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Demetrio Paolin

In Appunti di Lettura

Céline, “Trilogia del Nord”, postille 16-18

di Demetrio Paolin

16. Una delle prime parole miliari, ovvero che ci accompagneranno per l’intero corso e sulle quali ritorneremo spesso, della Trilogia è “lordura”, la troviamo a pagina 4; l’area semantica che traccia questa parola nel corso della narrazione ha a che fare con lo sporco, il brutto e il deforme: possiamo elencare, ad esempio, in Da un castello all’altro, la vicenda dei bagni e della “merda” che letteralmente fuoriesce dai water, oppure l’apparizione del “cul-in-terra” di Nord o dei “bambini svedesi” in Rigodon. Il mondo descritto da Céline è un mondo sporco, dove a trionfare è appunto il brutto, senza nessuna ipotesi di bellezza (è interessante che quando Céline voglia parlare di bellezza scriva “delicatezza”, come se la bellezza fosse una sorta di contrappeso alla durezza del mondo). Ora che tipo di “brutto” abbiamo davanti ai nostri occhi nel leggere le pagine della Trilogia? Osserviamo questa righe: «si vanta di essere una strega… gli Americani le hanno fatto il culo viola… brutta in un modo che a Quasimodo la cosa gli avrebbe fatto piacere… […]la natura l’aveva ben conciata, tutta la guancia sinistra, una macchia di vino, i capelli rossi, ispidi, a cosa di vacca, gli occhi uno grigio, l’altro azzurro… e strabica pure… non c’è che dire, faceva il suo effetto» (TdN 313). La citazione di Quasimodo ci mette subito sulla strada giusta, abbiamo già avuto modo di vedere come Céline abbia ripreso certi movimenti del romanzo ottocentesco e proprio Hugo si era imposto alla nostra fantasia e immaginazione. La presenza dello scrittore francese è costante in Trilogia, forse anche più di quanto Céline stesso vorrebbe suggerirci: «aggiustate in stracci, più per niente sozzone mondezzaie!… piacenti!… Esmeralde!…» (TdN 388). Oppure le pagine di Nord dedicate al campo degli zingari (TdN 496 e seguenti): «L’Esmeralda chiama gli altri che si sganassino, lei crede che Lili sa manco maneggiarle, che superbia, che ridano di noi piano» (TdN 498). Esmeralda, Quasimodo, zingari: Notre Dame Hugo serve da possibile “caricatura” della descrizione topografica dello Zornhof: il campo degli zingari come la corte dei miracoli, il luogo in cui vengono ritrovati semi morti il conte e la guardia simile al Valdamore. Senza appunto contare la descrizione dei bambini “svedesi”: «tutti torti sbilenchi, teste grosse penzolanti, dai quattro ai dieci anni, pressapoco… Quasimodi bimbi bavosi» (TdN 819). Molti personaggi della Trilogia hanno qualcosa di orribile, come appunto Quasimodo, o sono descritti come personaggi che hanno perduto ogni armonia, ciò che vede Céline è una umanità ridotta a un mostro, a qualcosa di deforme e grottesco.

Attira ad esempio l’attenzione una immagine tra le molte, la riporto: «Cromwell gettato nell’immondezzaio, brulicante di vermi, non aveva proprio il filo!… ha imparato a sue spese! Dissotterrato l’hanno ristrangolato, e riappeso» (TdN 508). Cromwell è il titolo di un dramma di Hugo, importante sopratutto per la prefazione, in cui Hugo proprio teorizza la centralità del deforme, del brutto, nella nuova letteratura. La prima immagine è quella di uno specchio; la letteratura per Hugo è «uno specchio in cui si riflette la natura. Ma se questo specchio è un comune specchio, una superficie piana e limitata, non rimanderà che un’immagine sbiadita e senza risalto […] il dramma deve essere dunque uno specchio concentratore». A interessarci è appunto lo specchio che più che riflettere o rimandare le immagini, le concentra, le deforma e questo punto che Hugo inserisce la riflessione sul brutto: «Il bello non offre che una sola tipologia, il brutto invece ne mostra mille. Il fatto è che il bello, parlando umanamente, non è che la forma considerata nel suo rapporto più semplice, nella sua simmetria più assoluta, nella sua armonia più intima con la nostra organizzazione; ci offre sempre un insieme completo ma ristretto come noi. Ciò che denominiamo il brutto, al contrario, è solo il dettaglio di un grande insieme che ci sfugge e che non si armonizza con l’uomo ma con l’intera creazione: ecco perché esibisce senza sosta aspetti nuovi ma incompleti». La deformazione di Hugo è duplice: da un lato è fisica –  il brutto, il difforme, il fuori scala, in questo senso Quasimodo ne è l’epitome -, ma dall’altro, come bene fa notare Vanessa Pietrantonio in Maschere grottesche (Donzelli), la potenza deformante si innesta anche e sopratutto nella lingua e in particolare nell’argot. Ritorniamo alla parola “lordura” da cui ha preso l’avvio questa nostra postilla, se andiamo a vedere l’originale francese troviamo una parola “pochetée”, che a una prima breve ricerca non è presente nel dizionario classico, di certo è un termine ibrido una delle tante invenzioni/innovazioni linguistiche che Céline compie nella Trilogia. Siamo consapevoli, leggendo le lettere e le varie riflessioni, che per lo scrittore francese fosse centrale lo stile (Céline si definiva uno stilista), e di come fossero la musica, il dato fonetico della parola a guidarlo nella composizione (ne è un esempio la testimonianza della moglie che raccontando “come” vennero risolte le incertezze delle varianti di su Rigodon parla, appunto, di una scelta per assonanza, rima che era presumibilmente suggeriva il modo con cui Céline componeva i suoi testi). È chiaro che il recupero dell’argot e il suo uso siano una della grandi innovazioni romanzesche di Céline; lo scrittore francese fa diventare l’argot la lingua della Trilogia, sostenendo come “l’argot è nato dall’odio”, ma questa sua innovazione deve a Hugo più di quanto Céline voglia farci supporre. Leggiamo questa pagina tratta da I miserabili: “Lingua laida, inquieta, subdola, traditrice, velenosa, crudele, losca, vile, profonda, e fatale nella miseria. […] ora astuta, ora violenta, e al tempo stesso malsana e feroce, essa attacca l’ordine sociale […]. L’argot è appunto la lingua di battaglia che la miseria ha inventato”. E ora leggiamo questa riflessione di Céline: “Credetemi, conosco bene l’argot, tutti gli argot, ahimè! il vero argot è quello di Villon,sebbene già più accademico, ma soprattutto quello delle Chansons de Mandrin, che del resto ben pochi conoscono…No l’argot non si fa con un glossario, ma con delle immagini nate dall’odio, è l’odio che fa l’argot. L’argot è fatto per esprimere i sentimenti veri della miseria. […]. L’argot è fatto per permettere all’operaio di dire al suo padrone che detesta: tu vivi bene e io male, tu mi sfrutti e giri con un macchinone, ti ucciderò…”. Hugo e Céline parlano, o meglio, scrivono la stessa lingua nata dalla miseria, dall’odio e dal sopruso (curiosamente questa lingua umiliata, questa lingua che possiede solo parole negative, di rabbia, odio, umiliazione e sopruso è vicinissima alla lingua familiare – “la bizzarra parlata dei nostri padri” –  di Primo Levi, il quale nel Sistema periodico ne descrive come “evidente” “la radice umiliata”). L’argot nasce dal rovescio della civiltà, in questo modo possiamo comprendere come il segreto più profondo della  Trilogia ovvero la messa in scena di una lingua che si pone in contrapposizione rispetto alla lingua letteraria ufficiale: «potrei inventare, trasporre… quello che hanno fatto tutti… la cosa passava in antico francese… Joinville, Villehardouin l’avevano facile, si sono mica fatti scrupolo, ma il nostro francese qui, intisichito, così striminzito lezioso, accademizzato, quasi a morte, mi farei trattare da ancora più abbietto, stronzo delle Pleiadi e non mi venderebbero più per niente» (TdN 813). Chiaramente la deformazione dei corpi, che non risparmia nessuno, nemmeno Lili – «anche Lili pure carina, tratti regolari, per niente criminale, eccola matrigna, assassina, capelli in furia e Sabba, strega sul declino, lei che non vent’anni» (TdN 338) –, è il segno, il primo e il più visibile, di una visione della deformità che domina ogni cosa. «Il personaggio narratore, unico spettatore destinato a rimanere sulla soglia, si trova così di fronte a una coralità che, nel mettersi a nudo, si serve di un megafono improvvisato per celebrare l’orrore, facendone, addirittura, l’apoteosi», queste parole che la Pierantonio dedica a Hugo possono essere declinate alla lettera per la scelta e la motivazione di Céline nella composizione la sua Trilogia: una apoteosi dell’orrore.

17. Quando arriviamo a Zornhof, nel mezzo di Nord, che è poi nel mezzo della Trilogia veniamo accolti da una serie di personaggi molto stravaganti e strani, di cui forse il più stravagante e strano è il vecchio, di cui ci viene descritta la passione per essere picchiato e frustato dalle sue giovani bambine. A prima vista questo potrebbe essere letto alla luce di un sadismo spicciolo, ma se ci soffermiamo con più attenzione su tale descrizione, potremmo vedere come essa rappresenta una spia della possibile matrice sadiana più che sadica della Trilogia.

Possiamo intanto notare come un tema tipico dei libri di De Sade sia il viaggio, nei romanzi  del marchese si viaggia molto (si legga in questo senso Barthes di Sade, Fuorier, Loyola), ma il termine del viaggio è sempre uno, la meta è sempre una, una possibile chiusura, l’arrivo in un luogo che in qualche modo ha le stimmate della prigione: in questo senso lo Zornhof (ma prima anche Sigmaringen) è un perfetto luogo sadiano, popolato come è da strani personaggi con strani gusti sessuali, o malattie, o comportamenti al limite dell’abiezione; si  pensi solo al vecchio che porta Iago, il cane, in giro per la tenuta, così da mostrarne la magrezza, simbolo della fame che attanaglia tutti, a significare che tutti stanno vivendo di stenti; una pratica che porterà il povero animale ha morire durante una di queste “passeggiate”.

Altra immagine sadiana è l’impiccagione: riprendiamo la citazione su Cromwell (TdN 508), in quel brano leggiamo della riesumazione di un cadavere, e di una nuova impiccagione, ma non è l’unica: «Esatto! Vi dicevo nell’altro mio libro, dal momento che sei designato, il tuo collo, la tua corda!» (TdN 440); «Che ti impicchino! E presto! Alto, basso! In che stile vai a sdondolarti!”; “pendagli da forca, sospetti ovunque, traditori per la Francia e la Germania… […] un bel momento viene solo una domanda: perché non ti hanno impiccato?» (TdN 509). C’è un legameche collega il nodo, il tradimento, l’impiccagione e la punizione, che così De Sade esemplifica: «Non ci rimangono che due alternative: o il crimine che ci rende felici o il nodo scorsoio che pone fine alla nostra infelicità». L’impiccagione, quindi, è topos stratificato, quando lo leggiamo in Céline: ci ricorda la Ballata degli impiccati di Villion, che abbiamo visto Céline conosceva bene e al quale guardava come costruzione del proprio stile, ma la corda, il nodo e l’asfissia sono alcune della immagine topiche e tipiche dello stile sadiano o meglio che si radicano nello stile, in particolare, nella parte legata alla descrizione delle orge. La descrizione tipografica, cioè dell’organizzazione dello spazio della pagine di De Sade, fatta da Barthes, ci permette di cogliere tale particolarità: «Chi sfoglia i libri di De Sade sa bene che vi si alternano due grandi forme tipografiche: pagine fitte, continue: è la grande dissertazione filosofica; pagine spezzate da spazi bianchi, capoversi, da punti di sospensione, di esclamazione, linguaggio teso, bucato, vacillato: è l’orgia, la scena libidinosa o criminale». Nella Trilogia Céline prova tipograficamente e stilisticamente una sorta di summa infatti le pagine céliniane sono “fitte”, “continue”, “spezzate” “da puntini di sospensione, di esclamazione”, e il linguaggio è appunto (vd 16) “teso, bucato, vacillato”. La componente sadiana di Céline non è però legata al sesso, c’è qualcosa in Da un castello all’altro, la sfortunata storia di Clotilde e del Commissario Papillon (TdN 176 e seguenti), le scena del Stazione che diventa un bordello sempre in Da un castello all’altro, ma al crimine. L’io narrante si presenta come un libero pensatore, che va contro ciò che di solito pensa, è – in una parola – un libertino, termine che nella cultura francese possiede un’aura molto più complessa di quella che cogliamo noi oggi. Tale sguardo straniato sul mondo, che è lo sguardo della “canaglia” (per riprendere un termine che abbiamo già analizzato) è lo stesso di De Sade, e certificata l’idea di mondo, una storia, e una società tenute insieme da una sorta di Dio Malvagio, di essere supremo che è la copia distorta, terribile e grottesca dell’Essere Supremo, il culto viene sancito in Francia nella Costituzione (mai applicata) dell’Anno I (1793). De Sade scrive: «Convinto di questo sistema, mi dico: c’è un Dio; una mano qualunque ha creato necessariamente tutto ciò che vedo, ma lo ha creato soltanto per il male, essa si compiace soltanto nel male, il male è la sua essenza (…). Nel male egli (Dio) ha creato il mondo, con il male lo regge, con il male lo perpetua. Impregnata di male la creatura deve esistere e in seno al male deve rientrare dopo la sua esistenza». Ad una prima lettura della Trilogia l’immaginario religioso è di certo poco presente. Nel corso dei romanzi, però, l’assenza di Dio viene rotta da alcune bestemmie che, sopratutto in Rigodon, tornano insistite: in Céline la bestemmia diviene de facto una lamentazione, un sberleffo a qualcosa che esiste e che se ne sta indifferente sopra di noi; la bestemmia è tipica della visione De Sade come rovesciamento grottesco della preghiera in un mondo appunto  retto dal Male, costituto di Male, e mosso a Male.

Il mondo di Céline è retto dal male? Potremmo provare a rispondere a questa domanda con l’episodio del “pugno alla scatola di legno”. Céline, citando (ancora una volta fraintendendo il testo) Bergson, scrive: «riempite una scatola di legno, una scatola grande, di limatura di ferro molto fina, e ci date un pugno dentro, un pugno forte… che cosa osservate? Avete fatto un cratere… della forma esatta del vostro pugno! Per capire che cosa è accaduto, quale fenomeno, due intelligenze, due spiegazioni… l’intelligenza della formica sbalordita stravolta, che si chiede per quale miracolo un altro insetto, formica come lei, ha potuto […], e l’altra intelligenza, geniale, la vostra, la mia, una spiegazione che è bastato un semplice pugno» (TdN 707). Ciò che mi chiedo io è: chi dà il pugno? La nostra intelligenza, superiore a quella della formica, comprende che a generare il cratere è stato un pugno, ma il romanziere, lo scrittore si deve chiedere: perché viene dato un pugno, perché proprio il pugno? C’è qualcosa fuori dalla scatola che cala il suo braccio e questo potrebbe essere Dio, l’essere supremo, ma supremo e malvagio, perché si palesa nella storia (romanzo) e nella Storia (esistenza) dell’uomo con un atto di violenza. Il dato sadiano, quindi, agisce in profondità costituendo quella che è la visione e l’organizzazione del mondo in cui i personaggi della Trilogia si muovono; un mondo dove Dio c’è ma è un essere crudele che dà un pugno e rompe ogni cosa.

18. «riconosco il posto… proprio così, davanti all’Hotel Esplande… oh non mi sbaglio!… ma ammaccato e tutto crepato, l’Hotel Esplande, il tetto cadente gli spenzolava davanti.. direi per ridere: surrealista!» (TdN 832). Questa descrizione attira la mia attenzione soprattutto per l’aggettivo che la conclude, Céline sicuramente è stato un attento lettore e osservatore che ciò che accadeva nella Francia delle lettere proprio nel momento in cui, ad esempio, si apprestava a esordire; quindi possiamo immaginare che abbia letto e abbia riflettuto sul manifesto del surrealismo che Breton aveva prodotto. Uno dei momenti più interessanti di questo manifesto è a ripresa del famoso “incipit puro” di Valery, «la marchesa uscì alle cinque»; su questo incipit si concentravano tutte le ironie e i sarcasmi dei surrealisti per un tipo di narrazione, che aveva fatto il suo tempo.

E Céline? Dovremmo pensare che egli sia in linea con questa concezione di rinnovamento, eppure se andiamo a guardare con attenzione e ciò che abbiamo analizzato in queste postille possiamo fare alcuni nomi degli autori che più in profondità agiscono nella sua prosa: Cervantes, Shakespeare, De Sade, Hugo… Non è quindi casuale che Céline scriva: «Pare che sia del tutto passato di moda scrivere “che alle dieci il calesse delle contesse era venuto avanti” ah vacca miseria! Che ci posso fare se vado giù di moda?» (TdN 531). Céline ha ben chiaro, in questo passo, e nei molti altri  che dissemina lungo i romanzi, la Trilogia potrebbe essere anche letto come una lunga riflessione meta letteraria sul romanzo, che la sua novità sta appunto e forse nel recupero di alcuni modi di raccontare gli eventi che possono parere obsoleti agli occhi di molti innovatori. Abbiamo visto che Céline si muove nel campo dell’inter-testualità come un uomo tra le macerie dopo una esplosione, ne raccoglie brandelli, né salva piccoli pezzi, li ricompone secondo una sua personale sensibilità; ad esempio il termine “cronaca” per descrivere la Trilogia secondo l’uso di alcuni scrittori medioevali francesi o l’utilizzo dell’argot (vd 16) alla luce di Hugo. Avevamo messo in evidenza, sin dalle prime postille, come l’utilizzo della punteggiatura, sopratutto, dell’esclamazione poteva essere visto come debito “stilistico” verso Hugo e Balzac, di Hugo abbiamo già detto, ma Balzac?

