di Demetrio Paolin
16 GIUGNO 1904. Il capitolo X dell’Ulisse è una sorta di miniatura di romanzo, suddiviso in 19 sezioni, in nelle quali ogni fatto, episodio o accadimento raccontato è un “a sé stante”, che ha come uno collante il “ritornare” di non alcuni personaggi e luoghi. A dominare le pagine è Dublino: avevamo già visto, nel capitolo VII, che l’apparire della città aveva prodotto una sorta di frantumazione della narrazione in tanti brevi microracconti e, quindi, non ci stupisce che nel cap X si assista a qualcosa di simile. Un’ ulteriore notazione da fare è la contrapposizione ossimorica dei capitolo IX e X, tra chiuso/aperto e uno/molteplice. Nel capitolo IX l’azione avveniva al chiuso (la biblioteca) e aveva un unico protagonista principale (Stephen Dedalus), mentre nel successivo le diverse narrazioni avvengono tutte all’aperto (le vie e strade, l’entrate dei negozi di Dublino) e la scena è dominata da una brulicante umanità.
A tener legati i diciannove spezzoni, quindi, sono alcuni personaggi, che ricorsivamente compaiono nelle diverse sequenze narrative, in tal modo Joyce introduce una riflessione che riguarda il tempo e il tempo d/nel romanzo. La particolarità del capitolo non è tanto data dalla ricorsività del personaggio in sé, ma dal tentativo dell’autore di far apparire le diverse sequenze come sincroniche. Dal punto di vista strutturale, il capitolo è organizzato con un prologo e un epilogo, due brani caratterizzati da una lunghezza maggiore degli altri, in cui vengono raccontate le passeggiate di Padre Conmee [X,341-349] e il viceré [X,385 -389]; le due sequenze narrative forniscono la cornice ai diversi episodi, in cui incontriamo tra gli altri Stephen, sua sorella e suo padre, Molly, Furia Boylan, Leopold Bloom etc etc. Queste prime due sequenze sono costruite a chirale, ovvero speculari – i due protagonisti rappresentano i poteri che governano lo stato (la Chiesa e la Corona) -, ma non sovrapponibili – in quanto a) il padre Conmee si muove a piedi, mentre il viceré si muove in carrozza; b) padre Conmee è attivo, saluta, parla, pensa, niente di tutto questo è ravvisabile nella passeggiata del rappresentate regio.
Il capitolo X, nei diversi schemi dell’autore, è pensato come una trasposizione dell’episodio di Scilla e Cariddi, due mostruosità marine che dominano il racconto di Ulisse; è abbastanza facile vedere nelle due sequenze la figura dei mostri e quindi il rapporto di vicinanza (strutturale) tra l’episodio omerico e la riscrittura di Joyce, ma il cap X rappresenta qualcosa in più.
Come abbiamo detto in precedenza, alcuni personaggi tornano spesso nelle sequenze; nella volontà compositiva dell’autore la loro presenza non vuole mostrare frantumazione, ma istantaneità. L’apparire “quasi” incongruo di un personaggio in una scena ci riporta alla mente ciò che abbiamo letto solo poche pagine prima, e ci aiuta ad orientarci temporalmente nella narrazione, suggerendoci il fatto di assistere a scena che sta avvenendo nell’identico istante di un’altra.
Il «marinaio con una gamba sola, che avanzava, come girando sui cardini con pigri strattoni delle stampelle, ringhiò alcune note» [X, 341] che il padre Conmee all’inizio della sua camminata è lo stesso «marinaio con una gamba sola» che «si stampellò oltre l’angolo dei MacConnel, costeggiando il carrettino dei gelati Rabaiotti»[X, 345]. Oppure altro esempio ancora più chiaro delle intenzioni dell’autore: «Un giovanotto rosso in faccia emerse da un varco in una siepe seguito da una giovane con in mano un mazzo di ondeggianti margherite di campo. Il giovane si precipitò a togliersi il cappello: la giovane si precipitò a chinarsi e con lenta cura si staccò dalla leggera gonna un ramoscello che vi si era appiccicato» [X, 348], la ragazza che torna descritta con le medesime parole e con il medesimo atteggiamento: «La giovane con lenta cura si stacco dalla leggera gonna un ramoscello che vi si era appiccicato» [X, 357].
