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Appunti di lettura su “Molloy” di Samuel Beckett #1 (pp. 558-707)

di Demetrio Paolin

[le pagine citate nel testo si riferiscono al meridiano Mondadori, Samuel Beckett Romanzi, teatro e televisione a cura di G. Frasca]

La strana fine di Molloy. Le ultime pagine della prima parte sono dominate dall’ingresso di Molloy in un bosco, in cui il protagonista – nel tentativo di andare dalla madre –  si addentra e qui il cammino di Molloy si arresta. “La selva era tutt’intorno a me e i rami, intrecciandosi a un’altezza prodigiosa, in rapporto alla mia, mi proteggevano dalla luce e dalle intemperie” (p.592). Questa selva non è oscura, altrimenti sarebbe la selva infernale, infatti lo stesso Molloy sostiene: “Dire che brancolassi in tenebre impenetrabili, no, non posso proprio” (ibidem). Nella selva regna una sorta di “ombra bluastra” (ibidem) più che sufficiente per rischiare il cammino del protagonista, proprio come un personaggio dantesco, nella selva Molloy fa una serie di incontri, diversi dice Molloy, ma ce ne racconta uno solo quello con il carbonaio (p.593) che si conclude con l’uccisione dello stesso. Pare sempre, questo è reso evidente anche nella seconda parte, che ogni incontro debba concludersi con una morte, spesso accennata, raccontata come inevitabile e banale. La selva diventa per Molloy una sorta di prigione, di luogo dal quale non può uscire: “E tanto più mi sembrava auspicabile uscire dal più presto da questa selva in quanto sarei stato fin troppo presto nell’impossibilità di uscire da ovunque mi trovassi, fosse pure un boschetto” (p.599). Il cammino di Molloy diventa faticoso, uno sprofondare all’interno della terra, della selva.  Infine “giunse il giorno in effetti in cui la selva finì e vidi la luce della pianura” (p.601), il viaggio di Molloy sembra destinato a concludersi, ma in realtà l’uomo cade, decide di abbandonarsi?, in un fossato: “Mi lasciai ruzzolare fino al fondo del fossato” (p.602); qui come in altri punti nel momento di massima debolezza, di deposizione dell’umano, dell’arrendersi dell’uomo al suo essere niente avviene una sorta di commistione, di trasformazione con l’ambiente circostante: “Mi sembrava di sentire gli uccelli, forse delle allodole. Era tanto che non li sentivo. Com’era possibile che non li avessi sentiti nella selva? Né visti. Allora non mi era sembrato strano. (ibidem). La caduta nel fossato è una sorta di nostos al grembo materno? Forse proprio il fosso, la sepoltura in vita, in regresso alle origini, sono alla base del viaggio e della fine di Molloy, Molloy deve tornare alla madre, ma la madre è la terra, è la selva che lo ha protetto come quando era nel grembo: “Avevo voglia di tornare nella selva” (p.603).

Abramo e Isacco. Dal punto di vista della lettura la seconda parte del romanzo è più usuale, Beckett usa una serie di stratagemmi, di strutture, di modi che ricordano il giallo e il noir. Moran ha un po’ i modi spicci, le malinconie e le ubbie di tanti detective privati di certe letture noir: l’indolenza, la aggressività passiva nei confronti della sua missione, la meticolosità dell’organizzazione del viaggio, lo sguardo sconfortato rispetto all’umanità che si trova a frequentare lo rendono molto simile allo stereotipo di quel tipo di personaggio. Dal punto di vista squisitamente narrativo: abbiamo Moran che deve andare a cercare Molloy.  È un lavoro come un altro, il dialogo con Gaber sembra un canovaccio che Moran conosce sa cosa dirai lui e cosa gli risponderà emissario, ma ad un tratto qualcosa di nuovo accade. “Suo figlio l’accompagnerà, disse Gaber. Tacqui. Quando le cose si fanno serie noi tacciamo” (p. 608). L’entrata in scena del figlio modifica l’intreccio del racconto. Non c’è nessun motivo particolare perché il figlio debba seguire il padre in questa avventura, pare infatti un capriccio di Gaber e del datore di lavoro di Moran. Il rapporto tra padre e figlio è un rapporto che non esiteremmo a definire sadico, il padre punisce, accusa attacca il figlio di cui spesso non sentiamo neppure la voce. Il figlio è una sorta di proiezione del padre sin da nome identico. L’aggiunta quindi di questo personaggio, quasi per capriccio, è a tutti gli effetti il romanzesco, o meglio è ciò che rende queste pagine un romanzo: non c’è nessun motivo per cui il figlio segua il padre, perché faccia parte di questa spedizione se non per il fatto che solo il questo modo l’incarico del padre può diventare un romanzo. Il romanzesco, spesso, non sempre, è proprio il gratuito accadere delle cose all’interno di una congerie di fatti logicamente uniti gli uni dagli altri. Pensiamo anche alla prima parte, al muoversi di Molloy, ci sono motivi concreti per cui egli si sposti nel tempo e nello spazio? No. Perché va all’avventura? No, non rintracciamo nessuno motivo fondamentale e/o logico. Semplicemente ci viene detto che Molloy deve andare dalla madre, così come Moran deve portare il proprio figlio con sé. Vista in questa luce anche la presenza di Gaber assume una sfumatura nuova e diversa: egli è un messaggero che porta un annuncio per la partenza della missione, è anche colui che dice a Moran che può tornare a casa (p.693). Gaber porta i messaggi di Youdi, personaggio di cui Frasca – nelle note al romanzo – ne spiega l’origine: “Dieu/Ideu/Udie” (p.1669). C’è un “Dio” che manda un suo messaggio per dire a un padre di mettersi in cammino con suo figlio; credo che sia abbastanza chiaro il riferimento all’episodio di Abramo e Isacco e all’ipotetico sacrificio di quest’ultimo. Il figlio è un Isacco perfetto, ignaro del motivo di questa avventura fuori casa, cosa di cui il padre è perfettamente consapevole: “Perché sapevo quello che ancora lui non sapeva, fra le altre cose che una simile prova gli sarebbe stata utile” (p.627). Il cammino di Moran e del ragazzo, quindi, ha una valenza diversa e avviene nel nome del padre, così come quello di Molloy è avvenuto nel nome della madre (non ho idea se parte prima → fase anale e parte seconda → fase genitale abbiano a che fare con questo diverso punto d’arrivo). Per Moran la ricerca di Molloy che dovrebbe essere la spinta al cammino è, però, spesso oscurata dai rapporti con il figlio, con le schermaglie con esso: Molloy è un pretesto. Così come Abramo si alza di prima mattina e parte con Isacco così fa Moran, egli non dubita mai di quello che deve fare, perché ciò che Gaber gli annuncia, cioè la parola Youdi, è sempre la verità. La scomparsa del figlio di Moran alla fine del libro e la solitudine del padre sono il segno della vicinanza tra l’episodio biblico e la seconda parte del romanzo. Infatti il centro dell’episodio della Genesi non è il sacrificio, ma la fede di Abramo, l’obbedienza cieca ai voleri di Dio, Isacco è un semplice oggetto della narrazione, il motivo gratuito, romanzesco, per mettere alla prova Abramo, per questo motivo infine lui è inconsapevole di ciò che sta per accadere e che solo l’angelo ferma. Allo stesso modo in Molloy tutta la consapevolezza di ciò che accade è nel padre, che come Abramo porta il peso di questa scelta.

Moran → Molloy. C’è nel romanzo una trasformazione interessante. Verrebbe da dire che ogni romanzo è romanzo di formazione ovvero prevede e ipotizza che il personaggio principale si formi, si trasformi da ciò che non è a ciò che è: è una apprendimento di consapevolezza, che alcune volte è felice (pensiamo a Renzo nei Promessi Sposi) e altre volte è infelice (il triste finale di Don Chisciotte). Anche in Molloy assistiamo a qualcosa di simile o meglio alla messa in scena di questa formazione: Moran nel corso delle pagine lentamente, senza che alcuno ne abbia contezza, si trasforma in Molloy, il problemi di deambulazione, la ricerca della bicicletta. Come se il ricercatore diventasse tutt’uno con il ricercato, l’inquisitore con l’inquisito e l’omicida con l’ucciso (forse l’omonimia tra padre e figlio potrebbe essere un indizio di tale convergenza?) questo passaggio è tale che ci conduce a sviluppare una serie di ragionamenti. Dobbiamo, secondo me, rispondere ad alcune domande legate allo statuto del racconto che abbiamo davanti, forse non abbiamo a che fare con due personaggi (due Io che parlano), ma con ben altro.

Moran = Molloy. Ricapitoliamo: nella prima parte abbiamo un personaggio, Molloy, che scrive la sua storia; ciò che ci è dato di sapere che è  arrivato nella camera di sua madre, si pensa in ambulanza, forse qualcuno l’ha raccatto nel fosso dove si conclude la narrazione della prima parte. Nella seconda parte abbiamo un personaggio, Moran, che scrive la sua storia, per ciò che sappiamo è stato inviato a cercare Molloy, la sua ricerca è infruttuosa, così viene invitato per tornare a casa e una volta rientrato si mette a scrivere. Sappiamo che lentamente Moran ha assunto alcune delle caratteristiche fisiche di Molloy, la zoppia su tutti e il suo spostarsi in bici. Non abbiamo nessun dato reale che Molloy esista, perché l’unico che potrebbe raccontarci qualcosa di lui, Moran, è stato mandato prima a casa e scrive un rapporto. Il racconto di Moran è ordinato: si sviluppa in senso cronologico (l’arrivo del messaggero, i preparativi, il viaggio, la crisi, il nuovo apparire del messaggero che intima il ritorno et et). Sappiamo che il racconto di Molloy (vd appunto precedente) possiede, invece, un doppio inizio: “Avevo cominciato dall’inizio, figuratevi, come un vecchio coglione” (p.498). Potremmo anzi supporre che esistano due racconti, il primo che Molloy consegna all’uomo della domenica, e l’altro che leggiamo noi. Quindi abbiamo un racconto che inizia dall’ “inizio”, ma che è posto in seconda battuta, e un racconto che non inizia dall’inizio, ed è la prima cosa che il lettore legge. A questo punto possiamo provare a elaborare un’ipotesi: le vicende di Moran sono antefatto di ciò che leggiamo prima (la storia di Molloy). Ciò che noi leggiamo come una testimonianza di Molloy altro non è che il racconto che, alla fine del romanzo, Moran inizia a comporre. Se così fosse, questa struttura ricorda molto da vicino la struttura della narrazione nella Recherche di Proust: le pagine conclusive dell’opera ci narrano del protagonista, che prende la decisione di scrivere il romanzo che noi abbiamo appena finito di leggere. E se quindi fosse Molloy fosse una invenzione di Moran?

Uno strano io. Molloy, come romanzo, pone in maniera radicale la difficoltà di spiegare cosa indichi “io” in narrativa. In primo luogo entrambe le parti che compongono il romanzo sono scritte in prima persona: questo dal punto di vista grammaticale è facilmente individuabile, ma rimane molto più complesso scoprire cosa si nasconda dietro questo lemma “io”. Il pronome “io” fa nascere una catena di interrogazioni: Chi è il vero io di questa storia? chi è che fa dire io a Molloy e io a Moran, essi sono due “io” diversi o sono il medesimo “io”. Possiamo provare a fare due ipotesi.

a) Part I → Molloy → io: Molloy e Part II → Moran → io: Moran.

b) Part I →Molloy → io→ Moran: Molloy e Part II→ Moran → io: Moran, che sottintende la trasformazione di Moran in Molloy, e la strana struttura ciclica della narrazione.

Durante il racconto Moran inizia a parlarci dei suoi casi, che Youdi gli ha affidato, e nel parlare di questi  li definisce “storie” (p.660) e aggiunge: “Che turba nella mia testa, che galleria di crepati. Murphy, Watt, Yerk, Mercier” (ibidem). I personaggi delle storie/casi di Moran sono tutti i personaggi delle opere precedenti di SB. Moran continua dicendo: “Storie, storie. Non ho saputo raccontarle. Nemmeno questa avrò saputo raccontare” (ibidem). Questo potrebbe portarci a un’altra riflessione: se questo io che scrive io non fosse né Moran né Molly, ma fosse SB che, tramite Molloy e di Moran, mostra il meccanismo del romanzo, nel quale un personaggio postula il fallimento dello stesso meccanismo che viene descritto. L’autore ci suggerisce come io sia un solo un pronome, che può scivolare nell’egli.

Le voci e egli. Molloy è scritto in prima persona, questa affermazione è vera tranne che per una eccezione, un periodo che chiude la prima parte, vediamolo insieme: “Mi sembrava che piovesse, ci fosse il sole, a rotazione. Un vero e proprio tempo primaverile. Avevo voglia di tornare della selva. Oh non proprio voglia, per davvero. Molloy poteva restare lì, dov’era.” (p. 603). C’è questo passaggio repentino tra la prima persona e la terza, senza nessuna segnalazione di questo movimento. Mentre leggiamo viene da chiederci: Chi pronuncia/scrive questo ultimo enunciato? Il narratore? Possiamo escluderlo, perché appunto il narratore è in prima persona. È un intervento dell’autore? Anche rileggendolo non sembra uno di quei momenti tipici dei romanzi ottocenteschi, nei quali l’autore prende la parola e discute con i lettori [in Molloy, infatti, quando  il protagonista vuole chiamare il causa il lettore, non ha problemi a farlo direttamente: “Voi mi direte che questo fa parte delle mie storie…” (p. 589)].