È chiaro che lo sberleffo di Valery, che Breton riprende, ha proprio come oggetto il romanzo dell’ottocento, che vede in Balzac il suo più grande interprete; Céline cita chiaramente due volte Balzac la prima parlando della pelle dello zigrino, uno dei romanzi centrali della Comedie Humaine, e poi nelle pagine conclusive di Rigodon, quando appunto dichiara che Balzac ha vissuto per un periodo a Meudon: «Balzac giusto!… Balzac sarebbe venuto a Meudon… avrebbe abitto a Belle-vue in casa del conte Apponyi» (TdN 897). La Trilogia insomma si chiude all’ombra del grande romanziere francese, quello che sognava di “portare un’intera società nella sua testa”, la sua presenza in chiusura non è casuale: Céline con la Trilogia ci fornisce una descrizione che per certi versi poteva essere molto simile a quella di Balzac: se il primo voleva rappresentare la Francia nel XIX secolo (e con la Francia il mondo, stando alla felice intuizione di Wilde), Céline compie un’azione simile: rappresenta tutta la prima metà del XX secolo, nel suo punto apicale e finale, pochi istanti prima che scompaia. Rigodon (e la Trilogia di conseguenza) è libro “finale”, perché sono le ultime parole scritte e pensate di Céline, un libro scritto mentre le Parche gli rosicavano i fili, scritto in furia proprio perché la pelle dello zigrino è ormai giunta alla fine. È un libro sulla morte di un’epoca e sulla sua, di Céline, personale morte: «ho adesso sessantasette anni, la mia pelle di zigrino così ristretta, dovrei essere crepato dal un bel pezzo, ho fatto tutto per… applaudite» (TdN 885). Ora, come sempre, la citazione di Céline non è corretta completamente, necessita di essere esplicitata: nel romanzo di Balzac la pelle dello zigrino è una sorta di amuleto magico che il protagonista (Rafael de Valetin) ottiene da un usuraio, la pelle ha una particolarità: è costruita a misura della vita del suo possessore, a ogni desiderio, che magicamente viene esaudito, essa si ritira fino a svanire, decretando la morte del suo possessore. Valetin, dopo una vita dissoluta, si accorge che la pelle dello zigrino è ormai poco più di niente e cerca di rimandare la morte, vietandosi qualsiasi desiderio, ma infine le parche avranno ragione di lui… La pelle dello zigrino è ristretta: Céline scrive sapendo, oscuramente di certo, ma sapendo che questo sarà il suo ultimo romanzo; e così, proprio come in una recita, si mostra infine nelle ultime pagine al centro del palco da solo, i rumori della storia sono passati, tutto è consumato, anche il suo amuleto, e lui ci guarda oramai vecchio e stanco, sta per farci l’ultima confessione – «ho scritto tutto per…» – in cui forse ci racconterà quello che ha nel cuore, il suo ultimo pensiero, il motivo per cui ha scritto questo romanzo, ma invece con un movimento, da clown quale ha voluto farci credere di essere, ci chiede un applauso. È il suo ultimo desiderio, quello finale, che infine al braccato, all’impostore, al traditore venga concesso il giusto applauso. Noi sappiamo, e Céline lo sa perché è conoscitore di Balzac, che con questo ultimo desiderio, la pelle dello zigrino si consumerà e all’autore non resterà che confondersi con “quelle profondità spumose che più niente esiste” (TdN 898).

In Appunti di Lettura

Céline, Trilogia del Nord, postille 14-15

di Demetrio Paolin

14. «Il resto è blablà» (TdN 771). Sarebbe scontato sostenere la centralità della presenza dell’Amleto nella Trilogia del Nord partendo da un dato puramente vettoriale/geografico: il Nord a cui i protagonisti tendono è, appunto, la Danimarca, terra del principe pallido. Nella realtà la presenza di Amleto lungo i tre volumi della “cronaca” è molto più ampia, di cui è memoria proprio questa citazione, che troviamo in Ridogon, e che sono le ultime parole pronunciate da Amleto prima della sia uscita di scena: «Il resto è silenzio». Come abbiamo notato (vd 12), quando ci troviamo in presenza di citazioni più o meno esplicite nella Trilogia, le scelte di Céline non sono mai neutre, e per tale ragione proviamo ad analizzarla da vicino.

La citazione di Céline, così come riportata nella Trilogia, è presente almeno in altre due occorrenze: in Bagatelle per un massacro e in una lettera cui riflette sui suoi ascendenti letterari (Lettere agli editori Quodlibet). Tali evidenze sono sufficienti per sgombrare il campo da qualsiasi idea di mero decorativismo o di semplice calembour, e per segnalare – invece – un percorso all’interno della riflessione céliniana. È indubbio, comunque, che la citazione, pur facilmente “rintracciabile” alla sua origine (nessun lettore, neanche il meno avvezzo all’opera di Shakespeare faticherebbe a riconoscere la battuta del principe danese), abbia negli esiti della Trilogia tutt’altra cadenza.

In Amleto la frase ha una portata gnomica, morale, si staglia nell’ambito del dettato del testo con la sua grandezza ultima: sono le parole finali con cui l’eroe si congeda, esse rappresentano supremamente l’ambiguità di sentimenti, di visione, che il protagonista ha nei confronti dell’esistenza; rappresentano uno sguardo sul mondo da cui nessuno fa ritorno; sono – a volerla guardare con attenzione – una sorta di summa delle aporie attraverso le quali è costruito il personaggio di Amleto; inoltre è una frase, che interroga anche il lettore o lo spettatore della tragedia: cosa è per lui “silenzio” e cosa si intende per “resto” (è questo un enunciato sommamente polisemico che si apre a diverse se non opposte riflessioni).

Ad una prima lettura la battuta shaschespiriana nella Trilogia si configura come una riduzione; tutta la carica morale, filosofica viene disintegrata da Céline nella sua riscrittura della frase; c’è di più. La citazione ci pare contraddica ciò che il principe di Danimarca morendo sostiene, il “resto” non è silenzio, ma anzi è un fragore, un rumore bianco di fondo, che continua e istupidisce tutta l’esistenza: il blablà a cui fa riferimento Céline è il continuo borbottio a cui lui stesso ci ha abituato e nella sua prosa e nelle sue interviste (sarebbe interessante vedere e costruire una sorta di parallelo tra il modo in cui lo scrittore francese compone le sue frasi e il modo in cui parla durante le interviste).

Eppure questo blablà potrebbe ricordare e rimandare alle molte onomatopee presenti nel libro, potrebbe essere, quindi, spia di quel linguaggio pre-grammaticale, di cui le pagine della Trilogia abbondano a volte come ironica rivisitazione dei comics  e altre – il più delle – volte come tentativo provare a descrivere ciò che è accaduto durante i terribili bombardamenti degli alleati, di cui Céline è stato testimone.

Quindi a guardarla con più attenzione la citazione céliniana dell’Amleto è meno lineare di quel sembri a prima lettura. Per spiegarla, mi concedo, una piccola digressione: ho sempre creduto che una delle funzioni essenziali del romanzo sia la parodia; con essa non intendo individuare un semplice rovesciamento di un concetto, di un’idea o di una immagine. Tale stravolgimento produce non impoverimento del sapere, ma anzi una sua nuova e più complessa forma: l’esempio più lampante di tale ipotesi è appunto il Chisciotte di Cervantes, il quale è di certo parodia dei poemi e dei romanzi cavallereschi rinascimentali e tardo rinascimentali, ma non è solo questo. L’esito parodico della Trilogia ormai un dato acquisito di queste nostre postille: un’odissea senza ritorno, un romanzo che si frantuma in cronaca, una lingua che perde per la sua grammatica; e quindi ciò che accade nel macro si riverbera anche nel micro.

Abbiamo visto come la citazione céliniana, nei confronti di Nietzsche, di Cervantes, di Balzac, rappresenti una sorta di setaccio tra le rovine: il mondo “letterario” è esploso e lo scrittore si aggira per questa biblioteca disfatta e trova lungo il suo cammino dei resti, dei rimasugli, delle cianfrusaglie che rappresentano ciò che resta dell’archivio del nostro sapere. In questo orizzonte si comprende meglio il significato e l’utilizzo della citazione: essa è il “resto” di quella grande tragedia. Ciò che rimane di quel caposaldo del nostro sapere sono alcune parole, che lo scrittore non può neppure riprodurre in maniera esatta; la grande letteratura, il grande sistema culturale, che ha formato l’uomo, che ha definito l’umano nella sua essenza, Umanesimo, Rinascimento, Barocco etc etc tutto ciò che eravamo abituati a concepire come orizzonte del nostro vivere, dopo la guerra, dopo la distruzione totale avvenuta tra la prima e seconda guerra mondiale, si è ridotto a una vuota lallazione. Letta in questa prospettiva, la citazione proprio nel suo proporsi come antifrasi – silenzio vs parlottio – rispetto all’originale, in realtà non fa che confermarne l’assunto.

La tragedia di Shakespeare è il ritratto di un personaggio e di un mondo che non riconosce più in sé stesso, di un momento di passaggio, tra il vecchio e il nuovo, tra qualcosa che è noto, ma ormai morto, e qualcosa che deve venire ed è rappresentato come sconosciuto: questo bifrontismo è caratteristico di Amleto, ma lo stesso Céline, o meglio l’io narrante della Trilogia, si trova ad agire in una situazione molto simile, il mondo in cui lui aveva vissuto era andato in frantumi, era saltato via del tutto, e se annunciava un altro che stentava a comprendere (forse l’antimodernismo di Céline sta appunto in questa mancata comprensione). Il “silenzio” di Shakespeare e il “blablà” di Céline sono simili indicano le macerie di un mondo che non c’è e lo spavento rispetto a ciò che sarà.

Non è, però, questa l’unica occorrenza dell’Amleto in Trilogia, soprattutto in Da un castello all’altro, il principe danese viene evocato alcune volte: «Yorick! Niente alas» (TdN 92); «ah not to be! Be» (TdN 168); «l’Amleto lui l’aveva facile a filosofare su dei crani» (TdN 273). Come si vede le diverse riprese del testo di Shakespeare vengono trattate allo stesso modo, confermando – per sommi capi – il modo di lavorare sul materiale letterario di Céline; egli conosce l’opera di Shakespeare e la riscrive la modifica, come vediamo nella citazione a p.168, nella quale Céline riprende i termini del famoso monologo e li inverte; basta questa semplice operazione, per mantenere da un lato la memorabilità della sentenza, ma calcando ancora più la mano su dato negativo, nichilistico, puntando, quindi, all’attenzione sul “non essere” rispetto all’ “essere. È interessante notare poi che l’ultima occorrenza sia posta all’interno della scena del funerale di Bichelonne (TdN 270 e seguenti). La descrizione delle cerimonia funebre del ministro collaborazionista ha profonda portata comica e parodica, dove il tono basso e corporale della prosa céliniana ricorda il linguaggio scatologico con cui i becchini dell’Amleto discutono dei morti; ecco come Céline vede il morto: «Bichelonne è in scatola» (TdN 272); Céline poi continua: «è proprio Bichelonne sta bara?… nessuna fiduca coi Tedeschi… sai mai… comunque una bella bara!, ha più conti da rendere a nessuno, Bichelonne!». (TdN 273). Notiamo un passaggio interessante: nella prima citazione il morto è ancora separato dal suo contenitore, nella seconda contenitore (bara) e contenuto (Bichelonne) sono divenuti una cosa sola. L’uomo si riduce alla sua bella bara, non è neppure importante che sia realmente lì dentro. È questo un procedimento tipico di Céline che trasforma ogni cosa in paesaggio, in scenografia, uomini, prati, colline, strade, città tutto diventa una sorta di sfondo in cui l’io narrante si muove, ciò che viene rappresentato come sempre vivo e vivente è ciò che è pare più estraneo o lontano dall’umano (gli animali e i bambini “svedesi” come vedremo in una delle future postille). Ritornando al funerlae, esso avviene in una atmosfera comica; la delegazione, che ha viaggiato per portare l’ultimo saluto al ministro, si trova nel bel mezzo del niente, tra la tormenta di neve, il freddo terribile e una banda militare che per fare gli onori suona la Marsigliese. La scena dei becchini, che è forse una delle scene più emblematiche riproposte e riscritte dell’Amleto, contiene al suo interno la rappresentazione profondamente creaturale dell’uomo: il becchino, con una sorta di ironia dissacratoria, di chi è abituato a maneggiare la morte (i cadaveri, le tibie, i teschi) mostra a Amleto ciò che prima o poi ogni uomo sarà; questo atteggiamento dissacratore e nel contempo pietoso, la cui genealogia letteraria Céline non esplicita mai, ma che secondo me è appunto legata alla scena di Amleto, è presente in ogni pagina della Trilogia, tanto che ad un certo punto Céline esclama, siamo verso la fine di Rigodon: «oh sì più niente conta, se non la canzonatura e il cimitero» (TdN 849); canzonatura e cimitero potrebbero essere le due parole lungo le quali si muove non solo l’episodio dei becchini, ma l’intera parabola di Amleto, e tra canzonatura e cimitero vive anche Céline della Trilogia in particolare di Rigodon. L’io narrante non rivendica mai per sé il ruolo di protagonista di una tragedia, non sarebbe nelle corde della sua scrittura, ma fa in modo che il lettore comprenda questa vicinanza con il principe danese, ad esempio quando esclama: «dovunque io arrivo, tutto diventa marcio» (TdN 852), a sigillare appunto quella corrisponde con il principe di Danimarca, dove sappiamo c’è del marcio.

15. Oltre a questo dato testuale, non certo marginale, c’è altro mi spinge a guardare all’Amleto come una delle “fonti” nascoste della Trilogia o almeno come uno dei testi con cui Céline dialoga maggiormente. Per farlo vorrei provare a seguire una suggestione legata alle descrizioni delle città in rovina, che troviamo nella Trilogia; ora non è possibile in queste postille soffermarsi su ogni dato testuale legato alla categoria “distruzione”, “rovina”, “bombardamento” etc etc, ma si potrebbe notare come il paesaggio delle città distrutte in Trilogia sia quasi sempre vicino a una idea di “rappresentazione teatrale”, quasi i personaggi si muovessero tra «il teatro e le quinte» (TdN 887). L’impressione più forte del paesaggio come “messa-in-scena” lo abbiamo quando i protagonisti entrano nella città di Berlino: «fra poco non ci saranno più marciapiedi, troppi mucchi, troppo alti, troppo larghi, piramidi… ve l’ho già detto, le facciate che restano, sbolgiano, sventolano, cedono, si scrostano al vento… […] fra poco resterà più niente delle case… altro che rovine e crateri» (TdN 336).

L’immagine che domina qui, quella che ci viene fornita come lettori, è appunto di una quinta teatrale, come se dietro non ci fosse niente, un vuoto totale, lo stesso che Céline ci presenta qualche pagina prima: «niente! Il vuoto… oh, un vuoto di ben sette piani» (TdN 333). Berlino non è più una città, ma semplicemente uno scenario: «ma io conosco lo scenario delle facciate, credo che una strada esiste, esiste più… tutto il suo interno, travi, mattoni, scale, gli spenzola dalle finestre… o si trova a mucchi davanti alle porte… se vedi di lontano, una certa altezza di mattoni, è questo tutto il ricordo dell’edificio…» (TdN 330). Non esistono più edifici, ma ricordi di essi, come se le abitazioni fossero esseri umani morti; e così le squadre impegnate nella raccolta delle macerie portano alla memoria di Céline i beccamorti, così il passaggio dai becchini alla tragedia di Shakespeare è nella logica della narrazione: «…ste squadre di vecchi beccamorti lavorano per l’avvenire! Amleto era poco meno che una matricola… dialettico e viziato avesse attaccato il Castello, demolirlo pietra su pietra… gli avrebbe fatto un bene boia! Avrebbe sgranato meno alas…» (TdN 336).

C’è quindi un rapporto tra le rovine delle città distrutte dai bombardamenti e la tragedia di Shakespeare, un rapporto che potrebbe fare vedere la Trilogia come il romanzo, o la narrazione, che più di ogni altro è riuscita a mostrare le macerie che le due guerre mondiali hanno prodotto. L’Amleto è un’opera enigmatica, che ha come paradosso quello di essere irresistibile e inafferrabile (devo questi due aggettivi alla lettura di In cerca di Amleto di Pietro Biotani, edito da il Mulino), essa sfugge a qualsiasi classificazione e ossessiona tutti coloro che vengono in contatto con quelle parole. Amleto nella Trilogia diventa una figura simbolica, un paradigma, ma di che cosa? Amleto è l’Europa, egli come Chisciotte, come Faust, rappresenta al meglio questa idea, questo luogo geografico, questa categoria dello spirito: se Chisciotte raffigura l’orizzonte che si apre, la grandezza dello spazio e dell’avventura che abbiamo davanti, se Faust è la tentazione della grandezza, Amleto è il demone dell’ironia, dello sguardo sulla rovina delle cose, è il tentativo di comprendere il perché del continuo guastarsi del tempo, della vita, dell’incessante processo di distruzione, è la tentazione di uccidersi o di uccidere; è il segreto inesplicabile del cuore dell’uomo.