Joyce trasforma questi personaggi, che appaino e scompaiono nel giro di poche righe dei diversi episodi, dei “marcatori di tempo” a dimostrazione di come – pur nello scorrere delle pagine e della narrazione – l’episodio di p.348 e quello di p.357 avvengono nel medesimo istante. Se dovessimo fornire qui una breve fenomenologia della lettura dei romanzo dovremmo dare per certo che per ogni lettore esiste un ordine dato della narrazione, il quale ci viene fornito una pagina dopo l’altra. Ciò che accade nella pagina ci suggerisce e, in alcuni casi, ci impone il modo in cui gli eventi si organizzano e nel tempo e nello spazio. Joyce cerca, nel cap X, di fare qualcosa di nuovo: la simultaneità. Una caratteristica, questa sì, completamente estravagante rispetto alla forma romanzo così come era/è strutturata – le pagine, l’ordine delle parole, il susseguirsi degli eventi nelle pagine e nelle parole.
Il capitolo X è il tentativo di modificare questa concezione del tempo, una modificazione, che riprende l’idea della narrazione ad anelli tipica dell’epica omerica, ma la parcellizza nelle piccole ricorrenze, frasi e azioni che devono dare l’illusione di avvenire nello stesso momento. La ragazza di p. 348 e quella di p.357 non sono solo lo stesso personaggio, ma sono lo stesso personaggio che nello stesso momento compie la medesima identica azione, annullando così, o tentando così di annullare, il tempo sulla pagina. Questa somma di “piccole” contemporaneità produce, secondo Joyce, il tempo reale narrato del romanzo; l’accumulo di queste azioni sincroniche, che avvengono tutte nello stesso momento e che producono, quindi, una rottura del tempo della narrazione, ci fornirà infine l’esatto tempo in cui il romanzo avviene. Non credo, quindi, che sia un caso che nel capitolo X sveli il “quando” del romanzo: «La signorina Dunne ticchettò sulla tastiera: 16 giugno 1904» [X, 355].
SIGNIFICATO Vs SIGNIFICANTE. L’opera di decostruzione del genere romanzo (cap X, il tempo) iniziata da Joyce continua nel capitolo XI (le parole). Nelle prime pagine del capitolo [XI, 391-394] vengono elencate una dopo l’altra frasi, slegate le une della altre, che saranno riprese nel capitolo a mo’ di refrain musicali. Il capitolo XI è costruito come un fuga, in cui alcuni temi vengono ripresi, variati e riproposti. Dal punto di vista tematico l’undicesimo è un capitolo centrale, perché è ambientato nelle ore del giorno, in cui Bloom sa che sua moglie incontrerà il proprio amante (il “toc toc” della porta che si ripete ossessivamente lungo tutto il capitolo ne è una prova testuale), ed è per questo motivo che Leopold girovaga per la città, come per fuggire e scacciare dalla sua mente quel nero presentimento.
Il tema della musica, quindi, in Ulisse XI, si mescola con il tema del sesso, e con la sua congerie di doppi sensi: i vari protagonisti cantano di amori traditi, disperati, in cui la dimensione del tradimento e dell’atto sessuale è sempre presente: «Suonarla come uno strumento. Soffio di labbro. Corpo di donna bianca, flauto vivente. Soffia con dolcezza. Forte. Tre buchi, tutte le donne. Le dea non ha visto. […]. Molly, quel suonatore di organetto» [XI, 434].