L’effetto di tale chiusa, quindi, è di costringerci a guardare Molloy dall’esterno e dell’alto (non dobbiamo dimenticare che in queste ultime pagine il protagonista è supino in un fosso): qualcuno dice che, infine Molloy, può restare dov’è. Di chi p questa voce che è estranea al romanzo?  L’enunciato è una sorta di ordine: Lasciamo Molloy lì dove sta, come se non lo dicesse tanto a noi lettori, quanto a colui che scrive. È una voce esterna che detta i comportamenti a colui che scrive, una voce esterna e al narratore e l’autore.

In Molloy, sia nella prima parte che nella seconda, leggiamo spesso di voci, che i personaggi dicono di sentire e di avvertire lungo il loro cammino. Leggiamone alcuni passi: “Perché io mi sono tanto sottratto, sempre, tanto sottratto ai miei suggeritori” (p.597), oppure qualche pagina dopo leggiamo: “E ogni volta che dico, Io mi dicevo questo o quell’altro, o parlo di una voce interiore che mi diceva, Molloy, e poi una bella frase più o meno chiara e semplice, o mi ritrovo a prestare a terzi parole intelligibili”(p.598). Molloy racconta di avere nella sua testa, dentro di sé o intorno a sé, questo non ci è chiaro, dei suggeritori, di avere una voce che gli parla e gli detta parole. Il tema della voce diventa ancora più presente nella seconda parte, Moran ci suggerisce: “Se vi piace, è una voce abbastanza ambigua e non sempre facile da seguire, nei suoi ragionamenti e decreti. Come che sia la seguo, più o meno, la seguo in questo senso, che la comprendo, e in quest’altro senso, che le obbedisco” (p.654) e infine aggiunge: “Ho parlato di una voce che mi dava delle istruzioni, o meglio dei consigli. Fu durante quel ritorno che la udii la prima volta” (p.700). Questi due personaggi, che sono i due io che narrano, raccontano una sorta di svuotamento: non sono loro che agiscono, ma qualcuno che detta loro come comportarsi, sono passivi. Se è vero che Moran è il narratore della prima e autore della seconda parte,  che è narrata da Molloy, entrambi sono accomunati da una sorta di inoperosità. Questa voce che detta i comportamenti, che li svuota di ogni volontà propria, che è superiore a ogni sentimento umano, a ogni passione, che anzi svilisce tali passioni, è molto simile a quella che Dante descrive in Purg. XXIV: “E io a lui: «I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando»”.  Anche Dante, il Dante dello stilnovo, racconta la scrittura come una sorta di dettatura, di uno svuotamento di sé, per essere riempiti d’amore, schiavi e servi d’amore. Pensiamo solo all’incipit della famosa canzone della Vita Nova “Amor che ne la mente mi ragiona” che potremmo parafrasare come una sorta di possessione in cui è Amore che ragiona e ha preso possesso della mente del poeta. L’amore è uno svuotamento dell’uomo, che nel momento in cui prova Amore previene a una sorta di noluntas, come la descriveCavalcanti in uno dei suoi sonetti più famosi: “I’ vo come colui ch’è fuor di vita,/che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia fatto/di rame o di pietra o di legno,/che si conduca sol per maestria/e porti ne lo core una ferita che sia,/com’ egli è morto, aperto segno.”. La condizione di Moran e di Molloy è simile: entrambi sono “fuor di vita”, entrambi sono un uomo che non pare reale ma “fatto di rame o pietra”. C’è un qualche legame tra questa “prepotenza” descritta da Dante e Cavalcanti e l’egli che prende la parola e intima di lasciare Molloy lì dove sta e che detta e suggerisce la storia a Moran? E sopratutto chi è questo egli?

egli o Egli?. Per rispondere all’ultima domanda che ci siamo posti partiamo da una citazione di Denis De Rougemont da L’amore e l’occidente, lo scrittore francese analizzando Tristano e Isotta nota come molti degli accadimenti del romanzo siano gratuiti, siano creati dall’autore stesso: “quando non vi siano  ostacoli, se ne inventano”, perché esiste un “fenomeno che accomuna il romanziere e il lettore, […], una sorta di complicità che li leghi: la volontà che il romanzo continui, o per così dire, scatti in avanti”. Questa volontà, che desidera che il romanzo proceda, che le complicazioni si moltiplichino, che le scene si susseguano, è il demone del romanzesco, che “in fondo è tutt’uno” con il demone dell’amore cortese, “poiché il demone dell’amore cortese ispira il cuore degli amanti da cui nasce il loro soffrire, è il demone del romanzo come piace agli occidentali”. 

Tale coazione al procedere del racconto è così pervasiva che leggendo Molloy si ha l’impressione di trovarsi in una struttura narrativa simile a Tristano e Isotta. Sia chiaro non ci sono episodi comuni o simili, ma è il modo con cui si sviluppa la narrazione a sembrarci simile; infatti nel romanzo cortese le scene che si succedono, germogliano per creare complicazioni, e con esse una maggiore sofferenza, ostacolo che differisce e allontana l’amore totalizzante. Similmente in Molloy le scene si susseguono non tanto per logica narrativa, ma per semplice differimento della fine, quasi SB avesse in mente l’origine della letteratura occidentale, una letteratura che postula come origine l’infelicità, sempre De Rougemont: “Il prodigioso successo del romanzo di Tristano rivela in noi, lo si voglia o meno, una intima preferenza per l’infelicità”. I personaggi dei romanzi, proprio come in Molloy, “sono attratti dalla morte, lontani dalla vita”. Il tema dell’amore nel romanzo cortese, però, nasconde, proprio come racconta De Rougemont, qualcosa di più complesso: dietro la retorica e la narrativa d’amore c’è una vertigine religiosa, c’è la sopravvivenza di una ideologia popolare e ben più antica di quella cristiana. L’amore cortese per lo scrittore francese è una sorta di metaforizzazione di un di un Dio che “si libra al di sopra del cielo”: esso mostra “già la stessa Divinità dei grandi mistici eterodossi, il Dio che precede la Trinità di cui parlano la gnosi e maestro Eckhardt, e più precisamente ancora, il Dio ‘sopraessenziale” che secondo Bernard de Chartes risiede al di sopra dei cieli”. A spiegare questa dismisura che precede il mondo, che precede Dio stesso, ci sono le parole di Bernard De Ventadour, che avrebbero potuto essere pronunciate da un personaggio di SB: “M’ha tolto il cuore, m’ha tolto il mondo, m’ha tolto a me stesso; e infine si è sottratta anche lei, lasciandomi solo con il mio desiderio e il mio cuore assetato”.

Questo Dio che sfugge a ogni definizione è al centro di Molloy della sua inchiesta, e non perché non penso né credo che Molloy sia un romanzo teologico, ma perché è il romanzo  che si interroga sulle cose “penultime”,  come bene lo si intravede nella nella domanda 13 di Moran: “Che cazzo faceva Dio prima della creazione?” (p.697). Questa domanda è centrale per comprendere lo sguardo di SB: cosa c’è prima della creazione, cosa è il principio che genera il mondo?

egli → Egli → Nulla. Potremmo rispondere, riprendendo la riflessione sulla litote che avevamo fatto (vd appunto precedente). Il “non” è centrale per comprendere la descrizione dell’uomo in SB. L’uomo, nell’universo di Molloy, è condannato a vita assurda, pensiamo alle lunghe elucubrazioni di Molloy rispetto ai suoi sassi (pp.578-579), che riprendono certamente Il mito di Sisifo di Camus (1942), e non è causale che il riferimento all’eroe mitologico sia ripreso, quasi in un gioco di specchi, nella seconda parte da Moran: “Ma persino a Sisifo non penso che sia imposto di grattarsi,  o di gemere, o di esultare…”(p.655). L’uomo di Molloy ha perduto la speranza, ha la disperazione come orizzonte principale: “Questo alimenterebbe la sua speranza, non è così, la speranza che è la disperazione infernale per eccellenza” (ibidem). L’orizzonte assurdo in cui l’uomo vive è un orizzonte di nullità,  di nullafacenza, di non agire: “Perché non è nulla, non sapere nulla, né tanto meno non voler saper nulla, ma non poter saper nulla, sapere di non poter saper nulla, ecco dove trascorre la pace, nell’animo del ricercatore curioso” (p. 568). Oppure la negazione di Moran nel momento in cui Gaber gli intima l’ordine di tornare a casa: “Non posso camminare, dissi. Come?, disse lui. Sto male, non mi posso muovere, dissi. Non intendo una sola parola di quello che dice, disse. Gli gridai che non potevo spostarmi” (p. 692). Questa negazione dell’umano, dell’essere umano, è totalizzante tanto che alla fine del romanzo Moran dichiara: “Non sopporterò più di essere un uomo, non ci proverò più. Non accenderò più questa lampada” (p.707). L’umanità definita tramite il “non”. Mi pare interessante qui sottolineare una strana convergenza, tra due autori non facilmente accostabili, ma che secondo me è invece centrale. L’immagine di Moran come sicario o similare mi porta a mettere a fianco Molloy e I 49 racconti di Hemingway, pubblicati nel 1938, in particolare il racconto I sicari. La vicinanza tra questo racconto e Molloy è secondo me evidente, da un lato abbiamo appunto l’atmosfera noir con i due sicari, duri, sadici, strafottenti, ma che infine falliscono, che ricordano in parte il Moran del romanzo di SB, ma be più interessanti sono a mio parere le parti finali del racconto in cui compare Ole Anderson, il bersaglio dei due killer. La sua apparizione modifica profondamente il racconto, nella prima parte era stato sincopato e ansioso, la sua entrata in scena è invece all’insegna della negazione. Nel dialogo tra lui e Nick Adams il numero delle negazioni è altissimo: “- Non posso farci niente – disse Ole Anderson.//  – Le dirò che aspetto avevano. // – Non voglio sapere che aspetto avevano. […] // – Non vuole che vada a dirlo alla polizia?// – No, – disse Ole Anderson – Non servirebbe. // – Non c’è niente che possa fare?//  – No. Non c’è niente da fare”. Il mondo di Hemingway e quello di SB hanno in comune questo dominio del nulla, del niente che avvolge e costringe tutti i personaggi: il destino di ogni uomo è infine negazione.

Ora forse possiamo provare a rispondere alla domanda di Moran. Che cosa faceva  Dio prima della creazione? Dio prima della creazione faceva nulla, Dio era nel nulla, era attraversato dal nulla. La risposta migliore è, quindi, nella preghiera che Moran recita: “Padre nostro che non sei né in cielo né in terra né all’inferno, né voglio né desidero che sia santificato il Tuo nome, a Te è dato di sapere quello che ti conviene” (p. 697). Il Dio che prega Moran è un Dio indefinibile, comprensibile solo per via negativa, le parole di Moran sono molto simili a quelle del protagonista hemingwaiano di Un posto pulito e illuminato bene : “Era un niente che conosceva troppo bene. Era tutto un niente, e anche un uomo era niente. […] lui sapeva che era tutto nada y pues nada y nada y pues nada. Nada nostro che sei nel nada, nada sia il nome tuo il regno tuo nada sia la tua volontà nada in nada come in nada. Dacci questo nada il nostro nada quotidiano e nadaci il nostro nada come noi nadiamo i nostri nada e non nadarci in nada ma liberaci dal nada, pues nada. Ave niente pieno di niente”. La vicinanza tra le due preghiere è fortissima, entrambe mettono in evidenza qualcosa che precede l’uomo, la creazione e Dio stesso: il mondo, l’uomo, ciò che c’è prima dell’uomo e del mondo, quindi Dio stesso, è niente, avvolto nel niente e risolto nel niente; questa nothingness è l’egli che detta i movimenti dei personaggi di Molloy. Il mondo descritto da SB in Molloy è il mondo del nulla, il mondo che non solo è andato in frantumi, tali frantumi stanno scomparendo: non esiste più bellezza, natura, amore, sentimento, ma solo un nulla enorme che avvolge tutte le cose. Per quanto riguarda SB, Adorno parla di “nulla positivo”, il nulla delle opere beckettiane non è una semplice negazione, ma è l’esistenza di una negazione, e il comprendere che il “non essere” è comunque, che in qualche modo esiste ed è il prodotto di questa nostra vita e nostra storia. Nella lingua francese la parola “niente” può essere resa con “rien”, che mantiene al suo interno memoria della parola latina res/cosa; e quindi rien dice niente dicendo “cosa”, rien suggerisce che esiste una cosa che è niente, che il niente non si oppone all’essere, ma ne è involucro.