Paul Valery aveva intravisto tutto questo nel suo saggio Crisi del pensiero, nel quale immagina un Amleto (il suo, perché ogni scrittore ha il “proprio” Amleto) affacciato da una balconata ampia come l’Europa, mentre contempla migliaia di spettri. Questi spettri sono gli stessi che Céline vede nel suo cammino, uomini, donne, con cui scambia una occhiata furibonda o tenerissima; alcune volte Céline si ferma, placa la sua rabbia, che si tramuta in una tenera rievocazione, in tali frangenti la sua gentilezza è a favore degli animali e dei bambini: «tutto fu distrutto intorno a lei, tutto il quartiere, un’ondata di aerei, la casa in fiamme, lei nella sua culla, niente! Siamo tornati a prenderla per riportala al municipio in perfetto stato… mi domando che ne è stato di lei?» (TdN 880).

L’Amleto di Valery è stanco: «I suoi fantasmi sono tutti gli oggetti delle nostre controversie, i suoi rimorsi tutti i titoli della nostra gloria, è oppresso dal peso delle scoperte, delle conoscenze, incapace di rimettersi a questa attività illimitata»; così come è stanco Céline, la cui stanchezza è quella di chi non riesce più a comprendere il mondo in cui vive (forse sarebbe da leggere sotto questa lente la sua continua invettiva a proposito della minaccia gialla; quindi non tanto come dato razziale, ma come dato culturale di un uomo che ha strumenti vecchi per comprendere un mondo troppo nuovo), così proprio come l’Amleto di Valery anche quello di Céline odia e non comprende appieno la modernità e il progresso. Valery scrive che il mondo «battezza progresso la propria tendenza a una precisione fatale» e «cerca di unire i benefici della vita ai vantaggi della morte». Parole che il Céline delle ultime pagine di Rigodon scrive con più amletica forza e comicità: «come noi qui mettiamo domani, arrivato il missile, da Est da Ovest, o Nord, mi darete notizie… chi che sarà comunistissa o no?… anti?… sarete poltiglia ed è tutto! E puttana di Dio per amore o per forza! A questo l’uomo è giunto, il suo immenso progresso ecumenico, pluriatomico, tutti quanti nell’arena» (TdN 815). Alla fine di tutta questa distruzione, di questo disastro, scrive Valery, «vedremo apparire il miracolo di una società animale, un perfetto e definitivo formicaio», immagine questa che non ci può non rimandare alla dedica “Agli animali”, che apre  Rigodon e che si riverbera anche sugli altri due pannelli del trittico, sulla quale torneremo nelle prossime postille, e sulla immagine della formica: «io poi cronista mi trovo a scegliere, il genere formica». (TdN 707). Questa idea del cronista, dello spettatore che osserva il mondo e lo guarda, mentre le cose accadono, riporta alla mente alcune riflessioni del Benjamin del Dramma Barocco tedesco: «Ad appagarlo (Amleto), però, non può essere lo spettacolo che viene recitato per lui, ma solo e unicamente il suo proprio destino». L’Amleto di Shakespeare non è il protagonista di un dramma, ma è il farsi dramma, è il destino dell’uomo, dell’essere umano, i lutti, gli amori, i dolori, le gioie e la follia, che non sono più esterni, guardati da fuori, ma vissuti: in questo senso la scelta cronachistica di Céline è una scelta teatrale, perché porta sul piano della narrazione l’intenzione di mostrare e raccontare ciò che avviene vivendo; siamo davanti a un enorme e lunghissimo “a parte”, in cui l’autore ci mette a conoscenza di ciò che gli accade realmente nel momento in cui gli accade; è come se Céline avesse portato la trascendenza delle cose – la necessità, il destino, la morte, la vita, la gioia – nella immanenza della vita, come se da piccola formica, tornare all’immagine precedente, volesse comprendere l’immensità della volta celeste. Amleto rappresenta questa frattura conoscitiva, rappresenta, anzi meglio, questa possibilità gnoseologica. In un saggio bellissimo e illuminate, dal titolo Amleto o Ecuba Carl Schimtt scrive: «Don Chisciotte è uno spagnolo buon cattolico; Faust è tedesco e protestante; Amleto sta tra i due, nel mezzo della frattura che ha segnato il destino dell’Europa». Dalla/nella frattura nasce Amleto, tale frattura è quella che geograficamente Céline attraversa durante il percorso raccontato nella Trilogia. Avevamo esordito (vd 14) sostenendo che usare il vettore geografico per parlare dell’influenza che Amleto possiede sulla Trilogia fosse semplicistico, ora – però – dopo questa disanima la traiettoria spaziale che percorrono i personaggi acquista un valore nuovo: il percorso descritto nella Trilogia non rappresenta solo più una direzione, ma uno stato, anzi uno “stato d’essere”; meglio ancora l’Amleto, la sua presenza testuale, è indice di un modo di stare nel mondo, e quindi un modo di etico e politico di esistere. Céline come Amleto si trova nel mezzo della frattura che l’Europa vive, quella frattura nata appunto in Europa verso il 600 e che tra il 1914 e il 1945 è divenuta un abisso, dove «per noi tutto è pericoloso» (TdN 894).

In Appunti di Lettura

Céline, Trilogia del Nord, postille 11-13

di Demetrio Paolin

11. Se mi venisse chiesto “la Trilogia del Nord è un romanzo su Hitler?”, la mia risposta sarebbe no.

Per giustificare questa secca risposta, si potrebbe partire da un’altra interessante spia linguistica, segnalata durante la condivisione del nostro gruppo di lettura: nella Trilogia i personaggi si salutano gli uni gli altri con il semplice heil, tralasciando completamente la seconda parte del saluto, Hitler. Questa assenza nella giro della frase, come l’erronea costruzione delle negative (vd 10), non può essere derubricata a semplice riduzione del parlato. L’apparizione di Hitler in una narrazione non è mai neutra: il suo essere evocato in pagina produce un accesso di radicalità; Hitler è il male, è ciò che noi figuriamo come l’idea stessa di male. Prendiamo come esempio la sua nascita: nella poesia Annunciazione di Primo Levi essa è una sorta di contro-natività; non nasce il salvatore del mondo, ma viene annunciata la nascita di colui che distruggerà il mondo.

Hitler è il male idiota, senza senso, il male che non è altro che male; un male di questo tipo può essere preso o terribilmente sul serio (penso a un film come La caduta con la mirabile interpretazione di Bruno Ganz) o oggetto di ironia (il grande dittatore di Chaplin) o, peggio, oggetto di una narrazione parodica consapevole in Lui è tornato di Vermes o inconsapevole in Eric-Emmanuel Schmitt La parte dell’altro (libro che sconsiglio fortemente), sembra insomma che la sua figura se evocata non possa essere lasciata in disparte. Eppure la scelta di Céline, una opzione la sua prettamente narrativa, ha la sua prima spia appunto in una omissione: Hitler lentamente si fa diafano nel racconto. In Nord questa scomparsa è così palese da configurarsi come una ipotesi narrativa affascinante. Hitler nel romanzo muore due volte; già nelle prime pagine di Nord assistiamo alla notizia dell’attentato contro di lui (TdN, 311), le notizie si susseguono senza un ordine e una ragione, la maggior parte dei gerarchi crede che il capo sia morto, o meglio Hitler è morto per loro, e quindi ecco la festa, l’orgia nell’albergo e il sabba – non sfugga l’evocazione della strega ( TdN 313) – che avviene sotto il ritratto del defunto leader capovolto ( TdN 315). Se veramente Hitler è il dio dei tedeschi, questo festino – con tanto di “satanico” capovolgimento dell’immagine sacra – indica alla perfezione la funzione dissacratoria del testo di Céline. Hitler rimane una figura aerea e impalpabile nella scena della cancelleria che abbiamo già letto e commentato (vd 10). In quel caso il dottor Pretorius racconta che «Hitler aveva proprio una bella cera» (TdN 344), perché nel tripudio del “niente” (tre volte esclamato da Céline) il dottore «vede Hitler» (ibidem). Se nella prima apparizione Hitler era morto, qui è un fantasma, figura che nessuno vede, Hitler non c’è, non cammina tra le macerie, non è presente in nessuna pagina del romanzo; se non fosse un paradosso o una sovra-interpretazione potremmo dire che Hitler si annida in quel “non”, in quella negazione che Céline toglie dalla sua sintassi. Notiamo che anche in queste pagine il saluto che Pretorius urla nella piazza che lui immagina colma di gente, ma in realtà è deserta, è monco della seconda parte. Anche negli episodi ambientati presso lo Zornhof, il fantasma di Hitler non viene meno; anzi la sua assenza, la sua presenza nell’assenza, diventa sempre più fondamentale; i suoi messaggi arrivano in un modo nuovo inaspettato: «la minestra tiepida nei piatti, increspava, tremolava [per via dei bombardamenti sempre più vicini], microscopiche onde… una bombardata-squacquerata! […] non solo la minestra, i bicchieri d’acqua anche e il ritratto di Adolf… nella sua cornice dorata… si riceveva più “comunicati” ma dalla finestra e la vetreria ci si poteva ben accorgere un po’ che di giorno in giorno la faccenda si avvicinava» (TdN 493). Notiamo che in questa frase sono presenti entrambe le stravaganze linguistiche che abbiamo segnalato, da un lato non c’è Hitler, ma l’immagine di “Adolf”, e dall’altra l’assenza del “non” quando si parla dei comunicati. Il ritratto diventa, quindi, centrale nel corso della narrazione come fosse il catalizzatore di ogni rappresentazione del potere. Così lo scrittore-  nel momento presente in cui scrive il suo resoconto – si chiede cosa ne abbiano fatto gli abitanti dello Zornhof: «io mi domando dove l’hanno cacciato, dove adesso può essere sto formidabile ritratto di Adolf? I russi sono venuti a Zornhof l’hanno certamente bruciato forse è passata la cornice a Stalin? Idolatrato e bruciato a sua volta! […] ste formidabili cronici tutto oro aspettano sempre un altro Titano! Cornici consacrate» (TdN 501-502). La cornice, essa è consacrata al potere, non l’immagine contenuta.

Questo potere magico del quadro esplode nella tua totalità poche pagine più avanti; durante un pranzo nel momento in cui i bombardamenti diventano più feroci e tramite un ricorso al linguaggio pre-grammaticale Céline mischia agli heil e le detonazioni: « “Non sentite le bombe? Boum! Boum! Heil! Heil!” Viene giù dalla scranna, si mette a far il verso…“Boum! Boum! Heil! Heil!”» (TdN 505).

A pronunciare queste parole è la signora Kretzer, che impazzisce e inizia a delirare e sbraitare; secondo la donna presto ogni cosa esploderà e prima o poi la bomba colpirà tutti: «Vi scoppierà in mezzo alla pancia! Tutti!… anche a lui! Heil! Heil!» (TdN 506). Il lui, a cui fa riferimento la donna, è facilmente identificabile con Hitler e così Céline: «Lui è Adolf nel suo quadro… ce lo mostra… lei sta proprio sotto… sbatte i piedi in terra… un piede, l’altro!… danza!… pam!… pam!… e si sganassa… […] è la sua una risata da serraglio… quasi da iena» (ibidem). Ancora una volta,  Hitler è semplicemente chiamato per nome, quasi a smorzare la sua potenza, e nuovamente la sua immagine è partecipe di un atto di follia, di un nuovo sabba, di un nuovo rovesciamento e di una nuova morte: in Nord Hitler non è mai vivo è o immagine o morto o fantasma: la sua sparizione è una vera e propria estromissione dall’immaginario del romanzo stesso. Ne è un esempio l’SS Kracht che, nelle pagine del romanzo, rappresenta la quintessenza delle SS originale e non la sua parodia, che è identificata in Harras. Tra i vari dettagli che Céline ci premura di descrivere, vengono sottolineati i baffetti, che Kracht sfoggia alla maniera di Hitler. Nel corso del racconto, con il passare dei giorni, con l’avvicinarsi dei russi, con l’aumentare dei bombardamenti anche il corpo di Kracht, come quello di tutti i personaggi, subisce una metamorfosi. Durante un banchetto, Kracht «su rimette a tavola e ribeve… a collo!.. anche gli altri! Si può dire in pieno buon umore!… ah però!… i suoi baffetti “Adolf” se li strappa!… erano incollati… niente veri… teufel! Teufel!… diavolo… tutto quello che sa dire… diavolo! Diavolo!» (TdN 518). Questo brano è fondamentale, l’SS ha i baffi posticci, così come è posticcia l’immagine di Hitler nei quadri, e la rivelazione avviene nuovamente davanti a una sorta di sarabanda infernale, di sabba nel quale non difetta neppure l’evocazione del “diavolo”. È sufficiente ricordare il quadro di Hitler al contrario che avevano incontrato all’inizio di Nord e questa immagine per comprendere la sapienza narrativa, di costruzione del racconto, in Céline. La Trilogia non è un romanzo su Hitler, perché non è ciò che a Céline interessa: Hitler è un paio di baffi posticci, una serie di dipinti che presto saranno dimenticati. Eppure Céline ci dice che sta vivendo in luogo infernale: «sta Zornhof è un buco d’inferno» (TdN 519). Può esistere un inferno senza demonio, e in subordine può esistere un romanzo senza il malvagio?

Senza cadere nella teologia e nella narratologia, possiamo formulare diversamente la domanda, unendo le due istanze: quale è la funzione di Hitler in Nord? Possiamo farci guidare dalla una suggestione legata ai banchetti, alle feste, e ai sabba per sostenere che infine Hitler è “il più inquietante degli ospiti”; in una parola egli rappresenta il nichilismo, ovverosia la svalutazione di ogni valore, di ogni idea, di ogni sentimento. L’assenza di Hitler è qualcosa di più profondo, non è codardia per non mostrarsi collaborazionisti, ma è una presa d’atto che pur negando la presenza di Hitler è impossibile metterlo alla porta, così come è impossibile mettere alla porta il nichilismo (Heiddeger). La scomparsa di Hitler è guardare a ciò che è accaduto nella seconda guerra mondiale, con più profondità, è vedere l’assurdo, il niente che si nasconde dietro, grattare via quel poco di realtà che la guerra ha lasciato integra e vedere che ciò per cui si sta combattendo è destinato all’insignificanza. Hitler è un vuoto, è la quinta del teatro che crolla, mostrando che non esiste profondità, tutto si muove sulla superficie, persone, cose, azioni, storie, delitti, bellezze e meschinità e dolcezze, tutto è come se fosse una schiuma, un vapore o una bolla che fragilmente resiste.

C’è, quindi, infine un legame tra la sparizione di Hitler dal saluto dei vari protagonisti, il giro di frasi che descrivono i suoi quadri e il “non” che cade nella frasi negative? La risposta è affermativa: sta appunto nel trionfo del nichilismo, e per corroborare questa mia tesi,  vorrei provare ad allargare il discorso ponendo la Trilogia del Nord  accanto ad alcune pubblicazioni, che hanno come nodo centrale la Seconda Guerra Mondiale. Scelgo, e so che la scelta scopre in parte la mia ipotesi critica, di citare alcuni titoli di libri usciti tra 1945-1947 in Europa, eccoli: Se questo è un uomo, La specie umana, Uomini e no, La lettera sull’umanismo, L’esistenzialismo è un umanismo. Levi, Alteme, Vittorini, Heiddeger, Sartre mettono al centro della loro riflessione – sin da titolo –  l’uomo, l’umano, l’umanità dopo il grande disastro della seconda guerra mondiale; c’è in loro – in maniera differente è ovvio, Sarte e Heiddeger, non stanno sullo stesso versante quantomeno filosofico – una preoccupazione su ciò che sarà l’uomo ora che tutto è finito. Céline non è partecipe di questa preoccupazione, non sceglie questo tropo letterario, non si chiede “Che cosa sarà l’uomo?”, ma si domanda “Che cosa non è più uomo?”. Per rispondere a questa domanda Céline sceglie la strada più complessa, invece di addossare ogni tipo di “negatività” a Hitler, alla sua rappresentazione, lo toglie dalla narrazione, così facendo ci costringe a fare i conti con noi stessi, situa ognuno di noi in quel cono d’ombra di male. Ricordiamoci la domanda con cui il narratore conclude l’episodio delle fotografie, nella quale si chiede “Ma quando siamo diventati mostri?”. La mostruosità, quindi, è il “non” che tolto dalla sintassi rientra prepotentemente nella descrizione, è lo stravolgimento. L’intuizione céliniana è interessante, perché anticipa la data della bancarotta dell’umano. Per molti, ad esempio per gli scrittori di cui abbiamo citato i titoli, le date individuate per questo fenomeno sono 1939/1945: in quel lasso di tempo l’uomo perde il suo essere uomo e da questa condizione nasce la necessità di ripensarlo; Céline in Trilogia torna spesso su di un’altra data: «La ragione è morta nel ‘14, nel novembre ‘14… dopo è finito tutto, tutto scazza» (TdN 443). Quello choc percettivo che avevamo individuato come una delle caratteristiche della sintassi di Céline è segnale più profondo: è la Prima Guerra mondiale che distrugge l’uomo, che fa a pezzi l’uomo ottocentesco, che quello che ancora Céline si sente di essere ed è quello di cui i libri prima citati celebrano il funerale. È una rottura diversa, precedente a Hitler, che lo tiene dentro, ma non lo assolutizza, che permette paradossalmente di toglierlo di mezzo senza per questo rendere meno radicale il male subito e raccontato. C’è una apparizione, infine, in cui si coagulano tutte queste tensioni, pagine che mettono in scena questa tensione grottesca (vd 13 ): la descrizione del vecchio conte che decide di indossare la sua alta uniforme, di farsi sellare il suo cavallo e di andare a Berlino per combattere i russi.

