta che voglio fare il bene, trovo in me soltanto la capacità di fare il male».

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Inquisizioni sui Karamazov – parte II

di Demetrio Paolin

In FK, Parte Prima, Libro 2, cap. VI, leggiamo: «Perché campa uno così?». A pronunciarla è Dimitri, riferendosi al padre. Noi abbiamo già contezza di ciò che è suo padre, di ciò che hanno in ballo Dimitri e suo padre, quale sia il passato di tutti i fratelli, tutti orfani di madre, tutti abbandonati dal padre, vissuti nella privazione di ogni cosa. Perché campa uno così è la prima spia del parricidio, della morte del padre che è il centro del romanzo, da qui si irradiano come raggi che fuggono gli altri vettori della narrazione (la libertà, la liceità di agire secondo le proprie ideologie, ad esempio). Questo rapporto padre-orfano è veramente una delle profonde strutture del romanzesco: penso nell’Odissea a Telemaco che ignora la sua identità, perché non conosce il destino di vita o di morte di suo padre Ulisse; nel suo stato di orfanità presunta egli deve partire, deve lasciare Itaca per trovare notizie certe sulla morte del padre, così che possa in qualche modo essere certo di chi lui è. 

Nei FK questa struttura è sottoposta a una torsione: il padre non è morto, anzi è vivo, vegeto, sbruffone, e non ha nessuna voglia di morire. Il romanzesco sottende, però, sempre una domanda di identità che appunto possiamo riassumere nel “Io chi sono?”, ma per rispondere a questa domanda il padre deve morire, perché solo così il figlio si muove, si stacca da Itaca, inizia il suo viaggio. Alla base quindi del desiderio di parricidio, c’è un dato narrativo: senza la morte del padre non c’è romanzo. Se il romanzo è uno spazio di libertà, il protagonista deve muoversi in uno spazio di libertà, che è la tipica condizione dell’orfano – pensiamo a Tom Jones, o a Renzo dei Promessi sposi – o del non ancora nato – pensiamo al Tristam Shandy. 

Il romanzo nasce per investigare e descrivere l’uomo nel tempo e nello spazio, il romanzo pone al centro una questione identitaria, si chiede chi è chi, riflette sulla identità non avendo particolare amore per la tautologia, ma la domanda di Dostoevskij sposta il tutto rispetto a un piano teleologico, la domanda non è solo più chi sono io, ma perché io sono questo individuo che sono? Quale è la motivazione che fa sì che una persona viva? Ogni narratore si pone, quando costruisce le sue narrazioni, tali interrogativi: perché questi personaggi fanno così? Oppure, per quale motivo non possono che fare così?. 

Se guardiamo il susseguirsi di tali “perché” dal punto di vista autoriale, scopriamo una stringente logica narrativa, invece se spostiamo il nostro sguardo dall’autore al lettore, allora ognuno di essi diventa un dubbio, un abisso che si spalanca: perché questo personaggio fa così?, cosa del suo destino oscuro mi chiama e mi interroga? Perché campa? Perché io campo come lui? Quale è il motivo del nostro campare? 

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Inquisizioni sui Karamazov – parte I

di Demetrio Paolin    

Gli uomini maneschi leggon tutti Dostoevskij[1]

I

Il primo ricordo di Dostoevskij (d’ora in poi D) risale all’università, avevo vent’anni, non avevo ancora letto nulla di questo autore, quando a causa del mio nome mi venne chiesto se mia madre o alcuni miei parenti fossero di origine russa o fossero appassionati lettori di D; nessuna delle due ipotesi era corretta: il mio nome era legato a quello di mio nonno, che a sua volta era legato al nome di suo nonno, e così via, e nessuno dei miei parenti era un appassionato lettore di questo autore russo. Mi venne in mente che mia madre avesse potuto, negli anni della giovinezza, incrociare D e l’onomastica dei suoi personaggi nello sceneggiato della televisione che appunto raccontava i Fratelli Karamazov (d’ora in poi FK), ma nella realtà non avevo prove e quindi tralasciai la questione. Mi venne chiesto se avessi letto qualcosa di D e con somma vergogna dissi di no, provenivo da una famiglia con pochi libri e le mie letture erano disordinate, caotiche e spesso non seguivano nessun filo logico, se non quello delle disponibilità in biblioteca o nella libreria dove andavo ad acquistare i volumi, così mi venne detto che se studiavo lettere e mi piaceva la letteratura non potevo non aver letto D. E allora eccomi, il giorno stesso, nella mia libreria di fiducia in fila davanti alla cassa, con una copia di Delitto e Castigo, dell’Idiota, dei Demoni e dei FK che fu il primo romanzo che lessi, perché il nome di uno dei protagonisti era il mio.

Se dovessi comunicare la sensazione che permane di quella lettura, potrei descriverla come un sentimento di apertura, di vasto, di ampio, di ignoto. I FK mi aprirono al romanzo, instillarono in me la devozione a questo tipo di genere letterario; quel ragazzo timido, insicuro, innamorato della filologia romanza, dei testi medioevali, dei dibattiti teologici,[2] quel ragazzo che sentiva il bisogno di esprimersi, da un lato, e dall’altro la necessità di autolimitarsi nel suo dire, e che quindi scriveva versi in endecasillabi, costruiva racconti o poesie piene di vincoli formali, si trovò davanti alla ampia e libera pianura del romanzo, all’aprirsi davanti a lui di questa possibilità in cui poteva muoversi libero, seguendo il bisogno di ciò che voleva dire e esprimendosi come meglio gli andava: è stata allora, e lo ricordo ancora oggi, una sensazione di profondo panico; esisteva, esiste ed esisterà, almeno fino a quando l’uomo camminerà sulla terra, questa possibilità, questa forma versatile, unica e geniale del romanzo di poter dire tutto, di poter raccontare tutto, di poter organizzare ogni aspetto/evento/sentimento/accidente della vita umana in una trama, in una serie di scene, in una sequenza di paragrafi, un forma che produce in chi legge (ma anche in chi scrive) un dilatazione della sua esistenza, un ampliamento dei suoi orizzonti: il romanzo, il romanzo come mi appariva in FK, il romanzo come è diventato per me in questi lunghi anni di apprendistato e di frequentazione è ampia terra, una vastità esplorabile, una promessa di felicità, una ipotesi di terrore, una possibilità di sofferenza; è l’esperimento di più profonda libertà che io abbia mai provato. Così di colpo, senza volerlo, mi trovavo devoto alla religione del romanzo, l’unica forma a cui, come uomo, sento il dovere di obbedienza.

Rileggerlo, quindi, è per me motivo di gioia e di turbamento: è tornare a uno dei luoghi da cui tutto ha avuto inizio, proprio perchè i primi anni dell’università segnarono la lettura di alcuni dei romanzi che ancora oggi io reputo essenziali per me (Ulisse di Joyce, Illusioni perdute di Balzac, Tristam Shandy di Sterne, I promessi sposi di Manzoni). Mi muovo in queste pagine, quindi, alla ricerca di qualcosa di nuovo e nello stesso tempo mi accorgo di aver riletto il romanzo, auscultando il suo battito, alla ricerca quasi infantile di quello stupore che quasi 30 anni fa mi rapì per sempre.

II

In questa rilettura avevo preso con me alcuni saggi di Julia Kristeva, i lavori di Berdjaev su Dostoevskij, i saggi di Luigi Pareyson e gli studi di Bachtin che tenevo sulla scrivania accanto alla copia di FK, nella edizione Einaudi con la traduzione di Claudia Zonghetti. Alla fine non li ho consultati, pensavo di leggerli mentre riprendevo in mano i FK come se fossero un viatico, una mappa diversa del mio muovermi nel testo. Non è andata così, non ho mai sentito il bisogno di leggerli; cercando di capire il perché di questa rinuncia, mi scopro certe volte a sentire dentro di me una strana forma di fatica per tutto ciò che potremmo definire letteratura secondaria, i saggi, gli studi, che parlano dei libri che stai leggendo: ho l’impressione che tali   letture, per quanto essenziali in ambito accademico, siano una sorta di diaframma rispetto al romanzo, all’esperienza di lettura del romanzo che il lettore dovrebbe affrontare in solitaria.[3] Ho l’idea che siano questo tipo di studi una sorta di scudo, di protezione mentre l’avventura del romanzo è sentirsi in pericolo.

Ora, se dovessi pensare ad un’immagine legata alla lettura di un romanzo, e dei FK in particolare, penserei a una casa incendiata. Quando leggo, sento che le mie convinzioni, idee, ideologie e credenze sono messe in discussione; anzi il più delle volte mi sento spinto a ripensarle completamente; leggere un romanzo è come gettarsi dalla finestra di una casa in fuga. Ecco, se debbo dire a chi ho pensato durante la lettura di FK, rispondo David Foster Wallace.

Forse, l’unico saggio che in qualche modo mi è risuonato nella lettura del romanzo di D è stato Il Dostoevskij di Joseph Frank contenuto in Considera l’aragosta. Alcune frasi del saggio mi sembrano essere le uniche in linea con quello che vorrei sostenere in queste pagine. «Che Dostoevskij sappia raccontare storie non basta di per sé a renderlo grande. Se bastasse, Judith Krantz e John Grisham sarebbero grandi romanzieri. […] le loro trame sono popolate da figure bidimensionali rudimentali e poco convincenti. (Per dirla tutta, ci sono anche scrittori che sono bravi a creare personaggi umani complessi […], ma sembrano incapaci di inserirli in una trama credibile e interessante. E altri ancora – spesso dell’avanguardia accademica – che non sembrano esperti/interessati né alla trama né ai personaggi, i cui libri dipendono interamente per movimento e attrattiva da progetti rarefatti metatestici). I personaggi di Dostoevskij hanno questa cosa che sono vivi. E per vivi non intendo solo ben realizzati o sviluppati o “torniti”. Il meglio di loro vive dentro di noi […].    Queste e così tante altre creature di Dostoevskij sono vive […] non perché sono tipi o sfaccettature di esseri umani abilmente tratteggiati, ma perché, agendo all’interno di trame plausibili e moralmente avvincenti, essi mettono in scena le parti più profonde di tutti gli esseri umani, le parti più conflittuali, più serie - quelle in cui si rischia di più». (nota?)

Leggere i FK mi ha messo in pericolo, ha costretto a chiedermi che tipo di felicità perseguo nella mia vita, che tipo di amore ho per le persone intorno a me, quali sono i miei gradi di viltà, di piacere, quale grado di male, umano e divino sono disposto a sostenere e sopportare, quale grado di malvagità sono disposto a compiere, fino a che punto mi spinge la mia abiezione, la mia lussuria, il mio desiderio, il mio bisogno di gioia; quale è la mia fede, quale la mia idea di felicità, di demonio… Non è possibile leggere i FK senza porsi queste domande, senza camminare a fianco di Dimitri, di Alesa, di Ivan, condividendo con loro le loro furibonde passioni, le amplificazioni che D applica alle loro azioni; si ha l’impressione alcune volte che la prosa di D sia troppo: troppo urlata, troppo forzata, troppo lunga, troppo grezza, ma questo troppo infine, quando il romanzo verrà chiuso, risuonerà nella tua mente e ti dominerà. Questo troppo oggi ci fa ridere, ci fa alzare il sopracciglio: oggi siamo più fini, siamo più ironici, più scafati rispetto alle tirate di D, rispetto alle prolusioni dei suoi personaggi, al sistema di valori morali e ideologici che in FK o nelle altre opere viene gridato. Ciò è certamente vero, ma ogni ipotesi di analisi rigidamente testuale che non metta in pericolo il me lettore non ha senso: non è possibile produrre una speculazione strutturalista del testo, un approccio semiologico o semiotico all’opera; i bizantinismi della critica letteraria qui si rompono; c’è qualcosa di compatto nei FK che non lascia ridurre a puro testo, a pura speculazione, a pura analisi delle figure retoriche o a scomposizione narratologica, questo qualcosa   potremmo definirlo come una economia del romanzesco, una sorta di contenitore ibrido,[4] dove stile, storia, trama, montaggio convivono indistinguibili: tutto ciò che segue nel modo più disordinato possibile, eppure secondo un filo che a me pare chiarissimo, si è voluto inquisire mettendo sotto processo proprio questa economia del romanzesco.


[1]      Immagino che il lettore, vista l’epigrafe, arricci il naso o, peggio, provi fastidio. È chiaro che tale epigrafe è una boutade da leggere in antifrasi rispetto al suo contenuto. Nello stesso tempo tocca un nervo scoperto dell’opera di Dostoevskij, di cui forse il celebre saggio sul parricidio di Freud è il capostipite e il più chiaro rappresentante. L’idea di queste inquisizioni nasce proprio per negare (da qui il carattere antifrastico) il contenuto dell’epigrafe, nella speranza di sfuggire da psicologismi, autobiografismi che costellano l’opera narrativa. Quando iniziai, oramai trent’anni or sono, a leggere Dostoevskij discussi con alcuni amici e amiche sulle sue premesse ideologiche, eravamo giovani laureandi e volevamo fare gli scrittori, i critici letterari, i professori e volevamo darci un tono, e mentre eravamo lì a discutere una amica, rimproverando a D un certo maschilismo, se ne uscì con questo slogan, preso da qualche manifestazione e movimento dei ‘70, che allora venne accolto con una sonora risata, ma che nel tempo mi ha portato a riflettere sul modo di recepire e di raccontare questo autore e il suo testo.

[2]      Non credo sia casuale la presenza anche in questo mio saggio di numerose riflessioni teologiche, perché infine D rimane uno scrittore che produce una riflessione che mette al centro la domanda di senso su Dio.

[3]      Non è una contraddizione il fatto che queste inquisizioni nascano all’interno del gruppo di lettura di Lettera Zero, perché l’atto della lettura è solitario, così come lo è l’atto della scrittura, mentre il confronto, la riflessione, il ragionamento possono e debbono essere comunitari.

[4]      Mi rendo conto che questa è la stessa natura del contributo che state leggendo, altrettanto ibrido, indeciso tra saggistica e memoria, tra speculazione critica e lavoro di scavo letterario/stilistico.

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Céline, Trilogia del Nord, postille 19 -21.1 (*)

di Demetrio Paolin

19. Uno dei temi fondamentali della poetica Céline è il suo costante e continuo riferimento alla petite musique; una immagine che domina le riflessioni metaletterarie dello scrittore francese. Ci si chiede spesso, nella lettura di queste affermazioni, in che cosa consista tale petite musique, come potesse suonare nella sua mente e nella sua immaginazione. Il dato sonoro in Trilogia è essenziale: lo abbiamo sottolineato più volte, ad esempio quando abbiamo analizzato la ripresa/variazione della citazione dall’Amleto – “il resto è blabla” -, e individuando come il blabla rappresentasse una certificazione del linguaggio onomatopeico e pregrammaticale di cui i continui inserti – sopratutto nei momenti di descrizione di bombardamenti – di riproduzioni di suoni, alcuni dal vago sapore fumettistico, fossero una segno autoriale ben preciso. Non va dimenticata l’invalidità di Céline e di come, dopo la prima guerra mondiale, abbia sofferto di acufeni, che hanno sicuramente prodotto un sentimento diverso, anzi divergente, rispetto ai suoni e alla esperienza degli stessi. Il dato uditivo, quindi, in Trilogia è molto forte, tanto che assistiamo ad un momento in cui musica e trauma uditivo trovano un punto comune.

Siamo alle pagine finali di Rigodon Céline, mentre fugge da una serie di esplosioni e bombardamenti, viene travolto da un crollo e un mattone lo colpisce in testa. Per le pagine seguenti assistiamo al continuo lamentarsi di questo colpo subìto e di come il trauma fisico abbia creato all’interno della sua mente una sorta di musica, di suono (immaginario?, reale?), che egli continua a sentire nel corso delle pagine.

Con la solita abilità Céline, nel suo procedere rapsodico, ci porta dalla Germania in fiamme e fumo della fine della guerra, alla quiete notturna della sua casa Meudon, quando, Lili ha finito le sue lezioni, e le ballerine hanno lasciato la casa, così – nel silenzio più totale – l’autore entra nel salone delle prove.. Quella musica, che lo ha tormentato per anni, è ancora nella sua testa, ronza nelle sue orecchie a segnare un tempo che non passa; quella piccola musica, una sorta di motivetto, Céline l’ha sentito per l’intero viaggio lungo le macerie dell’Europa e non l’ha mai abbandonato: «una tastiera adesso! L’altro capo della sala… forse per averci pensato così a lungo… strimpello… ci siamo!.. quasi giusto, sì!… sì!… il la di una tastiera così com’è… ci sono!… nessun prodigio! Ti spremi la testa per vent’anni, il diavolo se trovi!…. Per quanto limitato, per quanto poco melodioso sei!… riscendo giù, ho le quattro note… sol diesis! Sol!, la diesis!, …si! … rammentate!… avrei dovuto averle là giù» (TdN 802).

È un brano fondamentale per comprendere a fondo il lavoro stilistico di Céline sulla propria prosa; il brano, infatti, è una sorta di descrizione in atto dell’operazione di scrittura: è certo che la musica/scrittura, che Céline crea, nasce da un evento traumatico (l’esplosione è la perfetta metafora della II guerra mondiale), ma esse è costruito successivamente, è una ricerca – ti spremi la testa per venti anni –, una ricostruzione, che nasce da un punto di evidente sicurezza (la casa, il silenzio quieto della notte), e, infine, una riproduzione del trauma (le poche note che riportano lo scrittore “là giù”). Lo scrittore è venuto fuori dall’inferno, è risalito, ma qualcosa l’ossessiona, questa ossessione si coagula in una musica, in una serie di singole note, neppure un accordo, o un motivo, ma alcune note, come dei rimasugli, rovine, pezzi, la petite musique di Céline sono quattro note singole: sono ciò che rimane, infine, non c’è nessun prodigio o miracolo, semplicemente sono quattro suoni che rimangono impressi nella memoria dell’autore.

