di Demetrio Paolin
16. Una delle prime parole miliari, ovvero che ci accompagneranno per l’intero corso e sulle quali ritorneremo spesso, della Trilogia è “lordura”, la troviamo a pagina 4; l’area semantica che traccia questa parola nel corso della narrazione ha a che fare con lo sporco, il brutto e il deforme: possiamo elencare, ad esempio, in Da un castello all’altro, la vicenda dei bagni e della “merda” che letteralmente fuoriesce dai water, oppure l’apparizione del “cul-in-terra” di Nord o dei “bambini svedesi” in Rigodon. Il mondo descritto da Céline è un mondo sporco, dove a trionfare è appunto il brutto, senza nessuna ipotesi di bellezza (è interessante che quando Céline voglia parlare di bellezza scriva “delicatezza”, come se la bellezza fosse una sorta di contrappeso alla durezza del mondo). Ora che tipo di “brutto” abbiamo davanti ai nostri occhi nel leggere le pagine della Trilogia? Osserviamo questa righe: «si vanta di essere una strega… gli Americani le hanno fatto il culo viola… brutta in un modo che a Quasimodo la cosa gli avrebbe fatto piacere… […]la natura l’aveva ben conciata, tutta la guancia sinistra, una macchia di vino, i capelli rossi, ispidi, a cosa di vacca, gli occhi uno grigio, l’altro azzurro… e strabica pure… non c’è che dire, faceva il suo effetto» (TdN 313). La citazione di Quasimodo ci mette subito sulla strada giusta, abbiamo già avuto modo di vedere come Céline abbia ripreso certi movimenti del romanzo ottocentesco e proprio Hugo si era imposto alla nostra fantasia e immaginazione. La presenza dello scrittore francese è costante in Trilogia, forse anche più di quanto Céline stesso vorrebbe suggerirci: «aggiustate in stracci, più per niente sozzone mondezzaie!… piacenti!… Esmeralde!…» (TdN 388). Oppure le pagine di Nord dedicate al campo degli zingari (TdN 496 e seguenti): «L’Esmeralda chiama gli altri che si sganassino, lei crede che Lili sa manco maneggiarle, che superbia, che ridano di noi piano» (TdN 498). Esmeralda, Quasimodo, zingari: Notre Dame Hugo serve da possibile “caricatura” della descrizione topografica dello Zornhof: il campo degli zingari come la corte dei miracoli, il luogo in cui vengono ritrovati semi morti il conte e la guardia simile al Valdamore. Senza appunto contare la descrizione dei bambini “svedesi”: «tutti torti sbilenchi, teste grosse penzolanti, dai quattro ai dieci anni, pressapoco… Quasimodi bimbi bavosi» (TdN 819). Molti personaggi della Trilogia hanno qualcosa di orribile, come appunto Quasimodo, o sono descritti come personaggi che hanno perduto ogni armonia, ciò che vede Céline è una umanità ridotta a un mostro, a qualcosa di deforme e grottesco.