11.1 In Nord Nietzsche torna con una citazione: «Tutto finirà con la canaglia», la frase rimanda a un capitolo di Così parlò Zarathustra. La citazione nicciana, che è immediatamente successiva alla duplice scena dei banchetti: sia quello della donna che impazzisce e profetizza la morte di Hitler e sia quella dell’SS con i baffetti posticci, può far supporre che “la canaglia” sia Hitler, e che il discorso di Céline sia ancora più sorprendente di quanto immaginiamo: Céline utilizza Nietzsche, che a sua volta era stato stravolto dal nazismo, per sostenere che ogni cosa, la guerra, i bombardamenti etc etc, finirà con la morte della canaglia.

Questa può essere una possibile interpretazione, ma la frase potrebbe essere letta anche in un altro modo; non sarebbe erroneo pensare che “tutto finirà con la canaglia” possa significare che infine ciò che rimane, ciò che resta alla fine di tutto, è la canaglia. Lavorando su entrambe le ipotesi, mi imbatto nella possibilità di tradurre la parola canaglia diversamente, ad esempio Anna Maria Carpi la traduce con “plebaglia”, quindi – nel cercare di capire qualcosa in più – leggo alcuni saggi in cui si parla della ricezione di Nietzsche in Francia fino al 1914 (nuovamente questa data) e mi sottolineo una riflessione che mette in evidenza come “canaglia” fosse sentita, da una parte dagli intellettuali francesi, come una immagine che rappresentava “la desolante classe media” (Vincenza Petyx, Il viaggio di Nietzsche in Francia). La canaglia della Trilogia, quindi, potrebbe essere la borghesia, quella rabbiosa repressa del dopo prima guerra mondiale, la quale vive su di sé la disvalutazione dei valori, il nulla, il niente, diventando uno dei terreni di coltura del nascente nazismo.

Il Céline anti-borghese, critico della modernità, il profeta di sventura, ritorna qui prepotente, ma la frase è, comunque, ambigua. Potremmo provare a costruirne una sintesi: se Hitler è la canaglia in cui tutto finisce, e se Hitler è la raffigurazione del nichilismo (vd. 11), in cui ognuno di noi si specchia – “come siamo diventati mostri?” -, la frase potrebbe spingere a chiederci quanto di Hitler ci sia in ognuno di noi? Quanto di quel  sostrato culturale, antropologico, storico, filosofico si annida nei nostri cuori? Quanto della nostra formalità, del nostro decoro, del nostro ben pensare ha a che fare in realtà con la “canaglia”?

Ancora una volta il romanzo porta al centro il discorso identitario, comprendere cosa noi siamo, chiederci la nostra identità: ogni romanzo è una storia di fantasmi e attraverso i quali noi guardiamo noi stessi, scopriamo qualcosa di noi che avremmo voluto sinceramente non vedere. Tale svelamento è tremendo in Céline, perché utilizza uno specchio, che produce una immagine che nessuno sostiene: è uno specchio che all’altezza dei nostro viso ha disegnate due lineette nere, due baffetti, e che ci mostra come ognuno di noi possa essere Hitler, come ognuno di noi sia canaglia.

12. La postilla su Nietzsche e la citazione mi porta a fare una brevissima riflessione sulla inter-testualità in Céline, come ogni romanzo, anche la Trilogia vive di una duplice tensione inter-testuale, interna verso le proprie opere (molti sono i riferimenti di Céline alle sua opere precedenti) e esterna. Quest’ultima mi pare interessante, perché Céline non ragiona per citazioni, che siano essere letterali o parodistiche, ma spesso mostra dei “rimasugli” come ad esempio nella citazione dallo Zarathustra, dove ad esempio appena una parola di quel testo è transitata nel romanzo, ma con effetti detonanti per l’intera rappresentazione. Ho l’impressione che lavorare sulla inter-testualità nella Trilogia sia simile al lavoro che fanno i vecchi e i bambini nella Berlino, che i tre personaggi del romanzo si trovano ad attraversare: Céline descrive delle persone alle prese con una attività sfiancante e particolare ovvero fare delle piccole montagnole di macerie in corrispondenza della casa, villa, negozio, palazzo che fu, prima che il bombardamento sventrasse tutto.

Qualcosa del genere accade durante la lettura della Trilogia: abbiamo visto e vederemo più avanti, come moltissimi siano gli autori citati, moltissimi libri che hanno interferito con la narrazione dell’opera di Céline: penso a Cervantes, penso alle opere di Hugo, penso all’Amleto o a certi passaggi di De Sade, ma nessuno di questi è citato in maniera aperta o facile, ma per allusioni, per pezzi, per macerie, come se non solo il mondo, ma anche il romanzo fosse andato in frantumi. Tocca, quindi,  a chi legge o al critico che ci ragiona fare i mucchietti e  scoprirne il senso, posto che ci sia.

13. La scena del cavaliere domina alcune pagine di Nord (558-562), sono pagine bellissime, piene di ambiguità e di grandezza. L’uomo ha ottanta anni, viene descritto nella sua vecchiaia con le sue debolezze e perversioni, è figura di un tempo lontanissimo e perduto, un uomo che ha smemorato come la ragione sia morta nel 1914, questi è ancora tutto dentro un modo di intendere la vita prettamente pre-moderno. Céline ce lo rappresenta come un cavaliere errante, una sorta di Don Chisciotte fuori tempo massimo (vd. 9). L’atteggiamento dello scrittore rispetto a questo uomo è ambiguo. Da un lato ne riconosce una certa grandezza nei discorsi che l’uomo fa, così simili per ardore, per incoerenza temporale a quelli che appunto Chisciotte fa a Sancio prima di lanciarsi nelle sue avventure: «Voi mi capite sorella! Vi abbraccio!… e in sella!… stasera, cadaveri! Ancora cadaveri, guardate il quadrante!… la chiesa!… teste!… teste!… ne vedrete passare! Tartari l’avete voluto!» (TdN 560). Dall’altro noi sappiamo che Céline pur conoscendo il Chisciotte (vd 8, 9 ) non vuole riscriverlo, perché se avesse voluto avrebbe immaginato, per queste pagine, una “spalla” per riportare l’uomo alla ragione, o quantomeno per fargli notare una certa discrasia tra la vita reale e la sua immaginazione. La sorella invece non contraddice il fratello: «Certo fratello, guarderò tutto» (ibidem).

Questo atteggiamento modifica il modo con cui guardiamo la scena, che diventa più che una parodia, una farsa, più che una rievocazione malinconia, una scena da teatro. Il vecchio viene descritto con grande solennità: «Ecco il Rittemeister, tutto equipaggiato, speroni, spalline, alamari, croce di ferro… ed elmo!.. si palpeggia se ha tutto… sì, gli manca niente!.. e le staffe!… le porta corte… e se ha abbastanza avena?… sì, due sacchette!… e lo zaino di tela!, bene!» (TdN 561). Un servo si avvicina per aiutarlo a salire, ma lui da solo «senza aiuto… una mano al pomo e hop!» (ibidem). Sembra di vedere Chisciotte che parte in una delle sue missioni (viene anche accompagnato nel suo viaggio da una sassaiola, che avviene anche nel romanzo di Cervantes) ma Céline fa un’aggiunta, minima, nuova, che modifica tutto e mostra il totale diaframma di finzione che sta nella scena: «Adesso va bene, tutto a posto!… “si gira!”…» (ibidem).

Una osservazione che modifica tutto, siamo al cinema, siamo nella pellicola di un film, il vecchio è una immagine di una immagine che fu, la sua grandezza tragica, quella che il Rittemeister avverte su di sé, è in realtà un vuoto: è una scena girata, una falsità. Tanto del suo viaggio che ha qualcosa di luciferino, muovendosi tra nuvole “nere e gialle, zolfo” non sapremo niente se lui sia veramente andato o se fosse una finta, o se fosse una pazzia a cui qualcuno ha posto fine: «nessuno ci domanda.. questo… quello… se il vecchio è veramente partito?… non una parola!… né al mahlzeit, la sera.. né più tardi.. niente…» (TdN 562). Quel “niente” che chiude il racconto e il paragrafo avvolge il cavaliere e il suo destriero, che cosa raffigura questo episodio nell’economia di Nord e della Trilogia?

Ho immaginato che fosse lo spirito del tempo, di quel tempo che non c’è più, leggendo queste pagine ho ripensato alla descrizione di Napoleone, fatta da Hegel, quando nel vederlo camminare tra la gente gli era sembrato di veder passare lo Spirito del tempo. In questo episodio c’è qualcosa di simile, lo Spirito del tempo, dell’uomo, di ciò che è stato prima del 1914 sparisce, è ingoiato nel niente che chiude ogni cosa. Ci fu un tempo in cui esistevano certe idee, certi concetti, certe idealità che poi sono state fatte a pezzi: prima sono diventate degne di una farsa,poi di un film comico, che infine spariscono nel nulla senza che nessuno domandi o chieda ragione.13.1 L’immagine del cavaliere che corre verso il niente richiama un altro episodio della Trilogia (TdN 409-412), in queste pagine abbiamo Harras che affida a Céline un lavoro letterario per «far chiaramente  conoscere […] la lunga collaborazione dei nostri due paesi in tutti i campi, filosofico, letterario, scientifico, e medico! Medico!» (TdN 410), e Harras indica un baule pieno di libri e di fogli: «troverà tutto questo qui!… in queste carte!» (ibidem).  Harras descrive il piano dell’opera a Céline e mentre parla, gli mostra l’incisione di Durer, quella raffigurante i Quattro cavalieri.  Harras, però, fa notare a Céline una cosa è accaduto qualcosa in questa incisione, una novità che non possiamo ignorare: «La Peste è divenuta piccola piccola… la Fame pure… piccola piccola!… la Morte, la Guerra, assolutamente enormi!… più le proporzioni di Durer!… è cambiato tutto!» (TdN 411). Harras è convinto che un tempo le guerre finissero perché le malattie, le epidemie e le carestie, ma soprattutto che fosse Peste a dominare su tutto, oggi non è più così: «le epidemie non attaccano più… né in Mongolia né nelle Indie!.. questa guerra ai tempi di Durer sarebbe finita dopo due anni!… questa può non finire mai!…[…] due cavalieri al posto di quattro! Miseria!» (ibidem). Il mondo di un tempo, il mondo che i quattro cavalieri rappresentavano e spaventavano è finito per sempre, forse il vecchio riassume su di sé l’immagine di Durer e nel suo allontanarsi incastonato da rovine e nubi gialle e puzza di zolfo si intravede la fine del mondo, la rivelazione dei misteri ultimi delle cose, de «la sua Apocalisse, puttana eva, cazzo!» ( TdN 412)

In Appunti di Lettura

JJ & Me

di Ramona Lacorte

Il 17 giugno 2022 ho trascorso il mio compleanno a Trieste, dove si celebrava il centenario dalla prima edizione integrale dell’Ulysses di James Joyce. Ho deciso di regalarmi i biglietti per assistere alla lectio di Mauro Covacich, costringendo il mio fidanzato ad accompagnarmi, spacciandolo per l’evento dell’anno, e accusando di scarso gusto i trentamila barbari diretti a Lignano Sabbiadoro per il concerto dei Maneskin.

Covacich, nato e cresciuto a Trieste, ha aperto il suo monologo raccontando di quando, giovane studente, trascorreva interi pomeriggi con i suoi colleghi a vagare per i vicoli della città, sulle tracce di Joyce. Quasi sempre quei pomeriggi terminavano davanti ad una birra, a parlare di letteratura, e a porsi i due grandi interrogativi che ogni aspirante scrittore si è posto almeno una volta: “Si può vivere di scrittura?” e “Ma tu, lo hai letto l’Ulisse?”

Ho sorriso commossa dietro la mia ffp2.

Ero stata appena annoverata da Covacich tra gli aspiranti scrittori..

No, penso che non si possa vivere di sola scrittura, e Si, io l’ho letto l’Ulisse. “Fa paura a tutti leggere l’Ulisse”. Sarà, ma ho avuto la fortuna di essere guidata nell’impresa da un Maestro, che un giorno ha chiesto se qualcuno avesse voglia di leggerlo o rileggerlo con lui. Siamo così partiti per quella che è stata ribattezzata l’Ulisseide. Demetrio Paolin ha formato un gruppo di perfetti sconosciuti che ogni settimana si incontrava per fare cose del tipo passare dieci giorni a interpretare correttamente l’espressione “No one is anything”.

 Ma si sa, “Nessun libro, eccetto la bibbia, riesce a trasformare un gruppo si estranei in una comunità come fa l’Ulisse di Joyce”.

Ho letto metà del libro pensando che JJ fosse una persona estremamente scaltra, di quelle intelligenze pericolose, da cui mettersi al riparo e che avesse scritto tutte quelle parole solo per ubriacarci e burlarsi di noi. Mentre il gruppo provava a trovare un senso, io continuavo a sostenere che fosse tutta una farsa e che il senso di ogni parola era attribuito dal lettore a di volta in volta, per questo non si smetteva mai di litigare. Poi ho abbandonato le resistenze e come ha detto qualcuno “ho capito che dovevo coinvolgermi in simili azzardi e accettare il disordine delle parole come le mescolanze e variabilità delle fantasie”.  JJ crea una stralingua in cui non è importante capire, ciò che conta è sentire la musicalità (d’altra parte si scrive con le orecchie) e “L’Ulisse non si legge, si esegue”.

L’abbandono definitivo è arrivato con il capitolo Circe. Alla diffidenza è subentrata la rassegnazione: JJ è totalmente matto,  un matto che ha usato con maestria il caos che regnava nella sua mente. “Prendo appunti su pezzi sparsi di carta che poi dimentico nei luoghi più improbabili, in libri, sotto soprammobili, nelle mie stesse tasche, sul retro di volantini pubblicitari”.

 Tutto quel frastuono che mi ha distrutto il sistema nervoso e costretto a prolungate pause dalla lettura, la violenza, la volgarità, le immagini deliranti di quella dimensione onirica esplodono nella figura angelica di un bambino di undici anni che “avanza silenzioso leggendo da destra a sinistra impercettibilmente, sorridendo, baciando la pagina”.

Le centinaia di note, la difficoltà di reggere alcuni capitoli in cui Joyce letteralmente sovverte lo  stereotipo di letteratura creando un genere (il suo), si susseguono sino al capitolo diciassette.

 “La giornata descritta nel romanzo è stata un fallimento per tutti, dal principio alla fine. Tutti i rapporti nel libro sono o superficiali o sfortunati”, “L’Ulisse parla di un passato disperato, di un presente ridicolo e di un futuro patetico”.

Il capitolo diciassette termina con un punto. Molto grande, in neretto, posto al di sotto del testo.

A questo segue il capitolo diciotto, il celebre monologo di Molly, la moglie di Leopold Bloom, con cui termina il romanzo.

Nell’ultimo disperato tentativo di ribellarmi a quel congegno diabolico e perfetto ho commentato: “ è  sicuramente un errore di stampa!”.

 No, sembrerebbe voluto, e che lo desiderasse ad ogni ristampa sempre più grande.

Abbiamo ragionato circa una settimana anche su questo.

“Qualcuno sostiene che rappresenti Le Colonne D’ercole”.

“NIENTEMENO!!!”, ho pensato mentre lavavo i denti, guardando la registrazione di un incontro perso.

Eppure, eppure quello sarebbe il punto esatto in cui finisce la terra e inizia l’ignoto. Il mare più impetuoso, indica il limite oltrepassato il quale non era più possibile fare ritorno.  Ho immaginato che JJ volesse dirci che in quel punto esatto finisse la terra ferma. Il Plus Ultra. Quello che è dato sapere a noi marinari. Quello che è dato sapere a Bloom. E questa idea romantica si è rafforzata in me  guardando il testo in lingua originale del Molly’s monologue. Si dice che non ci sia punteggiatura, ma come ci ha insegnato Demetrio due cose sappiamo con certezza sull’Ulisse: la prima è che la narrazione non si svolge in un solo giorno bensì in due, il 16 giugno (data in cui JJ conobbe sua moglie Nora) e il 17 giugno (per la precisione il venerdì nel quale, con Saturno in opposizione, venne al mondo la sottoscritta), la seconda è che nell’ ultimo capitolo a discapito delle dicerie esiste la punteggiatura, troviamo ben due punti.

Ho immaginato così l’ultimo colpo di genio di JJ, aggrappandomi a quei due punti dimenticati (?).

Il monologo nasce con la sua punteggiatura, è chiaramente presente, l’occhio non la vede ma l’orecchio interno la sente. Poi un giorno JJ  ha deciso di “rendere il concetto” levando tutti i segni di interpunzione dal capitolo finale. Non come gesto fine a se stesso, non per ribadire che lui era il più figo e rivoluzionario di tutti. (Niente è casuale nell’Ulisse). Io sono qui oggi, per giurarvi, che nel GUARDARE una pagina del flusso di coscienza di Molly e l’Atlantico, non noto differenza alcuna.