Il brano, inoltre, ci è utile anche per esplorare un tema centrale non solo della Trilogia, ma dell’intera letteratura del secondo ‘900: la tensione tra il silenzio (l’ineffabilità di ciò che è stato vissuto) e il linguaggio. Il linguaggio, quello letterario ne è la parabola più disperata, rappresenta il tentativo di produrre una rappresentazione e del nostro pensiero e del nostro pensare la realtà, come se la nostra realtà non fosse altro che un linguaggio di un linguaggio, una riflessione sullo stesso: quando descrivo una morte, ad esempio quando Céline descrive la morte del suo cane (lo vedremo nella postilla successiva), io/autore o io/lettore non faccio nessuna esperienza di quella precisa morte, ma ciò che compio è  ragionare, verbalizzare, su altre parole che descrivono un accadimento, di cui non so nulla se non le parole che lo esprimono, come se fossero un velo dalla spessa trama che nasconde la “cosa” reale. Il secondo ‘900 ha vissuto appieno questa crisi del linguaggio, il suo tendere al silenzio, tanto che possiamo  pensare

a) alla frase di Adorno, poi ritrattata, ma che getta la sua ombra su una buona parte della narrativa e della letteratura post-Auschwitz, della impossibilità – etica, ma anche estetica e fattuale – di scrivere poesia dopo il lager;

b) al brano de Il canto di Ulisse di Se questo è un uomo in cui Levi, citando Amleto, dichiara “il resto è silenzio” e si trova a spiegare a Pikolo, il compagno di lager, un sentimento confuso, misterioso e non chiaro, che vorrebbe egli afferrasse, ma che il brusio babelico, a chiusura del capitolo stesso, consegna a una paradossale incomunicabilità;

c) alle opere di Beckett più estreme in cui la parola è abbandonata in ampi spazi di silenzio.

L’afasia, quindi, può essere, lo è in effetti, una possibile risposta alla tragedia del secondo 900, pensiamo solo a Celan o al finale di Mosé e Aronne di Schoenberg. C’è, però, esiste tenace una possibilità di un linguaggio, che è precedente e più assoluto della linguaggio della parola, ovvero la musica: essa non ha bisogno delle parole o, meglio, le sue “parole” non hanno nulla a che vedere con quelle che ad esempio ora io e voi stiamo vedendo su questo bianco supporto. Céline, affascinato dalla danza, dalla delicatezza dei movimenti, ha vissuto la sua scrittura come una ricerca dello stile, che producesse musica: l’esperienza della terribilità della guerra, dell’inumanità, del tracollo di ogni speranza, della fine di un’epoca ha prodotto un semplice “blabla”; accettare tale insignificante brusio significherebbe condannare la propria scrittura al silenzio, e così con un tentativo ultimo Céline, ormai vecchio, vicino più di altri alla morte, alla regione del silenzio e allo svanire delle cose, recupera dalla sua memoria quattro singole note. È interessante questo dato, egli non riporta sulla pagina un accordo o una armonia, non un ritmo, o una sequenza, perché questo paradossalmente sarebbe ancora tentare un linguaggio: quelle quattro singole note sono ciò che rimane, sono ciò che si oppone al silenzio a cui la Storia ci ha costretto. “Sol diesis/sol/, la diesis/si”…il mondo non finisce né con uno schianto né con un lamento, ma con quattro singole e separate note, che  – come i quattro cavalieri dell’Apocalisse – annunciano il compiersi di tutto, infine.

20. Agli animali così recita la dedica in apertura di Rigodon, che sancisce, ove mai ce ne fosse bisogno, la centralità dell’immagine e della presenza degli animali in tutta la Trilogia. Pare ovvio e scontato il riferimento a Bébert, il gatto enigmatico, il sancio-panza felino, colui che infine rimane, e che, pur non essendo un cane, ritorna sempre dal padrone non per fedeltà, ma per scelta, opportunismo, intelligenza e sopravvivenza, a lui Céline dedica pagine bellissime, che si condensano nelle righe, presenti in Nord,  ove ne racconta la morte. È un brano breve, asciutto, pieno di malinconia e di leggerezza, adatto proprio al gatto che fu Bébert: «… era più giovanissimo ormai… è campato ancora sette anni, Bébert, l’ho riportato qui, a Meudon… è morto qui, dopo tante di quelle disgrazie, cellulari, bivacchi, ceneri, tutta l’Europa… è morto in forma e slanciato, impeccabile, saltava ancora per la finestra la stessa mattina…» (TdN 649). L’epitaffio di Bébert è commovente, proprio perché Céline trova l’immagine perfetta per renderlo memorabile, si noti che attengono a Bébert una serie di qualità aeree e leggere (lo slancio, il salto) che per Céline si oppongono al “peso” (il male) del mondo; c’è una forma di delicatezza e di riguardo nei confronti degli animali che Céline coltiva come a segnare un discrimine con gli altri esseri. Ne abbiamo la prova continuando la lettura di Nord; siamo consapevoli, Céline ci lascia diversi indizi testuali, che lo Zornhof sia un sito infernale, prova ultima di questa di questa dannazione è data dagli abitanti che non «amavano nessun animale, nessun cane o gatto alla fattoria» (TdN 495). A dominare queste pagine è Iago , il cane magro e ossuto, che il padrone affamava per far mostrare agli abitanti del luogo come la mancanza di cibo fosse comune a tutti, e ridotto a uno scheletro ambulante veniva portato in giro con orgoglio a riprova di queste terribile situazione.

Anche la sua morte, al pari di quella del gatto Bébert, è descritta da Céline con altrettanta delicatezza, «il corpo ancora tiepido… il cuore… il cuore ha ceduto» (TdN 554). Quella degli animali è una morte composta, serena; anzi per Céline gli unici esseri degni di “morte” sono gli animali, lungo tutta la Trilogia, infatti, gli uomini non muoiono, si crepano come case, si rompono, spariscono, vengono gettati nei liquami come cose di poco conto, rimangono impressi come una fluorescenza ai muri, sono pezzi di corpi bituminati – «qua così nel bitume?… un piede tutto nero… soltanto un piede… niente gamba né corpo… il corpo deve essere bruciato» (TdN 834); Céline concentra la sua pietas verso gli animali, ne sono un esempio altissimo le pagine iniziali di Da un castello all’altro in cui l’autore narra la morte del suo cane, Bessy. È uno degli episodi più strazianti del libro: «Io le tenevo la testa… l’ho abbracciata sino alla fine… era veramente una bestia splendida… una gioia guardarla… una gioia da vibrare… come era bella!… […]. è un fatto io penso sempre a lei, anche qui nella febbre […]. Posso dire che l’ho amata, con le sue folli scappate, l’avrei mica data per tutto l’oro del mondo… […] ma ha sofferto per morire… non volevo assolutamente toccarla con l’ago… farle neppure un poco di morfina… aveva paura della siringa… le avevo mai fatto paura […]… un bel momento, una mattina, ha voluto andare fuori […] voleva essere in un altro posto… dalla parte più fredda della casa sui sassi…si è stesa per bene… ha cominciato a rantolare… era la fine… il muso al nord, rivolto a nord… la cagna così fedele d’un modo… fedele anche alla vita atroce» (TdN 112-114).

In questo brano stupendo, lirico, pieno di grazia e rabbia, colmo di senso di dolcezza e colpa a emergere è l’immagine della fedeltà canina alla “vita atroce”, che è forse il segreto, il motivo reale, per cui Céline dedica agli animali la sua Trilogia. I tre romanzi possono essere letti come una profonda riflessione sulla fedeltà (alcune volte stigma della colpa, del collaborazionismo e del tradimento) alla vita, che è atroce. Céline ha esperienza di questo, la Trilogia è un campionario delle atrocità che l’uomo ha commesso e subìto, ma l’io narrante rimane fedele alla sua natura più profonda, proprio come gli animali, che per istinto cercando in qualche modo di rimanere se stessi. Abbiamo visto come nel corso delle pagine l’autore faccia riferimento alla teatralità, l’inganno, alla calunnia, al camuffamento: nessun personaggio della Trilogia è ciò che è (l’epitome, in questo senso, è Le Vigan definito l’uomo senza identità) e non è casuale che il teatro sia una delle metafore ricorrenti lungo le pagine del romanzo: questa scelta di rifiutare la propria identità, però, non è degli animali. Bébert è sempre lo stesso a Meudon come lungo l’Europa devastata, così come Iago o come Bessy: semplicemente sono rimasti fedeli alla vita atroce.

Un altra presenza animale costante nella Trilogia è quella degli uccelli, i volatili sono dovunque, in un romanzo che fa della migrazione, del movimento e del viaggio verso-una-qualche-meta-finale la propria ragion d’essere. A una prima lettura, quindi, gli stormi di uccelli che solcano i cieli sono una metafora prefetta della Trilogia; gli orizzonti, però, sono anche solcati dalle fortezze volanti, dagli aerei, dai bombardieri. Nel corso del racconto, quindi, il cielo non è solo orizzonte che contiene il movimento dei personaggi, ma è anche morte distruzione: gli uccelli, che abitano i cieli, sono creature ambigue, lontane insomma dalla rappresentazione che ne dà Leopardi nel brano delle Operette morali: «…la cerimonia è finita.. i bibel appiattiscono le zolle… nugoli di passeri spuntano e delle cince.. tutto questo dopo la terra smossa… i lombrichi… che bisogna essere uccelli per vedere sti piccoli vermi… tutti il cielo si può dire svolazza!… la festa!… anche i pettirossi!… e corvi e gabbiani» (TdN 643). Gli uccelli attengono alla morte (il brano riportato è la conclusione di una cerimonia funebre), e contemporaneamente alla festa (la l’immagine del cielo che svolazza): essi sono un enigma, che tale rimane fino alla conclusione del romanzo.

Nelle scene finali della Trilogia, Céline, Lili e Bébert sono a Copenaghen, sembrerebbe quasi una sorta di finale felice, sono giunti a Nord, sono salvi, Céline è guardingo, però, sente qualcosa di strano e così invita Lili a seguirlo in un piccolo giardino al riparo dagli occhi di tutti. In questo giardino Céline e Lili tornano ad essere loro stessi, riprendono possesso dei loro passaporti e il loro atto di matrimonio: li vediamo squarciare la pagina, liberarsi dalla finzione, di cui sono stati protagonisti e schiavi per più di ottocento pagine. Ora, infine, sono descritti loro dati anagrafici e dal loro stato civile. Nel leggere queste pagine ravvisiamo qualcosa di paradisiaco, il racconto ha il sapore di rinascita: la luce, il mare, le piante, la vegetazione, la loro stessa solitudine, infine, che ce li fa immaginare come i primi esseri viventi di un nuovo mondo. In questo momento di stupefazione e incanto, però lentamente la scena si popola, a circondarli sono uccelli «da collezione da Orto Botanico» (TdN 894): un ibis, un egretta, un pavone, un “uccello lira”; la loro presenza non è per nulla portatrice di paradiso e di quiete, anzi. Questi uccelli sono simbolo, figura, di un infinito esilio, dell’inesausto peregrinare, sono animali fuggiti e sopravvissuti alle distruzioni degli zoo (l’inferenza che compiano da lettori è con le pagine bellissime di Storia naturale della distruzione di Sebald) e che in qualche modo si ritrovano salvi in questa zona di Europa, risparmiata dai bombardamenti. La scena, che si svolge sotto i nostri occhi, si fa complessa e misteriosa come se ci trovassimo all’interno di un racconto sacro; gli uccelli sono giunti a queste latitudini per portare tale silenzioso annuncio: la felicità è un breve sogno, è qualcosa destinato a finire. Essi sono gli ambigui messaggeri di un dio sarcastico o malvagio, da un lato come Céline e Lili sono «sono “in fuga da scatenate voliere”… devono venire come noi da giù», ma nello stesso tempo, terribili come angeli di Rilke, annunciano in modo misterioso che «per noi tutto è pericoloso» (idem). L’animale, quindi, in Trilogia diviene una sorta di presenza demonica, che attiene a qualcosa di più profondo e oscuro, qualcosa che è vivo e senziente pur non essendolo o non essendolo del tutto, l’animale che conosce ogni cosa – «sanno, è tutto» (TdN 287) – è la prefigurazione della rappresentazione più inquietante di quella “nuda” vita , che culmina nella descrizione dei bambini “svedesi”.

21. Le ultime 100 pagine della Trilogia sono dominate dalla presenza costante, silenziosa, vivace e vivente dei bambini che la signora Odile affida a Céline. Questi bambini, quasi certamente spastici, handicappati, affetti da diverse malattie e patologie, non parlano mai nel corso del romanzo, si muovono in branco, sbavano, ridono, rumoreggiano, sono un numero imprecisato – quindici, sedici, diciassette. Céline usa il più ampio e degradante ventaglio della sua scrittura comica per descrivere una serie di bambini menomati; il grottesco alla Hugo qui trova il suo oggetto perfetto: essi sono veramente tanti “Quasimodo” che si muovono, che strisciano, che fanno bisogni dove gli pare, che fanno a meno della parola, che utilizzano un qualche modo di comunicare, a noi precluso; sono come animali, o meglio sono uomini, esseri umani, che per miracolo o malattia condividono una sorta di più semplice, ma nello stesso tempo, più profonda forma di esperienza della vita: in loro la “vita atroce” si mostra nella sua totalità, si mostra completamente. I bimbi seguono Céline come i topi seguono il pifferaio magico: essi rappresentano lo scolo dell’Europa il prodotto ultimo della sua putrefazione, della sua distruzione, sono il rifiuto e sono il “ciò-che-resiste”, perché nonostante tutto «i nostri mocciosi i nostri dico non erano fatti fatti per esistere ma erano arrivati lì» (TdN 822). Sono testardi questi mocciosi dalla dura cervice, esistono anche se dovrebbero essere morti, sono viventi anche se ogni cosa pare cospirare per la loro estinzione.

Lo sguardo di Céline è ambiguo, passa appunto da un sentimento di estraneità a un sentimento di possesso, l’aggettivo possessivo della prima citazione ne è spia palese, è desideroso di salvarli, di nutrili, di portarli in qualche modo, è come se si sentisse padre, come se ne dovesse prendere cura pur riluttante. Questo atteggiamento ricorda un racconto di Kafka, Il cruccio del padre di famiglia, e la figura di Odradek. Lo scrittore ceco in questo racconto prefigura, come spesso gli accade profeticamente, lo stadio di sub-umano che l’umanità attraverserà durante la Seconda Guerra Mondiale. La domanda del padre, il cruccio del titolo, appunto riferita a Odradek – “Può egli morire?” -, riecheggia anche nelle pagine finali di Rigodon. Possono questi bambini morire? Possono loro, che hanno attraversato l’essenza ultima dell’umano essere considerati ancora umani e quindi morire? Il racconto di Kafka è enigmatico, proprio perché non dà risposta. Odradek può essere il male totale, sordo, stupido che nessuno può togliere dal mondo, è, infine, la prova suprema dell’esistenza del non-essere, oppure Odradek è ciò che restio all’autorità, che s’oppone a un’autorità di morte, la sua esistenza stupida e persistente è di fatto una vittoria su ciò che vorrebbe distruggerla. Durante la lettura di Trilogia si oscilla spesso, almeno dal punto di vista di Céline, tra queste due tensioni: i bambini spastici, gli Svedesi così come infine verranno definiti e grazie a quella definizione verranno salvati, sono opachi, si oppongono a qualsiasi tipo di comprensione. Nella loro descrizione la mia memoria è tornata più volte alle pagine, che in queste sede potrebbero suonare stravaganti, de La tregua di Levi; in particolare l’episodio dedicato a Hurbinek, il bambino nato nel lager e nel lager morto. Hurbinek, così come i bambini di Céline, ha una esistenza che inquieta e turba il lettore: è vivo, ma non è umano, ci porta a sentire affetto e nello stesso tempo ci respinge e ci ripunga, è ciò che rimane del lager, è ciò che nonostante tutto è riuscito a fiorire nel lager, è qualcosa di tremendo, vivo e non umano: lo scandalo che non comprendiamo. Leggendo le pagine finali del romanzo di Céline abbiamo l’impressione che in questi bambini lui raffiguri qualcosa, qualcosa che non riesce neppure a nominare: e se i bambini spastici fossero la sua colpa? Se rappresentassero ciò che avrebbe dovuto odiare e che invece salva? (la mia fantasia ha pensato che questi bimbi raffigurassero gli ebrei, in fuga verso una salvezza). Nelle pagine della Trilogia vivamo, senza che Céline lo verbalizzi, un sentimento molto vicino, a quello che Levi riesce a formulare, descrivendo Hurbinek che muore “libero ma non redento”: la chiarezza leviana si scontra con il furore celiniano. E qui, avviandomi alla chiusa finale di queste postille, e alla luce di queste prossimità, vorrei tentare un azzardo avvicinando, infine, Trilogia del Nord e La Tregua.