Il capitolo è una riscrittura del tema delle sirene che più volte vengono citate nel corso di queste pagine. Per tale motivo il dato uditivo è dominante nel corso dell’intero capitolo, tanto che una elencazione di ciò che attiene al canto, al suono, al rumore sarebbe impossibile, così come l’intero armamentario di onomatopee, allitterazioni, giochi di parole, rime che sono presenti nell’originale, che ovviamente e in parte si perdono nel tour de force dei traduttori.
Se il tema del cap XI è il canto, e il canto è poesia, non stupisce, dopo averlo incontrato nel capitolo VIII (p.281) e nuovamente in X (p.382), rivedere in queste pagine il giovane cieco, incontrato da Bloom durante il suo girovagare: è lui infatti ad accordare il pianoforte, le cui note risuoneranno per tutto il capitolo: «“È stato qui l’accordatore oggi,” rispose la signorina Douce, “ad accordarlo per il concerto dei signori, e non ho mai sentito un esecutore tanto squisito”.
“Ah sì?”
“Vero, signorina Kennedy? Il vero classico, sa. E cieco, per di più, poverino. Neanche anche vent’anni sono sicura che aveva”.» [XI, 402].
Se nutrivamo ancora qualche dubbio sulla possibilità che Bloom avesse incontrato per le vie di Dublino il cieco poeta dell’Odissea, l’episodio lo dissipa; nel capitolo, dove è maggiore la tensione musicale del romanzo, in cui anzi la trama stessa del romanzo diventa una serie di voci che si ricorrono come in un componimento musicale, l’incontro la presenza di Omero ne suggerisce la centralità e un atteggiamento nuovo e differente di Joyce rispetto alla materia della sua narrazione. Nel cap XI la lingua del romanzo, a partire dal prologo, che la riduce a una serie di enunciati che si ricorreranno nel corso del romanzo, si trasforma in semplice suono, melodia particolare, criptica e incomprensibile come nelle pagine finali, dove i fatti, gli accadimenti perdono di senso e di significato; in cui i dati di trama vengono meno e tutto si scioglie nella cantabilità di una lingua particolare (potrebbe adombrarsi in queste pagine il primo germe di Finnegans wake?). E, infatti, non è casuale come nuovamente – nelle battute finali del capitolo XI – appaia il giovanotto cieco: «Tic. Un non vedente giovincello era in piedi sulla soglia. Non vedeva bronzo. Non vedeva ora. Né Ben né Bob né Tom né Sim né George né i bocc né Rechie né Pat. Eh eh eh eh ei non ci veeva. Siidbloom, visciidbloom scrutava le ultime parole» [XI, 442].
Se capitolo X Joyce modificava il modo di intendere il tempo della narrazione, forzando lo strumento del romanzo nel riprodurre la simultaneità degli eventi della vita, in questa occasione viene messo in crisi il significato delle parole; nel capitolo XI ciò che conta è il suono fine a stesso (la centralità del significante è così forte, che queste pagine più di altre dovrebbero essere lette in originale): la parola, infatti, perde ogni legame con l’oggetto, che narra, e si fa suono, e il romanzo, o meglio la sua lingua, diviene sempre più simile a un canto, a un suono: la trama, i fatti, i gesti diventano fonemi che si inseguono. Tutto diventa suono: l’amore, il tradimento, la solitudine, la morte, la disperazione, il sesso o la bassa corporalità di Bloom, alle prese con un fastidioso mal di pancia, si tramutano in suono, epitaffio e canto: «Kran kran jran. Buona occas. Arriva. Krandlkrankran. Sono sicuro che è il Borgogna. Sì- Uno, due. Sia il mio epitaffio. Kraaaaa. Scritto. Io ho. Prrtpffrrpiftt. Finito» [XI, 442].
Il destino dell’uomo, quindi, non è altro che una pernacchia, limite estremo dell’umiliazione comica, il punto più basso dell’esistente, il proprio epitaffio, la propria fine.