In Appunti di Lettura

Leggere Céline

di Demetrio Paolin

  1. «Per parlare con franchezza qui tra noi» (TdN 3) è questo l’incipit della Trilogia: la mia attenzione si posa sul verbo parlare, che si configura come un sinonimo di scrivere. Per Céline scrivere è parlare, parlare sostituisce nel modus operandi della composizione della trilogia lo scrivere (Céline prova orrore per lo scrivere TdN 91: «… ho sempre trovato indecente, solo anche la parola: “scrivere”!»). «Vi parlo di mia madre» (TdN 6); «Io mi scuso di parlare tanto di me stesso» (TdN 17); «vi parlo di Achille» (TdN 41); l’idea dell’oralità – di questa finzione dell’oralità, perché la prosa céliniana è assolutamente ordinata, retoricamente impostata – è nella realtà il risultato di un sapiente ordito; si prenda per esempio questa sequela di aggettivi «lustro, pettinato, pitturato e laccato» ( TdN 3) che dovrebbero descrivere il dottor Céline come dovrebbe essere e la si confronti – poche righe dopo – con il ritratto di come è: «Scorbutico, sdentato, ignorante, scaracchioso, gobboso» (ibidem). C’è una simmetria e un equilibrio, oltre a una profonda ironia, che ci fa comprendere come questo parlato non sia una semplice registrazione neutra di un discorso orale, ma si configuri come una orazione, quindi come abbia a che fare con la retorica e, quindi, con l’organizzazione del discorso. Discorso/ordito: Céline parla del suo cappotto, la cui stoffa ha resistito a 14 anni di avventure, e così lo descrive – «Il mio è qui! Logoro senza dubbio” d’accordo! Alla trama!, 14 anni di peripezie! Alla trama!» ( TdN 6) –, creando subito un rapporto tra la trama del cappotto e quella del suo romanzo.
    Continuando ad analizzare l’inizio di Da un castello all’altro mi soffermo sul termine “qui”. Cosa indica questa particella di luogo? Individua il luogo e il tempo presente del racconto, Céline porta il lettore nella sua casa nel suo sobborgo alle porte di Parigi. Ci porta momento presente, in cui scrive le pagine come se parlasse. Questa sensazione è rafforzata dal “tra noi”, come se costruisse una sorta di assemblea e un luogo esatto dove noi, da intendersi lui che parla/scrive/declama e i lettori che ascoltano, siamo.

5.1 A latere di questa postilla sull’incipit di Da un castello all’altro, mi segno una piccola notazione. Nell’Iliade il poeta chiede alla Musa di cantare l’ira funesta etc etc; nell’Odissea il poeta chiede alla Musa di parlargli dell’uomo etc etc: non credo che sia una differenza di poco conto; cantare e parlare non indicano il medesimo gesto, parola e canto non sono la stessa cosa. Il romanzo deriva dal canto o dalla parola? Chiaro che io propenda per la seconda, mi pare interessante che pure Dio dovendo scegliere in che forma presentarsi abbia prediletto il “verbo” e non il “canto”: si potrebbe ragionare in questo modo per una genealogia del romanzo?

  1. Il lettore infatti viene più volte chiamato in causa nel corso della narrazione, il suo ruolo è attivo, anzi mi verrebbe da dire che Céline pensa ad un lettore ostile, spesso distratto, incline alla noia e a perdersi negli andirivieni delle pagine della Trilogia. L’apostrofe al lettore rappresenta una sorta di “ricalibratura” del racconto, come se il lettore fungesse da richiamo all’ordine del racconto: la sua funzione non è tanto quella di ascoltare/leggere, quanto quella di richiamare Céline ai suoi doveri narrativi. «Mi attardo… vi infastidisco forse?… vi parlavo di Madame Nicois» (TdN 58) in questa citazione vediamo appunto:
    a)il perdere tempo – cosa è la digressione narrativa se non un modo per fermare il tempo della lettura, rispetto alla linea narrativa principale, uno stallo;
    b)l’ostilità e il fastidio del lettore;
    c) la sinonima parlare/scrivere.

«Lasciamo il passato al Grevin!… Al presente! a Madame Nicois!… stiamo a casa sua» (TdN 61); «Accidenti!… divago… vado a perdervi!» (TdN 65); «Ecco qui!.. ecco qui!… folleggio! Miro all’effetto! Vado a perdevi…» (TdN 89) e potrei continuare che molte sono presenti di queste invocazioni, chiamate in causa al lettore ( TdN 134; 139; 170; 191). Nella loro quasi totalità, però, oltre a essere uno strumento retorico per chiamare il lettore in causa, servono sempre per riportare e rimettere in sesto il tempo della narrazione e il luogo della narrazione.
In Trilogia il tempo della narrazione e il tempo dei fatti tendono a confondersi; il personaggio che dice Io nel romanzo ha la capacità di muoversi indifferente nel passato, nel presente e nel futuro (in Da un castello all’altro l’uso prolessi è ampio, vd prossime postille), i richiami al lettore sono come una sorta di paletto in cui l’autore torna al tempo di ciò che sta narrando. Quando questi avvengono nella prima parte dei romanzi, nei quali a dominare è il tempo presente della scrittura – l’oggi in cui Céline scrive -, questi appelli suonano come un richiamo a non divagare, a non anticipare troppo, quando invece avvengono mentre l’Io narrante sta raccontando il dato storico, le apostrofi pongono solitamente fine o una incursione nell’oggi della scrittura o per concludere una possibile anticipazione di ciò che sarà.

  1. La più banale delle notazioni: Céline non vuole scrivere un romanzo tradizionale. C’è un qualcosa che, però, non torna in questa affermazione perché egli utilizza molte delle micro-strutture romanzesche. Ad esempio quando per descrivere le sue vicende le definisce peripezie ( TdN 30); ci possono essere diverse definizioni di peripezia, ma a me pare interessante quella di Kermode, «La peripezia, […], è presente in ogni racconto che abbia un minimo di congegno strutturale» (Il senso della fine, p.23), perché sottintende che essa sia una struttura del romanzo e di certo Céline non usa questo termine a caso: Da un castello all’altro, ad esempio, possiede una sua struttura, una sua circolarità (il luogo di inizio e di fine del romanzo coincidono, il personaggio di Madame Nicois che aveva segnato l’avvio del delirio febbrile e il racconto segna con il suo riapparire anche la fine dello stesso).
    Céline abbiamo notato instaura un dialogo costante e continuo con il lettore, utilizzando – alla maniera di Hugo e Balzac – la prolessi non tanto come moderno spoiler ma come tentativo di imporre una diversa suspense. C’è in queste scelte che tornano più volte il fantasma del vecchio romanzo dell’ottocento, il costruire una trama che ogni tanto si fermi – «Sono pieno di digressioni» (TdN 230), che anticipi qualcosa di ciò che avverrà – «abbiamo conosciuto molto peggio… Korsor là in alto! Baltavia, il Belt!… e quando a ghiaccio, vi racconterò… ma qui, è già mica male!… mica d’andare a spasso» (TdN 66) – per fare in modo che il lettore desideri andare avanti. Nell’ultima citazione Céline si riferisce a qualcosa che verrà narrato molto dopo, nel finale della trilogia ovvero nella pagine di Rigodon: faccio notare come nuovamente il lettore – vi – serva da richiamo, da paletto retorico per non andare troppo avanti con la storia con la particella di luogo “ma qui”.
  2. Altra notazione in sé banale. Ciò che colpisce nella lettura della Trilogia è l’uso della punteggiatura e in particolare dai puntini di sospensione. Céline ne parla a lungo in vari testi e interviste che non mi pare quasi il caso di discuterne, basti citare qui Colloqui con il professor Y, nel quale appunto Céline intervista sé stesso e parla dei suoi “indispensabili” tre puntini. Mi sono reso conto che, però, la mia attenzione riguarda un altro segno di interpunzione: il punto esclamativo. Non ho fatto una ricerca approfondita e numerica, ma ho l’impressione che il segno di esclamazione sia utilizzato dallo scrittore francese quasi alla pari che il segno di sospensione. L’interpunzione, lungi dall’essere – almeno nei romanzi – un mero marcatore del ritmo della lettura, si è trasformato nel tempo, quando la lettura delle opere è passata da essere pratica condivisa di lettura ad alta voce a pratica silenziosa solitaria, in uno strumento di contenuto. In questo senso basterebbe dare uno sguardo alla storia del romanzo, penso a quello settecentesco inglese, per vedere come i romanzieri di quel periodo debbano immaginare nuovi segni grafici, oltre ai soliti usati per convezione, per produrre o riprodurre nuove fasi della lettura (cfr Rosamaria Lorentelli, L’invenzione del romanzo, Laterza).
    Céline non è da meno nel suo lavoro di rimaneggiamento della punteggiatura. Perché mi colpiscono o, meglio, attirano la mia attenzione i punti esclamativi? Perché anche in questo caso sono una microstruttura del romanzo ottocentesco; meglio, sono ai miei occhi una sorta di sineddoche strutturale di quel tipo romanzo. Se prendiamo un autore come Hugo, registriamo come nel descrivere i sentimenti dei propri personaggi utilizzi una sorta di enfasi, di grandezza, di enormità: Quasimodo, Jean Valjean spesso dichiarano le loro emozioni con un furore che potrebbe essere rappresentato come una esclamazione. Sembrerebbe quasi che loro stessi siano i primi a stupirsi di ciò che sentono. È questa una cosa che si avverte ad esempio anche in certi passaggi, non tutti, di Balzac, penso a Splendori e miserie delle cortigiane quando Jacques Collins viene a sapere la morte di Lucien de Rubempré: è un momento altamente drammatico, in cui veniamo a sapere i “reali” e più “profondi” sentimenti di questo personaggio nei confronti del suo protetto.
    L’esposizione dei sentimenti in modalità esclamativa (mi si perdoni questa esposizione fin troppo semplificata, ma queste sono appunto solo postille di uno che legge un libro e prende qualche appunto di corsa) viene via sostituita dal concetto di interiorità: lentamente essa diventa una sorta fiume che scorre nelle pagine e non ha veri e propri fiotti o esplosioni o scoppi. Joyce, Proust la Woolf producono una prosa in cui il “dentro” degli esseri umani è mostrato fin nelle minime sfumature, e quindi non ha bisogno dell’esclamazione, ma della virgola o della sua completa assenza, ma sempre all’interno di una frase complessa tornita e strutturata (il flusso monologante di Molly lungi dall’essere senza filtri ha invece una precisa grammatica espositiva e un suo ritmo di lettura). Questo tipo di modello di descrizione non è seguito da Céline, che ha intrapreso una sua battaglia, di amore e odio, nei confronti di Proust (vd Magrelli, Proust e Céline, Einaudi) e che ad esempio, in un passo de Da un castello all’altro, utilizza il verbo «prousteggiare» ( TdN 99) con evidente riferimento a un certo tipo di narrativa che lui non ama, perché per lui invece «le emozioni bollono, ribollono, portano via tutto!» ( TdN 215). Céline, quindi, per opporsi a Proust ritorna indietro all’Ottocento, lui stesso si definisce un uomo dell’altro secolo «ripeto la mia età… 1894!… farnetico?… biascico?… ci ho il diritto!.. tutte le persone che sono dell’altro secolo hanno il diritto di farneticare!» ( TdN 7). Chiaramente Céline non riprende quello che era il romanzo ottocentesco e lo ripropone: non sarebbe stato né sensato né nella sua indole. Se Joyce nell’Ulisse ha tentato di riprodurre un mondo complesso, variopinto e stravagante e lo ha tenuto insieme, paradossalmente, con la vecchia forma del romanzo, costruendo una sorta di museo dello stesso, così Céline si muove in quello stesso luogo ma dopo la deflagrazione di una bomba: egli cammina tra muri diroccati che dicono quasi più nulla, e in questa rovina egli trova alcuni rimasugli, qualcuno potrebbe chiamarli topoi retorici, stilistici, concettuali, e con questi tira il suo romanzo di rovine.
  3. L’ultima citazione ci conduce, è solo prima di altre postille sull’argomento, al tema dello stile; c’è nelle pagine della Trilogia una frenesia, un biascicare (quasi le parole si legassero le une alle altre come come in un impercettibile sussurro) e una sorta di farneticazione: «Io vi racconto tutto così come viene… secondo le scosse, cigoli della lettiera… che so più quello che mi scuote… la febbre?… la rete che cede?…» (TdN 111). Questo farneticare avviene «nel momento che tutto crolla, capitombola!… rottura totale!» (TdN 121). Questo modo di esprimere la sua scrittura ha a che fare con lo choc, delle due guerre. Céline, nel riferirsi al fatto di essere un uomo del secolo scorso, ammette di non avere gli strumenti per comprendere ciò che è accaduto e di cui è stato inconsapevole testimone; c’è uno choc percettivo che è perfettamente tratteggiato da Benjamin nel suo saggio su Leskov: «Una generazione che era ancora andata a scuola con il tram a cavalli, si ritrova sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti e esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo».
    Céline appartiene alla generazione ritratta in queste righe e ha la fortuna o la sfortuna di vivere sia il terribile rivolgimento della prima guerra e di seguito ciò che accade nella seconda. Se la Prima Guerra aveva come aperto la breccia in cui questo choc percettivo pareva infilarsi è stato con il secondo conflitto mondiale che tale breccia salta ed esplode tutto. A fare le spese di questo stravolgimento storico, sociale, antropologico è lo strumento del romanzo: se ancora Joyce o Proust potevano avere fiducia in questa struttura narrativa, dopo il ‘45 tutto questo viene meno. Alla luce di tutto questo non è imputabile alla casualità il fatto che Benjamin – uno dei più profondi critici letterari del primo ‘900 – non dedichi mai molto spazio nella sua speculazione al romanzo (un unico esempio eclatante sono le Affinità Elettive) e che la sua opera letteraria, speculativa e più profondamente innovativa sia un testo pensato per non essere mai concluso e dall’impianto frammentario come I “passages” di Parigi. E d’altronde è curioso che proprio i passages, che il filosofo tedesco vede come il luogo in cui la modernità entra e si fa vedere, siano anche il luogo della prima infanzia di Céline?
    C’è, quindi, nel periodare céliniano, nel suo sobbalzare, nella furia e nel biascicare le parole di certo l’eco delle esplosioni delle bombe, della deflagrazione, ma c’è anche l’attestazione di una debolezza e dell’impossibilità di riportare tutto all’unità, all’uno, all’insieme: lo scrittore deve accontentarsi di mettere insieme pezzi, senza neppure più il paziente lavoro di puntello, ma di giustapporli e sperare che si tengano: «La testa è una specie di officina che funziona mica così bene come uno vuole… pensare! Duemila miliardi di neuroni completamente in pieno mistero… stai fresco! […]hai vergogna… […] ma non so più… ritrovo più!… vi ritroverò!… voi e il mio Castello… e la mia testa! […] mi ricordo una parola! […] ritrovo il filo! […] ah, rieccomici!» (TdN 112).
In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Senza categoria

Robert Frost, “Betulle”, una lettura.

di Demetrio Paolin

In questi mesi Adelphi ha pubblicato Fuoco e Ghiaccio (trad. Silvia Bre) di Robert Frost, un libro che raccoglie la maggior parte della lirica del grande poeta americano. Frost è autore di una delle poesie che ho più amato e letto negli anni: Betulle.  Pur non essendo un esperto e un critico di poesia, ho provato a fare “alcune” riflessioni su questi versi. Non riuscendo a strutturare un vero e proprio saggio né su Frost (la postfazione di Ottavio Fatica è molto interessante ne consiglio la lettura prima di immergersi nei versi del libro) né sulla lirica in sé, ho pensato semplicemente di glossarne alcuni versi. Ho deciso di privilegiare l’originale, per evidenziare la musica del verso di Frost. Primariamente leggeremo la poesia, i numeri tra parentesi quadre indicano i punti dove sono intervenuto con le mie riflessioni.

When I see birches bend to left and right [1]

Across the lines of straighter darker trees,

I like to think some boy’s been swinging them.

But swinging doesn’t bend them down to stay

As ice-storms do. Often you must have seen them

Loaded with ice a sunny winter morning

After a rain. They click upon themselves

As the breeze rises, and turn many-colored

As the stir cracks and crazes their enamel.

Soon the sun’s warmth makes them shed crystal shells

Shattering and avalanching on the snow-crust—

Such heaps of broken glass to sweep away

You’d think the inner dome of heaven had fallen. [2]

They are dragged to the withered bracken by the load,

And they seem not to break; though once they are bowed

So low for long, they never right themselves:

You may see their trunks arching in the woods

Years afterwards, trailing their leaves on the ground

Like girls on hands and knees that throw their hair

Before them over their heads to dry in the sun. [3]

But I was going to say when Truth broke in [4]

With all her matter-of-fact about the ice-storm

I should prefer to have some boy bend them [5]

As he went out and in to fetch the cows—

Some boy too far from town to learn baseball,

Whose only play was what he found himself,

Summer or winter, and could play alone.[6]

One by one he subdued his father’s trees

By riding them down over and over again

Until he took the stiffness out of them,

And not one but hung limp, not one was left

For him to conquer. He learned all there was

To learn about not launching out too soon

And so not carrying the tree away

Clear to the ground. He always kept his poise

To the top branches, climbing carefully

With the same pains you use to fill a cup

Up to the brim, and even above the brim.

Then he flung outward, feet first, with a swish,

Kicking his way down through the air to the ground.[7]

So was I once myself a swinger of birches.

And so I dream of going back to be.

It’s when I’m weary of considerations,

And life is too much like a pathless wood

Where your face burns and tickles with the cobwebs

Broken across it, and one eye is weeping

From a twig’s having lashed across it open.

I’d like to get away from earth awhile

And then come back to it and begin over. [8]

May no fate willfully misunderstand me

And half grant what I wish and snatch me away

Not to return. Earth’s the right place for love: [9]

I don’t know where it’s likely to go better.