Si può vedere il niente, il niente è qualcosa, perciò è positivo, possibile, dicibile: la scrittura di SB per Adorno è tutta in questo sforzo: “Qualcosa che potrebbe definirsi come il tentativo di raggiungere un nulla positivo e cioè un nulla che non possa essere inteso che come negazione di qualcosa che esiste. Tutta l’indescrivibile energia di questo scrittore non fa che gravitare attorno a questo stesso punto facilmente spiegabile dicendo che il nulla non può essere pensato né immaginato se non come il nulla di qualcosa. […] non è logicamente concepibile che il nulla sia altro che il nulla di qualcosa”.

Il finale. “Allora rientrai a casa e scrissi, È mezzanotte. La pioggia batte contro i vetri. Non era mezzanotte. Non pioveva” (p. 707).  La frase suona stravagante, sembra negare qualcosa che ha poco prima affermato. C’è in questa chiusa, a parer mio, una possibile descrizione della poetica di SB. In primo luogo possiamo notare che le due frasi sembrano uguali, ma non lo sono. La prima cosa che ci colpisce è l’alternanza tra presente e imperfetto: gli enunciati affermativi sono al presente, quelli negativi sono all’imperfetto. Tale slittamento grammaticale mette in risalto la differenza, ci mette davanti a uno stridore, SB vuole mostrarcelo, così come nella fine della prima parte aveva introdotto la stortura del passaggio dalla prima alla terza persona, come ad avvertici del dato teologico che avremmo visto più  pienamente nella seconda parte.

Nella chiusa del libro l’autore vuole suggerici di guardare un evento che si conclude tutto nel linguaggio.  Moran entra in casa e scrive “è mezzanotte”/“piove”, ma ciò non significa che realmente stia piovendo e che sia realmente mezzanotte. E infatti le due frasi successive sembrano suggerire: ho scritto che “piove” e “è mezzanotte”, ma in realtà mentre scrivevo tali parole, che hanno per significato “piove” e “è mezzanotte”, non stava né piovendo né era mezzogiorno.

SB ci suggerisce che non esiste la verità in letteratura, che ciò che leggiamo è un’illusione linguistica, una combinazione di parole; il mondo è andato, è svanito, lasciando appena ombre e macerie; la letteratura non ha più la forza di produrre qualcosa di vero e di reale, ogni sforzo in questo senso è ormai vano; la letteratura non può che mostrare l’assurdo di ciò che è, e di ciò che ci pare essere; lo scollamento con la realtà è totale: io posso scrivere una cosa assolutamente logica e corretta, ma ciò non significa che sia vera o reale. La letteratura è altra rispetto al reale. Proprio a ragione di ciò Moran può entrare in casa e scrivere frasi che per quanto grammaticalmente e logicamente vere non sono per forza reali.

Esiste la realtà e esiste la realtà nel linguaggio: le due tensioni non sempre coincidono, anzi lo scrittore vive proprio nel mezzo di tali possibilità, aspettando qualcosa che non arriverà o tarderà, infine.

In Appunti di Lettura

Appunti di lettura su “Molloy” di Samuel Beckett

di Demetrio Paolin

[le pagine citate nel testo si riferiscono al meridiano Mondadori, Samuel Beckett Romanzi, teatro e televisione a cura di G. Frasca]

1. pp.497-557

Incipit/Preambolo. L’incipit di un testo è sempre problematico, l’attacco con cui lo scrittore decide di portarci dentro una storia produce il tono del racconto. L’attacco di Molloy è rapido, pare semplice, per nulla ambiguo, in una parola potremmo definirlo chiaro. “Sono nella camera di mia madre” (p.497). Prima di andare avanti con la nostra ricognizione dobbiamo ricordarci il monito di Adorno, contenuto nel saggio Schizzo per l’interpretazione dell’Innominabile, che a parer mio può essere perfettamente applicato anche a Molloy e alla scrittura e all’opera di Beckett tout court. Adorno scrive che è necessario: “leggere ogni frase dell’inizio alla fine”. Fedeli a questa ipotesi proviamo a leggere questa frase dall’inizio alla fine, la prima cosa anzi che dovremmo comprendere è cosa significhi leggere, quale tipo di realtà oggi si schiuda nella decifrazione, che pare involontaria, mentre è appunto uno sforzo continuo e macchinoso del nostro cervello. Beckett ci costringe a leggere, ci costringe a muoverci all’interno di frasi brevi, semplici sintatticamente, ma nello stesso tempo di profonda ambiguità. Ad esempio non possiamo dimenticare che Molloy è in realtà un romanzo doppio e questo già modifica in parte la nostra concezione del testo, è testo scritto primariamente in francese e successivamente in inglese; non entriamo ancora nel merito di questa scelta, ma ci avviamo a constatare che il passaggio da una lingua all’altra, da una sonorità all’altra, è anche il passaggio da un significato all’altro. Nell’edizione francese leggiamo: “Je suis dans la chambre de ma mère”; nell’edizione inglese “I am in my mothers’s room”. Che ci sia una tensione tra chambre e room mi pare evidente e ne è una spia la diversità delle traduzioni italiane: Frasca scrivere “camera” e Tagliaferri ad esempio “stanza”. La modificazione della parola nelle due lingue mi porta a fare un ragionamento: il termine room ha un significato più ampio di chambre, ad esempio potremmo anche leggerlo come “spazio”, posto, luogo. È chiaro che l’incipit di Molloy è una situazione, l’ubicazione esatta da cui si parla, da uno spazio verrebbe da dire che è lo spazio della madre, che quindi non diventa come vedremo soltanto la meta verso cui dirigersi, Molloy è un romanzo almeno nella prima parte di movimenti, di movimenti spirali, di andirivieni, di pause, incontri stravaganti e ri-partenze, ma appunto diventa da subito lo spazio che l’io narrante ha in qualche modo occupato: si potrebbe dire che con questo incipit l’io narrante testimoni il suo essere al posto di sua madre, come se ci fosse stata una sostituzione, lui ne fa le veci, sua madre è morte e l’io narrante l’ha sostituito: “Come che sia ci sto io nella sua camera. Dormo nel suo letto. La faccio nel suo vaso. Ho preso il suo posto” (p.497). Come vediamo la sostituzione, l’ “in vece di”, è annunciata poche righe più sotto ma è contenuta completamente nelle prime righe e nella differente resa di room e chambre. Queste prime pagine mi hanno ricordato in maniera certi passaggi di Ignazio de Loyola e dei suoi Esercizi Spirituali. Una delle caratteristiche importanti dei preamboli di alcuni esercizi sta nell’immaginare un luogo, o meglio di visualizzare non un luogo qualsiasi ma un preciso spazio, l’inferno, il Golgota, il paradiso terrestre. Prendo l’esercizio della quarta settimana, il 2° preambolo: “composizione visiva del luogo, che qui sarà vedere la disposizione del santo sepolcro, e il sito e la casa di Nostra Signora, considerandone specificatamente le varie parti, ossia la camera, il posto di preghiera, ecc”.(la traduzione è di Giovanni Giudici).

La citazione mi pare mostrare che nelle prime righe del romanzo ci sia qualcosa di simile a tale preambolo, abbiamo detto che “sono nella camera di mia madre” l’incipit del romanzo. Oppure queste prime pagine stanno a indicare una soglia che non abbiamo ancora varcato, potremmo vedere appunto nei primi capoversi una sorta di preambolo, una sorta di premessa alla narrazione, un avant prop: se ciò fosse vero allora il romanzo non inizia dove graficamente e editorialmente crediamo, la prima riga del racconto, ma una serie di capoversi dopo: “Non è questo il problema. Eccolo qui l’inizio che volevo io. Visto che lo conservano, deve pure significare qualcosa. Eccolo”. (p.498) Questo eccolo possiede in sé un carattere di ostentazione, con il quale il narratore mostra le sue intenzioni, a sottolineare: da qui in poi è il mio inizio. C’è un dato anche grafico, perché perché dopo “eccolo” troviamo il primo e unico punto fermo e a capo, ( questo almeno per le prime 50 pagine almeno sino a dove è giunta ad oggi la mia lettura). Questo segno grafico non può essere gratuito, segna uno passaggio di dimensione tra il testo scritto che l’Io narrante compila e ciò che accade successivamente. Che queste prime righe possano essere viste come preambolo, ovvero come momento che ritarda l’entrata in scena del romanzo, può essere evidenziato da un’altra particolarità. L’io narrante dice che un uomo viene a prendere i fogli che scrive ogni settimana, questo uomo viene ogni domenica e ha sempre sete (p.498) e critica l’Io narrante per come ha iniziato: “Ci ha ragione. Avevo cominciato dall’inizio, figuratevi, come un vecchio coglione” (p.498). Questo racconto non deve iniziare dell’inizio, cioè non deve iniziare dalla camera della madre, la camera della madre volendo è la fine, non l’inizio, questo personaggio il principio che ordina la narrazione dell’io, quello che prende i fogli, quello che monetizza i soldi. Dicevo mi colpisce che venga di domenica e abbia sete. Questo insistere sul principio, sull’inizio della storia, questo avere sete mostra qualche possibile connessione con il Vangelo di Giovanni: il prologo è dominato ovviamente dalla tensione del “principio”, del principio ordinatore di tutte le cose, il logos che è parola, ma è anche logica, ordine, una certa struttura del discorso e Gv 19, 28 dove appunto Gesù dice di aver sete. E se quindi a tutti gli effetti queste righe non fossero l’incipit, ma un prologo, un prologo a ciò che accadrà dopo, una sorta di anticipazione di quello che sarà; a ben vedere anche il prologo di Giovanni è così. Non c’è in questo prologo nessuna enunciazione di tempo, siamo un tempo presente a-storico, non sappiamo nulla di quando, come e perché l’uomo sia arrivato nella camera/spazio di sua madre, sappiamo che è morta, ma non sappiamo da quanto, ignoriamo il tempo preciso tra la morte della donna e la presenza dell’io narrante, come se tutto avvenisse sub specie aeternitatis.

Spazio terreste/spazio purgatoriale. Subito dopo eccolo troviamo queste due frasi: “Questa volta qui, poi penso ancora una, poi penso sarà finita, anche con quel mondo lì. È il senso penultimo” (p.498), mi soffermo su due cose. La prima è legata a comprendere cosa significhi “quel mondo lì”, logica vuole che indichi con questa definizione il mondo delineato nel preambolo, il mondo dell’uomo che viene ogni domenica, il mondo del non tempo, l’eternità, cioè l’Io narrante mostra una sorta di consapevolezza che esistano due piani, due mondi, uno lì e uno qua e che in qualche modo lui è stato compartecipe di entrambi: è chiaro che enunciare quel mondo lì significa che esiste una realtà che è qua, e non è casuale che appia da qui in poi una serie di descrizioni paesaggistiche: “La strada, dura e bianca, sfregiava i pascoli, saliva, scendeva, con i suoi avvallamenti. La città non era lontana” (p.499). Se il preambolo era claustrofobico, chiuso, qui abbiamo una apertura, il mondo qua è un mondo aperto, è un’isola, ha campi, strade, grandi spazi, “infide colline” (p.500), un mondo reale in cui i campi “s’imperlavano di rugiada”(p.502), un mondo di “sabbie, ciottoli, paludi, brughiere” (p.503).  Con Beckett mi pare che più che una lettura sia una sorta di fatica di decrittazione, unire i puntini, provo ad elencarne alcuni: la natura “che pertiene a un’altra giustizia” (p.503), abbiamo visto la rugiada sui campi,  l’io narrante se ne sta “appollaiato al di sopra del livello più alto della strada” (p.501), altre volte si trova “al sommo, o sui fianchi di un’altura considerevole” (p.506), “che ci faceva un’altura in un paesaggio a malapena ondulato?” (p.506), o sempre l’io narrante che sente “persino il belare di un gregge” (p.524). Che posto è questo? Che luogo? Un luogo terreno, con un’altura considerevole, che è di pertinenza di un’altra giustizia? A me ha ricordato con una certa chiarezza il Purgatorio dantesco, il gregge torna ad esempio in Pur III, il termine rugiada compare alcune volte proprio nella seconda cantica, l’altura considerevole è il monte stesso dove Dante ascende, e non paia strano che l’io narrante parli appunto di  viaggio irreale (p.509) e quando parla della sua condizione dice: “oh non il fondo più profondo, da qualche parte tra la schiuma e il fango” (p.506) che ricorda la metafora del giunco schietto di Purg I. A confermare vediamo come la madre chiama l’io narrante: “Lei non mi chiamava mai figlio, del resto io non l’avrei tollerato, ma Dan, non so perché, non mi chiamo Dan. Magari Dan era il nome di mio padre” (p.509). Il nomignolo Dan suona simile a Dante e non è a questo punto casuale che troviamo nominati due personaggi centrali del purgatorio Sordello e, sopratutto, Belacqua (sul quale torneremo) che per Beckett rivestì in parte figura da alter ego. Se il luogo è il Purgatorio o una sua riscrittura in chiave moderna, mi pare altrettanto interessante il riferimento al tempo “penultimo” (p.499). Nel meridiano Frasca mette in evidenza come questo possa essere un dato strutturale, al tempo della stesura di Molloy SB aveva intenzione di scrivere un dittico di romanzi, che solo successivamente divenne una “trilogia” (alla quale secondo me non può essere disgiunta la scrittura e la composizione di Aspettando Godot). Se però questa penultimità del tempo avesse una serie di parentele proprio con questo fondo che non è completamente fondo, con una situazione di sospensione tipica d’altronde del purgatorio e del purgatorio Dantesco. Che il romanzo, che il genere romanzo, abbia a che fare con tema purgatoriale, con al sospensione del tempo l’ho già dichiarato in un intervento pubblicato da La ricerca (1, 2), ma qui  mi pare interessante indagare proprio cosa sia il senso penultimo, quasi SB decidesse che la letteratura non può essere apocalittica, non può essere rivelatrice dei novissimi – cosa sarà di noi dopo la morte, cosa sarà del mondo dopo la fine del tempo -, ma che si debba accontentare di una sorta di presa d’atto dell’assurdo di ciò che accade qui di giorno in giorno e che sì ecco si mostra in tutta la sua potenza nella battuta che Dante fa pronunciare a Belacqua nel Purgatorio e che secondo me riassume la poetica di SB e il suo atteggiamento verso il mondo e la storia: “O frate, andar in su che porta?” (Pur IV, 127). Il tempo penultimo è una di tempo di “divina indifferenza” montaliana, uno sguardo di colui che è sopravvissuto, fortunato di non aver partecipato se non marginalmente agli orrori e agli errori della seconda guerra, ma di cui ne porta in sé la cicatrici.