21.1 La Tregua e Trilogia sono due odissee che non si concludono con un arrivo a casa, non c’è nessuna Itaca ad aspettare i due Ulisse, entrambi laceri e affaticati; da una parte vediamo ergersi il profilo del carcere, la detenzione, e dall’altra il nulla torbido in cui vive il sopravvissuto. Céline e Levi hanno attraversato l’Europa devastata dalla guerra, hanno scelto di raccontare questo sfacelo usando il comico, che non è un semplice far ridere, ma è indagare a cosa si riduce l’uomo svuotato di tutto, l’hanno fatto con due lingue diverse certo, partecipi di due nevrosi differenti, eppure lo spostarsi, il muoversi, il perdere e salire treni, la fame, le scarpe, la sporcizia e la merda sono medesime (si potrebbero mettere in relazione la scena delle latrine intasate Da un castello all’altro e con Campo Grande il grande capitolo iniziale de La tregua). L’uomo stravolto/grottesco, come risultato di un esperimento andato a male, è il centro di entrambe le narrazioni; da sottolineare, infine, anche un dato temporale: questi libri in parte furono composti negli stessi anni, al 1960-1961. C’è, infine, la presenza dei bambini in entrambi i testi, mediata dal Kafka del Cruccio del padre di famiglia e dalla domanda: Può egli morire?.

Ho l’impressione che Céline e Levi abbiano intravisto qualcosa di più tremendo del lager, del nazismo, del disfacimento degli Stati, dei morti nei bombardamenti, dei morti gasati nei lager, qualcosa di più terribile dei sopravvissuti logori e cenciosi, degli impiccati di Norimberga, dei carcerati e dei suicidi degli amici, questa cosa terribile e tremenda è la vita, sorda, la biologica vita delle cose degli animali, degli esseri, questa vita prima e priva di ogni coscienza, intelletto e lingua, questa vita brutta (aggettivo caro a Levi) e atroce (aggettivo caro a Céline), come la materia stessa di cui è fatto il mondo concreto, questa vita sorda bassa minima, il cui unico obiettivo è esistere nonostante le guerre, nonostante le vittorie e le sconfitte, nonostante le cadute degli imperi e dei governi, questa vita basilare, minima, dura come un piccolo sasso, come un oggetto di forma bizzarra, come un bimbo spastico e bavoso è l’arcano che tiene in piedi questo mondo materiale. Questa vita è l’abisso più grande in cui gettare lo sguardo; qualcosa che loro hanno intravisto; qualcosa che è umano senza esserlo più, che partecipa all’esistente senza esserne parte; qualcosa – infine – che loro hanno visto con gli occhi mortali (gli occhi di Levi e di Céline a me sembrano così identici, chiari, acquatici) e che hanno provato a descrivere con le parole, fino a quando le Parche hanno deciso di recidere il filo e Céline e Levi sono morti, mentre quella cosa atroce e bruta, che è la vita, ha continuato e continua a esistere, e interroga noi che siamo rimasti.

* Voglio, infine, ringraziare tutti le persone del Gruppo di lettura condivisa di Lettera Zero, la loro presenza, il loro costante pungolo, la loro intelligenza mi hanno spinto a ragionare con ancora maggiore chiarezza rispetto a questo libro, mi hanno portato a capire che la strada per comprenderne il significato e ancora di là a venire. Nei prossimi mesi, qui su Lettera Zero, alcuni di loro pubblicheranno le loro impressioni che daranno vita ad un Dossier Céline, con il quale speriamo di approfondire ancora di più questo autore e questi libri così abissali.

In Appunti di Lettura

Céline, “Trilogia del Nord”, postille 16-18

di Demetrio Paolin

16. Una delle prime parole miliari, ovvero che ci accompagneranno per l’intero corso e sulle quali ritorneremo spesso, della Trilogia è “lordura”, la troviamo a pagina 4; l’area semantica che traccia questa parola nel corso della narrazione ha a che fare con lo sporco, il brutto e il deforme: possiamo elencare, ad esempio, in Da un castello all’altro, la vicenda dei bagni e della “merda” che letteralmente fuoriesce dai water, oppure l’apparizione del “cul-in-terra” di Nord o dei “bambini svedesi” in Rigodon. Il mondo descritto da Céline è un mondo sporco, dove a trionfare è appunto il brutto, senza nessuna ipotesi di bellezza (è interessante che quando Céline voglia parlare di bellezza scriva “delicatezza”, come se la bellezza fosse una sorta di contrappeso alla durezza del mondo). Ora che tipo di “brutto” abbiamo davanti ai nostri occhi nel leggere le pagine della Trilogia? Osserviamo questa righe: «si vanta di essere una strega… gli Americani le hanno fatto il culo viola… brutta in un modo che a Quasimodo la cosa gli avrebbe fatto piacere… […]la natura l’aveva ben conciata, tutta la guancia sinistra, una macchia di vino, i capelli rossi, ispidi, a cosa di vacca, gli occhi uno grigio, l’altro azzurro… e strabica pure… non c’è che dire, faceva il suo effetto» (TdN 313). La citazione di Quasimodo ci mette subito sulla strada giusta, abbiamo già avuto modo di vedere come Céline abbia ripreso certi movimenti del romanzo ottocentesco e proprio Hugo si era imposto alla nostra fantasia e immaginazione. La presenza dello scrittore francese è costante in Trilogia, forse anche più di quanto Céline stesso vorrebbe suggerirci: «aggiustate in stracci, più per niente sozzone mondezzaie!… piacenti!… Esmeralde!…» (TdN 388). Oppure le pagine di Nord dedicate al campo degli zingari (TdN 496 e seguenti): «L’Esmeralda chiama gli altri che si sganassino, lei crede che Lili sa manco maneggiarle, che superbia, che ridano di noi piano» (TdN 498). Esmeralda, Quasimodo, zingari: Notre Dame Hugo serve da possibile “caricatura” della descrizione topografica dello Zornhof: il campo degli zingari come la corte dei miracoli, il luogo in cui vengono ritrovati semi morti il conte e la guardia simile al Valdamore. Senza appunto contare la descrizione dei bambini “svedesi”: «tutti torti sbilenchi, teste grosse penzolanti, dai quattro ai dieci anni, pressapoco… Quasimodi bimbi bavosi» (TdN 819). Molti personaggi della Trilogia hanno qualcosa di orribile, come appunto Quasimodo, o sono descritti come personaggi che hanno perduto ogni armonia, ciò che vede Céline è una umanità ridotta a un mostro, a qualcosa di deforme e grottesco.

Attira ad esempio l’attenzione una immagine tra le molte, la riporto: «Cromwell gettato nell’immondezzaio, brulicante di vermi, non aveva proprio il filo!… ha imparato a sue spese! Dissotterrato l’hanno ristrangolato, e riappeso» (TdN 508). Cromwell è il titolo di un dramma di Hugo, importante sopratutto per la prefazione, in cui Hugo proprio teorizza la centralità del deforme, del brutto, nella nuova letteratura. La prima immagine è quella di uno specchio; la letteratura per Hugo è «uno specchio in cui si riflette la natura. Ma se questo specchio è un comune specchio, una superficie piana e limitata, non rimanderà che un’immagine sbiadita e senza risalto […] il dramma deve essere dunque uno specchio concentratore». A interessarci è appunto lo specchio che più che riflettere o rimandare le immagini, le concentra, le deforma e questo punto che Hugo inserisce la riflessione sul brutto: «Il bello non offre che una sola tipologia, il brutto invece ne mostra mille. Il fatto è che il bello, parlando umanamente, non è che la forma considerata nel suo rapporto più semplice, nella sua simmetria più assoluta, nella sua armonia più intima con la nostra organizzazione; ci offre sempre un insieme completo ma ristretto come noi. Ciò che denominiamo il brutto, al contrario, è solo il dettaglio di un grande insieme che ci sfugge e che non si armonizza con l’uomo ma con l’intera creazione: ecco perché esibisce senza sosta aspetti nuovi ma incompleti». La deformazione di Hugo è duplice: da un lato è fisica –  il brutto, il difforme, il fuori scala, in questo senso Quasimodo ne è l’epitome -, ma dall’altro, come bene fa notare Vanessa Pietrantonio in Maschere grottesche (Donzelli), la potenza deformante si innesta anche e sopratutto nella lingua e in particolare nell’argot. Ritorniamo alla parola “lordura” da cui ha preso l’avvio questa nostra postilla, se andiamo a vedere l’originale francese troviamo una parola “pochetée”, che a una prima breve ricerca non è presente nel dizionario classico, di certo è un termine ibrido una delle tante invenzioni/innovazioni linguistiche che Céline compie nella Trilogia. Siamo consapevoli, leggendo le lettere e le varie riflessioni, che per lo scrittore francese fosse centrale lo stile (Céline si definiva uno stilista), e di come fossero la musica, il dato fonetico della parola a guidarlo nella composizione (ne è un esempio la testimonianza della moglie che raccontando “come” vennero risolte le incertezze delle varianti di su Rigodon parla, appunto, di una scelta per assonanza, rima che era presumibilmente suggeriva il modo con cui Céline componeva i suoi testi). È chiaro che il recupero dell’argot e il suo uso siano una della grandi innovazioni romanzesche di Céline; lo scrittore francese fa diventare l’argot la lingua della Trilogia, sostenendo come “l’argot è nato dall’odio”, ma questa sua innovazione deve a Hugo più di quanto Céline voglia farci supporre. Leggiamo questa pagina tratta da I miserabili: “Lingua laida, inquieta, subdola, traditrice, velenosa, crudele, losca, vile, profonda, e fatale nella miseria. […] ora astuta, ora violenta, e al tempo stesso malsana e feroce, essa attacca l’ordine sociale […]. L’argot è appunto la lingua di battaglia che la miseria ha inventato”. E ora leggiamo questa riflessione di Céline: “Credetemi, conosco bene l’argot, tutti gli argot, ahimè! il vero argot è quello di Villon,sebbene già più accademico, ma soprattutto quello delle Chansons de Mandrin, che del resto ben pochi conoscono…No l’argot non si fa con un glossario, ma con delle immagini nate dall’odio, è l’odio che fa l’argot. L’argot è fatto per esprimere i sentimenti veri della miseria. […]. L’argot è fatto per permettere all’operaio di dire al suo padrone che detesta: tu vivi bene e io male, tu mi sfrutti e giri con un macchinone, ti ucciderò…”. Hugo e Céline parlano, o meglio, scrivono la stessa lingua nata dalla miseria, dall’odio e dal sopruso (curiosamente questa lingua umiliata, questa lingua che possiede solo parole negative, di rabbia, odio, umiliazione e sopruso è vicinissima alla lingua familiare – “la bizzarra parlata dei nostri padri” –  di Primo Levi, il quale nel Sistema periodico ne descrive come “evidente” “la radice umiliata”). L’argot nasce dal rovescio della civiltà, in questo modo possiamo comprendere come il segreto più profondo della  Trilogia ovvero la messa in scena di una lingua che si pone in contrapposizione rispetto alla lingua letteraria ufficiale: «potrei inventare, trasporre… quello che hanno fatto tutti… la cosa passava in antico francese… Joinville, Villehardouin l’avevano facile, si sono mica fatti scrupolo, ma il nostro francese qui, intisichito, così striminzito lezioso, accademizzato, quasi a morte, mi farei trattare da ancora più abbietto, stronzo delle Pleiadi e non mi venderebbero più per niente» (TdN 813). Chiaramente la deformazione dei corpi, che non risparmia nessuno, nemmeno Lili – «anche Lili pure carina, tratti regolari, per niente criminale, eccola matrigna, assassina, capelli in furia e Sabba, strega sul declino, lei che non vent’anni» (TdN 338) –, è il segno, il primo e il più visibile, di una visione della deformità che domina ogni cosa. «Il personaggio narratore, unico spettatore destinato a rimanere sulla soglia, si trova così di fronte a una coralità che, nel mettersi a nudo, si serve di un megafono improvvisato per celebrare l’orrore, facendone, addirittura, l’apoteosi», queste parole che la Pierantonio dedica a Hugo possono essere declinate alla lettera per la scelta e la motivazione di Céline nella composizione la sua Trilogia: una apoteosi dell’orrore.

17. Quando arriviamo a Zornhof, nel mezzo di Nord, che è poi nel mezzo della Trilogia veniamo accolti da una serie di personaggi molto stravaganti e strani, di cui forse il più stravagante e strano è il vecchio, di cui ci viene descritta la passione per essere picchiato e frustato dalle sue giovani bambine. A prima vista questo potrebbe essere letto alla luce di un sadismo spicciolo, ma se ci soffermiamo con più attenzione su tale descrizione, potremmo vedere come essa rappresenta una spia della possibile matrice sadiana più che sadica della Trilogia.

Possiamo intanto notare come un tema tipico dei libri di De Sade sia il viaggio, nei romanzi  del marchese si viaggia molto (si legga in questo senso Barthes di Sade, Fuorier, Loyola), ma il termine del viaggio è sempre uno, la meta è sempre una, una possibile chiusura, l’arrivo in un luogo che in qualche modo ha le stimmate della prigione: in questo senso lo Zornhof (ma prima anche Sigmaringen) è un perfetto luogo sadiano, popolato come è da strani personaggi con strani gusti sessuali, o malattie, o comportamenti al limite dell’abiezione; si  pensi solo al vecchio che porta Iago, il cane, in giro per la tenuta, così da mostrarne la magrezza, simbolo della fame che attanaglia tutti, a significare che tutti stanno vivendo di stenti; una pratica che porterà il povero animale ha morire durante una di queste “passeggiate”.

Altra immagine sadiana è l’impiccagione: riprendiamo la citazione su Cromwell (TdN 508), in quel brano leggiamo della riesumazione di un cadavere, e di una nuova impiccagione, ma non è l’unica: «Esatto! Vi dicevo nell’altro mio libro, dal momento che sei designato, il tuo collo, la tua corda!» (TdN 440); «Che ti impicchino! E presto! Alto, basso! In che stile vai a sdondolarti!”; “pendagli da forca, sospetti ovunque, traditori per la Francia e la Germania… […] un bel momento viene solo una domanda: perché non ti hanno impiccato?» (TdN 509). C’è un legameche collega il nodo, il tradimento, l’impiccagione e la punizione, che così De Sade esemplifica: «Non ci rimangono che due alternative: o il crimine che ci rende felici o il nodo scorsoio che pone fine alla nostra infelicità». L’impiccagione, quindi, è topos stratificato, quando lo leggiamo in Céline: ci ricorda la Ballata degli impiccati di Villion, che abbiamo visto Céline conosceva bene e al quale guardava come costruzione del proprio stile, ma la corda, il nodo e l’asfissia sono alcune della immagine topiche e tipiche dello stile sadiano o meglio che si radicano nello stile, in particolare, nella parte legata alla descrizione delle orge. La descrizione tipografica, cioè dell’organizzazione dello spazio della pagine di De Sade, fatta da Barthes, ci permette di cogliere tale particolarità: «Chi sfoglia i libri di De Sade sa bene che vi si alternano due grandi forme tipografiche: pagine fitte, continue: è la grande dissertazione filosofica; pagine spezzate da spazi bianchi, capoversi, da punti di sospensione, di esclamazione, linguaggio teso, bucato, vacillato: è l’orgia, la scena libidinosa o criminale». Nella Trilogia Céline prova tipograficamente e stilisticamente una sorta di summa infatti le pagine céliniane sono “fitte”, “continue”, “spezzate” “da puntini di sospensione, di esclamazione”, e il linguaggio è appunto (vd 16) “teso, bucato, vacillato”. La componente sadiana di Céline non è però legata al sesso, c’è qualcosa in Da un castello all’altro, la sfortunata storia di Clotilde e del Commissario Papillon (TdN 176 e seguenti), le scena del Stazione che diventa un bordello sempre in Da un castello all’altro, ma al crimine. L’io narrante si presenta come un libero pensatore, che va contro ciò che di solito pensa, è – in una parola – un libertino, termine che nella cultura francese possiede un’aura molto più complessa di quella che cogliamo noi oggi. Tale sguardo straniato sul mondo, che è lo sguardo della “canaglia” (per riprendere un termine che abbiamo già analizzato) è lo stesso di De Sade, e certificata l’idea di mondo, una storia, e una società tenute insieme da una sorta di Dio Malvagio, di essere supremo che è la copia distorta, terribile e grottesca dell’Essere Supremo, il culto viene sancito in Francia nella Costituzione (mai applicata) dell’Anno I (1793). De Sade scrive: «Convinto di questo sistema, mi dico: c’è un Dio; una mano qualunque ha creato necessariamente tutto ciò che vedo, ma lo ha creato soltanto per il male, essa si compiace soltanto nel male, il male è la sua essenza (…). Nel male egli (Dio) ha creato il mondo, con il male lo regge, con il male lo perpetua. Impregnata di male la creatura deve esistere e in seno al male deve rientrare dopo la sua esistenza». Ad una prima lettura della Trilogia l’immaginario religioso è di certo poco presente. Nel corso dei romanzi, però, l’assenza di Dio viene rotta da alcune bestemmie che, sopratutto in Rigodon, tornano insistite: in Céline la bestemmia diviene de facto una lamentazione, un sberleffo a qualcosa che esiste e che se ne sta indifferente sopra di noi; la bestemmia è tipica della visione De Sade come rovesciamento grottesco della preghiera in un mondo appunto  retto dal Male, costituto di Male, e mosso a Male.