I’d like to go by climbing a birch tree,

And climb black branches up a snow-white trunk

Toward heaven, till the tree could bear no more,

But dipped its top and set me down again.

That would be good both going and coming back.

One could do worse than be a swinger of birches. [10]

[1] When I see birches bend to left and right.

La grandezza della lirica di Frost sta nel suo nitore di mezzi, di temi, di lingua. Di Frost a colpirmi è la chiarezza, una chiarezza vicina alla semplicità infantile. Il verso iniziale della poesia è elementare, la sua lingua è trasparente, non mi viene un aggettivo migliore; mostra quello che è per ciò che è.  La domanda di Holderlin, che è forse il poeta che io accosterei più volentieri a Frost, Perché i poeti in tempo di povertà, è risolta da Frost nell’idea di una lingua che si fa povera; anzi la linguaggio è una esperienza di penuria. Il primo verso descrive le betulle che si muovono: è una lingua, che nomina le cose. Perché parlo di povertà e non di semplicità? Perché Frost non è un poeta semplice, non sceglie queste parole per semplificare il dettato, ma vuole rendere il lettore partecipe della sua esperienza di impossibilità di produrre una comprensione più esatta del mondo e delle cose.

Nominare le cose non è dominare le cose; la parabola adamitica andrebbe riscritta: quando nominiamo le cose, loro ci possiedono e noi entriamo nel loro campo semantico e questo ci fa sentire la nostra pochezza, la pochezza del nostro strumento per accordarci con la natura.

[2] You’d think the inner dome of heaven had fallen

 You’d think the inner dome of heaven had fallen. Nel mezzo di una riflessione piana, una semplice contemplazione della natura così come è, appare questo verso, che risulta essere la chiave di volta del poema: Frost sta scrivendo una sorta di apocalisse; egli è uno scrittore che vede cieli nuovi e terra nuova, che vede consumarsi il tempo del mondo come le pagine di un libro che brucia. Il crollare della neve e del ghiaccio dai rami diviene un tutt’uno con il cielo che crolla, con il mondo che finisce, quasi che la trasparenza delle versi precedenti non fosse che un inganno per qualcosa di più profondo, che il poeta vede e che lampeggia alla nostra vista per un attimo, nel preciso istante in cui la neve e il ghiaccio cadono. Ai nostri occhi la cortina di nebbia che avvolge il mondo si apre e per il tempo infinitesimale della caduta mostra ciò che realmente è.

[3] Before them over their heads to dry in the sun

Questo passaggio, con i versi che lo precedono, mi colpisce sempre e mi è oscuro, ogni volta che mi soffermo su di essi mi pare indicare qualcosa come l’essere recalcitrante del mondo. Nel verso precedente abbiamo visto che il poeta è riuscito a mostrarci l’apocalisse, una idea di essa, per un attimo, come il brillare luminoso della luce che trapassa la neve, qui invece è come se la realtà si ribellasse a quel tentativo di svelare se stesso: il mondo fosse opaco alla rivelazione che il poeta presagisce e che cerca di raccontare; che esperienza abbiamo del mondo? Che esperienza abbiamo delle piante, dei ruscelli, dei sassi? Che esperienza degli animali, dei loro sogni, del loro sangue, della loro sofferenza, cosa è il Vivente? Cosa è vivo e cosa è morto? Le parole, che Frost usa, sono le parole che tentano la rivelazione, Betulle è una poesia – come ogni poesia di Frost – che prova a dipanare la rivelazione, ma la realtà è idiota, non produce in noi nessuna reale conoscenza, produce al più parole che producono una spiegazione misteriosa e oscura di un mondo che recalcitra, che resiste, che si piega senza spezzarsi che continua a esistere.

[4] But I was going to say when Truth broke in

Betulle è chiaramente un testo meta-poetico, non è la semplice descrizione di un bosco d’inverno, è il resoconto dell’apparire della verità, anzi della Verità, simile a un tempesta di ghiaccio: è interessante che parli di “verità” e non di “realtà”. A Frost preme la verità: verità e realtà non sono coincidenti, sono sposate su due piani diversi; paradossalmente meno facciamo esperienza della realtà (vd la povertà della lingua) più si apre il piano della verità.

[5] I should prefer to have some boy bend them

Il ragazzo è una creatura viva, reale che si muove, che dondola tra i rami. Il ragazzo si oppone alla verità, il poeta oppone il ragazzo alla verità, l’esistenza del ragazzo è in opposizione. La letteratura, il fare letteratura, lo scrivere è opporsi alla verità, opporsi al dato del reale così come è. La letteratura non nasce per descrivere il mondo, per cartografarlo, per renderne nitidi i contorni, la letteratura non è rappresentazione del reale dal vero, come una pittura, come una foto, ma è una bugia, una menzogna, una travisare la realtà, un velarla agli occhi, è – in una parola – finzione. Il poeta ha visto se stesso specchiato nella verità e ha avuto paura, crea una storia per allontanare chiunque dalla possibilità di specchiarsi.

[6] Summer or winter, and could play alone

Questo ragazzo è capace di giocare da solo – play alone -. Il termine play è ambiguo, vuol dire anche recitare, agire, fare: è lo scherzo tremendo che Nabokov racconta come origine della letteratura: “La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse via dalla valle di Neanderthal inseguito da un grande lupo grigio, gridando ‘Al lupo, al lupo’; è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo gridò ‘Al lupo, al lupo’ senza aver nessuno lupo alle calcagna”. Il bambino di Nabokov come il ragazzo di Frost sono soli, non hanno compagnia (scrivere è un atto di estrema solitudine, è l’eremo): sono loro che fanno da intermediari tra la realtà – avere veramente un lupo alle calcagna – e la finzione – immaginare di avere un lupo alle calcagna -; l’interstizio scintillante in cui il ragazzo di Frost ci invita a giocare è appunto la letteratura, che è sfugge alla nostra capacità informativa, che non riesce a essere tradotta in maniera piana; la letteratura in un testo è ciò che si oppone a ogni interpretazione, che recalcitra, proprio come la natura [3], e più recalcitra più noi cerchiamo di analizzarla.

[7] Kicking his way down through the air to the ground

Assistiamo a una descrizione di apprendimento, a come poter guardare la natura, alla scelta di povertà del linguaggio, perché la povertà del linguaggio è la cosa più vicina al silenzio, la ipotesi in cui possiamo realmente fare esperienza del mondo, e ci possiamo opporre al lui. Impoverire la sintassi, sempre più semplice, svuotare il soggetto, svuotare i verbi, i complementi, le proposizioni, i nessi causali e finali, provare a sentire la nudità delle termini. Provare a scrivere una parola in cui ogni funzione sintattica, grammaticale, retorica e di eloquenza sia una e soltanto quella, riuscire a dire “Io sono a casa” senza che questa frase suoni ambigua, senza che possa produrre interpretazione.

[8] And then come back to it and begin over

In questi versi compare la nostalgia, nel duplice senso di desiderio ciò che è perduto e di ritorno a ciò che era un tempo. Frost è stato il bambino che dondolava tra le betulle [6], era il bambino che gridava al lupo al lupo senza che nessuna fiera lo aggredisse o inseguisse. È interessante questa sequenza “andare via dal mondo: tornare indietro: ricominciare”, che descrive in maniera perfetta la nostalgia come un muoversi non tanto in uno spazio, ma in un tempo: ecco perché “ricominciare”. La nostalgia è legata a un inizio, a un principio, ovvero è legato al tempo. La nostalgia è il tempo del principio, è il momento esatto prima che la colonna del cielo crolli e la verità entri nel mondo, la nostalgia è quando non c’era bisogno della verità, della realtà, del linguaggio, semplicemente perché tutto questo non c’era, perché non c’era bisogno di gridare “Al lupo al lupo”, perché niente di tutto questo esisteva: la nostalgia è l’attimo esatto in cui l’universo fu in equilibro e l’equilibro fu l’angoscia. La nostalgia è il mondo libero, mentre cede all’angoscia.

[9] Earth’s the right place for love

La terra è il posto giusto per amare. Cosa è l’amore? Anzi cosa è amare, non tanto la sostanza, quando il verbo, cosa è il verbo amare? In Betulle questa azione è strettamente legata a una serie di verbi di movimento, li introduce, come se fosse il prodromo da cui entrare: andare, salire, ritornare. Durante la lettura tutti questi verbi hanno un’accezione di morte, di abbandono, brilla nascosto il suicidio. Amare porta con sé il dono della morte, l’ultimo dono del poeta: la sua vulnerabilità, la sua sconfitta, il suo tentativo di esprimere con poche parole il semplice dondolare dei rami delle betulle.

[10] One could do worse than be a swinger of birches

Così come si è aperta la lirica si chiude, alla fine quel che resta della poesia è l’immagine iniziale, il movimento a cercare un senso, c’è di peggio dice Frost che scrivere una poesia; gli scrittori, i poeti, i critici, gli intellettuali sono innocui come i bambini che gridano al lupo, come i ragazzi che giocano nel bosco, nessuno li sente, a nessuno importa di loro, di ciò che hanno – rapidamente e confusamente – per un attimo veduto.

In Appunti di Lettura

Joyce, Ulisse, Appunto 11 [XVIII, 1001-1067]

di Demetrio Paolin

PUNTEGGIATURA. Il capitolo XVIII dell’Ulisse è, di certo, uno dei luoghi testuali della letteratura occidentale dove maggiormente si è concentrata l’acribia dei critici, dei filosofi, dei linguisti, degli antropologi e sociologi: nessuno sembra rimanere immune dal fascino che emanano queste pagine. Molly, che fa una breve comparsa nel cap IV, e poi nel capitolo X, quando la vediamo donare un soldo ad un medicante, e infine addormentata, piena di seme, goduta, distesa come la dea terra nel finale del capitolo XVII, si prende la scena, catalizza su di sé l’intera forza del romanzo, l’intera carica eversiva dell’opera di Joyce e, infine, cancella in un colpo, con un balzo, Bloom e Stephen che scompaiono dall’orizzonte; il monologo di Molly è un evento, narrativo, divorante dell’intera forma dell’Ulisse: l’impressione è che tutta la struttura, gli schemi, gli intimi collegamenti, gli interne corrispondenze si siano dissolte. La pluralità di voci, di fuochi narrativi, di stili, scelte letterarie, l’alternanza egli/io, il soliloquio, il testo teatrale, la predominanza del significante sul significato, il linguaggio scientifico, il dialogo socratico – in una parola lo “stile” che aveva prodotto i primi 17 capitoli del romanzo si dissolva in una lunga sequenza di parole, intervallate da solo due semplici punti fermi [XVIII, 1032; 1067].

Mi soffermerei inizialmente su proprio questi due semplici punti grafici, chiedendomi perché Joyce abbia deciso di inserirli, in quanto essenzialmente pleonastici, rispetto allo sviluppo delle pagine.  La mia impressione è che voglia suggerirci come – come per il resto del romanzo – anche questo capitolo nulla non sia come sembra; ovvero che il monologo di Molly non debba essere visto tanto come un testo senza punteggiatura, ma come un testo la cui interpunzione è sprofondata, inglobata, nelle parole stesse, così da contenere in sé anche la ratio – la punteggiatura è prima di tutto un ordine del discorso poi una distribuzione di pause nella lettura – della frase.  Difatti la “presunta” illeggibilità di Joyce, che qui dovrebbe giungere al suo culmine, proprio nel periodare di Molly trova la sua smentita più clamorosa: leggere il capitolo XVIII non presenta nessuna particolare difficoltà, se ci si concentra sulla forma-frase che Joyce ha costruito nel lungo tutte le pagine della sua opera, tanto che paradossalmente i pezzi “difficili” sono altri: i soliloqui di Stephen nel capitolo III e di Bloom nel capitolo VIII, o lo sperimentalismo linguistico del XI e XIV.

Prendiamo un passaggio dal monologo di Molly: «quelle sceme pensano che amare vuol dire sospirare io sto morendo ma se lo scrivesse lui credo che ci sarebbe qualcosa di vero e comunque vero o no ti riempie la giornata e la vita ed è sempre qualcosa a cui pensare in ogni momento e vedertela tutta intorno come un mondo nuovo potrei scrivere la risposta a letto per farlo fantasticare su di me una cosa corta poche parole soltanto» [XVIII, 1031]. Lo riporto in originale: «silly women believe love is sighing I am dying still if he wrote it I suppose thered be some truth in it true or no it fills up your whole day and life always something to think about every moment and see it all around you like a new world I could write the answer in bed to let him imagine me, short just a few words».

La lettura ad alta voce di queste righe mostra come il ritmo sia perfettamente coerente con andamento grammaticale della frase, la cui misura, ci avverte Franco Moretti, è in media di 7/8 parole; lavorando su questa ipotesi, ho ricostruito la punteggiatura (metto quella in inglese perché mi pare più calzante per l’esercizio di immaginazione che stiamo facendo e aggiungo che ovviamente questa è la mia particolare forma di punteggiatura; ogni persona, ogni lettore, ha una sua particolare idea di ritmo): «silly women believe love is sighing: I am dying still”. if he wrote it, I suppose thered be some truth in it. true or no it fills up your whole day and life, always something to think about every moment, and see it all around you like a new world. I could write the answer in bed, to let him imagine me short, just a few words».

Mi pare che la lunghezza media della prosa di Joyce sia presente anche in questo capitolo, solo che, con una grande abilità, l’autore la nasconda. E quindi, per paradosso, queste pagine, che potrebbero essere lette come annunciatrici, preparatorie?, profetiche?, della scomparsa dell’autore, ne sono – nella realtà – una interessante sconferma: l’autore nel monologo di Molly non è solo presente, ma vivo e vegeto; egli lavora sotterraneamente, scava, sceglie le frasi, le parole, le giustappone in modo che la punteggiatura interna di Molly sia completamente “visibile” per chi legge. Ciò che a prima vista ci sembrava una sorta di “obliterazione” dello stile, una riduzione a zero di tutto l’armamentario retorico è un gioco di prestigio: scompare, è invisibile, ma è presentissimo e misurato in ogni opzione retorica del capitolo. L’intento che muove Joyce (questa scelta mi pare interessante) è produrre un testo, che nonostante tutto sia leggibile e cantabile; quasi se l’autore avesse trovato una misura (le famose 7 parole) della frase e su quella componesse la “melodia”. Molly è il metro del romanzo, è il ritmo del romanzo; la sua evocazione, nel corso dei capitoli non è tanto da vedere come una sorta di rappresentazione, abbassata, ironica della nostalgia che prova Ulisse nei confronti di Penelope, quanto come segreta invocazione allo spirito del romanzo. L’impressione è che Molly sia il romanzo che pensa se stesso, il romanzo che prende la parola, il romanzo denominato Ulisse che immagina se stesso e si mette in scena. Non c’è nulla di meta-letterario o meta-testuale in queste pagine, ma semplicemente è il “ritmo” di come le parole si combinano  a prendere il sopravvento.

PAROLE.  Il dato empirico, che ci colpisce maggiormente nel capitolo XVIII, è il continuo parlare di Molly; vedremo successivamente cosa dice, ma adesso ci interessa analizzare questo suo continuum: una-parola-dopo-l’altra è così che si presenta epilogo finale dell’Ulisse quasi Joyce volesse che lo leggessimo senza nessuna interruzione, come se la punteggiatura – appunto suggerita – si stemperasse e si perdesse in un ampio brodo di parole che si susseguono. Che cosa si cela dietro questa scelta?

L’impressione, almeno personale, è che queste pagine non siano un flusso di coscienza, ma un monologo “detto” dalla bocca di Molly. L’immagine, parola, “bocca” è presente nel capitolo XVIII, quando la donna descrive i baci, quando parla delle fellatio, quando racconta i momenti in cui canta; a conferma basti una citazione: «non avevo idea di cosa vuol dire baciarsi finché non mi ha messo la lingua in bocca e la sua bocca era una dolcezza di gioventù» [XVIII, 1033]. Molly è una grande bocca che parla, come se la donna adagiata e coricata sul letto, che l’autore descrive nel capitolo XVII, rappresenti due labbra pronte a schiudersi.

Il monologo di Molly, quindi, non ha mai un attimo di pausa, non prevede il silenzio come opzione: è un dire e un dire continuo. L’impressione, che si ha in queste sessanta pagine, è che Molly,  e tramite lei Joyce, non voglia che il lettore faccia esperienza di silenzio. Nel 1921 Rosenzwieg pubblica Stella della redenzione, che rappresenta una una riflessione sullo statuto moderno della tragedia. Leggendo il monologo di Molly, che come abbiamo detto riassume in sé l’idea stessa, il ritmo, del romanzo, mi è tornata in mente una riflessione contenuta nel saggio: «L’eroe tragico ha soltanto un linguaggio che gli corrisponde alla perfezione: il silenzio». E qualche periodo più avanti continua: «Proprio per questo il tragico si è costruito la forma artistica del dramma: proprio per poter mettere in scena il silenzio.  La poesia drammatica conosce solo il parlare, e solo per questo il silenzio diventa in essa eloquente».  Molly è l’antitragico per eccellenza, non sceglie il silenzio, elegge se stessa a forma-parola, rappresenta concettualmente qualcosa che è precedente l’avvenire della tragedia e del personaggio tragico. Ecco perché lei parla, parla e parla: tale flusso di parole (più che di coscienza) avvicina Molly ai grandi personaggi comici del romanzo anatomico: a Gargantua e Pantagruel, al Morgante del Pulci, a Democrito Jr di Anatomia della Malinconia, al Donchisciotte di Cervantes. Molly è precedente a ognuno di loro, è la matrice di questi personaggi, come se Joyce ne avesse trovato l’origine, l’archetipo di coloro,  che non lasciano spazio tra una parola e l’altra, perché nel caso l’esito sarebbe il silenzio e, quindi, la tragedia. Il romanzo del primo ‘900, soprattutto dopo gli anni ‘10, è un’opera, che in maniera più o meno esplicita, fa i conti con l’evento tragico della guerra. Il personaggio Molly è una risposta diversa allo choc percettivo e comunicativo di quell’episodio storico: la poetica del silenzio, del balbettio, dei frammenti con grandi spazi bianchi tra una parola e l’altra, che unisce Hemingway, Eliot e Ungaretti, che trova un correlativo nella prosa di Joyce (almeno fino al capitolo XVII), nasce comune e spontanea dopo la guerra del ‘14- ‘18, così come è ben descritta da Benjamin nel suo saggio Il narratore:  «È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di cambiare esperienze. […] Una generazione che era ancora andata a scuola in tram a cavalli, si trovava  sotto il cielo aperto, in un paesaggi in cui nulla è rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiale, il minuto e fragile corpo dell’uomo». La Grande Guerra, l’evento, ha impoverito il linguaggio, l’ha reso sterile, più incline al silenzio, al mutismo, ma con un miracolo, con una invenzione degna del genio, Joyce crea e dà voce a Molly, che non è un semplice personaggio, ma rappresenta la forma stessa del raccontare, che prende la parola e continua a narrare senza pause e interruzioni e, come una novella Sharazade, nel raccontare ci salva, dice Sì anche per noi.