L’Io narrante è l’uomo che è sopravvissuto ad Auschwitz senza essere stato in Auschwitz, che porta su di sé quelle cicatrici, ma che non le ha esperite completamente. Il romanzo pullula di riferimenti scatologici al basso, al crasso, al culo, alla cacca (pp.503; 505; 510; 511; 512 e potrei continuare), mi sono chiesto se questo potesse avere a che fare con il lager come anus mundi come il buco del culo del mondo, luogo in cui tutto su coagula. Mi colpisce rispetto a questo un accenno che l’Io narrante fa nella descrizione della sua “prigionia” della casa della signora con il cagnolino. L’Io narrante vive una sorta di condizione costrizione all’interno di questa villa, la sua residenza ha qualcosa di strano e di costretto; potrebbe sembrare, e come qualcuno nel nostro gruppo ha fatto notare, che sia l’Io narrante sia sotto la prigionia di Circe rivisitata e che quindi questo interno di inferno borghese sia una sorta di omaggio all’Ulisse di Joyce e al suo Bloom preso nelle spire della squallida vita quotidiana. Ciò è sicuramente vero, la complicata struttura delle casa che ricorda certe abitazioni dei romanzi ottocenteschi (la complicata architettura degli interni di Balzac, o Dostoevskij o Dickens), ma nello stesso tempo ad un certo punto leggo questa frase (sono convinto che SB debba essere letto per frasi, quasi singole, dimenticando la struttura meramente narrativa della storia): “Quel famoso sentore di mandorle, per esempio, non sarebbe bastato a levarmi l’appetito” (p.555). Perché il sentore di mandorle è famoso? Perché SB non scrive “il sentore di mandorle et et”? L’aggettivo famoso quindi ci dice qualcosa di pregante, e perché è collegato al mondo concentrazionario? Basta fare una semplice ricerca su google o aver letto un po’ di saggi sull’argomento per sapere che proprio il profumo e il sentore di mandorle è quello che lo Zyclon B rilasciava una volta venuto a contatto con l’ossigeno. Il tempo penultimo di Molloy è quindi, a parer mio, il tempo della sopravvivenza senza l’esperienza del limite, è il tempo del gioco, della recita, facciamo finta che “il mondo finirà”, ma nelle realtà il mondo è già finito.

Uomo “non”. Vengo all’ultima riflessione, mi riprometto ovviamente in questi appunti di andare e tornare indietro alle pagine già lette. Che tipo di uomo è l’uomo di SB o almeno come appare in queste prime pagine? La mia idea è che l’uomo sia definito per litote. Leggo sul dizionario: “Formulazione attenuata, ottenuta mediante la negazione del contrario”; insomma invece di dire buono diciamo “non cattivo”, e mi pare abbastanza chiaro che le due affermazioni non siano medesime. E come appare l’uomo del tempo penultimo in queste prime pagine? Intanto non credo che sia casuale che i primi due personaggi, oltre all’Io narrante e alla madre che compaiono le preambolo, vengano identificati da lettere: A e B nella versione italiana e francese e A e C in quella inglese, tralascio per un attimo i significati che possono esserci dietro, intorno, ai lati di questi due primi personaggi, ma il fatto che camminino e si muovano lungo un dato percorso mi hanno ricordato una sorta di “vettore” o di segmento che indica una direzione, il segmento A e il segmento B o C, l’uomo è ridotto alla sua traiettoria, è pura traiettoria all’interno di un paesaggio, come se fosse diventato sottile, e avesse perduto le molte sue qualità e caratteristiche, non parliamo neppure più di personaggio tondi o piatti, qui li abbiamo vettoriali: ridotti a movimento. Proseguendo la nostra lettura troviamo: “Io non – io non mi sentivo infelice” (p. 514). Compare quindi la litote (figura retorica che anche Svevo ne La coscienza di Zeno predilige, mi torna alla mente Storia del mio matrimonio), ancora una volta è importante leggere la frase per intero, e soffermarci sull’inizio sul quel “io non” seguito da un segno grafico. Sembra quasi un linguaggio computazionale: Io non – x, dove x può indicare qualsiasi qualità umana, ma l’uomo si è ridotto a una formula a una semplice “negazione” di qualcosa, l’uomo è una sorta di parodia, di negazione, di Dio, se è fatto a somiglianza Dio e Dio non c’è, o Dio è questa sorta di noluntas, di non volontà di essere niente, allora l’uomo è un “non” che precede qualsiasi caratteristica. E infatti: “Quello che amavo della antropologia, era la sua forza di negazione, il suo accanimento a definire l’uomo, seguendo il modello di Dio, in termini di ciò che non è” (p.537). C’è già quindi in Molloy l’uomo beckettiano che leggeremo in Finale di partita, o nell’Ultimo nastro.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XIV

di Demetrio Paolin

Come abbiamo scritto, più volte, lungo queste riflessioni, il romanzo è una sorta di descrizione dell’uomo nel tempo, ma nei FK l’autore fa un passaggio, verrebbe da dire, ulteriore: mostra in qualche modo la fine del tempo, ovvero il limite del dire romanzesco. Il finale -con Alesa che parla della resurrezione- è appunto escatologico, e si riferisce alle cose ultime che si mostreranno quando il mondo finirà e ci sarà la parusia. 

Arrivati a questo punto delle nostre inquisizioni, forse, potremmo ragionare su quale forma di romanzo D ci lasci e su come i FK siano uno dei romanzi cardine della nostra cultura per quanto riguarda problemi filosofici, teologici e di morfologia del romanzo; in un certo senso, con questa narrazione, D modifica lo statuto del romanzo e lo fa in modo oscuro, per segni ed enigmi, tramite la Leggenda dell’inquisitore. Già in nota mi ero soffermato sull’impossibilità, perché non è compito di questo scritto, di fornire una precisa disamina di quelle pagine. Fatta questa premessa occorre a questo punto sottolineare l’erroneità di estrapolare questo capitolo e leggerlo come testo a sé, ma che – anzi – per comprenderle meglio e per capire più profondamente i FK è necessario tenerle all’interno del percorso narrativo che il lettore affronta in FK. Vediamone alcuni punti salienti dal punto di vista narratologico

a) il poema non è mai stato scritto, ciò che noi leggiamo è un “racconto” di Ivan della trama e dei temi di questo poema; 

b) l’esposizione del succo del poema avviene in maniera dialogica ovvero all’interno di un colloquio, più ampio e complesso, tra Ivan e Alesa. Quest’ultimo durante la narrazione di Ivan lo ferma, lo incalza; 

c) il poema stesso è dialogico, un esempio di sublimazione del dialogo, in cui uno (Inquisitore) parla e l’altro (Gesù, lo straniero) ascolta.

Riassumendo, abbiamo un’opera non scritta (La leggenda) che in qualche modo tocca un nodo centrale di un’opera scritta (FK) e riguarda, infine, la forma stessa del romanzo, così come sarà nel futuro. La mia impressione è che D tratteggi una nuova morfologia del romanzo, ne descriva appunto la sua possibile sopravvivenza rispetto al mondo che cambia. L’abbiamo sottolineato quando parlavamo dell’accostamento tra Amleto e Karamazov a proposito della lettura dei libri: i personaggi del romanzo e il protagonista della tragedia di Shakespeare vivono una situazione di crisi in un tempo nuovo, desiderano vivere in questa novità, ma nello stesso tempo sono prigionieri di ciò che non è più, del passato, che torna sotto forma di fantasma, di morte e di omicidio. 

Sono uomini che vivono una cesura storica fondamentale, in questo passaggio non può che essere letto come “politico”, nella categoria che Schmitt elabora: il politico è una “cosa costituita” che si oppone all’anomia, all’assenza di forma e di legge, è ciò che produce un freno alla deriva, ciò che trattiene il mondo dalla sua stessa fine. I personaggi dei Karamazov vivono questo momento, e la leggenda lo rappresenta teologicamente, ma con Schmitt abbiamo visto che ogni discussione teologica ha a che fare con il politico, e questo caso non è da meno, tanto che la Leggenda dell’Inquisitore assume in contorni del katechon. Per definire meglio ciò che esso rappresenta mi rifaccio alla puntuale e interessante riflessione in Katechon di Francesca Monateri (Bollati&Boringhieri), la quale riprende almeno nella sua ultima parte una riflessione “politica” sulle pagine dei Karamazov.  Monateri sostiene una tesi, condensata nella chiusa, che riporto e che mi pare centrale anche per queste mie riflessioni: «Al cuore delle interpretazioni novecentesche del katechon, si annida la possibilità di pensare a una morfologia politica intesa non solo come studio della forme politiche, come vera e propria proposta per una politica delle forme». Quindi, il tema in gioco non è soltanto -e non è meramente- politico ma è estetico, perché siamo di fronte a una questione di forma, di più se il katechon è una questione di relazione tra le forme, esso è quindi un problema economico (sempre nell’accezione che abbiamo usato in questo lavoro). 

In primo luogo, katechon è l’espressione utilizzata da Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi che indica un potere che trattiene, un concetto che l’apostolo introduce per spiegare ai cristiani di Tessalonica perché il giorno della seconda venuta di Cristo tarda a venire. Il concetto può avere una valenza ambigua, dacché può essere visto in modo negativo, perché appunto differisce l’arrivo di Cristo e, quindi, la salvezza finale, oppure in modo positivo perché questo potere fa in modo che il tempo non finisca, che l’esistenza dell’uomo continui.

Come sostiene Monateri, la filosofia politica del 900 ha a lungo riflettuto su questo termine, il che si comprende gettando un sguardo sulla storia del secolo XX, su questo sentimento di apocalisse in differita, di giorno finale rimandato procrastinato, ma sempre presente nell’orizzonte di ogni narratore, filosofo, artista, che ha raccontato lo scandalo di questo tempo, di cui si auspica e si   teme la fine. 

Nelle pagine del Grande inquisitore D compie una operazione interessante, vediamola insieme: assumiamo che ciò che è raccontato nella leggenda sia reale. Se ciò è vero, allora noi ci troviamo già in un mondo che ha assistito alla seconda venuta di Cristo. Infatti, l’Inquisitore riconosce nello straniero Cristo e lo straniero non nega mai questa sua identità: questa agnizione, forse la più importante, nella storia dell’uomo non produce nulla. Perché, se ciò che D tramite Ivan ci racconta è vero, se Cristo è già sceso in terra, perché il tempo non è finito? Perché il mondo è ancora mondo? Perché non si è disciolto tutto e non ci sono state rivelate le cose ultime?    

Nell’accorato rincorrersi di queste domande riconosco alcuni degli interrogativi che Sergio Quinzio pone alle sacre Scritture e alle loro rivelazioni ultime (in particolare in Dalla gola del leone, La croce e il nulla), ma diventano ancora più centrali nel suo ultimo scritto, un’opera a metà strada tra riflessione teologica e narrazione, che è il Mysterium iniquitatis. Nella finzione di Quinzio il testo raccoglie le ultime due encicliche di Pietro II, che secondo la profezia di Malachia sarà l’ultimo papa. Il pontefice, dopo aver consegnato le due lettere apostoliche, la prima sul mistero della resurrezione dei morti e la seconda sul mistero dell’iniquità, ovvero la riflessione intorno alla Chiesa come baluardo di quel male che si annida proprio all’interno della stessa, salirà sulla cupola di San Pietro e si suiciderà gettandosi da quell’altezza. Le profezie si compiono in modo misterioso e questo mistero – sembra suggerirci Quinzio- è quello dell’iniquità che, stando a Paolo, gli uomini e la chiesa dovranno vivere e soffrire. 