Il mondo di Céline è retto dal male? Potremmo provare a rispondere a questa domanda con l’episodio del “pugno alla scatola di legno”. Céline, citando (ancora una volta fraintendendo il testo) Bergson, scrive: «riempite una scatola di legno, una scatola grande, di limatura di ferro molto fina, e ci date un pugno dentro, un pugno forte… che cosa osservate? Avete fatto un cratere… della forma esatta del vostro pugno! Per capire che cosa è accaduto, quale fenomeno, due intelligenze, due spiegazioni… l’intelligenza della formica sbalordita stravolta, che si chiede per quale miracolo un altro insetto, formica come lei, ha potuto […], e l’altra intelligenza, geniale, la vostra, la mia, una spiegazione che è bastato un semplice pugno» (TdN 707). Ciò che mi chiedo io è: chi dà il pugno? La nostra intelligenza, superiore a quella della formica, comprende che a generare il cratere è stato un pugno, ma il romanziere, lo scrittore si deve chiedere: perché viene dato un pugno, perché proprio il pugno? C’è qualcosa fuori dalla scatola che cala il suo braccio e questo potrebbe essere Dio, l’essere supremo, ma supremo e malvagio, perché si palesa nella storia (romanzo) e nella Storia (esistenza) dell’uomo con un atto di violenza. Il dato sadiano, quindi, agisce in profondità costituendo quella che è la visione e l’organizzazione del mondo in cui i personaggi della Trilogia si muovono; un mondo dove Dio c’è ma è un essere crudele che dà un pugno e rompe ogni cosa.

18. «riconosco il posto… proprio così, davanti all’Hotel Esplande… oh non mi sbaglio!… ma ammaccato e tutto crepato, l’Hotel Esplande, il tetto cadente gli spenzolava davanti.. direi per ridere: surrealista!» (TdN 832). Questa descrizione attira la mia attenzione soprattutto per l’aggettivo che la conclude, Céline sicuramente è stato un attento lettore e osservatore che ciò che accadeva nella Francia delle lettere proprio nel momento in cui, ad esempio, si apprestava a esordire; quindi possiamo immaginare che abbia letto e abbia riflettuto sul manifesto del surrealismo che Breton aveva prodotto. Uno dei momenti più interessanti di questo manifesto è a ripresa del famoso “incipit puro” di Valery, «la marchesa uscì alle cinque»; su questo incipit si concentravano tutte le ironie e i sarcasmi dei surrealisti per un tipo di narrazione, che aveva fatto il suo tempo.

E Céline? Dovremmo pensare che egli sia in linea con questa concezione di rinnovamento, eppure se andiamo a guardare con attenzione e ciò che abbiamo analizzato in queste postille possiamo fare alcuni nomi degli autori che più in profondità agiscono nella sua prosa: Cervantes, Shakespeare, De Sade, Hugo… Non è quindi casuale che Céline scriva: «Pare che sia del tutto passato di moda scrivere “che alle dieci il calesse delle contesse era venuto avanti” ah vacca miseria! Che ci posso fare se vado giù di moda?» (TdN 531). Céline ha ben chiaro, in questo passo, e nei molti altri  che dissemina lungo i romanzi, la Trilogia potrebbe essere anche letto come una lunga riflessione meta letteraria sul romanzo, che la sua novità sta appunto e forse nel recupero di alcuni modi di raccontare gli eventi che possono parere obsoleti agli occhi di molti innovatori. Abbiamo visto che Céline si muove nel campo dell’inter-testualità come un uomo tra le macerie dopo una esplosione, ne raccoglie brandelli, né salva piccoli pezzi, li ricompone secondo una sua personale sensibilità; ad esempio il termine “cronaca” per descrivere la Trilogia secondo l’uso di alcuni scrittori medioevali francesi o l’utilizzo dell’argot (vd 16) alla luce di Hugo. Avevamo messo in evidenza, sin dalle prime postille, come l’utilizzo della punteggiatura, sopratutto, dell’esclamazione poteva essere visto come debito “stilistico” verso Hugo e Balzac, di Hugo abbiamo già detto, ma Balzac?

È chiaro che lo sberleffo di Valery, che Breton riprende, ha proprio come oggetto il romanzo dell’ottocento, che vede in Balzac il suo più grande interprete; Céline cita chiaramente due volte Balzac la prima parlando della pelle dello zigrino, uno dei romanzi centrali della Comedie Humaine, e poi nelle pagine conclusive di Rigodon, quando appunto dichiara che Balzac ha vissuto per un periodo a Meudon: «Balzac giusto!… Balzac sarebbe venuto a Meudon… avrebbe abitto a Belle-vue in casa del conte Apponyi» (TdN 897). La Trilogia insomma si chiude all’ombra del grande romanziere francese, quello che sognava di “portare un’intera società nella sua testa”, la sua presenza in chiusura non è casuale: Céline con la Trilogia ci fornisce una descrizione che per certi versi poteva essere molto simile a quella di Balzac: se il primo voleva rappresentare la Francia nel XIX secolo (e con la Francia il mondo, stando alla felice intuizione di Wilde), Céline compie un’azione simile: rappresenta tutta la prima metà del XX secolo, nel suo punto apicale e finale, pochi istanti prima che scompaia. Rigodon (e la Trilogia di conseguenza) è libro “finale”, perché sono le ultime parole scritte e pensate di Céline, un libro scritto mentre le Parche gli rosicavano i fili, scritto in furia proprio perché la pelle dello zigrino è ormai giunta alla fine. È un libro sulla morte di un’epoca e sulla sua, di Céline, personale morte: «ho adesso sessantasette anni, la mia pelle di zigrino così ristretta, dovrei essere crepato dal un bel pezzo, ho fatto tutto per… applaudite» (TdN 885). Ora, come sempre, la citazione di Céline non è corretta completamente, necessita di essere esplicitata: nel romanzo di Balzac la pelle dello zigrino è una sorta di amuleto magico che il protagonista (Rafael de Valetin) ottiene da un usuraio, la pelle ha una particolarità: è costruita a misura della vita del suo possessore, a ogni desiderio, che magicamente viene esaudito, essa si ritira fino a svanire, decretando la morte del suo possessore. Valetin, dopo una vita dissoluta, si accorge che la pelle dello zigrino è ormai poco più di niente e cerca di rimandare la morte, vietandosi qualsiasi desiderio, ma infine le parche avranno ragione di lui… La pelle dello zigrino è ristretta: Céline scrive sapendo, oscuramente di certo, ma sapendo che questo sarà il suo ultimo romanzo; e così, proprio come in una recita, si mostra infine nelle ultime pagine al centro del palco da solo, i rumori della storia sono passati, tutto è consumato, anche il suo amuleto, e lui ci guarda oramai vecchio e stanco, sta per farci l’ultima confessione – «ho scritto tutto per…» – in cui forse ci racconterà quello che ha nel cuore, il suo ultimo pensiero, il motivo per cui ha scritto questo romanzo, ma invece con un movimento, da clown quale ha voluto farci credere di essere, ci chiede un applauso. È il suo ultimo desiderio, quello finale, che infine al braccato, all’impostore, al traditore venga concesso il giusto applauso. Noi sappiamo, e Céline lo sa perché è conoscitore di Balzac, che con questo ultimo desiderio, la pelle dello zigrino si consumerà e all’autore non resterà che confondersi con “quelle profondità spumose che più niente esiste” (TdN 898).

In Appunti di Lettura

Céline, Trilogia del Nord, postille 14-15

di Demetrio Paolin

14. «Il resto è blablà» (TdN 771). Sarebbe scontato sostenere la centralità della presenza dell’Amleto nella Trilogia del Nord partendo da un dato puramente vettoriale/geografico: il Nord a cui i protagonisti tendono è, appunto, la Danimarca, terra del principe pallido. Nella realtà la presenza di Amleto lungo i tre volumi della “cronaca” è molto più ampia, di cui è memoria proprio questa citazione, che troviamo in Ridogon, e che sono le ultime parole pronunciate da Amleto prima della sia uscita di scena: «Il resto è silenzio». Come abbiamo notato (vd 12), quando ci troviamo in presenza di citazioni più o meno esplicite nella Trilogia, le scelte di Céline non sono mai neutre, e per tale ragione proviamo ad analizzarla da vicino.

La citazione di Céline, così come riportata nella Trilogia, è presente almeno in altre due occorrenze: in Bagatelle per un massacro e in una lettera cui riflette sui suoi ascendenti letterari (Lettere agli editori Quodlibet). Tali evidenze sono sufficienti per sgombrare il campo da qualsiasi idea di mero decorativismo o di semplice calembour, e per segnalare – invece – un percorso all’interno della riflessione céliniana. È indubbio, comunque, che la citazione, pur facilmente “rintracciabile” alla sua origine (nessun lettore, neanche il meno avvezzo all’opera di Shakespeare faticherebbe a riconoscere la battuta del principe danese), abbia negli esiti della Trilogia tutt’altra cadenza.

In Amleto la frase ha una portata gnomica, morale, si staglia nell’ambito del dettato del testo con la sua grandezza ultima: sono le parole finali con cui l’eroe si congeda, esse rappresentano supremamente l’ambiguità di sentimenti, di visione, che il protagonista ha nei confronti dell’esistenza; rappresentano uno sguardo sul mondo da cui nessuno fa ritorno; sono – a volerla guardare con attenzione – una sorta di summa delle aporie attraverso le quali è costruito il personaggio di Amleto; inoltre è una frase, che interroga anche il lettore o lo spettatore della tragedia: cosa è per lui “silenzio” e cosa si intende per “resto” (è questo un enunciato sommamente polisemico che si apre a diverse se non opposte riflessioni).

Ad una prima lettura la battuta shaschespiriana nella Trilogia si configura come una riduzione; tutta la carica morale, filosofica viene disintegrata da Céline nella sua riscrittura della frase; c’è di più. La citazione ci pare contraddica ciò che il principe di Danimarca morendo sostiene, il “resto” non è silenzio, ma anzi è un fragore, un rumore bianco di fondo, che continua e istupidisce tutta l’esistenza: il blablà a cui fa riferimento Céline è il continuo borbottio a cui lui stesso ci ha abituato e nella sua prosa e nelle sue interviste (sarebbe interessante vedere e costruire una sorta di parallelo tra il modo in cui lo scrittore francese compone le sue frasi e il modo in cui parla durante le interviste).

Eppure questo blablà potrebbe ricordare e rimandare alle molte onomatopee presenti nel libro, potrebbe essere, quindi, spia di quel linguaggio pre-grammaticale, di cui le pagine della Trilogia abbondano a volte come ironica rivisitazione dei comics  e altre – il più delle – volte come tentativo provare a descrivere ciò che è accaduto durante i terribili bombardamenti degli alleati, di cui Céline è stato testimone.

Quindi a guardarla con più attenzione la citazione céliniana dell’Amleto è meno lineare di quel sembri a prima lettura. Per spiegarla, mi concedo, una piccola digressione: ho sempre creduto che una delle funzioni essenziali del romanzo sia la parodia; con essa non intendo individuare un semplice rovesciamento di un concetto, di un’idea o di una immagine. Tale stravolgimento produce non impoverimento del sapere, ma anzi una sua nuova e più complessa forma: l’esempio più lampante di tale ipotesi è appunto il Chisciotte di Cervantes, il quale è di certo parodia dei poemi e dei romanzi cavallereschi rinascimentali e tardo rinascimentali, ma non è solo questo. L’esito parodico della Trilogia ormai un dato acquisito di queste nostre postille: un’odissea senza ritorno, un romanzo che si frantuma in cronaca, una lingua che perde per la sua grammatica; e quindi ciò che accade nel macro si riverbera anche nel micro.

Abbiamo visto come la citazione céliniana, nei confronti di Nietzsche, di Cervantes, di Balzac, rappresenti una sorta di setaccio tra le rovine: il mondo “letterario” è esploso e lo scrittore si aggira per questa biblioteca disfatta e trova lungo il suo cammino dei resti, dei rimasugli, delle cianfrusaglie che rappresentano ciò che resta dell’archivio del nostro sapere. In questo orizzonte si comprende meglio il significato e l’utilizzo della citazione: essa è il “resto” di quella grande tragedia. Ciò che rimane di quel caposaldo del nostro sapere sono alcune parole, che lo scrittore non può neppure riprodurre in maniera esatta; la grande letteratura, il grande sistema culturale, che ha formato l’uomo, che ha definito l’umano nella sua essenza, Umanesimo, Rinascimento, Barocco etc etc tutto ciò che eravamo abituati a concepire come orizzonte del nostro vivere, dopo la guerra, dopo la distruzione totale avvenuta tra la prima e seconda guerra mondiale, si è ridotto a una vuota lallazione. Letta in questa prospettiva, la citazione proprio nel suo proporsi come antifrasi – silenzio vs parlottio – rispetto all’originale, in realtà non fa che confermarne l’assunto.

La tragedia di Shakespeare è il ritratto di un personaggio e di un mondo che non riconosce più in sé stesso, di un momento di passaggio, tra il vecchio e il nuovo, tra qualcosa che è noto, ma ormai morto, e qualcosa che deve venire ed è rappresentato come sconosciuto: questo bifrontismo è caratteristico di Amleto, ma lo stesso Céline, o meglio l’io narrante della Trilogia, si trova ad agire in una situazione molto simile, il mondo in cui lui aveva vissuto era andato in frantumi, era saltato via del tutto, e se annunciava un altro che stentava a comprendere (forse l’antimodernismo di Céline sta appunto in questa mancata comprensione). Il “silenzio” di Shakespeare e il “blablà” di Céline sono simili indicano le macerie di un mondo che non c’è e lo spavento rispetto a ciò che sarà.

Non è, però, questa l’unica occorrenza dell’Amleto in Trilogia, soprattutto in Da un castello all’altro, il principe danese viene evocato alcune volte: «Yorick! Niente alas» (TdN 92); «ah not to be! Be» (TdN 168); «l’Amleto lui l’aveva facile a filosofare su dei crani» (TdN 273). Come si vede le diverse riprese del testo di Shakespeare vengono trattate allo stesso modo, confermando – per sommi capi – il modo di lavorare sul materiale letterario di Céline; egli conosce l’opera di Shakespeare e la riscrive la modifica, come vediamo nella citazione a p.168, nella quale Céline riprende i termini del famoso monologo e li inverte; basta questa semplice operazione, per mantenere da un lato la memorabilità della sentenza, ma calcando ancora più la mano su dato negativo, nichilistico, puntando, quindi, all’attenzione sul “non essere” rispetto all’ “essere. È interessante notare poi che l’ultima occorrenza sia posta all’interno della scena del funerale di Bichelonne (TdN 270 e seguenti). La descrizione delle cerimonia funebre del ministro collaborazionista ha profonda portata comica e parodica, dove il tono basso e corporale della prosa céliniana ricorda il linguaggio scatologico con cui i becchini dell’Amleto discutono dei morti; ecco come Céline vede il morto: «Bichelonne è in scatola» (TdN 272); Céline poi continua: «è proprio Bichelonne sta bara?… nessuna fiduca coi Tedeschi… sai mai… comunque una bella bara!, ha più conti da rendere a nessuno, Bichelonne!». (TdN 273). Notiamo un passaggio interessante: nella prima citazione il morto è ancora separato dal suo contenitore, nella seconda contenitore (bara) e contenuto (Bichelonne) sono divenuti una cosa sola. L’uomo si riduce alla sua bella bara, non è neppure importante che sia realmente lì dentro. È questo un procedimento tipico di Céline che trasforma ogni cosa in paesaggio, in scenografia, uomini, prati, colline, strade, città tutto diventa una sorta di sfondo in cui l’io narrante si muove, ciò che viene rappresentato come sempre vivo e vivente è ciò che è pare più estraneo o lontano dall’umano (gli animali e i bambini “svedesi” come vedremo in una delle future postille). Ritornando al funerlae, esso avviene in una atmosfera comica; la delegazione, che ha viaggiato per portare l’ultimo saluto al ministro, si trova nel bel mezzo del niente, tra la tormenta di neve, il freddo terribile e una banda militare che per fare gli onori suona la Marsigliese. La scena dei becchini, che è forse una delle scene più emblematiche riproposte e riscritte dell’Amleto, contiene al suo interno la rappresentazione profondamente creaturale dell’uomo: il becchino, con una sorta di ironia dissacratoria, di chi è abituato a maneggiare la morte (i cadaveri, le tibie, i teschi) mostra a Amleto ciò che prima o poi ogni uomo sarà; questo atteggiamento dissacratore e nel contempo pietoso, la cui genealogia letteraria Céline non esplicita mai, ma che secondo me è appunto legata alla scena di Amleto, è presente in ogni pagina della Trilogia, tanto che ad un certo punto Céline esclama, siamo verso la fine di Rigodon: «oh sì più niente conta, se non la canzonatura e il cimitero» (TdN 849); canzonatura e cimitero potrebbero essere le due parole lungo le quali si muove non solo l’episodio dei becchini, ma l’intera parabola di Amleto, e tra canzonatura e cimitero vive anche Céline della Trilogia in particolare di Rigodon. L’io narrante non rivendica mai per sé il ruolo di protagonista di una tragedia, non sarebbe nelle corde della sua scrittura, ma fa in modo che il lettore comprenda questa vicinanza con il principe danese, ad esempio quando esclama: «dovunque io arrivo, tutto diventa marcio» (TdN 852), a sigillare appunto quella corrisponde con il principe di Danimarca, dove sappiamo c’è del marcio.