CORPO. Il monologo di Molly contiene almeno due sparizioni interessanti; la più evidente è la scomparsa di Dublino. Se la città è stata onnipresente primi diciassette capitoli, qui svanisce del tutto. Nell’Ulisse i personaggi hanno sempre un rapporto stretto con i luoghi, interagiscono con essi, entrano in relazione; Joyce stesso è ossessionato nel ricostruire fedelmente i luoghi, i passaggi, gli edifici. Bloom – in un certo senso – è l’epitome e il risultato di questo atteggiamento, ma per quanto riguarda la resa narrativa di Molly tutto questo sembra meno necessario, tanto che i luoghi che Molly racconta sono in realtà più filtrati dal suo ricordo che eminentemente reali. Si potrebbe dire che il luogo in cui accade tutto sia l’interiorità di Molly, che quindi il capitolo XVIII potrebbe essere definito come una semplice resa stenografica dei pensieri della moglie di Leopold Bloom. Abbiamo visto, però,  come questo non sia corretto, perché

a) il capitolo non è una riproduzione in presa diretta dei pensieri, in quanto invisibile c’è la mano dell’autore;

b) i pensieri di Molly, ancorché vagabondanti, riprendono i temi e immagini del romanzo (ovviamente il tradimento con Boylan, anche l’episodio dei cani, il marinaio, Rudy, il discorso notturno tra Stephen e Bloom, il tradimenti di Bloom);

quindi Molly contiene nelle sue parole tutto il romanzo, lo riassume in sé. Ho usato il termine “riassumere”, ma non è soddisfacente per il pensiero che voglio esprimere. Molly non è il riassunto del romanzo, come immagine è carente, non ne restituisce la complessità: così  prendo a prestito la definizione che Jameson usa per tratteggiare l’organizzazione della prosa di Benjamin ovvero “costellazione”.

Molly è la “costellazione” dell’Ulisse, ovvero, usando la definizione del dizionario, è l’ “insieme di numerosi elementi analoghi raggruppati in un ampio spazio”: essa è il medium ( certo è da intendersi come “mezzo”, ma nello stesso tempo medium ha un coloritura occultistica che qui mi pare utile rimarcare) che Joyce utilizza per tenere insieme una struttura sul punto di esplodere, sul punto di negare se stessa. L’Ulisse è un insieme di luoghi, di temi, di stili, di immagini che abbiamo in questi appunti cercato di tenere insieme, ma che era sottoposta una forza centrifuga netta. Se il romanzo si fosse concluso al capitolo XVII chi avesse visto nell’Ulisse l’inizio, la prefigurazione, del postmoderno, oppure l’anticipazione a certe strutture rizomatiche del pensiero e, perché no?, la struttura della rete avrebbe avuto validi, anche se non decisivi, motivi di ragione; ma il cap XVIII modifica tutto, perché, infine, a tenere insieme ogni cosa appare Molly.

A scomparire insieme a Dublino è l’interiorità. Il flusso di pensieri di Molly è un tripudio di esteriorità: Molly parla del suo corpo, dei corpi altrui; sono pagine, queste del capitolo XVIII, in cui paradossalmente accadono più cose, e in cui i pensieri (il pensiero che pensa un pensiero) sono assenti: le parole di Molly non sono ragionamenti, non sono idee astratte, che partono dal gocciolare del rubinetto per arrivare a raccontare il ciclo dell’acqua, in una sorta di parodia del ragionamento platonico (si veda XVII, 913-916 ), ma raccontano “fatti”, accadimenti, per la maggior parte dei casi legati al corpo, al sesso, alla carne, alla vita che esplode e di cui lei è la catalizzatrice.

Molly è nel romanzo la vita che si oppone alla letteratura: «a me i fiori piacciono mi piacerebbe avere la casa che trabocca di rose Dio del cielo non cè niente come la natura le montagne selvagge e poi il mare e le onde che corrono e poi quella bella campagna con i campi di avena e grano e roba di ogni genere […] che ti farebbe bene allo spirito vedere fiumi e laghi e fiori di tutti i tipi di forme e profumi e colori possibili che spuntano su persino dai fossi primule e viole è la natura insomma e quelli che dicono che Dio non esiste non darei uno schiocco di due dita per tutta la loro cultura» [XVIII, 1065]. Se la letteratura in Ulisse è spesso rappresentata come un esercizio di sterilità, lo abbiamo visto con Stephen nell’appunto 10.1, la risposta di Molly e il tentativo – tra il paterno e l’incestuoso  – di Bloom di spingere Dedalus nella braccia della moglie sono il tentativo di conciliare tali opposti. La rinuncia di Molly, però, non deve essere vista come una negazione. Contrariamente a L’uomo in rivolta di Camus, il cui il centro del suo discorrere è il “no”, Molly è il personaggio che afferma, che dice “sì”: questa parola  torna spesso nel capitolo XVIII, ma la densità delle sue occorrenze aumenta considerevolmente nelle pagine finali, fino alle ultime 9 righe dove il termine “sì” torna 10 volte a ratificare il diritto della vita sulla letteratura, e a celebrarne il suo trionfo. L’Ulisse, quindi,rappresenta una strana aporia:  è un romanzo che sancisce la vittoria della vita sulla letteratura con un personaggio romanzesco, Molly, che è prodotto da parole e costruito secondo con una precisa struttura retorica. Molly, infine,  rappresenta il fallimento, o il naufragio, dell’Ulisse, ma ne è anche la sua più alta testimonianza di grandezza.

In Appunti di Lettura

Joyce, Ulisse, Appunto 10.2 [XVI-XVII, 831-999]

di Demetrio Paolin

L’appunto 10 riguarda i capitoli XVI e XVII che pur differenti stili e modi, rappresentano una sorta di dittico in cui dominano i personaggi di Leopold e Stephen. Per tali ragioni ho pensato che fosse necessario suddividere l’appunto in due puntate, la 10.1 su Stephen Dedalus in 10.1 e la 10.2 su Leopold Bloom.

ULISSE-MOSÉ-ULISSI. Nel capitolo XVI c’è una rapidissima notazione che mi ha colpito, nella quale si registra il disagio di Stephen nell’avvertire vicino a sé Bloom: Dedalus è infastidito dal «sentirsi accostare [da] una strana sorta di cane di uomo diverso, molliccia e ballonzolante eccetera» [XVI, 899]. Questa reazione di Stephen, che per alcuni è simbolica della omofobia del personaggio e di Joyce,  è da leggersi in realtà come una contrapposizione narratologica: Stephen sente disagio al tocco di Bloom, perché quest’ultimo rappresenta qualcosa di alieno, nuovo e strano. I capitoli XVI e XVII funzionano, o dovrebbero essere letti, come un gioco di contrapposizioni: in cui Stephen illumina Bloom e viceversa. In cosa Leopold Bloom è un “uomo diverso”? Il tema fondamentale, che caratterizza Bloom, è quello della identità. Lo abbiamo visto nel capitolo XV quando, al pari di Tiresia, l’indovino, vive sulla sua pelle la doppia condizione di essere maschio e femmina, ma il tema della identità lo avevamo affrontato anche ne capitolo VIII quando Bloom dice “No-one is anything” (No-uno è alcuna-cosa) o nel capitolo XII quando la sua condizione di ebreo e senza patria viene più volte ridicolizzata dal Cittadino. Il culmine di questa riflessione è visibile nel capitolo XIII quando, dopo la lunghissima scena della masturbazione, Bloom scrive l’indovinello sulla sabbia “I AM A…”, legato alla indeterminatezza. “Io sono un”: “un”  cosa? Che cosa è questo “un”, cosa regge questa copula del verbo essere? In che mondo si può definire “io sono”: è una citazione biblica? Sappiamo che nell’Esodo (libro di viaggio, di ritorno, e di identità al pari dell’Odissea) la definizione di Dio è una tautologia “Io sono colui che sono”. Se Dio rappresenta, almeno in logica linguistica, una perfetta identità, Bloom segna il qualche modo il venir meno di questa identità, perché cade un pezzo della definizione, o meglio la definizione si sposta su ciò che è realmente problematico. Se diciamo “Dio è alto, basso, brutto, bello, medio, cattivo, buono, onnipotente, assassino, padre, madre etc etc”, il predicato nominale non ci pone particolari problemi: abbiamo una idea chiara di cosa sia alto, basso, nello, brutto etc etc; paradossalmente pure la parola “Dio” non ci dà molto problemi in sé, ma l’unione “Dio+è” diventa problematica: perché sancisce la perdita della funzione copulativa del verbo essere. Il problema sta nella frase “X + è”, quale che sia X. Modifichiamo la frase precedente con “Marco è buono/alto/brutto/assassino/giovane etc etc”, eliminiamo il predicato nominale e ci ritroviamo con “Marco è”: cosa è l’essere di Marco? In che modo Marco “è”? Dio/Marco sono intercambiabili, è il verbo “essere” ha produrre i problemi di logica grammaticale e di logica filosofica. 

Bloom sulla spiaggia compie un gesto molto simile; cancella o volutamente non scrive “cosa” “chi” lui è. In che modo Bloom è? Cosa significa essere Bloom? Così quando Bloom scrive “I am a” e lascia cadere la sua definizione si consegna completamente all’essere. Figlia dello sregolamento grammaticale di Rimbuad e del suo Je est en autre, l’azione di Bloom (e di Joyce) risulta addirittura più radicale: rinuncia a una qualsiasi definizione di sé; carica tutto il peso sull’essere, sul verbo, sull’azione dell’esistere: concentra la nostra attenzione di lettori sul suo “essere” e non tanto sul suo “essere qualcosa”.  C’è un altro dato che dobbiamo segnalare nell’episodio ovvero che Bloom scriva il tuo “tetragramma” sulla sabbia, un gesto che ci ricorda Gesù che scrive sulla sabbia aspettando che la gente decida se lapidare o meno l’adultera. Questo atto di scrittura assume un significato di fragilità, di passaggio, di labilità: la scrittura sulla sabbia è simbolo di qualcosa di non dura, è un gesto che si oppone alla ragion d’essere di Stephen, che – come abbiamo visto nell’altro appunto – ha sempre nel suo orizzonte la scrittura: scrivere la propria identità, o la presa d’atto della propria mancanza della stessa, sulla sabbia è il risultato finale di questo lungo e tortuoso cammino del romanzo, che solo all’altezza degli ultimi capitoli riusciamo a comprendere completamente; il gesto della scrittura, il lasciare in sospeso il predicato nominale che delimita e definisce, acquista significato, perché in queste pagine viene da chiedersi se l’affermazione, che è stata fatta più volte, sulla identità (da intendersi come coincidenza di topoi letterari) tra Bloom/Ulisse sia corretta. 

Nel capitolo XVI assistiamo a un evento interessante, Bloom e Stephen entrano in una losca locanda gestita da un uomo che si è macchiato alcuni atti criminosi e tra gli avventori a tenere banco e raccontare c’è un marinaio. Questo marinaio insieme ad altri è seduto ad un tavolo e racconta le sue storie: «“Mi chiamo Murphy” continuò il marinaio. “W.B. Murphy di Carrigaloe. Sapete dov’è?”» [XVI, 846]. Non solo è un marinaio ma dopo molti anni di assenza sta per tornare a casa dalla sua mogliettina: «È  da lì così che io vengo. […]. La mia mogliettina è lì. Mi sta aspettando, lo so. […].  È la mia legittima moglie che non vedo ormai da sette anni, sempre in giro per mare» [ibidem]. Bloom lo guarda ed è proprio lui a dichiarare come questo uomo, che fa racconti stravaganti, a limite del credibile – come le donne di Beni in Bolivia, che «quando non possono più aver figli si tagliano via le tette. Eccole lì sedute popponi al vento a mangiare fegato di cavallo morto» [XVI, 849] – possa essere il “vero” Ulisse e così se lo immagina: «Tu non mi aspettavi più ma io sono tornato per sempre e per ricominciare da capo. […] Lei tiene l’ultimo arrivato sulle ginocchia, il figlio post mortem. […] Inchinati all’inevitabile. Sorridi e becca su. Rimango con molto affetto il tuo marito cuore infranto W.B. Murphy» [XVI, 847]. Sappiamo, inoltre, che Odisseo è il re delle imposture, dell’inganno e non credo sfugga che proprio nella tirata di Stephen sulla impostura dei suoni, che abbiamo citato nel precedente appunto, venga citato il cognome Murphy e avvicinato al cognome Shakespeare: «Gli Shakespeare erano comuni come i Murphy. Cosa significa un nome?» [XVI, 845]. La diade Murphy/Ulisse è, di certo, più credibile di quella Bloom/Ulisse, come abbiamo visto Murphy è narratore avvincente e sostanzialmente inaffidabile (ricordiamo che le avventure di Odisseo le conosciamo solo dal suo punto di vista): «“Ho visto un cinese, una volta […] con certe pilloline come di stucco che metteva nell’acqua, dove si aprivano, e ogni pillola era una cosa diversa. Una era una nave, un’altra una casa, un’altra ancora un fiore”» [XVI, 853]. Murphy racconta anche del «naufragio allo scoglio di Daunt» [XVI, 867].

Il capitolo XVI è disseminato di questi dati che ci portano a dubitare ad esempio della identità Bloom/Ulisse, proprio perché Murphy pare un candidato  più convincente. Certamente si potrebbe obiettare come nei suoi schemi Joyce abbia volutamente legato il percorso del romanzo e il percorso del poema omerico; eppure abbiamo sottolineato come nel testo queste evidenze – come gli schemi joyciani vorrebbero farci credere – non sono così lampanti. Ad esempio, il capitolo famoso dedicato a Polifemo brilla per l’assenza delle citazione famosa de “Il mio nome è nessuno”, abbiamo visto anche come il capitolo XV, che negli schemi dovrebbe rappresentare Circe, acquista un significato più centrale e comprensibile se letto sì come episodio omerico, ma quello della discesa nell’Ade.  Riguardo al legame Bloom/Ulisse, già indebolito dopo la lettura del capitolo XVI, il capitolo successivo ci consegna un ulteriore tassello: Stephen se ne è andato via e Leopold torna a casa, e ripensa alla giornata appena trascorsa. Nel ripercorrere gli eventi Bloom usa una diversa chiave di lettura, che non ha nulla a che vedere con l’epica omerica, ma è legata alle Sacre Scritture; così prima di coricarsi, elenca succintamente le azioni, che abbiamo visto nei capitoli che vanno dal IV al XVI, legandole a un dato religioso (afferente alla religione ebraica): «La preparazione della prima colazione (offerta arsa); ingorgo intestinale e defecazione premeditata (sancta sanctorum); il bagno (il rito di Giovanni); il funerale (rito di Samuele), l’annuncio pubblicitario di Alexander Keyes (Urim e Tummin); l’inconsistente spuntino (rito di Melchisedek);  […] l’erotismo prodotto da esibizionismo (rito di Onan); […]camminata notturna per raggiungere il e allontanarsi dal rifugio del vetturino, Butt Bridge (espiazione)» [XVII, 988]. Potremmo giocare e dire che Bloom non è Ulisse, ma Mosè, personaggio che ci conduce al limite di una terra nuova ma che non può entrarvi, e questo spiegherebbe in maniera decisiva “il” perché le pagine conclusive non siano focalizzate su di lui, ma su Molly.