Seguendo tale suggestione forse lo straniero del poema di Ivan non è Cristo, ma la personificazione di tale mistero dell’iniquità: è il passaggio precedente alla rivelazione all’eschaton finale. In questo modo, forse, comprendiamo perché queste pagine ci turbano, perché con inquietudine D non parla della fine dei tempi, ma parla del tempo prima della fine, del momento esatto in cui il nostro tempo sta per finire. 

Tutto questo avviene all’interno di un romanzo, in qualche modo -quindi- se La leggenda dell’Inquisitore ha a che fare con katechon, ciò significa che ha a che fare con una idea di “forma” che si oppone ad un’assenza e così, traslando il ragionamento della Monateri dal piano politico al piano letterario, la storia dell’inquisitore e di Cristo è una riflessione sulla forma del romanzo e sul romanzo come forma.

In Teoria del romanzo Lukacs sostiene che D non scrive romanzi: tale affermazione mi è parsa sempre piuttosto strana rispetto alla mia comune esperienza di lettore; è da sottolineare, però, che il dubbio di Lukacs non è tanto legato a un dato compositivo (i libri di D sono romanzi), ma a un dato storico. Provo a chiarire: per Lukacs il romanzo – come epopea borghese – non ha più nulla da dire a Dostoevskij che, infatti, scrive di cose altre. Questa notazione è di certo vera, pensate ai personaggi dei FK e alla loro ossessione su Dio, provate a immaginare qualcosa di simile in Madame Bovary o, perché no?, nei Malavoglia. D annuncia con le sue opere un mondo diverso, che mette in crisi il romanzo borghese realista (realismo → naturalismo → verismo: Malavoglia e FK sono pubblicati nello stesso anno), tale criticità ha un riverbero nella leggenda dell’Inquisitore, come se fosse una riflessione meta-testuale. 

D sente che questo è il tempo dell’iniquità, il tempo in cui tale mistero può apparire e produrre una narrazione romanzesca; infatti tutti i personaggi di FK sentono su loro stessi il trionfo della anomia, della mancanza delle regole, dell’assenza della forma; solo comprendendo questo sentire la Leggenda dell’Inquisitore, questa narrazione di una narrazione, acquista una maggiore incisività. 

L’episodio dell’inquisitore è un capitolo di un romanzo, in cui un protagonista (Ivan) racconta all’altro (Alesa) una storia (il poema), che non ha scritto. Ciò che ci viene chiesto di analizzare non è tanto legato alla religione o all’etica: D non ci domanda di decidere su chi abbia ragione, se l’inquisitore o Gesù. Anzi il nucleo è da un’altra parte, è una questione di estetica, di forma e di morfologia. Esiste qualcosa che possa costruire una nuova forma narrativa che possa resistere a questo tempo senza forma, a questo tempo di iniquità? 

Esiste una forma romanzesca adatta alla nostra modernità? Sono queste le domande che la leggenda del Grande Inquisitore pone al critico letterario, più che al teologo o al politico. L’ipotesi è che nell’economia del romanzo, in questa sequela di relazioni teleologiche dei personaggi, il capitolo del grande Inquisitore sia il katechon, sia ciò che trattiene il romanzo dal suo dissolversi, dal suo morire, dal suo finire.  Il katechon è una forza ambigua che da un lato annuncia la distruzione e dell’altro preserva l’umanità: in un certo senso D fornisce una possibilità al romanzo di esserci ancora, di continuare a generare i suoi frutti nonostante l’uomo viva il tempo dell’iniquità, dell’approssimarsi della fine, un tempo che costantemente finisce, ma che non si conclude. Ecco, nonostante questo, il romanzo continua. 

Il romanzo, infatti, ha a che fare con il tempo; anzi, è la narrazione dell’uomo nel tempo, ma se il tempo finisse? Se questo tempo che scorre finisse? Cosa ne sarebbe dell’uomo e cosa ne sarebbe del romanzo che è lo strumento per raccontare l’uomo nel tempo? Dostoevskij, rispondendo a tali questioni, riesce a darci l’immagine nuova della narrazione per salvarla. L’ affermazione di Lukacs «D non scrive romanzi», che mi pareva un poco peregrina, è in realtà centrata, perché D pensa a un romanzo che non è più romanzo, perché è il romanzo dei tempi dell‘anomia, dove non c’è una forma, non c’è legge o regola. D nei FK annuncia e racconta quel tempo prima della fine del tempo, e il romanzo, l’ultima nostra e più profonda fonte/modalità di sapere, modifica se stesso per poterci ancora raccontare.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XIII, b

di Demetrio Paolin

Il secondo personaggio minore del romanzo di cui vorrei occuparmi è Liza e in particolare vorrei soffermarmi su FK, parte quarta, libro undicesimo, cap. III, Il demonietto,  interamente dominato da questa ragazzina, che abbiamo visto, all’inizio, immobilizzata su una sedia a rotelle, poi verso metà romanzo, guarita e innamorata – come possono essere innamorati i personaggi di Dostoevskij, che non vivono mai un amore limpido, puro, ma è sempre mescolato con una dose più o meno generosa di veleno, di una dose di gelosia, di odio, di ripicca, di rivalsa, di recriminazione, di sfida, di supponenza, di sadismo – di Alesa, e che infine incontriamo in questo capitolo, dove il dialogo con Alesa pronuncia, forse, alcune delle frasi più tremende dell’intero romanzo: «Ma bene. Certe volte penso che l’ho crocefisso io quel bambino. È lì appeso e piange, e io me ne sto seduta di fronte a lui a mangiare composta d’ananas. Mi piace molto, la composta d’ananas, sa? E a lei?»
Liza narra ad Alesa una vicenda, riferita in un libro, in cui si racconta di un ebreo «che prima aveva tagliato le dita di tutte e due le mani a un bambino di quattro anni e poi lo aveva crocifisso al muro». Liza continua questo racconto sostenendo che il bambino ci ha messo poco a morire «quattro ore. Poco? Ha pianto, ha detto, ha pianto tanto, e lui stava lì a guardare e a godersi lo spettacolo. Ma bene!».
Ora l’episodio ci consentirebbe di aprire una lunga parentesi sul pensiero antisemita di Dostoevskij e di buona parte del’ 800 intellettuale, ma qui interessa capire che ruolo ha Liza nella costruzione di senso nei FK. Intanto Liza prende su di sé l’atto malvagio, assume su di sé il terribile delitto; questo movimento immaginativo mi pare interessantissimo. Se in qualche modo l’ebreo può essere considerato il reietto, il “giuda”, il “deicida”, allora Liza assume su di sé  totale alterità: Liza non è semplicemente il negativo, ma è l’Altro, qualcosa di totalmente diverso, qualcosa che parrebbe porsi fuori dai confini dell’umano: l’ebreo era inviso, odiato e temuto; era veduto come un inerme e nello stesso tempo come colui in grado di compiere l’abominio più terribile; se volete, provando a risvegliare l’antisemita latente che ognuno di noi possiede, il più perfetto prototipo dell’ebreo è Giuda: traditore per pochi soldi, baro, eppure indispensabile nell’economia della salvezza. Dio salva il mondo morendo e per morire ha bisogno di Giuda; nel vangelo di Giovanni Gesù intinge il pezzo di cibo e lo passa a Giuda: è una elezione; c’è la necessità che Giuda tradisca; si poteva immaginare una economia della salvezza diversa? Un modo diverso per salvare l’uomo e il mondo? Il vangelo ci racconta questa modalità e non un’altra. Così il racconto di Liza sembra una sorta di riscrittura malvagia della crocifissione: il bambino innocente (Cristo) che viene crocifisso e l’ebreo (Giuda) lo guarda morire, sarà accaduto che Giuda abbia visto Cristo morire? È plausibile. Cosa avrà pensato Giuda? 
Nella frase citata D ha un tocco felice e aggiunge l’immagine della «composta d’ananas», che Liza mangia: è il sigillo di grandezza dello scrittore , che spesso si annida nel particolare, nell’insignificante che non lo è. Liza si identifica con l’ebreo, che vede il bambino morire crocifisso, anzi dice che crede di essere lei stessa ad averlo crocifisso e poi lo guarda morire. A questa altezza c’è la differenza rispetto alla scena precedente: lei mangia mentre il bambino muore, lo guarda, il bambino è davanti a sé ma lei non lo vede più, vede la composta d’ananas: la composta d’ananas prende il sopravvento nella nostra immaginazione; non vediamo più il bambino, ma ci chiediamo perché la composta di frutta, perché proprio quella. Il comportamento di Liza racconta certi racconti degli aguzzini dei campi di concentramento: uomini e donne crudelissimi che, tornati a casa, diventavano uomini e donne amorevoli. Spesso ci chiediamo come ciò sia potuto accadere, e la risposta ce la fornisce D: essi «credevano nella composta di ananas»; è come se Liza cancellasse, in quel gesto legato al cibo, ciò che ha compiuto o il male che potrebbe fare: la composta di ananas diventa l’ultima immagine del nichilismo totale: «crede nella composta d’ananas», «solo che non crede a nessuno. E se non crede a nessuno, disprezza tutti». 
Il secondo dato particolare è legato alla parola «bene» che Liza pronuncia più volte. Questo bene, così come la composta, diventa una terribile giustificazione: «è un bene essere disprezzati. È un bene il bambino con le dita tagliate». Poniamo attenzione, Liza non dice che è bene – nel senso è giusto – essere disprezzato, ma che il disprezzo e il bimbo mutilato sono UN bene, come se fossero necessari, in quanto dimostrano la cattiveria dell’uomo; il male diventa bene, perché tramite il male comprendiamo il grado di perdizione dell’uomo: il male diventa necessario per la salvezza, così come Giuda è necessario per Dio nel piano della salvezza. D intravede in Liza qualche movimento dell’animo umano non ancora completamente realizzato: c’è in Liza qualcosa di profetico e di terribile, come se prefigurasse l’umanità nuova che nascerà e si formerà tra le due guerre, quella dei campi, quella di Hiroshima, quella di Dresda, un’umanità che uccide e mangia la composta d’ananas, un’umanità che si nutre di un nuovo sentimento, il disgusto di ogni cosa. «Tutto mi disgusta» dice Liza consapevole di ciò che lei è, e forse non è casuale che Liza sia uno dei pochi personaggi del racconto che infine si autodefinisce, avendo certezza del suo essere: «Le tremavano le labbra mentre bisbigliava tre sé e sé, svelta svelta: – Cattiva, cattiva, cattiva, cattiva!»