15. Oltre a questo dato testuale, non certo marginale, c’è altro mi spinge a guardare all’Amleto come una delle “fonti” nascoste della Trilogia o almeno come uno dei testi con cui Céline dialoga maggiormente. Per farlo vorrei provare a seguire una suggestione legata alle descrizioni delle città in rovina, che troviamo nella Trilogia; ora non è possibile in queste postille soffermarsi su ogni dato testuale legato alla categoria “distruzione”, “rovina”, “bombardamento” etc etc, ma si potrebbe notare come il paesaggio delle città distrutte in Trilogia sia quasi sempre vicino a una idea di “rappresentazione teatrale”, quasi i personaggi si muovessero tra «il teatro e le quinte» (TdN 887). L’impressione più forte del paesaggio come “messa-in-scena” lo abbiamo quando i protagonisti entrano nella città di Berlino: «fra poco non ci saranno più marciapiedi, troppi mucchi, troppo alti, troppo larghi, piramidi… ve l’ho già detto, le facciate che restano, sbolgiano, sventolano, cedono, si scrostano al vento… […] fra poco resterà più niente delle case… altro che rovine e crateri» (TdN 336).

L’immagine che domina qui, quella che ci viene fornita come lettori, è appunto di una quinta teatrale, come se dietro non ci fosse niente, un vuoto totale, lo stesso che Céline ci presenta qualche pagina prima: «niente! Il vuoto… oh, un vuoto di ben sette piani» (TdN 333). Berlino non è più una città, ma semplicemente uno scenario: «ma io conosco lo scenario delle facciate, credo che una strada esiste, esiste più… tutto il suo interno, travi, mattoni, scale, gli spenzola dalle finestre… o si trova a mucchi davanti alle porte… se vedi di lontano, una certa altezza di mattoni, è questo tutto il ricordo dell’edificio…» (TdN 330). Non esistono più edifici, ma ricordi di essi, come se le abitazioni fossero esseri umani morti; e così le squadre impegnate nella raccolta delle macerie portano alla memoria di Céline i beccamorti, così il passaggio dai becchini alla tragedia di Shakespeare è nella logica della narrazione: «…ste squadre di vecchi beccamorti lavorano per l’avvenire! Amleto era poco meno che una matricola… dialettico e viziato avesse attaccato il Castello, demolirlo pietra su pietra… gli avrebbe fatto un bene boia! Avrebbe sgranato meno alas…» (TdN 336).

C’è quindi un rapporto tra le rovine delle città distrutte dai bombardamenti e la tragedia di Shakespeare, un rapporto che potrebbe fare vedere la Trilogia come il romanzo, o la narrazione, che più di ogni altro è riuscita a mostrare le macerie che le due guerre mondiali hanno prodotto. L’Amleto è un’opera enigmatica, che ha come paradosso quello di essere irresistibile e inafferrabile (devo questi due aggettivi alla lettura di In cerca di Amleto di Pietro Biotani, edito da il Mulino), essa sfugge a qualsiasi classificazione e ossessiona tutti coloro che vengono in contatto con quelle parole. Amleto nella Trilogia diventa una figura simbolica, un paradigma, ma di che cosa? Amleto è l’Europa, egli come Chisciotte, come Faust, rappresenta al meglio questa idea, questo luogo geografico, questa categoria dello spirito: se Chisciotte raffigura l’orizzonte che si apre, la grandezza dello spazio e dell’avventura che abbiamo davanti, se Faust è la tentazione della grandezza, Amleto è il demone dell’ironia, dello sguardo sulla rovina delle cose, è il tentativo di comprendere il perché del continuo guastarsi del tempo, della vita, dell’incessante processo di distruzione, è la tentazione di uccidersi o di uccidere; è il segreto inesplicabile del cuore dell’uomo.

Paul Valery aveva intravisto tutto questo nel suo saggio Crisi del pensiero, nel quale immagina un Amleto (il suo, perché ogni scrittore ha il “proprio” Amleto) affacciato da una balconata ampia come l’Europa, mentre contempla migliaia di spettri. Questi spettri sono gli stessi che Céline vede nel suo cammino, uomini, donne, con cui scambia una occhiata furibonda o tenerissima; alcune volte Céline si ferma, placa la sua rabbia, che si tramuta in una tenera rievocazione, in tali frangenti la sua gentilezza è a favore degli animali e dei bambini: «tutto fu distrutto intorno a lei, tutto il quartiere, un’ondata di aerei, la casa in fiamme, lei nella sua culla, niente! Siamo tornati a prenderla per riportala al municipio in perfetto stato… mi domando che ne è stato di lei?» (TdN 880).

L’Amleto di Valery è stanco: «I suoi fantasmi sono tutti gli oggetti delle nostre controversie, i suoi rimorsi tutti i titoli della nostra gloria, è oppresso dal peso delle scoperte, delle conoscenze, incapace di rimettersi a questa attività illimitata»; così come è stanco Céline, la cui stanchezza è quella di chi non riesce più a comprendere il mondo in cui vive (forse sarebbe da leggere sotto questa lente la sua continua invettiva a proposito della minaccia gialla; quindi non tanto come dato razziale, ma come dato culturale di un uomo che ha strumenti vecchi per comprendere un mondo troppo nuovo), così proprio come l’Amleto di Valery anche quello di Céline odia e non comprende appieno la modernità e il progresso. Valery scrive che il mondo «battezza progresso la propria tendenza a una precisione fatale» e «cerca di unire i benefici della vita ai vantaggi della morte». Parole che il Céline delle ultime pagine di Rigodon scrive con più amletica forza e comicità: «come noi qui mettiamo domani, arrivato il missile, da Est da Ovest, o Nord, mi darete notizie… chi che sarà comunistissa o no?… anti?… sarete poltiglia ed è tutto! E puttana di Dio per amore o per forza! A questo l’uomo è giunto, il suo immenso progresso ecumenico, pluriatomico, tutti quanti nell’arena» (TdN 815). Alla fine di tutta questa distruzione, di questo disastro, scrive Valery, «vedremo apparire il miracolo di una società animale, un perfetto e definitivo formicaio», immagine questa che non ci può non rimandare alla dedica “Agli animali”, che apre  Rigodon e che si riverbera anche sugli altri due pannelli del trittico, sulla quale torneremo nelle prossime postille, e sulla immagine della formica: «io poi cronista mi trovo a scegliere, il genere formica». (TdN 707). Questa idea del cronista, dello spettatore che osserva il mondo e lo guarda, mentre le cose accadono, riporta alla mente alcune riflessioni del Benjamin del Dramma Barocco tedesco: «Ad appagarlo (Amleto), però, non può essere lo spettacolo che viene recitato per lui, ma solo e unicamente il suo proprio destino». L’Amleto di Shakespeare non è il protagonista di un dramma, ma è il farsi dramma, è il destino dell’uomo, dell’essere umano, i lutti, gli amori, i dolori, le gioie e la follia, che non sono più esterni, guardati da fuori, ma vissuti: in questo senso la scelta cronachistica di Céline è una scelta teatrale, perché porta sul piano della narrazione l’intenzione di mostrare e raccontare ciò che avviene vivendo; siamo davanti a un enorme e lunghissimo “a parte”, in cui l’autore ci mette a conoscenza di ciò che gli accade realmente nel momento in cui gli accade; è come se Céline avesse portato la trascendenza delle cose – la necessità, il destino, la morte, la vita, la gioia – nella immanenza della vita, come se da piccola formica, tornare all’immagine precedente, volesse comprendere l’immensità della volta celeste. Amleto rappresenta questa frattura conoscitiva, rappresenta, anzi meglio, questa possibilità gnoseologica. In un saggio bellissimo e illuminate, dal titolo Amleto o Ecuba Carl Schimtt scrive: «Don Chisciotte è uno spagnolo buon cattolico; Faust è tedesco e protestante; Amleto sta tra i due, nel mezzo della frattura che ha segnato il destino dell’Europa». Dalla/nella frattura nasce Amleto, tale frattura è quella che geograficamente Céline attraversa durante il percorso raccontato nella Trilogia. Avevamo esordito (vd 14) sostenendo che usare il vettore geografico per parlare dell’influenza che Amleto possiede sulla Trilogia fosse semplicistico, ora – però – dopo questa disanima la traiettoria spaziale che percorrono i personaggi acquista un valore nuovo: il percorso descritto nella Trilogia non rappresenta solo più una direzione, ma uno stato, anzi uno “stato d’essere”; meglio ancora l’Amleto, la sua presenza testuale, è indice di un modo di stare nel mondo, e quindi un modo di etico e politico di esistere. Céline come Amleto si trova nel mezzo della frattura che l’Europa vive, quella frattura nata appunto in Europa verso il 600 e che tra il 1914 e il 1945 è divenuta un abisso, dove «per noi tutto è pericoloso» (TdN 894).

In Appunti di Lettura

Céline, Trilogia del Nord, postille 11-13

di Demetrio Paolin

11. Se mi venisse chiesto “la Trilogia del Nord è un romanzo su Hitler?”, la mia risposta sarebbe no.

Per giustificare questa secca risposta, si potrebbe partire da un’altra interessante spia linguistica, segnalata durante la condivisione del nostro gruppo di lettura: nella Trilogia i personaggi si salutano gli uni gli altri con il semplice heil, tralasciando completamente la seconda parte del saluto, Hitler. Questa assenza nella giro della frase, come l’erronea costruzione delle negative (vd 10), non può essere derubricata a semplice riduzione del parlato. L’apparizione di Hitler in una narrazione non è mai neutra: il suo essere evocato in pagina produce un accesso di radicalità; Hitler è il male, è ciò che noi figuriamo come l’idea stessa di male. Prendiamo come esempio la sua nascita: nella poesia Annunciazione di Primo Levi essa è una sorta di contro-natività; non nasce il salvatore del mondo, ma viene annunciata la nascita di colui che distruggerà il mondo.

Hitler è il male idiota, senza senso, il male che non è altro che male; un male di questo tipo può essere preso o terribilmente sul serio (penso a un film come La caduta con la mirabile interpretazione di Bruno Ganz) o oggetto di ironia (il grande dittatore di Chaplin) o, peggio, oggetto di una narrazione parodica consapevole in Lui è tornato di Vermes o inconsapevole in Eric-Emmanuel Schmitt La parte dell’altro (libro che sconsiglio fortemente), sembra insomma che la sua figura se evocata non possa essere lasciata in disparte. Eppure la scelta di Céline, una opzione la sua prettamente narrativa, ha la sua prima spia appunto in una omissione: Hitler lentamente si fa diafano nel racconto. In Nord questa scomparsa è così palese da configurarsi come una ipotesi narrativa affascinante. Hitler nel romanzo muore due volte; già nelle prime pagine di Nord assistiamo alla notizia dell’attentato contro di lui (TdN, 311), le notizie si susseguono senza un ordine e una ragione, la maggior parte dei gerarchi crede che il capo sia morto, o meglio Hitler è morto per loro, e quindi ecco la festa, l’orgia nell’albergo e il sabba – non sfugga l’evocazione della strega ( TdN 313) – che avviene sotto il ritratto del defunto leader capovolto ( TdN 315). Se veramente Hitler è il dio dei tedeschi, questo festino – con tanto di “satanico” capovolgimento dell’immagine sacra – indica alla perfezione la funzione dissacratoria del testo di Céline. Hitler rimane una figura aerea e impalpabile nella scena della cancelleria che abbiamo già letto e commentato (vd 10). In quel caso il dottor Pretorius racconta che «Hitler aveva proprio una bella cera» (TdN 344), perché nel tripudio del “niente” (tre volte esclamato da Céline) il dottore «vede Hitler» (ibidem). Se nella prima apparizione Hitler era morto, qui è un fantasma, figura che nessuno vede, Hitler non c’è, non cammina tra le macerie, non è presente in nessuna pagina del romanzo; se non fosse un paradosso o una sovra-interpretazione potremmo dire che Hitler si annida in quel “non”, in quella negazione che Céline toglie dalla sua sintassi. Notiamo che anche in queste pagine il saluto che Pretorius urla nella piazza che lui immagina colma di gente, ma in realtà è deserta, è monco della seconda parte. Anche negli episodi ambientati presso lo Zornhof, il fantasma di Hitler non viene meno; anzi la sua assenza, la sua presenza nell’assenza, diventa sempre più fondamentale; i suoi messaggi arrivano in un modo nuovo inaspettato: «la minestra tiepida nei piatti, increspava, tremolava [per via dei bombardamenti sempre più vicini], microscopiche onde… una bombardata-squacquerata! […] non solo la minestra, i bicchieri d’acqua anche e il ritratto di Adolf… nella sua cornice dorata… si riceveva più “comunicati” ma dalla finestra e la vetreria ci si poteva ben accorgere un po’ che di giorno in giorno la faccenda si avvicinava» (TdN 493). Notiamo che in questa frase sono presenti entrambe le stravaganze linguistiche che abbiamo segnalato, da un lato non c’è Hitler, ma l’immagine di “Adolf”, e dall’altra l’assenza del “non” quando si parla dei comunicati. Il ritratto diventa, quindi, centrale nel corso della narrazione come fosse il catalizzatore di ogni rappresentazione del potere. Così lo scrittore-  nel momento presente in cui scrive il suo resoconto – si chiede cosa ne abbiano fatto gli abitanti dello Zornhof: «io mi domando dove l’hanno cacciato, dove adesso può essere sto formidabile ritratto di Adolf? I russi sono venuti a Zornhof l’hanno certamente bruciato forse è passata la cornice a Stalin? Idolatrato e bruciato a sua volta! […] ste formidabili cronici tutto oro aspettano sempre un altro Titano! Cornici consacrate» (TdN 501-502). La cornice, essa è consacrata al potere, non l’immagine contenuta.

Questo potere magico del quadro esplode nella tua totalità poche pagine più avanti; durante un pranzo nel momento in cui i bombardamenti diventano più feroci e tramite un ricorso al linguaggio pre-grammaticale Céline mischia agli heil e le detonazioni: « “Non sentite le bombe? Boum! Boum! Heil! Heil!” Viene giù dalla scranna, si mette a far il verso…“Boum! Boum! Heil! Heil!”» (TdN 505).

A pronunciare queste parole è la signora Kretzer, che impazzisce e inizia a delirare e sbraitare; secondo la donna presto ogni cosa esploderà e prima o poi la bomba colpirà tutti: «Vi scoppierà in mezzo alla pancia! Tutti!… anche a lui! Heil! Heil!» (TdN 506). Il lui, a cui fa riferimento la donna, è facilmente identificabile con Hitler e così Céline: «Lui è Adolf nel suo quadro… ce lo mostra… lei sta proprio sotto… sbatte i piedi in terra… un piede, l’altro!… danza!… pam!… pam!… e si sganassa… […] è la sua una risata da serraglio… quasi da iena» (ibidem). Ancora una volta,  Hitler è semplicemente chiamato per nome, quasi a smorzare la sua potenza, e nuovamente la sua immagine è partecipe di un atto di follia, di un nuovo sabba, di un nuovo rovesciamento e di una nuova morte: in Nord Hitler non è mai vivo è o immagine o morto o fantasma: la sua sparizione è una vera e propria estromissione dall’immaginario del romanzo stesso. Ne è un esempio l’SS Kracht che, nelle pagine del romanzo, rappresenta la quintessenza delle SS originale e non la sua parodia, che è identificata in Harras. Tra i vari dettagli che Céline ci premura di descrivere, vengono sottolineati i baffetti, che Kracht sfoggia alla maniera di Hitler. Nel corso del racconto, con il passare dei giorni, con l’avvicinarsi dei russi, con l’aumentare dei bombardamenti anche il corpo di Kracht, come quello di tutti i personaggi, subisce una metamorfosi. Durante un banchetto, Kracht «su rimette a tavola e ribeve… a collo!.. anche gli altri! Si può dire in pieno buon umore!… ah però!… i suoi baffetti “Adolf” se li strappa!… erano incollati… niente veri… teufel! Teufel!… diavolo… tutto quello che sa dire… diavolo! Diavolo!» (TdN 518). Questo brano è fondamentale, l’SS ha i baffi posticci, così come è posticcia l’immagine di Hitler nei quadri, e la rivelazione avviene nuovamente davanti a una sorta di sarabanda infernale, di sabba nel quale non difetta neppure l’evocazione del “diavolo”. È sufficiente ricordare il quadro di Hitler al contrario che avevano incontrato all’inizio di Nord e questa immagine per comprendere la sapienza narrativa, di costruzione del racconto, in Céline. La Trilogia non è un romanzo su Hitler, perché non è ciò che a Céline interessa: Hitler è un paio di baffi posticci, una serie di dipinti che presto saranno dimenticati. Eppure Céline ci dice che sta vivendo in luogo infernale: «sta Zornhof è un buco d’inferno» (TdN 519). Può esistere un inferno senza demonio, e in subordine può esistere un romanzo senza il malvagio?

Senza cadere nella teologia e nella narratologia, possiamo formulare diversamente la domanda, unendo le due istanze: quale è la funzione di Hitler in Nord? Possiamo farci guidare dalla una suggestione legata ai banchetti, alle feste, e ai sabba per sostenere che infine Hitler è “il più inquietante degli ospiti”; in una parola egli rappresenta il nichilismo, ovverosia la svalutazione di ogni valore, di ogni idea, di ogni sentimento. L’assenza di Hitler è qualcosa di più profondo, non è codardia per non mostrarsi collaborazionisti, ma è una presa d’atto che pur negando la presenza di Hitler è impossibile metterlo alla porta, così come è impossibile mettere alla porta il nichilismo (Heiddeger). La scomparsa di Hitler è guardare a ciò che è accaduto nella seconda guerra mondiale, con più profondità, è vedere l’assurdo, il niente che si nasconde dietro, grattare via quel poco di realtà che la guerra ha lasciato integra e vedere che ciò per cui si sta combattendo è destinato all’insignificanza. Hitler è un vuoto, è la quinta del teatro che crolla, mostrando che non esiste profondità, tutto si muove sulla superficie, persone, cose, azioni, storie, delitti, bellezze e meschinità e dolcezze, tutto è come se fosse una schiuma, un vapore o una bolla che fragilmente resiste.