In realtà Mosè e Ulisse rispondono a qualcosa di più antico ovvero questo bisogno dell’uomo di muoversi e tornare, di partire per avere un posto in cui fare ritorno. Mosè Ulisse e Bloom hanno in comune questa irrequietezza, che non è quella del nomade, ma è quella che in qualche modo del sedentario costretto a muoversi e che immagina un luogo del ritorno, a cui si appartiene. Joyce, con questo nuovo schema interpretativo, ci pone un riflessione più ampia, che non riguarda se Bloom sia Odisseo o Mosè o Donchisciotte (nel capitolo IX l’immagine del cavaliere della triste figura viene avvicinato a Leopold), ma quale sia la segreta funzione narrativa che questi personaggi possiedono; essi in momenti diversi della storia della letteratura e in modi diversi rappresentassero una esigenza più profonda dell’umano, una struttura narrativa che è anche filosofica e antropologica, legata alla nostalgia al tornare da dove si è partiti: nei secoli Odisseo più che un personaggio ha rappresentato una sorta di funzione dell’immaginazione, precedente alla stessa letteratura, che rappresenta quel sentimento di nostalgia, di desiderio di tornare e impossibilità di tornare; l’uomo da sempre è e ha come habitus la nostalgia, abita la nostalgia, vive nella nostalgia, fa di tutto per tornare e di tutto per non tornare più; è inquieto e complicato, sogna e desidera: «Riposa. Ha viaggiato» [XVII, 998]. Bloom ha viaggiato e ora riposa e, quasi camminando a ritroso negli anni, si mette a letto vicino a Molly – «Gea-tellus appagata, sdraiata, gonfia di seme» [ibidem] – come «l’uomo-bimbo stanco, il bimbo-uomo nel grembo» [ibidem]. Sembra che il viaggio sia finito, il viaggio di Bloom, il viaggio di Ulisse, il viaggio dell’homo sapiens da quando ha iniziato a esistere volge al termine, ma proprio nel chiudersi del capitolo ecco l’ultima domanda che l’oscuro narratore del capitolo XVII (Chi è questo narratore? E se fosse lo stesso anonimo Io del capitolo XIII?) pone: «Dove?» [XVII, 999]. La risposta come sempre in Ulisse è un enigma: «■» [ibidem]. Cosa significa questo quadrato nero? Per alcuni è il simbolo del “Come volevasi dimostrare” (ad indicare l’andamento logico-matematico del capitolo), per altri il quadrato nero ricorda le note nel canto gregoriano  e starebbe ad significare l’intonazione – il “dare il la” – al monologo di Molly. Entrambe queste ipotesi, per quanto suggestive e centrate, dimenticano il dato costitutivo della narrazione del capitolo ovvero l’alternarsi di domande e risposte. Quel  quadrato o punto nero è la risposta alla domanda “dove?” Quindi il segno grafico indica un punto, un luogo in cui andare o da cui ri-tornare. La mia ipotesi è che il quadrato nero, di cui sappiamo che Joyce desiderasse dimensioni tipografiche sempre maggiori, sia una reminiscenza del romanzo, sicuramente fondativo per l’Ulisse, Vita e opinioni di Tristram Shandy di Sterne, in cui una pagina è totalmente nera per significare il lutto e il dolore del narratore per la morte di un personaggio; il nero rappresenta la lingua ammutolisce, il luogo in  cui la scrittura si riduce a puro segno grafico, senza suono o significato.

Da dove è arrivato Bloom e per dove riparte Bloom? Torna da un lutto, e si muove verso una zona di lutto, da intendersi non tanto come morte, ma come privazione, di luce, di vita, di esistenza. Nell’Odissea, canto XI,  sappiamo che Tiresia, durante la discesa negli inferi di Odisseo,  gli profetizza un ulteriore viaggio: il ritorno a Itaca è momentaneo, Ulisse non si fermerà, ma ripartirà. Che viaggio sarà quello di Ulisse? Non ci è dato saperlo, ma la letteratura ne ha immaginato moltissimi: Dante Cervantes Risalire Burton Sterne Joyce, ognuno di questi costruito un viaggio in cui il fantasma di Ulisse, la sua figura, è presente. Immagino che Joyce sia arrivato alla fine del suo romanzo convinto che alla domanda “dove?” non si possa più rispondere con delle parole. Le letteratura è ammutolita, fa una esperienza di lutto. Così come Sterne per significare il massimo dolore proponeva ai suoi lettori una pagina completamente nera per affermare l’esistenza di qualcosa che la letteratura, la parola, non è in grado di riprodurre, altrettanto fa Joyce con il suo quadrato: esiste una esperienza della vita in cui la parola non è priva di senso, non ha nessuna forza o possibilità; il quadrato nero è il momento dell’indicibile e della resa: se l’Ulisse è il romanzo che tenta la nuova lingua, non è a Bloom che dobbiamo rivolgerci. La sua esperienza lo ha portato a ritornare a uno  stato prenatale, precedente il linguaggio, allo stato di chi vive senza interiorità, di chi si consegna alla essere (ecco tornare la centralità del verbo essere nell’indovinello “I AM A”). Bloom e Stephen in modi diversi, con atteggiamenti diversi, arrivano e subiscono lo stesso smacco: le loro lingue, quella che uno ha coltivato (Stephen) e quella con cui l’altro  è stato scritto (Bloom), sono destinate al mutismo. Sarà compito di Molly  riprendere in mano le fila della storia e produrre la nuova parola che, infine, affermi.

In Appunti di Lettura

Joyce, Ulisse, Appunto 10.1 [XVI-XVII, 831-999]

di Demetrio Paolin

L’appunto 10 riguarda i capitoli XVI e XVII che pur differenti stili e modi, rappresentano una sorta di dittico in cui dominano i personaggi di Leopold e Stephen. Per tali ragioni ho pensato che fosse necessario suddividere l’appunto in due puntate, la 10.1 su Stephen Dedalus in 10.1 e la 10.2 su Leopold Bloom.

FIGLIOL PRODIGO. Dopo la rocambolesca fuga con cui si chiude il capitolo XV, una delle vette più vertiginose dell’Ulisse e del romanzo novecentesco in genere, il capitolo successivo si apre all’insegna di un gesto tanto comune quanto centrale: «Tanto per cominciare il signor Bloom spazzolò via il grosso dei trucioli, prose a Stephen capello e bastoncello e lo rincuorò alla bell’e meglio in ortodossi modi samaritani, cosa di cui aveva un formidabile bisogno» [XVI, 831]. L’incontro tra Bloom e Stephen che abbiamo atteso, e di cui abbiamo avuto piccole e rapide attestazioni lungo lo svolgersi degli eventi,  avviene nella sua completezza e accade nel segno nell’aiuto, ma anche della subordinazione. Bloom e Stephen non sono sullo stesso piano: uno aiuta l’altro, uno ha bisogno dell’altro per quanto Dedalus cerchi sempre di negare questo. Nello stesso tempo, proprio quando l’incontro avviene, quando i due sentieri del romanzo si incontrano, il romanzo volge alla sua conclusione. La coppia Bloom e Stephen nel corso del capitolo XVI e XVII si configura come una coppia padre/figlio:  Bloom trova in Stephen il foglio maschio non può avere, lo spettro di Rudy aleggia nelle pagine, e Stephen trova in Bloom un padre diverso dal suo “di sangue”, che è morto simbolicamente con la scomparsa di sua madre. Molti hanno notato il comportamento di Bloom verso Stephen, una sorta di atteggiamento da samaritano, riprendendo anche l’immagine e l’aggettivo con cui si apre il capitolo; eppure se dobbiamo trovare un aggettivo evangelico per il rapporto Bloom/Dedalus allora io parlerei di “prodigo”, riecheggiando la parabola evangelica. Se dovessimo individuare il tema centrale di XVI e XVII, al di là degli schemi alcune volte depistanti dello stesso Joyce, potremmo dire che tutti i personaggi di queste pagine sono alle prese con un ritorno, descrivono un modo con cui si ritorna. E, infatti, la parabola di Luca verte proprio sul figlio che dopo essersi pentito torna alla casa del padre. Due sono le preoccupazioni, che Bloom nutre verso Stephen 1) il cibo: «Lei deve mangiare più cibo solido. Si sentirebbe un uomo diverso» [XVI, 862]; 2) l’alloggio: «Propongo […] che lei venga a casa con me a ragionarci sopra. Il mio alloggio è a quattro passi da qui» [XVI, 862]. Stephen è come il figlio che ritorna, dopo un lungo periodo di assenza e il padre è pronto a perdonargli tutto, perché infine si era perduto ed è tornato. Così forse il momento della cioccolata calda [XVII, 921] non è tanto una chiusura liturgica dell’immagine della messa blasfema [I, 25] , ma è proprio una sorta di banchetto che festeggia il ritorno a casa del figlio che non c’era più.

Il capitolo XVII nella prima parte appunto produce questo lento avvicinamento dei due, il diventare familiare l’uno all’altro: il culmine è rappresentato dall’atto comune della minzione, che –  ricordiamo – accomunava Stephen e Bloom nelle loro prime apparizioni. L’urinare sotto un cielo stellato è come il sancire un nuovo patto, una nuova unione e amicizia: «Su suggerimento di Stephen, su istigazione di Bloom entrambi, prima Stephen, poi Bloom, urinarono nella penombra, i fianchi contigui, gli organi della minzione resi reciprocamente invisibili da circoimposizione manuale, gli sguardi, prima quello di Bloom, poi quello di Stephen, levati alla proietta ombra luminosa e semiluminosa» [XVII, 954]. Questo episodio è preparato da una serie di pagine in cui lentamente e con cura Bloom e Stephen si conoscono. La struttura domande e risposte, reminiscenza del catechismo cattolico o del metodo socratico, produce lentamente la conoscenza dell’uno dell’altro e che culmina con l’ennesima offerta di ospitare Stephen una casa: «Di trascorrere le ore intercorrenti tra il giovedì […] e il venerdì […] su un giaciglio improvvisato nel locale immediatamente sopra la cucina e immediatamente contiguo alla camera da notte dei due padroni di casa» [XVII; 944]. Stephen rifiuta la proposta e se ne va nella notte. Così il suo ritorno non è un vero ritorno, egli non trova pace, ma continua a muoversi nella notte, mentre Bloom rientra in casa e va da Molly.

Interessante è anche come il viene trattata la loro separazione. «Come preso congedo uno dall’altro nel separarsi? Rimanendo perpendicolari sulla stessa porta e su differenti lati della sua base, con le linee delle accomiatantisi braccia che si incontravano in un punto qualsiasi e formavano un angolo qualsiasi inferiore alla somma di due angoli retti». [XVII, 955]. I due personaggi, di cui Joyce non ci ha risparmiato niente della loro corporeità e della loro interiorità (liquidi, vomito,  parole, pensieri, rabbie, crapule, masturbazione),  di cui l’autore ha narrato cambiamenti trasformazioni e metamorfosi, diventano due linee, figure geometriche, che perdono tutta la loro profondità: nel momento di congedo dalla storia perdono la loro consistenza e divengono semplici idee.

STEPHEN DEDALUS. A dominare la scena dell’Ulisse è Bloom, ma non dobbiamo dimenticare una verità narratologica importantissima, che Harold Bloom enuncia in Rovinare le sacre verità riguardo l’Amleto di Shakespeare ovvero che non sia possibile leggere questa opera senza la presenza di Orazio, la sua assenza infatti ci metterebbe davanti agli occhi un’opera diversa. Così come Orazio è necessario ad Amleto, allo stesso modo Stephen è necessario a Bloom, anche se il loro incontro avviene solo negli ultimi due capitoli, perché in qualche modo sentiamo che le loro due vicende sono più profondamente intrecciate di quanto inizialmente vediamo. La figura di Stephen è  il continuum tra le altre opere di Joyce e l’Ulisse; in lui l’autore irlandese rivede e descrive se stesso, eppure nel romanzo non è il personaggio principale. Stephen nella struttura del romanzo raffigura “il figlio”, è Telemaco, e non è causale che la prima parte del romanzo (I, III, III) sia totalmente dominata da lui; ma il romanzo, il vero “romanzo”, dell’Ulisse inizia successivamente con l’entrata in scena di Bloom: in questo Joyce rispetta la struttura dell’Odissea perché il protagonista non ci viene presentato subito, ma con una studiata attesa narrativa. In più Stephen agisce per tutte le pagine della storia per non essere riconosciuto come figlio, per non essere Telemaco, pensiamo al suo rapporto con il padre Simon, ma anche una certa scontrosità che ogni tanto trapela nei confronti di Bloom. Nei capitolo XVI e XVII tutti i tentativi di “accasare” Stephen falliscono, come ad esempio quando Bloom prospetta a Stephen di tornare a casa di suo padre e il ragazzo gli oppone un silenzio pieno di memorie e di ricordi «Stephen troppo laboriosamente impegnato a rievocare il suo focolare domestico l’ultima volta che lo aveva visto, con sua sorella Dilly seduta accanto al fuoco, i capelli sciolti» [XVI, 841], un rifiuto che come abbiamo visto viene ribadito nel capitolo XVII. Stephen non si sente figlio tanto da sconfessare la sua figliolanza: «[…] “Conosci Simon Dedalus” chiese finalmente. “Ne ho sentito parlare” risposte Stephen» [XVI, 845]. Stephen è, quindi, un Telemaco riluttante, non torna a Itaca, non riconosce suo padre, se ne va nella notte non sappiamo bene dove.

Forse dobbiamo andare più a fondo di questo personaggio, partendo dall’analisi del nome e cognome.  Stephen/Stefano, il suo nome tiene in sé la memoria del primo martire, in greco la parola “martire” significa testimone: Di cosa è testimone Stephen? Dal punto di vista narratologico Stephen è testimone di Bloom, come abbiamo visto nel nel capitolo XV, quando Leolpold assume i tratti del messia rovesciato, del re del carnevale; infatti, quando avviene questa apoteosi regale, Stephen è intento a suonare il piano, lo stesso piano che nel capitolo XI era stato accordato da dal ragazzo cieco (Omero). Questo ci porta alla letterarietà che è il dato dominante in Stephen: «Quali due temperamenti rappresentavano essi individualmente? Quello scientifico [Bloom NdA]. Quello artistico [Stephen NdA]» [XVII, 929]. Stephen parla per citazioni, ha sempre sulle labbra le  sacre scritture, o Shakespeare e spesso le sue riposte hanno un che di pensoso, ma sempre legato ai libri. La prima apparizione di Stephen nell’universo letterario di Joyce è sotto il cognome di Hero. Nei prodromi del mondo narrativo di Joyce, Stephen è l’eroe, il protagonista, colui di cui la storia narra e colui che fa muovere la storia, egli è anche il ritratto di James Joyce: Stephen è martire in quanto testimone, che scrive, produce una storia, quella di Joyce come “artista”.

L’Ulisse segna in certo senso la crisi dello Stephen [Hero], non è un caso che spesso nel romanzo Stephen sia descritto come “sconfitto” nella sua arte, come sia relitto del passato (forse anche la battuta che fa citando/parodiando Flaubert [III, 82] può essere vista come una affermazione di appartenenza di un tempo e stile letterario che non sono più), il tono denigratorio quando viene chiamato bardo, ma anche la presa in giro della sua cultura (medievaleggiante). Stephen è il ritratto dell’artista alle prese con una crisi di nervi (mi vengono in mente certi versi di Eliot in particolari quelli di Alfred Prufrock) e di identità: «I suoni sono imposture.  […]. Come i nomi. Cicerone. Podmore. Napoleone, signor Goodbody, Gesù, signor Doyle. Gli Shakespeare erano comuni come i Murphy. Cosa significa un nome?» [XVI, 844]. Stephen mescola nomi e cognomi e questo ci porta a riflettere sulla scelta del cognome: Dedalus.

Chiaramente a prima lettura esso rinvia a Dedalo e al labirinto, e quindi per simbologia alla complessità e alla perdita di centro che abbiamo visto essere uno dei temi centrali dell’intero romanzo: pensiamo solo al capitolo VII ambientato nella redazione dei giornali, o al capitolo X con il tentativo di rendere simultanee le tante e diverse linee narrative.  Dedalo, quindi, rimanda a quella grecità con cui si apre il romanzo e dichiarata da Buck: «Bisogna che andiamo ad Atene» [I, 27], ma è un mito che non è per nulla collegato all’Odissea. Dedalo è cantato e raccontato nell’Eneide di Virgilio e precisamente nel canto VI. Il poeta romano canta un momento particolare della vita di Dedalo, legato alla morte di Icaro. Dedalo cerca di dipingere la morte di Icaro, di cui è stato testimone, ma appunto lo strazio è stato così forte che l’artista è costretto ad abbandonare la impresa: «bis patriae cecidere manus» (per due volte caddero le mani del padre). E, quindi,  non pare così casuale l’unica citazione dell’Eneide virgiliana stia in bocca a Stephen [XVI, 837].  Possiamo quindi dire che il passaggio da Hero a Dedalus possieda quattro significati principali che forse individuano meglio il ruolo e il valore di questo personaggio nel corso del romanzo: a) l’abbandono di una certo tipo di scrittura, di cultura; b) una dichiarazione di impotenza da parte della scrittura nel descrivere la vita; c) il fallimentare destino dell’intellettuale ai punti a e b; d) il lasciare lo spazio ad altro e a un altro modo di raccontare.

Torniamo al momento dell’addio. Stephen stringe la mano a Bloom, forse in quella stretta di mano possiamo adombrare un altro significato al termine martire/testimone. Forse nello stringersi la mano, simbolicamente Stephen passa il testimone a Bloom, dall’uomo vecchio all’uomo nuovo (san Paolo), perché è in Bloom che “fiorisce” qualcosa di nuovo. Paradossalmente nell’Ulisse il figlio rappresenta ciò che è vecchio e passato (l’arte, la scrittura, la cultura passata), e che ha perduto ragione di essere e, quindi il personaggio di Stephen esce dal romanzo in silenzio senza dire l’ultima parola. Un altro finale molto più complesso aspetta Bloom, come vedremo nel prossimo appunto, perché da Bloom fiorisce Molly (Poldy Bloom → Molly Bloom). Stephen, andandosene e lasciando Bloom nel «freddo spazio interstellare» [XVII, 956] si arresta prima di tutto questo, alle soglie di un mondo nuovo.