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XIII-a

di Demetrio Paolin

Un sigillo della grandezza dei romanzi risiede nei personaggi minori e dal loro modo di agire (mi vengono in mente, ad esempio, le pagine di Manzoni su Tonio e Gervasio nei Promessi Sposi o, per venire a cose più vicine, Harras in Trilogia del Nord di Céline): sono personaggi meno importanti, meno centrali nella costruzione del romanzo/narrazione, ma che si impongono alla nostra attenzione. Alessandro Zaccuri, su Avvenire, ha curato una rubrica in cui ha raccontato alcuni di questi personaggi minori, e grazie ad essi illuminava il romanzo intero o metteva in evidenza qualcosa di nuovo del romanzo di cui stava parlando. Ci sono nei FK due personaggi minori, tra i tanti presenti, che vorrei analizzare: Smerdjakov e Liza (vd XIII, b) 
Quando incontriamo Smerdjakov per la prima volta, egli è descritto come colui che porta a Dimitri un messaggio, in cui si stabilisce l’ora dell’incontro con Zosima. Smerdjakov è il servo di Fyodor, ma ha un rapporto particolare con Dimitri. È rappresentato come un messaggero, ha in sé qualcosa di mercuriale; infatti, come il dio romano, anche Smerdjakov possiede in sé qualcosa del latore di notizie, ma anche del ladro; è ambiguo, non è mai comprensibile nel suo muoversi e nel suo agire. La sua nascita è avvolta nel mistero: sappiamo che è dovuta a una violenza, sappiamo che sua madre la Smerdona è una pazza di Cristo, una urlona; tutto cospira a farci pensare che il padre sia Fyodor, Smerdjakov viene adottato dai servi di casa Karamazov che hanno vissuto un lutto, avendo perduto il proprio bambino: insomma S. è frutto di violenza, abbandonato e adottato “in vece” di un neonato defunto. Oltre al nome dalla madre egli ne ha in un certo senso ereditato la follia, che in lui si mostra nei segni del grande male, dell’epilessia. 
Un altro luogo centrale in cui torna Smerdjakov è il dialogo con Ivan, quello del “tutto è lecito”, dove è presente il germe della giustificazione per l’omicidio di Fyodor. A questo fa da contraltare l’ultimo e definitivo scambio con Ivan, dove appunto Smerdjakov confessa il suo delitto, raccontando come nell’ombra e con costanza e precisione ha fatto in modo che tutta la colpa materiale ricadesse su Dimitri e quella morale ed etica su Ivan. 
Tra il primo e il secondo dialogo passano centinaia di pagine in cui Smerdjakov scompare dell’azione, viene chiamato in causa da Alesa, da Katerina, da Grusenka, da Dimitri come colui che ha commesso l’omicidio, ma solo a Ivan verrà detta la verità, che appunto lo getterà nel baratro della sua stessa allucinazione, il dialogo con il diavolo e la sua malattia, mentre Smerdjakov infine si ucciderà. 
La prima cosa che colpisce di come D costruisca questo personaggio è il suo essere sotterraneo alla narrazione: Smerdjakov muove molti dei fili della narrazione, è il centro di molte zone nevralgiche del romanzo, ma D ce lo mostra e dedica a lui molte meno pagine di quelle che ci aspetteremo. Torna quindi, prepotente anche qui, un discorso di economia, nella duplice accezione di risparmio – il numero di scene, pagine o parole che dir si voglia intorno a un personaggio – e di disegno prefissato. Con la massima economia di parole, Smerdjakov è nell’economia del romanzo colui che lo fa attuare: egli è un, o è il, motore del romanzo, in un certo senso produce il romanzo. Egli è un personaggio spregevole, un mentitore, un millantatore eppure muove i fili della vicenda, li tiene in pugno, è colui che ci mostra la vera realtà: ciò che è realmente accaduto e non ciò che i giudici e la gente pensa sia accaduto; è veramente un perfetto e ambiguo messaggero, che perverte le euclidee convinzioni di Ivan e le usa a suo uso e consumo.
Con Smerdjakov D compie un’altra scelta: in un romanzo dove ognuno produce una idea di mondo, la sua azione rimane sostanzialmente avvolta nel mistero: perché Smerdjakov agisce così, perché uccide il presunto padre? Perché rivela tutto? Perché si uccide? Dostoevskij di solito così pronto a dirci tutto di tutti, le idee sublimi e le meschinità, su Smerdjakov è reticente, anche il suo suicidio è raccontato, detto ma non mostrato, come se l’autore volesse in qualche modo non farci partecipi fino in fondo di quella esistenza. Smerdjakov rappresenta una immagine di “male per il male”, che si auto-alimenta facendo del male o facendosi del male: la sua figura ricorda molto da vicino a Iago di Otello, la stessa gratuità nel compiere il male, la stessa opacità di spiegarlo. C’è, però, un dato differente tra Iago e Smerdjakov: questa opacità sul perché delle proprie opere è razionale, pensata e voluta in Iago, mentre in Smerdjakov è frutto di una mente limitata, Iago sa perché fa il male e non ce lo dice, il servo dei Karamazov non sa perché fa il male, lo compie e basta. Smerdjakov rappresenta l’idea che il male sia idiota, che abiti fuori dai regni della comprensione razionale o della fede, cioè infine che non abbia a che fare né con il Dio né con il diavolo, che il male sia proprio un’altra cosa, un’altra entità estranea al rapporto trinitario tra Alesa, Ivan e Dimitri. 
Si potrebbe quasi ipotizzare che il male sia l’escluso, il reietto e lo scarto, sia l’escremento infine ovvero, come indica il suo stesso nome, la merda, qualcosa quindi che si produce per espulsione. 
Un ultimo dato, l’epilessia: nel romanzo L’idiota, l’epilessia è uno stigma della bontà. Il principe, grazie all’epilessia, entra in contatto con una realtà altra e diversa, nuova e più buona: vede -se vogliamo- la vita e il mondo da una diversa prospettiva, afferma che tutto è buono, che tutto è santo nonostante il male, o forse ancora con più terribilità anche il male è buono e santo. Nei Demoni Kirillov è epilettico, e si proclama profeta di una religione e si suicida per dimostrare che Dio non esiste, anzi – meglio – si uccide per liberare l’uomo dal fantasma di Dio e farsi Dio; anche Kirillov grazie all’epilessia vede una realtà nuova, la presume, la desidera anche se ne ha paura; rispetto però al principe Myskin Kirillov non ha nessun interesse per il mondo così come è, ma vuole un modo diverso, ed è disposto per questo motivo anche ad autoaccusarsi di cose tremende. 
Smerdjakov – l’ultimo grande epilettico di D – ha perduto il suo alone di santità, che in Kirillov era ancora presente, ma anzi fa dell’epilessia una scusa, una maschera, una finzione per poter agire indisturbato, lo fa così che nessun possa pensare che lui sia il colpevole, perché malato, perché debole, perché idiota. Quell’idiozia di Myskin, che era simbolo della stultitia religiosa, del folle di Dio, è marcita in lui, ha perduto ogni contatto con il divino, con dono profetico che portava con sé (si leggano le pagine dei Demoni in cui Kirillov parla del proprio stato prima di una crisi), quasi che il grande male sia diventato solo un male, questo opaco agire delle cose, questo disporsi casuale delle cose: l’epilessia è diventata uno dei tanti accidenti del mondo, misurabili, normali, il grande male è divenuto una malattia che si può fingere e può tornare utile; come se il daimon della profezia (di cui l’epilessia è figura), come se la profezia stessa fosse messa al bando dalla narrazione, ultimo baluardo della scrittura come visione, come religione, fosse presa in giro e messa alla berlina brillando, un’ultima volta, nelle parole povere e sconclusionate di un merdone.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XII

di Demetrio Paolin

Uno dei problemi di interpretazione che pone l’epilogo dei FK è secondo me legato a una decifrazione dell’immaginario e al suo rapporto con l’ideologia, anzi la relazione tra Ideologia e/o Immaginario è focale dei FK; è importante indagare, quindi, in tale rapporto, l’ipotesi preliminare potrebbe essere riassunta così: l’immaginario è la prassi dell’ideologia, che ne rappresenta la teoria. L’immaginario è la messa in moto, in azione, in mimesi, in pagina di ciò che l’autore pensa. 

Eppure, tale definizione che potrebbe essere anche corretta non resiste alla “prova romanzo”, ovvero FK mostra tutte le diverse criticità dell’enunciato precedente. Se fosse semplicemente così, se questa equazione fosse reale – io ho una ideologia, una visione determinata del mondo, e questa produce un immaginario -, avremmo davanti un’opera chiusa, granitica, inscalfibile. Il genere che maggiormente si conforma a questa idea è, nella classicità, la tragedia; Aiace, Edipo, Medea sono eroi tragici per questo motivo: in qualche modo il loro mondo è ideologicamente definito.   Sempre osservando la classicità, anche Achille ed Ettore sono personaggi tragici, perché non solo si muovono in un mondo già rigidamente definito, ma lo riconoscono come unico e solo, e l’ideologia di questo mondo granitico è, come bene aveva messo in evidenza Weil, la forza che invera e produce l’intero immaginario del poema. Nello stesso tempo, rimanendo nell’epica, l’Odissea segna già un allontanamento della idea di tragico: nelle avventure di Ulisse non è presente una forte necessità ideologica, tanto che la domanda di senso del poema – per cosa torna Ulisse? Perché vuole tornare?  – non ha una risposta univoca, mentre ad esempio se ci chiediamo per cosa e per chi muoiono Achille ed Ettore la risposta ci sarà di certo più chiara e certa.

L’epilogo dei FK mette in scena tale tensione tra ideologia e immaginario, ma non la risolve, la aumenta. D vorrebbe fare la morale, tirare via il sugo della storia ma non ce la fa. Si pensi – ad esempio – all’incontro tra Dimitri e Katerina, Epilogo, cap II: «Tu ora ami un’altra e io amo un altro, ma io ti amerò sempre e tu amerai sempre me: lo sai, questo? Mi senti? Amami, amami sempre, tutta la vita!».

Questo ordine di Katerina sembra proprio opporsi alla conclusione del romanzo a quello che noi avevamo creduto come logica conseguenza nelle pagine precedenti, dove tutto ci pareva chiaro e definito. L’ideologia, d’altronde, ha sempre tutto chiaro, limpido, distinto. D’altronde, come si fa a fare la morale alle persone se le cose non sono chiare? La battuta di Katerina, invece, mette in discussione tutto, non solo e non tanto la parabola dei personaggi, ma proprio il loro sentire intimo.    

L’immaginario di D si ribella alla sua ideologia di autore, e così viene da chiederci dove quest’ultima sia stata resa esplicita: essa è perfettamente rappresentata dalle due lunghe requisitorie, quella dell’accusa e quella della difesa, presenti nella Parte quarta nel libro dodicesimo, dove – e non sarà casuale – sia il procuratore che l’avvocato della difesa utilizzano più volte la parola “romanzo”. Tale occorrenza, ad esempio, non è mai usata dal narratore: questa strana prima persona che possiede in sé alcuni crismi tipici della terza onnisciente che, quando parla del testo che sta redigendo, si limita a definirlo cronaca, testimonianza, storia, ma mai romanzo. 

Le due requisitorie, ognuna per la sua parte, producono abbastanza limpidamente per me l’ordine ideologico del romanzo, il modo con cui sono organizzati i fatti, il modo con cui il mondo viene rappresentato; assistiamo in quelle pagine al tentativo di chiudere tutte le possibili storie e archi narrativi. È uno sforzo incredibile, proprio per la massa di questioni che i FK aprono e lasciano al lettore. Nelle requisitorie c’è una rigidità, una logica o la ricerca di una logica che non ammette deviazioni, che invece nelle pagine precedenti sono stati il modo più classico di costruire la storia per D. 

Nell’epilogo l’autore mette in crisi la sua stessa creazione, è questa la grandezza del genio: sapere che ogni narrazione non può che fallire, non può che in qualche modo traballare, come traballa la conoscenza delle cose umane da parte nostra. Se il romanzo è una avventura, se è l’esplorazione amletica delle lande da cui nessuno fa ritorno, non è possibile che questa esplorazione si chiuda con dato logico. 

Certo D fa di tutto per cercare di costruire una serie di simboli che possano in qualche modo essere ricondotti alla sua ideologia. Osserviamo Mitja che proprio in queste pagine conferma la sua idea di fuggire in America e immagina lui e Grusenka che «zappano e faticano». È indubbio che D voglia costruire un paragone con Genesi: Mitja e Grusenka sono simili a Adamo ed Eva cacciati dall’Eden (la Russia), un Eden nel quale ritorneranno come clandestini nascosti, dopo un periodo di anni, dopo aver appreso una nuova lingua – Mitja parla di «fatica e grammatica» – e fingendosi «americani». Domandiamoci: Che tipo di prefigurazione di salvezza è?

In base a questo epilogo possiamo sostenere che si è salvi se si finge di essere ciò che non si è. Mitja può tornare in patria solo rinnegando la sua stessa patria, rinnegandone la lingua, vivendo con una donna che ama, ma sapendo che ama anche un’altra donna, e che l’amore di prima non può in nessun modo essere perdonato: sarà straniero nella terra della salvezza, e sarà straniero nella terra della perdizione. In che modo questa “scelta” di Dimitri nell’economia del romanzo possa essere legata all’ideologia di D, alla sua convinzione della centralità della sua Russia nell’economia della salvezza che Dio ha nel mondo, mi pare difficile da trovare. C’è una sostanziale tensione non risolvibile tra il romanzo e l’ideologia del suo autore, tanto che Dimitri pare suggerire a Dostoevskij come la sua idea, la Russia come nuovo Israele, sia sbagliata, perché il destino di Dimitri è sì la salvezza, ma a costo della rinuncia alla Russia. 

La scomparsa dalla scena di Ivan è altrettanto sintomatica, Ivan è il personaggio che ha posto più problemi a Dostoevskij ideologo, perché le immaginazioni su Ivan – l’inquisitore, il dialogo di Smerdjakov, il dialogo, di cui noi conosciamo sommariamente il contenuto, con Liza, il dialogo con il diavoletto borghese – producono una serie di rotture non indifferenti: il nichilista diventa lentamente religioso, infatti che cosa è più religioso e mistico che vedere il diavolo e combattere contro lui?

D è ossessionato da Ivan, che sembra sussurrare nel suo orecchio: “Tu credi in Cristo e credi in Dio. E ipotizziamo che Dio esista, perché esiste il diavoletto, ma Cristo? Se ciò che per te è Cristo non esistesse? E Se a baciare l’inquisitore non fosse Cristo come tu credevi, ma dal diavoletto che tormenta me, Alesa e Liza? Anzi se a dare quel bacio fosse stato l’Anticristo? ” 

La scelta dell’epilogo di condannare Ivan a silenzio è il trionfo dell’immaginario sulla ideologia che nulla potrebbe su quella domanda, che rimane abissale per un credente, perché si riassume nella impossibile interrogazione “Perché Dio piuttosto Gesù il Cristo?” 