C’è, quindi, infine un legame tra la sparizione di Hitler dal saluto dei vari protagonisti, il giro di frasi che descrivono i suoi quadri e il “non” che cade nella frasi negative? La risposta è affermativa: sta appunto nel trionfo del nichilismo, e per corroborare questa mia tesi,  vorrei provare ad allargare il discorso ponendo la Trilogia del Nord  accanto ad alcune pubblicazioni, che hanno come nodo centrale la Seconda Guerra Mondiale. Scelgo, e so che la scelta scopre in parte la mia ipotesi critica, di citare alcuni titoli di libri usciti tra 1945-1947 in Europa, eccoli: Se questo è un uomo, La specie umana, Uomini e no, La lettera sull’umanismo, L’esistenzialismo è un umanismo. Levi, Alteme, Vittorini, Heiddeger, Sartre mettono al centro della loro riflessione – sin da titolo –  l’uomo, l’umano, l’umanità dopo il grande disastro della seconda guerra mondiale; c’è in loro – in maniera differente è ovvio, Sarte e Heiddeger, non stanno sullo stesso versante quantomeno filosofico – una preoccupazione su ciò che sarà l’uomo ora che tutto è finito. Céline non è partecipe di questa preoccupazione, non sceglie questo tropo letterario, non si chiede “Che cosa sarà l’uomo?”, ma si domanda “Che cosa non è più uomo?”. Per rispondere a questa domanda Céline sceglie la strada più complessa, invece di addossare ogni tipo di “negatività” a Hitler, alla sua rappresentazione, lo toglie dalla narrazione, così facendo ci costringe a fare i conti con noi stessi, situa ognuno di noi in quel cono d’ombra di male. Ricordiamoci la domanda con cui il narratore conclude l’episodio delle fotografie, nella quale si chiede “Ma quando siamo diventati mostri?”. La mostruosità, quindi, è il “non” che tolto dalla sintassi rientra prepotentemente nella descrizione, è lo stravolgimento. L’intuizione céliniana è interessante, perché anticipa la data della bancarotta dell’umano. Per molti, ad esempio per gli scrittori di cui abbiamo citato i titoli, le date individuate per questo fenomeno sono 1939/1945: in quel lasso di tempo l’uomo perde il suo essere uomo e da questa condizione nasce la necessità di ripensarlo; Céline in Trilogia torna spesso su di un’altra data: «La ragione è morta nel ‘14, nel novembre ‘14… dopo è finito tutto, tutto scazza» (TdN 443). Quello choc percettivo che avevamo individuato come una delle caratteristiche della sintassi di Céline è segnale più profondo: è la Prima Guerra mondiale che distrugge l’uomo, che fa a pezzi l’uomo ottocentesco, che quello che ancora Céline si sente di essere ed è quello di cui i libri prima citati celebrano il funerale. È una rottura diversa, precedente a Hitler, che lo tiene dentro, ma non lo assolutizza, che permette paradossalmente di toglierlo di mezzo senza per questo rendere meno radicale il male subito e raccontato. C’è una apparizione, infine, in cui si coagulano tutte queste tensioni, pagine che mettono in scena questa tensione grottesca (vd 13 ): la descrizione del vecchio conte che decide di indossare la sua alta uniforme, di farsi sellare il suo cavallo e di andare a Berlino per combattere i russi.

11.1 In Nord Nietzsche torna con una citazione: «Tutto finirà con la canaglia», la frase rimanda a un capitolo di Così parlò Zarathustra. La citazione nicciana, che è immediatamente successiva alla duplice scena dei banchetti: sia quello della donna che impazzisce e profetizza la morte di Hitler e sia quella dell’SS con i baffetti posticci, può far supporre che “la canaglia” sia Hitler, e che il discorso di Céline sia ancora più sorprendente di quanto immaginiamo: Céline utilizza Nietzsche, che a sua volta era stato stravolto dal nazismo, per sostenere che ogni cosa, la guerra, i bombardamenti etc etc, finirà con la morte della canaglia.

Questa può essere una possibile interpretazione, ma la frase potrebbe essere letta anche in un altro modo; non sarebbe erroneo pensare che “tutto finirà con la canaglia” possa significare che infine ciò che rimane, ciò che resta alla fine di tutto, è la canaglia. Lavorando su entrambe le ipotesi, mi imbatto nella possibilità di tradurre la parola canaglia diversamente, ad esempio Anna Maria Carpi la traduce con “plebaglia”, quindi – nel cercare di capire qualcosa in più – leggo alcuni saggi in cui si parla della ricezione di Nietzsche in Francia fino al 1914 (nuovamente questa data) e mi sottolineo una riflessione che mette in evidenza come “canaglia” fosse sentita, da una parte dagli intellettuali francesi, come una immagine che rappresentava “la desolante classe media” (Vincenza Petyx, Il viaggio di Nietzsche in Francia). La canaglia della Trilogia, quindi, potrebbe essere la borghesia, quella rabbiosa repressa del dopo prima guerra mondiale, la quale vive su di sé la disvalutazione dei valori, il nulla, il niente, diventando uno dei terreni di coltura del nascente nazismo.

Il Céline anti-borghese, critico della modernità, il profeta di sventura, ritorna qui prepotente, ma la frase è, comunque, ambigua. Potremmo provare a costruirne una sintesi: se Hitler è la canaglia in cui tutto finisce, e se Hitler è la raffigurazione del nichilismo (vd. 11), in cui ognuno di noi si specchia – “come siamo diventati mostri?” -, la frase potrebbe spingere a chiederci quanto di Hitler ci sia in ognuno di noi? Quanto di quel  sostrato culturale, antropologico, storico, filosofico si annida nei nostri cuori? Quanto della nostra formalità, del nostro decoro, del nostro ben pensare ha a che fare in realtà con la “canaglia”?

Ancora una volta il romanzo porta al centro il discorso identitario, comprendere cosa noi siamo, chiederci la nostra identità: ogni romanzo è una storia di fantasmi e attraverso i quali noi guardiamo noi stessi, scopriamo qualcosa di noi che avremmo voluto sinceramente non vedere. Tale svelamento è tremendo in Céline, perché utilizza uno specchio, che produce una immagine che nessuno sostiene: è uno specchio che all’altezza dei nostro viso ha disegnate due lineette nere, due baffetti, e che ci mostra come ognuno di noi possa essere Hitler, come ognuno di noi sia canaglia.

12. La postilla su Nietzsche e la citazione mi porta a fare una brevissima riflessione sulla inter-testualità in Céline, come ogni romanzo, anche la Trilogia vive di una duplice tensione inter-testuale, interna verso le proprie opere (molti sono i riferimenti di Céline alle sua opere precedenti) e esterna. Quest’ultima mi pare interessante, perché Céline non ragiona per citazioni, che siano essere letterali o parodistiche, ma spesso mostra dei “rimasugli” come ad esempio nella citazione dallo Zarathustra, dove ad esempio appena una parola di quel testo è transitata nel romanzo, ma con effetti detonanti per l’intera rappresentazione. Ho l’impressione che lavorare sulla inter-testualità nella Trilogia sia simile al lavoro che fanno i vecchi e i bambini nella Berlino, che i tre personaggi del romanzo si trovano ad attraversare: Céline descrive delle persone alle prese con una attività sfiancante e particolare ovvero fare delle piccole montagnole di macerie in corrispondenza della casa, villa, negozio, palazzo che fu, prima che il bombardamento sventrasse tutto.

Qualcosa del genere accade durante la lettura della Trilogia: abbiamo visto e vederemo più avanti, come moltissimi siano gli autori citati, moltissimi libri che hanno interferito con la narrazione dell’opera di Céline: penso a Cervantes, penso alle opere di Hugo, penso all’Amleto o a certi passaggi di De Sade, ma nessuno di questi è citato in maniera aperta o facile, ma per allusioni, per pezzi, per macerie, come se non solo il mondo, ma anche il romanzo fosse andato in frantumi. Tocca, quindi,  a chi legge o al critico che ci ragiona fare i mucchietti e  scoprirne il senso, posto che ci sia.

13. La scena del cavaliere domina alcune pagine di Nord (558-562), sono pagine bellissime, piene di ambiguità e di grandezza. L’uomo ha ottanta anni, viene descritto nella sua vecchiaia con le sue debolezze e perversioni, è figura di un tempo lontanissimo e perduto, un uomo che ha smemorato come la ragione sia morta nel 1914, questi è ancora tutto dentro un modo di intendere la vita prettamente pre-moderno. Céline ce lo rappresenta come un cavaliere errante, una sorta di Don Chisciotte fuori tempo massimo (vd. 9). L’atteggiamento dello scrittore rispetto a questo uomo è ambiguo. Da un lato ne riconosce una certa grandezza nei discorsi che l’uomo fa, così simili per ardore, per incoerenza temporale a quelli che appunto Chisciotte fa a Sancio prima di lanciarsi nelle sue avventure: «Voi mi capite sorella! Vi abbraccio!… e in sella!… stasera, cadaveri! Ancora cadaveri, guardate il quadrante!… la chiesa!… teste!… teste!… ne vedrete passare! Tartari l’avete voluto!» (TdN 560). Dall’altro noi sappiamo che Céline pur conoscendo il Chisciotte (vd 8, 9 ) non vuole riscriverlo, perché se avesse voluto avrebbe immaginato, per queste pagine, una “spalla” per riportare l’uomo alla ragione, o quantomeno per fargli notare una certa discrasia tra la vita reale e la sua immaginazione. La sorella invece non contraddice il fratello: «Certo fratello, guarderò tutto» (ibidem).

Questo atteggiamento modifica il modo con cui guardiamo la scena, che diventa più che una parodia, una farsa, più che una rievocazione malinconia, una scena da teatro. Il vecchio viene descritto con grande solennità: «Ecco il Rittemeister, tutto equipaggiato, speroni, spalline, alamari, croce di ferro… ed elmo!.. si palpeggia se ha tutto… sì, gli manca niente!.. e le staffe!… le porta corte… e se ha abbastanza avena?… sì, due sacchette!… e lo zaino di tela!, bene!» (TdN 561). Un servo si avvicina per aiutarlo a salire, ma lui da solo «senza aiuto… una mano al pomo e hop!» (ibidem). Sembra di vedere Chisciotte che parte in una delle sue missioni (viene anche accompagnato nel suo viaggio da una sassaiola, che avviene anche nel romanzo di Cervantes) ma Céline fa un’aggiunta, minima, nuova, che modifica tutto e mostra il totale diaframma di finzione che sta nella scena: «Adesso va bene, tutto a posto!… “si gira!”…» (ibidem).

Una osservazione che modifica tutto, siamo al cinema, siamo nella pellicola di un film, il vecchio è una immagine di una immagine che fu, la sua grandezza tragica, quella che il Rittemeister avverte su di sé, è in realtà un vuoto: è una scena girata, una falsità. Tanto del suo viaggio che ha qualcosa di luciferino, muovendosi tra nuvole “nere e gialle, zolfo” non sapremo niente se lui sia veramente andato o se fosse una finta, o se fosse una pazzia a cui qualcuno ha posto fine: «nessuno ci domanda.. questo… quello… se il vecchio è veramente partito?… non una parola!… né al mahlzeit, la sera.. né più tardi.. niente…» (TdN 562). Quel “niente” che chiude il racconto e il paragrafo avvolge il cavaliere e il suo destriero, che cosa raffigura questo episodio nell’economia di Nord e della Trilogia?

Ho immaginato che fosse lo spirito del tempo, di quel tempo che non c’è più, leggendo queste pagine ho ripensato alla descrizione di Napoleone, fatta da Hegel, quando nel vederlo camminare tra la gente gli era sembrato di veder passare lo Spirito del tempo. In questo episodio c’è qualcosa di simile, lo Spirito del tempo, dell’uomo, di ciò che è stato prima del 1914 sparisce, è ingoiato nel niente che chiude ogni cosa. Ci fu un tempo in cui esistevano certe idee, certi concetti, certe idealità che poi sono state fatte a pezzi: prima sono diventate degne di una farsa,poi di un film comico, che infine spariscono nel nulla senza che nessuno domandi o chieda ragione.13.1 L’immagine del cavaliere che corre verso il niente richiama un altro episodio della Trilogia (TdN 409-412), in queste pagine abbiamo Harras che affida a Céline un lavoro letterario per «far chiaramente  conoscere […] la lunga collaborazione dei nostri due paesi in tutti i campi, filosofico, letterario, scientifico, e medico! Medico!» (TdN 410), e Harras indica un baule pieno di libri e di fogli: «troverà tutto questo qui!… in queste carte!» (ibidem).  Harras descrive il piano dell’opera a Céline e mentre parla, gli mostra l’incisione di Durer, quella raffigurante i Quattro cavalieri.  Harras, però, fa notare a Céline una cosa è accaduto qualcosa in questa incisione, una novità che non possiamo ignorare: «La Peste è divenuta piccola piccola… la Fame pure… piccola piccola!… la Morte, la Guerra, assolutamente enormi!… più le proporzioni di Durer!… è cambiato tutto!» (TdN 411). Harras è convinto che un tempo le guerre finissero perché le malattie, le epidemie e le carestie, ma soprattutto che fosse Peste a dominare su tutto, oggi non è più così: «le epidemie non attaccano più… né in Mongolia né nelle Indie!.. questa guerra ai tempi di Durer sarebbe finita dopo due anni!… questa può non finire mai!…[…] due cavalieri al posto di quattro! Miseria!» (ibidem). Il mondo di un tempo, il mondo che i quattro cavalieri rappresentavano e spaventavano è finito per sempre, forse il vecchio riassume su di sé l’immagine di Durer e nel suo allontanarsi incastonato da rovine e nubi gialle e puzza di zolfo si intravede la fine del mondo, la rivelazione dei misteri ultimi delle cose, de «la sua Apocalisse, puttana eva, cazzo!» ( TdN 412)

In Appunti di Lettura

JJ & Me

di Ramona Lacorte

Il 17 giugno 2022 ho trascorso il mio compleanno a Trieste, dove si celebrava il centenario dalla prima edizione integrale dell’Ulysses di James Joyce. Ho deciso di regalarmi i biglietti per assistere alla lectio di Mauro Covacich, costringendo il mio fidanzato ad accompagnarmi, spacciandolo per l’evento dell’anno, e accusando di scarso gusto i trentamila barbari diretti a Lignano Sabbiadoro per il concerto dei Maneskin.

Covacich, nato e cresciuto a Trieste, ha aperto il suo monologo raccontando di quando, giovane studente, trascorreva interi pomeriggi con i suoi colleghi a vagare per i vicoli della città, sulle tracce di Joyce. Quasi sempre quei pomeriggi terminavano davanti ad una birra, a parlare di letteratura, e a porsi i due grandi interrogativi che ogni aspirante scrittore si è posto almeno una volta: “Si può vivere di scrittura?” e “Ma tu, lo hai letto l’Ulisse?”

Ho sorriso commossa dietro la mia ffp2.

Ero stata appena annoverata da Covacich tra gli aspiranti scrittori..

No, penso che non si possa vivere di sola scrittura, e Si, io l’ho letto l’Ulisse. “Fa paura a tutti leggere l’Ulisse”. Sarà, ma ho avuto la fortuna di essere guidata nell’impresa da un Maestro, che un giorno ha chiesto se qualcuno avesse voglia di leggerlo o rileggerlo con lui. Siamo così partiti per quella che è stata ribattezzata l’Ulisseide. Demetrio Paolin ha formato un gruppo di perfetti sconosciuti che ogni settimana si incontrava per fare cose del tipo passare dieci giorni a interpretare correttamente l’espressione “No one is anything”.

 Ma si sa, “Nessun libro, eccetto la bibbia, riesce a trasformare un gruppo si estranei in una comunità come fa l’Ulisse di Joyce”.

Ho letto metà del libro pensando che JJ fosse una persona estremamente scaltra, di quelle intelligenze pericolose, da cui mettersi al riparo e che avesse scritto tutte quelle parole solo per ubriacarci e burlarsi di noi. Mentre il gruppo provava a trovare un senso, io continuavo a sostenere che fosse tutta una farsa e che il senso di ogni parola era attribuito dal lettore a di volta in volta, per questo non si smetteva mai di litigare. Poi ho abbandonato le resistenze e come ha detto qualcuno “ho capito che dovevo coinvolgermi in simili azzardi e accettare il disordine delle parole come le mescolanze e variabilità delle fantasie”.  JJ crea una stralingua in cui non è importante capire, ciò che conta è sentire la musicalità (d’altra parte si scrive con le orecchie) e “L’Ulisse non si legge, si esegue”.

L’abbandono definitivo è arrivato con il capitolo Circe. Alla diffidenza è subentrata la rassegnazione: JJ è totalmente matto,  un matto che ha usato con maestria il caos che regnava nella sua mente. “Prendo appunti su pezzi sparsi di carta che poi dimentico nei luoghi più improbabili, in libri, sotto soprammobili, nelle mie stesse tasche, sul retro di volantini pubblicitari”.

 Tutto quel frastuono che mi ha distrutto il sistema nervoso e costretto a prolungate pause dalla lettura, la violenza, la volgarità, le immagini deliranti di quella dimensione onirica esplodono nella figura angelica di un bambino di undici anni che “avanza silenzioso leggendo da destra a sinistra impercettibilmente, sorridendo, baciando la pagina”.