Attira ad esempio l’attenzione una immagine tra le molte, la riporto: «Cromwell gettato nell’immondezzaio, brulicante di vermi, non aveva proprio il filo!… ha imparato a sue spese! Dissotterrato l’hanno ristrangolato, e riappeso» (TdN 508). Cromwell è il titolo di un dramma di Hugo, importante sopratutto per la prefazione, in cui Hugo proprio teorizza la centralità del deforme, del brutto, nella nuova letteratura. La prima immagine è quella di uno specchio; la letteratura per Hugo è «uno specchio in cui si riflette la natura. Ma se questo specchio è un comune specchio, una superficie piana e limitata, non rimanderà che un’immagine sbiadita e senza risalto […] il dramma deve essere dunque uno specchio concentratore». A interessarci è appunto lo specchio che più che riflettere o rimandare le immagini, le concentra, le deforma e questo punto che Hugo inserisce la riflessione sul brutto: «Il bello non offre che una sola tipologia, il brutto invece ne mostra mille. Il fatto è che il bello, parlando umanamente, non è che la forma considerata nel suo rapporto più semplice, nella sua simmetria più assoluta, nella sua armonia più intima con la nostra organizzazione; ci offre sempre un insieme completo ma ristretto come noi. Ciò che denominiamo il brutto, al contrario, è solo il dettaglio di un grande insieme che ci sfugge e che non si armonizza con l’uomo ma con l’intera creazione: ecco perché esibisce senza sosta aspetti nuovi ma incompleti». La deformazione di Hugo è duplice: da un lato è fisica – il brutto, il difforme, il fuori scala, in questo senso Quasimodo ne è l’epitome -, ma dall’altro, come bene fa notare Vanessa Pietrantonio in Maschere grottesche (Donzelli), la potenza deformante si innesta anche e sopratutto nella lingua e in particolare nell’argot. Ritorniamo alla parola “lordura” da cui ha preso l’avvio questa nostra postilla, se andiamo a vedere l’originale francese troviamo una parola “pochetée”, che a una prima breve ricerca non è presente nel dizionario classico, di certo è un termine ibrido una delle tante invenzioni/innovazioni linguistiche che Céline compie nella Trilogia. Siamo consapevoli, leggendo le lettere e le varie riflessioni, che per lo scrittore francese fosse centrale lo stile (Céline si definiva uno stilista), e di come fossero la musica, il dato fonetico della parola a guidarlo nella composizione (ne è un esempio la testimonianza della moglie che raccontando “come” vennero risolte le incertezze delle varianti di su Rigodon parla, appunto, di una scelta per assonanza, rima che era presumibilmente suggeriva il modo con cui Céline componeva i suoi testi). È chiaro che il recupero dell’argot e il suo uso siano una della grandi innovazioni romanzesche di Céline; lo scrittore francese fa diventare l’argot la lingua della Trilogia, sostenendo come “l’argot è nato dall’odio”, ma questa sua innovazione deve a Hugo più di quanto Céline voglia farci supporre. Leggiamo questa pagina tratta da I miserabili: “Lingua laida, inquieta, subdola, traditrice, velenosa, crudele, losca, vile, profonda, e fatale nella miseria. […] ora astuta, ora violenta, e al tempo stesso malsana e feroce, essa attacca l’ordine sociale […]. L’argot è appunto la lingua di battaglia che la miseria ha inventato”. E ora leggiamo questa riflessione di Céline: “Credetemi, conosco bene l’argot, tutti gli argot, ahimè! il vero argot è quello di Villon,sebbene già più accademico, ma soprattutto quello delle Chansons de Mandrin, che del resto ben pochi conoscono…No l’argot non si fa con un glossario, ma con delle immagini nate dall’odio, è l’odio che fa l’argot. L’argot è fatto per esprimere i sentimenti veri della miseria. […]. L’argot è fatto per permettere all’operaio di dire al suo padrone che detesta: tu vivi bene e io male, tu mi sfrutti e giri con un macchinone, ti ucciderò…”. Hugo e Céline parlano, o meglio, scrivono la stessa lingua nata dalla miseria, dall’odio e dal sopruso (curiosamente questa lingua umiliata, questa lingua che possiede solo parole negative, di rabbia, odio, umiliazione e sopruso è vicinissima alla lingua familiare – “la bizzarra parlata dei nostri padri” – di Primo Levi, il quale nel Sistema periodico ne descrive come “evidente” “la radice umiliata”). L’argot nasce dal rovescio della civiltà, in questo modo possiamo comprendere come il segreto più profondo della Trilogia ovvero la messa in scena di una lingua che si pone in contrapposizione rispetto alla lingua letteraria ufficiale: «potrei inventare, trasporre… quello che hanno fatto tutti… la cosa passava in antico francese… Joinville, Villehardouin l’avevano facile, si sono mica fatti scrupolo, ma il nostro francese qui, intisichito, così striminzito lezioso, accademizzato, quasi a morte, mi farei trattare da ancora più abbietto, stronzo delle Pleiadi e non mi venderebbero più per niente» (TdN 813). Chiaramente la deformazione dei corpi, che non risparmia nessuno, nemmeno Lili – «anche Lili pure carina, tratti regolari, per niente criminale, eccola matrigna, assassina, capelli in furia e Sabba, strega sul declino, lei che non vent’anni» (TdN 338) –, è il segno, il primo e il più visibile, di una visione della deformità che domina ogni cosa. «Il personaggio narratore, unico spettatore destinato a rimanere sulla soglia, si trova così di fronte a una coralità che, nel mettersi a nudo, si serve di un megafono improvvisato per celebrare l’orrore, facendone, addirittura, l’apoteosi», queste parole che la Pierantonio dedica a Hugo possono essere declinate alla lettera per la scelta e la motivazione di Céline nella composizione la sua Trilogia: una apoteosi dell’orrore.