Alesa, ovviamente, pare il più tetragono, il più ideologico: il discorso sulla resurrezione di Iljusa potrebbe essere letto così, se indugiamo in particolare sulle battute finali che chiudono il dialogo con Kartasov. Diversa, però, sarebbe la nostra impressione se leggessimo l’intero discorso che precede questa chiusa un po’ goffa. Noi sappiamo che Alesa come Liza e Ivan ha esperienza del demonico, del basso, del peccato, lo sappiamo già da quando lo incontriamo senza speranza dopo la morte di Zosima, perché Alesa aveva posto la sua fede in Zosima e non in Cristo. 

Alesa – lui il puro, colui che si è gettato a terra, che si è unito alla terra, che è morto come il chicco – sogna lo stesso sogno di Liza, a condividerne un’ombra enorme; quasi presagisse che la sua ricerca di santità si riducesse, così come per Liza, nel desiderio, che «non resti niente di niente. Come sarebbe bello se non restasse più niente». 

Alesa – il credente – diventa nichilista come e più di Ivan: D lo presagisce, tanto che le parole che gli fa pronunciare “davanti alla pietra” sono confuse, Alesa stesso sembra giustificarsi, «perché spesso dico cose poco chiare», e aggiunge misteriosamente: «Lo dico nel caso in cui dovessimo diventare cattivi». Un possibile cattivo, un possibile uomo che potrebbe diventare a tutti gli effetti Stavrogin, è questo personaggio a cui D affida la definizione del nucleo fondante della fede cristiana: la resurrezione e la gioia. A ben leggere questo epilogo si ha l’impressione che Alesa abbia perduto la fede, non riusciamo a comprendere quando D se ne sia accorto, o quanto lo sviluppo del suo personaggio abbia preso una piega diverso dal suo iniziale progetto, ma in lui, nell’eroe del romanzo (vd. Nota dell’autore), si nota con chiarezza la tensione tra immaginario e ideologia. 

A conferma di ciò osserviamo una breve scena dell’epilogo, nel quale Kartasov critica l’usanza di mangiare i bliny dopo il funerale: al ragazzo tutto ciò pare stonato e fuori logica rispetto all’enormità della morte innocente di un bambino e al funerale appena avvenuto. C’è in questa rabbia di Kartasov qualcosa di potente e di religioso: non si può mangiare in un momento del genere. Alesa, dopo aver ricordato il mistero della resurrezione, invita tutti, sorridendo, a mangiare i bliny, perché è una usanza. Questo riferimento alla usanza, alla fede sempliciotta, ci porta nuovamente al diavolo di Ivan e al suo desiderio di viver una vita semplice, andando in chiesa e accendendo di tanto in tanto una candela votiva come la vecchietta, è simile al sogno di Liza che mangia la composta d’ananas mentre il bambino è crocifisso; la fede che Alesa propugna è paradossalmente una non-fede, una credenza, un insieme di riti. Il mistico dell’inizio del romanzo è scomparso; nulla di ciò che lo caratterizzava a inizio romanzo è presente in lui, Zosima lo manda nel mondo perché sa che Alesa deve perdersi, deve smarrire se stesso ma, smarrendosi l’eroe del romanzo, il principio ideologico della visione di D si arrende alla vastità dell’immaginario, alla impossibilità, per fortuna nostra, di scrivere romanzi a tesi, e ci riconcilia con la possibilità/tentativo di guardare questa “cosa” multiforme che è la vita e darne una immagine.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XI

di Demetrio Paolin

Durante la stesura di queste inquisizioni ho letto l’ultima fatica di McCarthy Il passeggero (Einaudi, trad. M. Balmelli), e sono rimasto colpito da alcuni dati che possono avvicinare il romanzo ai FK e in particolare la parte quarta, libro undicesimo, capitolo IX, Il diavolo, L’incubo di Ivan Fedorovic. A colpirmi nei due romanzi è appunto il colloquio tra i protagonisti – da una parte Alicia e dell’altra Ivan – e le due essenze demoniche. Scrivo demoniche e non demoniache, perché nel leggerli ho avuto l’impressione che appunto tali personaggi, non si nutrano di un immaginario legato alla dannazione, inferno, peccato e colpa, ma rappresentino il daimon, il destino, la necessità di essere ciò che si è. 
The Kid, il diavolo che visita Alicia, e il diavoletto in grisaglia di Ivan hanno in comune l’ironia, una certa propensione al gioco di parole, una volontà precisa e netta di voler essere riconosciuti come presenze reali, reclamano per loro un attivo senso di partecipazione alla vita dei loro interlocutori, si credono e – in un certo senso – sono decisivi per il destino, per le scelte dei personaggi nel corso libro: la loro azione è tale che essi diventano fondamentali per descrivere e comprendere i futuri dei loro fratelli (Il passeggero come i FK è un romanzo di fratelli). 
Come ho sostenuto nelle pagine precedenti, durante la lettura dei FK, si ha l’impressione che i protagonisti siano posseduti dai sentimenti, dalle emozioni, le quali sono esterne, dissociate, staccate e lontane dai personaggi. Questa descrizione corrisponde all’immagine dei personaggi del romanzo come narrativamente degli schizofrenici: cercavo in qualche modo di trovare una spiegazione a questo fenomeno e l’ho trovata in Operatori e cose. Confessioni di una schizofrenica di Barbara O’Brein (Adelphi, trad. M.Baiocchi). Questo sentirsi posseduti da qualcosa che è estraneo eppure verissimo, concreto, presente, reale e visibile è tipico dello schizofrenico, che vive una realtà  altra, nuova, diversa e paranoica in quanto essa è misura e idea di ciò che la sua mente crede sia la verità. 
Alicia ne Il passeggero, dopo un’iniziale titubanza, non mette mai in dubbio l’esistenza di The Kid, anzi diventa un medium di guardare il mondo ed i loro dialoghi diventano veri e proprie ricapitolazioni sul mondo e sul possibile tentativo di spiegarlo. Qualcosa di simile avviene nel dialogo tra Ivan e il suo operatore; a livello narrativo, ciò che avviene tra Ivan e il suo diavoletto domestico è sintomatico di tutti i personaggi dei FK, quasi che il mondo in cui vivono fosse un ampio delirio paranoico. 
Nel saggio Paranoia (Bollati&Boringhieri) Zoia scrive: «Il paranoico è spesso convincente, addirittura carismatico. In lui il delirio non è direttamente riconoscibile. Incapace di sguardo interiore, parte dalla certezza granitica che ogni male vada attribuito agli altri. La sua logica nascosta procede invertendo le cause, senza smarrire però l’apparenza della ragione». Nei personaggi dei FK tale movimento è visibile in diverse pagine, anche se in D esiste una sfumatura particolare rispetto all’idea di alterità: nei romanzi di D, e in particolare in FK, l’altro è assunto come capro espiatorio, è la possibilità di dare la colpa, sgravandosi della propria. Nel delirio paranoico di Ivan l’altro diventa il demonio, che diventa Smerdjakov. I personaggi dei FK vogliono trovare (e li inventano se non ci sono) degli operatori: la loro stessa malattia (il dubbio? la mancanza di fede?, la ‘russità’?, la vastità della vita e la piccolezza dell’uomo?) produce in loro questa spasmodica ricerca dell’altro come l’elemento paranoico, sia esso Dio, il diavoletto, il nichilismo, per cercare una spiegazione diversa al mondo così come è. Il più immune a questa paranoia è ancora una volta Dimitri: egli è il balordo, ma è quello più deciso pronto ad accettare la vita per ciò che è e non per ciò che gli “operatori” dicono sia. 
I FK, come ogni classico che si rispetti (non è necessario neppure far riferimento alle tesi di Calvino), continuano a parlarci; certo, come ci ha ricordato Nabokov D non è un profeta, ma di certo ha intravisto qualcosa di questo nostro mondo, ovvero ciò che è diventato il reale nucleo narrativo della attuale modernità: la paranoia – il tentativo costante e continuo di produrre immaginazioni, narrazioni, costruzioni di senso che giustifichino le nostre sconfitte, le nostre brutalità, le nostre cattiverie.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte X

di Demetrio Paolin

Mi pare, ora, maggiormente chiaro cosa io intenda per economia romanzesca ovvero il modo con cui i personaggi si relazionano tra di loro, e su come il loro relazionarsi in qualche modo operi “cambiamenti” nel mondo narrato dal romanzo. Intendo, quindi, la parola economia con una sfumatura teologico religiosa, in particolare quando si discute di economia della salvezza o di economia trinitaria come descrizione possibile del rapporto tra il Dio, Cristo e lo Spirito Santo. Le cose che riprendo qui, in parte e di certo piegate alle mie esigenze di lettura, sono spunti che Agamben sviluppa ne Il regno e la gloria (Bollati&Boringhieri), e che in parte trovano eco nel saggio di Kristeva Il demone di Dostoevskij (Donzelli), dove la critica afferma come sia centrale nella narrativa di D l’idea dell’economia dell’icona (sicuramente partendo da Florenskij) in cui essa può essere vista come il tentativo di contenere, di dare un ordine, di mettere in chiaro la possibilità di percepire l’immagine di Dio. 
L’economia, quindi, può suggerire sia l’idea di azione (l’idea del progetto), che l’idea di relazione (la messa in pratica del progetto). Quando parlo dei FK come romanzo economico, descrivo tale rapporto come una irrisolta tensione che provo a chiarire analizzando i rapporti tra i fratelli: Ivan, Alesa e Dimitri. La tensione tra di loro si polarizza, secondo me, in due termini: da una parte la terra e dall’altra il mondo. 

Ivan/Alesa = terra

In FK, parte terza, libro settimo, cap IV, abbiamo lasciato Alesa disteso per terra, mentre «non si spiegava quella voglia irrefrenabile di baciarla e di baciarla tutta quanta»: è questo il “miracolo” delle Nozze di Cana (da cui il titolo del capitolo), è il miracolo, la comprensione profonda della morte, della puzza di Zosima: Alesa, come nella parabola del vangelo di Giovanni, capisce cosa vuol dire essere chicco di grano, morire e portare frutto, decide fisicamente di diventare tutt’uno con la terra, di essere seme, per poi essere frutto. Questo stupore terrestre, questa scelta di essere tutt’uno con la terra, rimanda al racconto di Zosima davanti al fiume alla natura priva di peccato e anche al discorso di Ivan sulla sofferenza dei bambini che è introdotto a partire dell’immagine delle foglioline. Ivan e Alesa, mediati dallo Starets, condividono la terra, e ciò che essa rappresenta: una sorta di luogo senza peccato, un’entità a cui tornare; la terra da cui viene fabbricato il nuovo Adamo, tramite la morte di Cristo. È vero, Ivan e Alesa sono agli antipodi come “fede”, ma entrambi condividono questo “amore” per la terra.

Dimitri = mondo

A prima vista, mettere in relazione Dimitri con il mondo parrebbe erroneo perché – ad esempio – etimologicamente Dimitri contiene in sé la terra, la contiene nel suo nome, eppure durante la lettura del romanzo il suo rapporto con la terra è diverso, non ha nulla della assoluta purezza o dell’assoluto desiderio di purezza che anima i discorsi di Ivan e Alesa: la terra di Alesa e Ivan è   redenta, mentre Dimitri tiene in sé il mito di Demetra ovvero la sterilità e la fecondità, il ritornare ciclico delle stagioni: Dimitri è l’idea del tempo che ritorna, con costante avvicendarsi, mentre Ivan e Alesa, in modi diversi ipotizzano, un tempo lineare che arriverà a una fine, che mostrerà una salvezza che produrrà qualcosa di nuovo.
Questa ipotesi trova una serie di conferme in alcuni capitoli della parte terza, libro ottavo, in cui a campeggiare è il personaggio di Mitja. Nel capitolo III parlando della gelosia di Dimitri e mettendola in rapporto con l’Otello di Shakespeare leggiamo «il suo modo di guardare il mondo s’è spento». Possiamo notare che non dice “la natura”, o “la terra”, ma è proprio il modo di guardare il mondo (ecco il riferimento all’economia dell’icona/economia dello sguardo che ritorna) che è spento, modificato, offuscato. Nel libro ottavo, cap. VI, quando è chiaro il suo progetto suicida, progetto più immaginato che mai realmente preso in considerazione, Mitja esclama: «Concedimi di amare fino in fondo… di amare qui e adesso, fino in fondo, cinque ore prima dei tuoi raggi». A colpire è il qui e adesso: in Dimitri non è presente alcuna idea di futuro, non c’è nessuna speranza di futuro, nel dialogo tra Alesa e Ivan la scelta stessa di restituire il biglietto significa che esiste un viaggio con una precisa destinazione e tale destinazione viene ripudiata, ma il fatto di ripudiarla non significa in alcun modo che non esista, anzi ne certifica l’esistenza. Ivan e Alesa parlano la stessa lingua, parlano la lingua di Dio, della teologia, della salvezza e del perdono. 
In Dimitri questo linguaggio non è presente; in libro ottavo, cap. VIII, leggiamo, a parlare è Grusenka, ma tali parole sono benissimo rapportabili a Mitja: «Siamo tutti buoni a questo mondo, dal primo all’ultimo. Si sta bene, a questo mondo. Noi saremo anche cattivi, ma al mondo si sta bene». Il mondo è il luogo in cui anche se cattivi si sta, si vive, è questo nostro mondo, in cui balordi, cattivi, buoni, gentili, assassini, ladri vivono insieme e, diversamente da Ivan e Alesa, né Dimitri e né Grusenka vogliono cambiarlo, ma tenerlo così come è, nel hic et nunc. 
Solo guardando al mondo in questa accettazione, ovvero di un mondo irredento, si comprende l’esclamazione di Dimitri: «ti amerò anche in Siberia». Il luogo della prigionia, della colpa e della espiazione diventa per Dimitri il luogo in cui si può ancora vivere, e amare, in cui può essere ciò che è; non c’è nel suo amore nulla di redentivo, non vuol redimersi e non vuole salvare nessuno, non c’è in Dimitri la tensione alla palingenesi finale che è invece tipica dei suoi due fratelli. 
Il mondo per Dimitri rappresenta il così com’è la terra, per Ivan e Alesa il così come sarà.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte IX