Le centinaia di note, la difficoltà di reggere alcuni capitoli in cui Joyce letteralmente sovverte lo  stereotipo di letteratura creando un genere (il suo), si susseguono sino al capitolo diciassette.

 “La giornata descritta nel romanzo è stata un fallimento per tutti, dal principio alla fine. Tutti i rapporti nel libro sono o superficiali o sfortunati”, “L’Ulisse parla di un passato disperato, di un presente ridicolo e di un futuro patetico”.

Il capitolo diciassette termina con un punto. Molto grande, in neretto, posto al di sotto del testo.

A questo segue il capitolo diciotto, il celebre monologo di Molly, la moglie di Leopold Bloom, con cui termina il romanzo.

Nell’ultimo disperato tentativo di ribellarmi a quel congegno diabolico e perfetto ho commentato: “ è  sicuramente un errore di stampa!”.

 No, sembrerebbe voluto, e che lo desiderasse ad ogni ristampa sempre più grande.

Abbiamo ragionato circa una settimana anche su questo.

“Qualcuno sostiene che rappresenti Le Colonne D’ercole”.

“NIENTEMENO!!!”, ho pensato mentre lavavo i denti, guardando la registrazione di un incontro perso.

Eppure, eppure quello sarebbe il punto esatto in cui finisce la terra e inizia l’ignoto. Il mare più impetuoso, indica il limite oltrepassato il quale non era più possibile fare ritorno.  Ho immaginato che JJ volesse dirci che in quel punto esatto finisse la terra ferma. Il Plus Ultra. Quello che è dato sapere a noi marinari. Quello che è dato sapere a Bloom. E questa idea romantica si è rafforzata in me  guardando il testo in lingua originale del Molly’s monologue. Si dice che non ci sia punteggiatura, ma come ci ha insegnato Demetrio due cose sappiamo con certezza sull’Ulisse: la prima è che la narrazione non si svolge in un solo giorno bensì in due, il 16 giugno (data in cui JJ conobbe sua moglie Nora) e il 17 giugno (per la precisione il venerdì nel quale, con Saturno in opposizione, venne al mondo la sottoscritta), la seconda è che nell’ ultimo capitolo a discapito delle dicerie esiste la punteggiatura, troviamo ben due punti.

Ho immaginato così l’ultimo colpo di genio di JJ, aggrappandomi a quei due punti dimenticati (?).

Il monologo nasce con la sua punteggiatura, è chiaramente presente, l’occhio non la vede ma l’orecchio interno la sente. Poi un giorno JJ  ha deciso di “rendere il concetto” levando tutti i segni di interpunzione dal capitolo finale. Non come gesto fine a se stesso, non per ribadire che lui era il più figo e rivoluzionario di tutti. (Niente è casuale nell’Ulisse). Io sono qui oggi, per giurarvi, che nel GUARDARE una pagina del flusso di coscienza di Molly e l’Atlantico, non noto differenza alcuna.

In Appunti di Lettura

Postille alla Trilogia del nord di Louis-Ferdinad Céline (8-10)

di Demetrio Paolin

8. Ritorno sulle postille 3 e 3.1 e la sostituzione del verbo “scrivere” con il verbo “parlare”. Proseguendo la lettura di TdN (ora sono a pagina 450 e sto leggendo Nord) posso provare a fare una riflessione più ampia rispetto a una presenza letteraria, che mi pareva inizialmente estravagante, ma che ora si è fatta più distinta e chiara.

– Ci trovi la sua vena comica, Céline!… scriva dunque come parla! Che capolavoro!

– Sono più in condizione, andiamo!… mi casca la penna!

– Ma no Cèline!… lei è in gran forma, invece!… l’età più bella!… Cervantes! …le insegno niente!

– No, Gertrut! Lei m’insegna niente!… la stessa età di Achille!… 81 anni… Don Chisciotte!

Il trucco di tutti gli editori per spronare i loro ronzini… che Cervantes era uno sbarbatello!… 81 primavere!

– È più mutilato di lei!… Céline (TdN 35)

La prima notazione è legata alla tensione tra scrivere e parlare; l’interlocutore invita Céline a scrivere come parla; certificando in parte quello che avevamo già sostenuto e che l’autore aveva ben chiarito nell’incipit della Trilogia. Non è questo l’unico passaggio di poetica centrale in questo brano, che, appunto, indica nella vena comica il centro di TdN e istituisce un parallelo tra Céline e Cervantes, una vicinanza che potrebbe essere anche biografica, se pensiamo che entrambi vissero l’esperienza del carcere e della guerra. Il Chisciotte lo sappiamo bene è un romanzo che nasce in catene, a smentire clamorosamente dell’asserzione di Marino sulle Muse che non amano le prigioni. La musa di Cervantes e quella di Céline, invece, si nutrono di quella profonda umiliazione. La comicità céliniana, che qui in parte iniziamo ad affrontare (queste postille solo un lavoro di aggregazione, di cumulo), è come quella di Cervantes, figlia di una profonda vergogna, di un profondo sentimento di perdita di sé: il nodo comico del Chisciotte e, io penso anche, di TdN sta tutto nel sentire che qualcosa si è scomposto, rotto, e non può essere in nessun modo riannodato; si sbaglierebbe a vedere nella comicità di Céline una tensione semplicemente al basso e al crasso, una comicità da buccia di banana. Meglio anche tale comicità e presente in TdN, così come tale esito del comico è presente nel Chisciotte. Molte volte, infatti, l’hidalgo cade e finisce con il cavallo “culo all’aria”, ma ad ogni “scivolata sulla buccia”,  Cervantes fa seguire narrativamente con un altro e più complesso movimento, che mostri come il racconto delle avventure di Chisciotte sia ben più ambiguo. Prendete l’episodio dei mulini a vento, il quale ad esempio non si conclude con il cavaliere disarcionato, ma con l’asserzione dell’hidalgo che certamente quelli ora sono mulini a vento, solo perché il mago –  nemico giurato di Chisciotte – li ha trasformati con un incantesimo. Così, leggendo, con maggiore attenzione il racconto, comprendiamo come Chisciotte sia perfettamente cosciente della concreta realtà (dei mulini a vento), ma la sua consapevolezza è diversa da quella che noi ci aspettiamo, e lui riesce a raggiungerla tramite un cammino di umiliazione, che è il principio stesso della comicità.

Il comico, quindi, a cui il dialogo prima riportato si riferisce, assume la connotazione di una particolare rifrazione della realtà, è uno sguardo, è il modo con cui osserviamo. Potremmo definirlo come un fatto di prospettiva, di punto di vista. Se è vero che il romanzo nasce, almeno così come Kundera sostiene nel suo l’Arte del romanzo, con l’allargarsi di un orizzonte in cui il personaggio si avventura, un ampio orizzonte in cui può guardare e vivere tutto, il comico, presente in Cervantes e in TdN, è un “impaesarsi”, un abitare il paese, nell’immaginario del personaggio. Tale evidenza chiarisce meglio la logica compositiva delle prime cento pagine della TdN, in cui Céline “costringe” il lettore ad assumere su di sé il panorama della vita del protagonista, le sue ubbie, i suoi dubbi, le sue colpe, mancanze. L’effetto del comico è, perciò, un mezzo attraverso cui il lettore può trovare il suo posto nell’orizzonte “fittizio” del reale di cui ogni romanzo, compreso TdN, è esplorazione.

Basterebbe già questo ad ascrivere TdN hai grandi romanzi “anatomici”, come lo possono essere appunto il Chisciotte, Tristram Shandy o l’Ulisse, romanzi in cui si descrive non tanto un mondo in pezzi, ma il farsi a pezzi del mondo, lo sfilacciarsi del rapporto con il reale; in realtà ci sono ben altre tensioni tra TdN e Chisciotte, proprio perché il passaggio da cui siamo partiti esprime, se vogliamo con una elegante antifrasi, una idea di poetica.  In TdN il Chisciotte ritorna nel leggere un dialogo tra Laval, Céline e Bichelonne. Il primo a parlare è Laval

– Sì!… questo d’accordo! Ma lei come lei? …comunque, ha pure un piccolo desiderio? […]

– Lei potrebbe forse, signor Presidente, farmi nominare Governatore delle Isole di Saint-Pierre e Miquelon?

[…]

– Promesso! Concesso! D’accordo! Lei prenderà nota, vero, Bichelonne? […]

– Certamente, signor Presidente!

– Ma chi le ha dato l’idea, dottore?

– Oh così, signor presidente! Le bellezze di Saint-Pierre e Miquelon (TdN, 240)

Sembra una delle tante spacconate di Céline, una delle tante uscite enfatiche di questo io che straborda da ogni parte, eppure in realtà Céline cita il Chisciotte, o quanto meno ricorda piuttosto nitidamente il capitolo VII del Chisciotte nel quale Don Chisciotte promette a Sancio di nominarlo governatore di qualche isola, anzi lo invita a non sperare niente di meno. Alla luce di questo il dialogo possiamo fare alcune riflessioni riguardanti l’io narrante di TdN. 

L’equazione pare semplice, Céline (io narrante): governatore dell’isola = Sancio : governatore dell’isola, quindi Céline (io narrante) = Sancio. TdN è un romanzo particolare, lo sentiamo durante la lettura, procede sghembo come il suo narratore, che non a caso ha bisogno di bastoni per sostenersi. La Trilogia sceglie come punto di vista non il protagonista, ma la spalla, il personaggio “minore”, questo narrativamente produce un cambio, un diverso modo di muoversi, e da questa postura nascono una serie di domande: è possibile che il narratore sia Sancio? O, meglio, che abbia la funzione che ha Sancio nel Chisciotte, senza tra l’altro il bilanciamento nella presenza del cavaliere? E, infine,  quale sarebbe la funzione di Sancio nel Chisciotte? Per rispondere a queste domande si dovrebbe iniziare sostenendo che Sancio rappresenta il buon senso comune, quindi è colui che radica Don Chisciotte nel presente e che gli ricorda sempre come ciò che lui crede di vedere non sua vero. Eppure Sancio, infine, è sempre vicino al cavaliere della triste figura, non lo abbandona mai, fino alla fine della sua esistenza. Perché Sancio è così vicino a Chisciotte, perché gli crede quando gli promette la sua isola, perché lo segue? 

La risposta ai nostri interrogativi possiamo trovarla in Kafka e nel suo apologo La verità su Sancio Panza. In questo breve racconto Kafka sostiene che Sancio abbia ingannato il suo diavolo, il suo demone, facendogli leggere un mucchio di romanzi cavallereschi. Il diavolo che avrebbe dovuto avere ragione su Sancio «inscenò, scrive Kafka, le imprese più folli» che «non danneggiarono nessuno».  Per questo motivo Sancio «uomo libero, forse mosso da un certo senso di responsabilità, seguì l’imperturbabile destino di Don Chisciotte». In questa fatalità in questo seguire il demone che ha lui stesso creato c’è qualcosa di coincidente all’io narrante della TdN, al suo protagonista, che paradossalmente è causa, destino e scioglimento della sua storia. Céline come Sancio cammina tra i demoni, alcuni che ha suscitato e altri che ha conosciuto, e il suo compito e dialogare con loro, mostrarne la follia. 

Prendiamo un passo da Nord che in un certo senso segna l’apice di questa ricognizione su una possibile vicinanza tra Céline e Cervantes. Siamo a Berlino, la città è una serie di ordinatissime macerie (anche su questo ci torneremo in una delle future postille), e affacciandosi da uno finestra dello Zenit, l’albergo inquietante, dove hanno trovato alloggio, Céline, Lily, Lavigan e Bebert vedono uno strano balcone fiorito, una visione aerea di leggerezza: «La casa di fronte, come sospeso tra i pilastri dell’edificio… ad amaca… i piani sopra e sotto non esistono più… spazzati via!… per di più sti piano fa vetrina… vetrina di fioraio… fioraio, negozio pensile… rose, ortensie clematidi, sospeso tra i pilastri ad amaca… più niente esiste di sta casa se non questo aereo ammezzato» (TdN 340). Questa visione, quasi fiabesca, leggera, colorata (i nomi dei fiori ci portano alla mente i loro colori che si oppongono al grigio delle macerie), accende in tutti il desiderio di vedere quel balcone – non è questo in motore dell’avventura donchisciottesca? La visione di qualcosa che stride con la realtà che lo circonda? È più strano vedere dei giganti nell’assolata pianura della Mancia o una visione floreale paradisiaca nell’inferno di una città distrutta della guerra? La compagnia parte in avanscoperta e scopre come il negozio in realtà non sia altro che l’ufficio di un avvocato (non giganti ma mulini). La scena, però, non si conclude, e ha il suo vero culmine poche pagine dopo. Ecco che veniamo a fare la conoscenza di Pretorius, l’avvocato, personaggio strano, ambiguo, forse una spia o – peggio – in combutta con Ivan, che in realtà si chiama Petrov (notate come nessuno in questo spezzone di romanzo ha una ferma e precisa identità, vd. 9), per racimolare in qualche modo carne di dubbia provenienza, come quella che viene data a Bebert. 

Questo avvocato porta Céline e gli altri alla piazza della Cancelleria (TdN 343-344). La Berlino di Céline è una città spettrale, e l’aggettivo è da intendersi in senso letterale ovvero siamo di fronte a una città abitata da fantasmi. E infatti in una piazza completamente vuota – «siamo solo noi nella piazzetta» – Pretorius vede Hitler e lo vede sfilare con ali di folla intorno, ma in realtà non c’è nessuno. A fare da contraltare alle farneticazioni di Pretorius è appunto Céline/Sancio che oppone sua la sua visione concreta. Il protagonista continua a dire «vediamo niente, si sente niente noi», mentre l’uomo grida «heil!». Pretorius si tira sulle punte per vedere meglio, tanto che Céline sbotta: «c’è niente… niente, posso dire: niente!… ci prende per il culo! […] tutte le botteghe attorno chiuse… lui vede l’Hitler». Quando tutto è finito, Petroius continua a parlare con Céline e gli altri come se la sua visione fosse reale che «Hitler aveva proprio una buona cera… che la folla era così felice». Di fronte a questa lucida follia la scelta degli accompagnatori è di assecondarlo quasi fossero tutti Sanco Panza – «noi ben volentieri diciamo come lui».

Forse la TdN è la possibilità di scrivere il Chisciotte dopo la seconda guerra mondiale, sono gli stralci del lavoro che ha tentato di fare Pierre Menard, ma che non c’è riuscito. Nel racconto di Borges, dove assistiamo al tentativo di immaginare l’immaginaria vita di un immaginario scrittore che immagina di poter scrivere nuovamente il Chisciotte, parola per parola, simile all’originale eppur diverso, compare infine anche Céline insieme a Joyce, entrambi eletti a nuovi autori di quel libro memorabile che l’Imitazione di Cristo. Forse nell’intuizione di Borges c’è il riconoscimento della natura donchisciottesca della TdN, un’opera in cui assistiamo alla rottura nevrotica dell’uomo rispetto alla realtà: nella riscrittura moderna, così come aveva compreso Kafka, la nevrosi moderna fa a meno di Don Chisciotte, del demone solitario, che in queste pagine viene sostituito da una congerie di folli, di saltimbanchi, e pazzi. La Trilogia è, quindi, una dichiarazione d’amore (vd. 6) e di resa nei confronti del romanzo ottocentesco: la letteratura non è più per i protagonisti, ma è ormai sulle spalle dei comprimari, di quelli che s’arrangiano, che tentano di sopravvivere, che sanno la bugia, la smascherano, ma rimangono al loro posto, di coloro i quali hanno nutrito i loro stessi demoni, e li hanno portati ad impazzire e ora “con grande e utile diletto e fino alle fine” (Kafka) li seguono nelle loro scorrerie.

9. A un certo punto di Nord Harras, l’alto funzionario delle SS, dove i fuggiaschi hanno trovato riparo, chiede a Céline i documenti per poter fare le fotocopie necessarie i loro lascia passare. Céline non si separa mai dai suoi documenti perché appunto essi rappresentano ciò che lui è, sono la prova che lui è ciò che dice di essere. A questo punto nel racconto come spesso accade in TdN, fa una sorta di prolessi apocalittica e dal 1944 arriva direttamente al momento in cui lui nel suo presente sta scrivendo e da questo suo tempo presente si immagina ciò che sarà in un probabile futuro

da dove vi scrivo, qui dal mio locale, Bellevue, in prospettiva, vedo almeno centomila case, un milone di finestre… quanti là dentro, ipocriti, ci hanno carte non loro?… sono altri da quel che pare? … che hanno assunto altre vite, altri luoghi di nascita? … che moriranno con un altro nome? Metti ancora quattro, cinque disfatte, e una veramente bella, atomica, tutti si saran fregati le carte, nessuno saprà più se stesso ( TdN 385)

Il tema dell’identità diventa centrale con l’arrivo a Berlino, come se questa città che non ha più profondità, ma solo superficie, produca nei protagonisti una crisi dell’Io, una possibile e probabile, forse anche in parte pirandelliana (Céline lo conosceva come autore di teatro, e Berlino pare un immane palcoscenico ), crasi da personaggio, persona e maschera. Non è un caso che uno dei motori narrativi di questa parte del romanzo siano appunto le fotografie. Céline, Lili e Le Vigan devono rifarsi le foto perché quelle che hanno non corrispondo più alle facce che hanno, la guerra, le privazioni li ha così cambiati che nessuno di loro assomiglia più a se stesso. 

– Harras, caro collega! Un secondo! Permette!… vuole guardare le nostre foto?

Gliele passo…

– Lei ci riconosce?