di Demetrio Paolin

Una delle domande più ricorrenti nella analisi della critica letteraria è legata al chiedersi che cosa sia lo stile? In realtà è difficile definire lo stile di uno scrittore; anche il chiedersi in cosa esso consista produce una continua sequela di domande che nascono le une dalle altre. Cosa è lo stile di un autore? Per alcuni potrebbe essere individuato nella qualità della sua scrittura; ma cosa significa dire che uno scrittore scrive bene? Cosa significa scrivere bene, cosa distingue lo scrivere bene dallo scrivere male? D scriveva bene o male? Come facciamo a giudicarlo noi che non conosciamo la sua lingua? Lo stile, secondo altri, potrebbe essere legato alla capacità di creare trame? DFW ci ricorda, ad esempio, come tale qualità possa non bastare. Lo stile, che è lo stigma della grandezza di uno scrittore, potrebbe stare nella creazione di personaggi che sono vividi nella nostra mente oppure, o anche, nella abilità di produrre un discorso metaletterario. Nessuna di queste evidenze presa da sola produce una definizione appropriata di stile, tanto che potremmo immaginare come una relazione tra questi elementi: il romanzo non è tale perché è scritto bene, perché ha una trama avvincente, perché ci permette di riflettere su noi stessi, perché ci mostra personaggi che sembrano reali, ma per l’intima relazione di queste sfere tra di loro: un’unione che potremmo definire economica, una relazione e un rapporto per uno scopo: la produzione della esperienza romanzesca. 
Ho provato a fare un breve esperimento: ho scelto un episodio dei FK e ho provato a analizzarlo, rendendo evidenti quelle che, secondo me, possono essere le relazioni di “economia romanzesca” che producono il romanzo: mi sono soffermato sul libro quarto, della seconda parte, in particolare i capitoli che vanno dal III al VII.  Il centro degli episodi è Alesa alle prese con diversi protagonisti, tra cui Iljusa. Questi capitoli mi sono sembrati tra i più fertili del romanzo, mi si potrebbe obiettare che giunto a questo punto della mia riflessione, avrei potuto utilizzare altri momenti, invece di fare un passo indietro. Ciò può essere vero, ma io credo che una delle questioni centrali dei FK sia l’interpretazione del finale, che non a caso vede nuovamente protagonisti Iliusa (seppur morto) e Alesa con il suo continuo ricordare, rimuginare, riflettere sugli accadimenti raccontati nella prima parte del libro: insomma in quelle pagine, che ho provato ad analizzare, si gioca buona parte della comprensione dell’epilogo. Ho pensato, quindi, per rendere abbastanza chiara la mia riflessione, di scomporre il mio discorso in forma di vettori, limitando i miei interventi ad azioni di raccordo. Ecco il risultato. 

FK, parte seconda, libro quarto, cap. III
La sassaiola avviene all’aperto →    FUORI.
I protagonisti sono tre: a) il gruppetto; b) Alesa e c) Iljusa .
A dividere la scena è un ponte →    SOGLIA. Da una parte a e b, mentre c è da solo.
Iljusa sembra essere il perfetto capro espiatorio, ma è lui ad iniziare la sassaiola →   perché i ragazzi dicono ad Alesa che Iljusa lo riconosce. Iljusa lo colpisce. Ciò produce una sorta di passaggio delle colpe. Quindi è Alesa che domanda quale sia la sua colpa →    perché Iljusa lo morde: come se gli comunicasse il motivo, ma il motivo di questa colpa non può essere descritto a parole, è non dicibile, pregrammaticale → QUALE è la COLPA NON DICIBILE?
FK, idem, cap. IV
L’incontro è nel salotto → DENTRO
Centralità della ferita →    viene curata →    QUALE è QUESTA COLPA NON DICIBILE
Come nella scena precedente, Alesa è al centro di una sassaiola verbale tra Ivan e Katerina. Così come nella scena precedente Alesa interviene credendo di aver capito, invece sbaglia e la colpa cade su di lui.
Le due scene sono assolutamente rovesciate, ma simili. Avvengono una dentro e l’altra fuori, pare che ci sia un colpevole, un capro espiatorio, ma infine a prendere su di sé le colpe è Alesa.
Alesa prende la colpa, ma quale è la sua colpa? →    essere un Karamazov, infatti i bambini dicono che Iljusa lo riconosce, quindi lo riconosce in quanto Karamazov.    Nella scena del salotto si prende la colpa di Ivan, così possiamo intuire che forse la scena precedente la colpa poteva essere di Dimitri o del padre?
FK, idem, cap. VI
avviene nella casa →    CHIUSO
La scena ha tre protagonisti. a) la famiglia del capitano& il capitano b) Alesa e c) Iljusa.
La scena è divisa da una soglia →    la tenda
Il capitolo si conclude con il riconoscimento di Iljusa →    AGNIZIONE
FK, idem, cap. VII
Dialogo con il capitano    avviene fuori →   APERTO
Risponde alla domanda →   QUALE è LA MIA COLPA
Alesa accoglie la confessione, comprende la colpa del fratello e la fa propria →    la dichiarazione di aggiungere anche altri soldi a quelli dati da Katerina → SOLDI, TRADIMENTO – GIUDA? →    se accetto i soldi divento come Giuda, tradisco ciò che sono, divento qualcosa che non voglio essere. 
Rimane da comprendere cosa è Iljusa per Alesa? 
→ MORSO→    CARNE → PECCATO 
oppure 
→   MORSO →    LA FERITA/STIMMATE →    SALVEZZA
Ambiguità del tema dell’innocenza dei bimbi, prepara il ragionamento di Ivan sulla sofferenza dei bambini, e problema della libertà →    tema del Grande Inquisitore.
Come si legano la riflessione di Ivan sul biglietto (SOFFERENZA) e del Grande Inquisitore (LIBERTÀ)? Per comprenderlo forse bisogna notare come l’episodio della sassaiola → SOFFERENZA si concluda, alla fine del libro, con l’immagine dell’aquilone → LIBERTÀ.

Infine, vediamo alcuni nessi ricorrenti
la struttura a chiasmo    → APERTO/CHIUSO e CHIUSO/APERTO
La struttura dei personaggi →    3 contendenti nella sassaiola e 3 dialoganti nel salotto
la definizione non verbale di colpa e vergogna → colpa = morso e vergogna = abbraccio

La capacità organizzativa del racconto in D è il suo stile e lo stile può essere visto come una caratteristica economica ovvero di gestione del disegno, della trama e dei fili, ma il termine economico è ambiguo appunto non si riferisce solo “teologicamente” al disegno di Dio nel mondo, ma anche alla sua attuazione teleologica, ovvero di fine e di scopo: l’economia è un termine polisemico in cui noi possiamo vedere è il progetto nella sua interezza e il realizzarsi dello stesso.  Quando parliamo dello stile come di “economia del romanzesco” descriviamo appunto questa duplicità: leggendo le pagine dei FK riusciamo a vedere il progetto ampio del romanzo, dell’idea di romanzo che D ha ed il suo realizzarsi  continuo.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte VIII

di Demetrio Paolin

Mi rendo conto che le due riflessioni precedenti abbiano a che fare con un tema che ancora non ho affrontato nella sua intera complessità e che non ho neppure nominato ovvero quello della libertà. In base a ciò che abbiamo fino ad ora letto e compreso esiste forse una libertà tragica e una libertà romanzesca. Non tutte le tragedie mettono in campo una libertà tragica (vd Amleto) non tutti i romanzi metto in campo una libertà romanzesca (vd Il processo). In particolare, i FK mettono in relazione la libertà con la felicità e la loro compatibilità. Potremmo porci il quesito nel seguente modo: Può un uomo essere libero e, contemporaneamente, felice? 
Mi pare, a livello profondo nei FK e nell’opera di D, che si inveri la dicotomia tra libertà e felicità. La libertà è incompatibile con la felicità, l’uomo può avere o una o l’altra; i personaggi dei FK sono tutti molto liberi, ma sono tutti nella loro più intima rappresentazione infelici; i personaggi di D sono entusiasti, ma non felici, vivono alcune sensazioni in modo parossistico (pensiamo all’episodio di Alesa davanti alla bara del monaco); la caratteristica dei personaggi di D è appunto l’entusiasmo, da intendere come stato di possessione di Dio o di un dio (che può essere la vergogna, la gioia, la disperazione, la lussuria). In questo senso la descrizione psicologica nei romanzo di D è pre-psicanalitica, egli vede i sentimenti non come qualcosa di interno all’uomo, ma di esterno che penetra all’interno. Nessun personaggio dei FK è felice su questa terra: lo stesso Zosima che puzza dopo la sua morte sancisce l’impossibilità di essere santi, di essere buoni a questo mondo; Zosima non può essere felice perché è libero così come Ivan, neppure l’Inquisitore è felice, perché è libero e ha scelto di rendere felici gli altri privandoli dalla libertà; la privazione della libertà è la possibilità della felicità. 
Qui si adombra la possibile filiazione della libertà romanzesca non tanto dal tragico cristiano, ma dal comico cristiano. Il cristianesimo, se lo guardiamo dal punto di vista della narrazione, non è tragico, ma comico, non sublime ma umile (cfr. Auerbach), il fulcro della fede e della narrazione cristiana sta nel Golgota, ma esso dal punto di vista squisitamente narrativo è “comico”: siamo nel momento di crisi che possiede ogni commedia, prima dello scioglimento finale. I vangeli sono un’opera comica, perché possiedono in sé il presupposto romanzesco: essi sono una sorta di cammino in cui ciò che è affermato all’inizio – Cristo è il figlio di Dio – viene prima messo in crisi da una serie di azioni, fatti, etc etc per poi essere confermato. I vangeli possiedono una struttura narrativa, che possiamo riassumere così: inizio ovvero Cristo=figlio di Dio, azioni che confermano tale identità (miracoli, professione di fede), crisi (azioni che mettono in dubbio tale identità), momento di negazione di quanto affermato a inizio vangelo (la morte di Cristo in croce), la resurrezione ovvero la ricapitolazione della identità iniziale. Il tragico – o meglio, l’occasione di esso – è data all’inizio dell’esperienza religiosa in Genesi, nel momento in cui viene data all’uomo la possibilità di essere perfettamente felice ma di obbedire ciecamente alla legge imposta da Dio o scegliere, quindi essere libero, e decidere di essere perduto/perso, fatto entrare nel flusso del tempo e del mondo. 
Se il romanzo è lo stato/racconto dell’uomo nel tempo (ancora una volta il Vangelo è romanzesco, perché indica l’entrata del Figlio nell’uomo nella temporalità storica), non ci può essere romanzo senza la caduta, la caduta presuppone la produzione del tempo (in un certo senso anche la kenosi è una caduta che modifica il senso del tempo, e lo rinnova); il romanzo non è tragico, perché il destino non è deciso, non è predefinito nel personaggio (Edipo non può non uccidere il padre e sposare la madre, Abramo deve uccidere Isacco, che questo è il volere di Dio [come necessità], ma infine lo risparmia). La libertà è l’opposto della tragedia, perché i personaggi romanzeschi hanno sempre scelta, hanno sempre la possibilità di essere altro da quello che sono; nei FK questo è sempre presente, ogni personaggio è sé stesso, ma potrebbe diventare altro da sé: pensiamo a Alesa nel salotto di Grusenka dopo la morte di Zosima, lì non assistiamo solo a una scena di seduzione, ma una possibile e nuova vita del personaggio: non è tanto importante che Alesa scelga questa ipotesi, ma che ci sia perfettamente credibile a noi come lettori. Nessuno si illude che Medea sia diversa o agisca diversamente da ciò che è, ogni lettura della tragedia è esperienza di questo identico necessario, ma ciò non accade rileggendo un romanzo. 
Torniamo, quindi, alla domanda romanzesca che è contenuta nella sua forma, per me più originale, nel Chisciotte, chi potrebbe affermare/dubitare, entrando in una stanza, che noi siamo noi? In tutti i personaggi dei FK tale identità è in bilico, anzi, il romanzo di Dostoevskij è proprio il tentativo di raccontare questo io traballante, indeciso, inquieto.