Lui le guarda… ci guarda…

– Evidente che no!… io, be’ vi riconosco… ma uno straniero, specie un “polizei” farebbe fatica. ( TdN 363)

Le foto non rimandano ai visi che la persona ha davanti a sé, ovvero in questo breve dialogo si vede come chi guarda, in questo caso Harras, non possa stabilire un nesso certo tra immagine e persona: lo sguardo esterno e estraneo di una persona fatica a dire che la faccia ritratta e quella reale di Céline siano la stessa cosa. Abbiamo notato (vd 8) come alcuni personaggi nascondano la propria identità: Ivan l’uomo che dirige l’albergo si chiama Petrov, Petronius l’avvocato è in realtà quasi certamente una spia o un ladro (ha di certo frugato nelle sacche dei tre profughi). La foto e le carte, che dovrebbero sancire la precisa identità, in realtà alludono a una identità che è perduta, di cui ne è certo simbolo Le Vigan l’attore che spesso viene evocato come «l’uomo senza identità» (TdN 349), in quanto attore, teatrante, che quindi mette in scena sempre una maschera. 

L’identità è così compromessa, così flebile nella narrazione della TdN che gli stessi protagonisti stentano a conoscere se stessi. Infatti nel rifare le foto per i nuovi lasciapassare sono costretti a vedere come nessuno di loro è più se stesso: «lo sviluppo è nello sgabuzzino… due minuti! Ecco! …pago… fuori i nostri musi!… lì, abbiamo il tempo… ci guardiamo… e riguardiamo… Lili, io La Vigue abbiamo  cambiato ghigna!… […] niente più guance!… certe bocche flosce, come di annegati… tutti e tre!… siamo proprio diventati orrendi… tre mostri… innegabile… come siamo finiti mostri?» (TdN 338)

Questo breve excursus ci porta, infine, alla duplice domanda sulla propria identità, che Céline rilancia anche a conclusione della “tirata” sulle carte, quando rivolgendosi ad una immaginaria persona chiede: «Lei è proprio lei?» (TdN 385). 

Tale domanda è la domanda di senso, che permea ogni romanzo, potremmo forse dire che è la domanda iniziale che produce ogni narrazione: torniamo ancora una volta al Chisciotte, narrazione dove si affrontano temi come l’identità, la perdita della stessa e il tentativo di trovarne una nuova e diversa, dopo che ogni cosa, come dice John Donne, è «andata in pezzi». Don Chisciotte è convinto di essere se stesso, ma in ogni momento questa sua identità è messa in discussione da altri, che sostengono che lui non è quello che lui crede di essere. Questo moltiplicarsi di specchi e di identità fittizie, credute vere e/o presunte ci porta al capitolo XXXVII della prima parte del romanzo di Cervantes, in cui il protagonista fa questa annotazione: «Esiste al mondo qualcuno che nel vederci nella situazione in cui ci troviamo, sia capace di supporre e credere che noi siamo quelli che siamo?». Questa domanda abissale nel Chisciotte si riverbera lungo i secoli e arriva intatta nella TdN, è questa la domanda per eccellenza, che il romanzo pone a noi e che noi poniamo agli autori delle storie che leggiamo: la richiesta di comprendere chi siamo, il definire il nostro stato, la nostra identità, di intravedere nelle pagine che leggiamo ciò che abbiamo compiuto, e ciò che potremo compiere, di sezionare i sentimenti che siamo. Questa domanda non prevede nessuna concreta risposta, il romanzo odia la tautologia, quella della perfetta identificazione, nella quale A = A. Ortega y Gasset scriveva appunto nelle Meditazioni sul Chisciotte che «io sono io e la mia circostanza». Il romanzo non è una tautologia – “io sono io”, non è neppure un libro sacro – “io sono colui che sono”, il romanzo è una struttura proteiforme, in cui il nostro essere noi stessi si modifica a seconda della circostanza, sia essa un’avventura lungo la Mancia assolata, o l’attraversamento di una nazione disfatta dalla guerra. A seconda del paesaggio  geografico, fisico, culturale i personaggi cambiano se stessi e noi lettori cambiamo con loro. Il lettore insegue questa possibilità di capire chi è lui e chi sono gli altri: a tutto questo si oppone la struttura stessa della narrazione romanzesca, che cambia modifica, sfugge, recalcitra nel dire, che spinge a leggere ancora e a stupirsi, a vivere nuove avventure, spinge il lettore ad essere dalla parte del mostro, ovvero del “meraviglioso” che vira verso l’eccezionale, lo stravagante, il tremendo. In TdN, infatti, la ricerca di identità è anche una ricerca di comprendere non solo chi siamo, ma perché siamo diventati ciò che siamo ovvero “mostri”, proprio come fa Céline dopo aver visto la propria faccia. Céline comprende di essere mostruoso e in questo certifica, anche verso i più dubbiosi, che l’idea della Trilogia come narrazione volta ad auto-assolversi e a proclamarsi innocente, sia completamente errata e contraddica la struttura stessa e del romanzo e del personaggio narrante, perché TdN contiene dentro di sé una narrazione e ricerca di senso di questa trasformazione. 

Come siamo diventati mostri questo chiede Céline a se stesso, a Lili e a La Vigue, e lo chiede anche a ognuno di noi: Perché siamo diventati ciò che siamo? Siamo sicuri di esserlo? Neppure scattandoci una foto potremmo riconoscerci, tanta è la mostruosità che abbiamo compiuto. 

Céline spinge la nostra empatia nei confronti dei suoi personaggi fino ad un punto in cui dimentichiamo chi sono e cosa hanno fatto, siamo con lui presso la Cancelleria mentre un pazzo urla Heil Hitler, siamo con l’SS che apre lo sportello e trova il fagotto di un bambino che dorme; siamo con i mostri e camminiamo con i fantasmi, perché noi per primi come Don Chisciotte abbiamo voluto chiederci: “Perché noi siamo quello che siamo?”.

10. Durante l’incontro del gruppo, alcuni lettori che stanno leggendo TdN in lingua originale ravvisano e fanno notare una stortura grammaticale di Céline, il quale compone in maniera ortograficamente errata tutte le frasi negative. Ovvero invece di scrivere Je ne mange pas, egli scrive Je mange pas. Nella discussione, che è seguita questa notazione, è risultato come questo uso céliniano assecondi una certa evoluzione della struttura della negazione; in linguistica si situano tre fasi: 1) inizialmente per negare una frase si mette una particella che trasformi la frase da positiva a negativa (il “ne”), quindi 2) se ne aggiunge un’altra per rinforzare il senso della narrazione (“pas”), infine 3) soprattutto nell’uso orale cade la negazione più forte (“ne”) e le sopravvive quella più debole (“pas”). Questa notazione mi interessa, perché  mi permette di fare una serie di riflessioni, partendo dall’uso particolare della forma negativa, più afferenti al campo della scrittura. Io credo che questa scelta di Céline, oltre certo ad avere una ricaduta strettamente linguistica, abbia a che fare con una precisa decisione di stile. In primo luogo l’opzione praticata da Céline conferma appunto la preferenza accordata al parlare rispetto allo scrivere ( vd. postilla 3, 3.1, 9). Mi verrebbe da dire, però, che questa è la lectio facilior, abbiamo ormai compreso come le scelte stilistiche di Céline siano dovute a questo profondo choc della guerra e allo stile che abbiamo definito farneticante (vd. postilla 7). La punteggiatura, la sua assenza, o la sua presenza particolare, i tre puntini, i punti esclamativi (vd. 6) ci fanno comprendere come in TdN ogni parola abbia una profonda realtà sonora, sia una immagine che produce un suono e il mescolarsi dei suoni sia più importante dell’ordine esatto con cui le parole vengono messe su pagina per significare qualcosa. Questa idea del suono è così presente in Céline che, sin dai suoi esordi, l’autore parlò – rispetto alla lingua dei suoi scritti –  di petite musique, una musica minuta, fatta di piccoli accordi, leggere variazioni.

Credo che, forse, il modo reale per poter comprendere Céline sia abbandonare l’ideologia, di cui è sovraccarica la critica ai suoi romanzi, e concentrarsi sul dato stilistico e letterario (che è il compito che mi sono prefisso con queste postille). La forte impressione, che si ha nella lettura, anche di chi come me conosce poco il francese, e si affida al semplice orecchio che sente leggere la Trilogia, conferma come ogni scelta linguistica di Céline sia musicale; essa è una opzione così decisiva da arrivare ad forzare l’idea stessa di composizione della frase. Provo a spiegarmi: solitamente ognuno scrive una frase per farsi comprendere, si scelgono quindi le parole in base una sorta di vicinanza, alla idea di ciò che si vuol dire. Céline ha una idea della frase completamente diversa, segue una prosodia, un suono, un ritmo, una modificazione che avviene per lievi aggiustamenti. Ovvero mentre io scrivo una frase in base a parole che si equivalgono, cioè parole che esprimono ciò che voglio dire, Céline produce frasi con parole che si combinano tra di loro, in base a ciò che vogliono suonare. La prosa di Céline è una forma di rottura sintattica e compositiva vicina alla poesia, e nel leggere alcuni passaggi tornano alle mente alcune riflessioni di Jakobson sul linguaggio poetico: «la funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione». È il modo in cui le parole di Céline si combinano sulla pagina che deve interessare la nostra attenzione. Perché, quindi, mi interessa questa slabbratura della negazione? 

La prima risposta più semplice è appunto dovuta alla scelta parlata che Céline pratica in maniera totale nella TdN, ma c’è di più . Se avesse voluto semplicemente rompere con la lingua scritta del francese,  Céline avrebbe potuto scegliere di usare la negazione “ne” e non “pas”, e perché non lo fa? Quale significato associa lo scrittore a questa combinazione delle parole?

La particella “ne” davanti al verbo lo nega, nega ciò che si compie, è qualcosa di assoluto, è imperioso, preciso, indubitabile. Indica che l’azione descritta non accade, non accadrà, e non avrebbe potuto accadere. Faccio un esempio. Domanda: “Vieni alla festa?” . Risposta. “Non vengo”. Non ci sono dubbi sulla scelta del soggetto di chiudere il discorso, di non lasciare adito a dubbi. 

Proviamo, adesso, ad usare un modo di dire tipico di forme dialettali, ma che si adatta bene alla prosa di Céline. Domanda: “Vieni alla festa?”. Risposta: “Vengo più”. Il messaggio è chiaro: il soggetto non verrà alla festa, ma c’è in questa frase rispetto alla precedente qualcosa di diverso, c’è una esitazione, un dubbio, un leggero traballare della consapevolezza, c’è l’essere in bilico, il desiderio di venire e l’impossibilità, oppure il desiderio di essere pregati di venire etc etc, si adombra infine anche un desiderio impossibile da realizzare “vengo più = avrei voluto tanto venire”, possiamo, quindi, avere durante la lettura di una frase del genere mille diverse interpretazioni; ma dal punto di vita strettamente grammaticale entrambe sono due frasi che sono negative. 

Sin dalla mia prima lettura di Trilogia del Nord, ho sempre pensato che questo testo metta in scena il dubbio, l’intermittenza (in primo luogo l’intermittenza dell’io), l’insicurezza, il fare o non fare una cosa, il compiere o meno una determinata scelta, o l’essere costretti a una precisa parabola biografica dalle circostanze (vd 9); ora questa scelta di rendere meno netta la negazione, di assorbire nella negazione il dubbio (questo “pas” è come una forma avverbiale che modifica ogni assunto verbale, lo rende meno netto, meno preciso, più sfumato), il “non so”, il “forse” e di farlo diventare una precisa e reiterata scelta stilistica è conferma di questa tensione: l’io narrante di Céline è un personaggio che non riesce neppure a negare completamente, che non riesce a sentire nessuna forma di assoluto e di trascendente, è traballante e incerto, come lo sono le macerie che gli fanno da orizzonte, come lo sono i palazzi intorno a lui mentre cammina, come lo sono i personaggi che incontra, terribili e mascalzoni, mostri in alcuni casi, ma ritratti sempre sul precipizio e pronti a cadere. Tutto questo, però, non è tanto descritto, quanto “sentito” dentro la lingua e tramite la scrittura ed è ciò che fa di Céline un grande narratore e della Trilogia del Nord uno dei testi, essenziali per comprendere il secolo XX. 

In Appunti di Lettura

Ulisse? No, grazie.

di Massimo Iovinella

Se nella tua bolla un “pazzo” mette su un gruppo per leggere non un romanzo ma Il Romanzo e cioè l’Ulisse di Joyce, allora stanne alla larga.

Se quel “pazzo” però è Demetrio Paolin, allora seguilo.

Ed è stato così dunque che, accogliendo il folle e lucidissimo invito di Demetrio Paolin, ho letto, nel centenario dalla pubblicazione, l’Ulisse.

Che non rileggerò mai più.

Ma sul cosa, e cioè sul romanzo, ci torno dopo.

Prima, un passaggio sul come e cioè circa l’esperienza della lettura di gruppo.
Se uno dei temi, o Il Tema, del romanzo di Joyce, è il nostos, posso dire che il nostos di gruppo attraverso le pagine del dublinese-triestino è stato affascinante, a volte (e per fortuna) dialetticamente burrascoso, proprio come un mare procelloso, sempre stimolante e divertente.

Il merito principale va a Demetrio Paolin che ci ha messo, come in ogni cosa che fa, dedizione, conoscenza, simpatia, pazienza. E le sue idee, sempre. Oltre a una passione assoluta per questa opera (per lui è stata la terza lettura integrale: vabbe’, ognuno ha le sue ossessioni, e non saremo noi a giudicare).


Ma anche il miglior comandante nulla può senza un valido equipaggio, e posso dire di aver avuto la fortuna di dividere il nostos attraverso la Dublino joyciana con fantastici compagni di viaggio, ciascuno portando un suo personale e interessante punto di vista su un’opera che, ontologicamente, è iperstratificata e aperta e che dunque naturalmente si presta a n letture (ok, ho messo due avverbi in mente in due righe successive, scusa Stephen! Dedalus? No, King).

In un gruppo c’è sempre poi un cazzone che straparla, e pertanto mi scuso pubblicamente con tutti, ora per allora

Veniamo dunque al cosa e cioè all’Ulisse, di cui dirò pochissimo per manifesta indegnità.

Premessa: l’ho letto nella traduzione di Celati, dunque senza note.

Il che è una follia nella follia: perché, ritornando al concetto di nostos, è come navigare sotto costa di notte, senza luna né stelle né bussola né carte nautiche, senza mai essere andato prima per mare. Praticamente un suicidio.

Che ovviamente consiglio.

Perché l’assenza di note mi ha portato a essere davvero solo davanti al testo e dunque a concentrarmi, per quanto le mie capacità mi consentivano, esclusivamente su di esso.

Facendomi perdere la quasi totalità, il che è paradossale, dei rimandi e delle citazioni e dei calchi (a volte volutamente errati); ma consentendomi di cogliere forse meglio, non dovendo procedere a soventi interruzioni della lettura per andare alle note, il grande ritmo della pagina di Joyce.


Non starò a parlare di lingua, di struttura, di personaggi, di registri o dei singoli capitoli: cosa potrei dirvi rispetto a quanto detto da Demetrio Paolin negli appunti da lui scritti e pubblicati su Lettera Zero e che vi invito a leggere? Nulla.

Un’unica menzione sul cap. XVIII o anche detto Molly: un capolavoro, incastonato in un’opera monumentale.

Apparentemente non punteggiato, è in realtà dotato di una partitura magistrale (benché appunto non riportata graficamente), e mi è risultato il capitolo di più facile lettura.

Esperienza di lettura che va ASSOLUTAMENTE fatta: se non vi va di sorbirvi i precedenti 17 capitoli, no problem, andate su Wikipedia e leggetevi il riassunto. Ma poi comprate l’Ulisse e leggetevi Molly (sembra un consiglio per gli acquisti. E lo è).

Ne è valsa la pena leggere questo romanzo?

Non lo so: è un’opera che lascia meravigliati e annichiliti per alcune pagine e passaggi di bellezza davvero iperuranica, dalle quali emerge la grandezza immortale di Joyce.

Allo stesso tempo è un testo respingente, principalmente per il fatto che Joyce esagera, continuando ad accumulare e a rimandare e a calcare oltre il necessario, generando la sensazione (almeno in me) di un dialogo in vari frangenti ripiegato all’interno tra Joyce stesso e il suo testo, come di una sfida all’ultimo sangue da cui nessuno uscirà vivo: non l’autore, non il romanzo, certamente non il lettore.

Un testo Doctor Jekyll e Mr. Hyde: corporeo e viscerale negli strati superficiali della crosta e dunque apprezzabile istintivamente da un vasto pubblico (quale lettore, anche il più debole, non riderebbe o si esalterebbe davanti ad alcune scene?); erudito e citazionista/ criptocitazionista invece più ci si avvicina al nucleo e dunque riservato a pochi (“skillati”* o comunque a coloro che accettano/ desiderano di studiarlo con un approccio da entomologo).

*skillati è termine che ho usato unicamente per far imbufalire Demetrio, perché so quanto gli piace!

Quale delle due anime prevale, in fondo? Credo questa seconda.

Ed è ciò che, a mio avviso, rende l’Ulysse il romanzo da cui tutti sono attratti e da cui moltissimi fuggono. 

Per finire, dunque, la fatidica e inevitabile domanda:

Ulisse? Sì, grazie**.

**grazie, ma è come certi posti: bellissimo per carità, ma non ci vivrei (cioè letto una volta, basta. Ma se proprio volete rileggerlo, dalla seconda volta fatelo con le note)