17. Quando arriviamo a Zornhof, nel mezzo di Nord, che è poi nel mezzo della Trilogia veniamo accolti da una serie di personaggi molto stravaganti e strani, di cui forse il più stravagante e strano è il vecchio, di cui ci viene descritta la passione per essere picchiato e frustato dalle sue giovani bambine. A prima vista questo potrebbe essere letto alla luce di un sadismo spicciolo, ma se ci soffermiamo con più attenzione su tale descrizione, potremmo vedere come essa rappresenta una spia della possibile matrice sadiana più che sadica della Trilogia.
Possiamo intanto notare come un tema tipico dei libri di De Sade sia il viaggio, nei romanzi del marchese si viaggia molto (si legga in questo senso Barthes di Sade, Fuorier, Loyola), ma il termine del viaggio è sempre uno, la meta è sempre una, una possibile chiusura, l’arrivo in un luogo che in qualche modo ha le stimmate della prigione: in questo senso lo Zornhof (ma prima anche Sigmaringen) è un perfetto luogo sadiano, popolato come è da strani personaggi con strani gusti sessuali, o malattie, o comportamenti al limite dell’abiezione; si pensi solo al vecchio che porta Iago, il cane, in giro per la tenuta, così da mostrarne la magrezza, simbolo della fame che attanaglia tutti, a significare che tutti stanno vivendo di stenti; una pratica che porterà il povero animale ha morire durante una di queste “passeggiate”.
Altra immagine sadiana è l’impiccagione: riprendiamo la citazione su Cromwell (TdN 508), in quel brano leggiamo della riesumazione di un cadavere, e di una nuova impiccagione, ma non è l’unica: «Esatto! Vi dicevo nell’altro mio libro, dal momento che sei designato, il tuo collo, la tua corda!» (TdN 440); «Che ti impicchino! E presto! Alto, basso! In che stile vai a sdondolarti!”; “pendagli da forca, sospetti ovunque, traditori per la Francia e la Germania… […] un bel momento viene solo una domanda: perché non ti hanno impiccato?» (TdN 509). C’è un legameche collega il nodo, il tradimento, l’impiccagione e la punizione, che così De Sade esemplifica: «Non ci rimangono che due alternative: o il crimine che ci rende felici o il nodo scorsoio che pone fine alla nostra infelicità». L’impiccagione, quindi, è topos stratificato, quando lo leggiamo in Céline: ci ricorda la Ballata degli impiccati di Villion, che abbiamo visto Céline conosceva bene e al quale guardava come costruzione del proprio stile, ma la corda, il nodo e l’asfissia sono alcune della immagine topiche e tipiche dello stile sadiano o meglio che si radicano nello stile, in particolare, nella parte legata alla descrizione delle orge. La descrizione tipografica, cioè dell’organizzazione dello spazio della pagine di De Sade, fatta da Barthes, ci permette di cogliere tale particolarità: «Chi sfoglia i libri di De Sade sa bene che vi si alternano due grandi forme tipografiche: pagine fitte, continue: è la grande dissertazione filosofica; pagine spezzate da spazi bianchi, capoversi, da punti di sospensione, di esclamazione, linguaggio teso, bucato, vacillato: è l’orgia, la scena libidinosa o criminale». Nella Trilogia Céline prova tipograficamente e stilisticamente una sorta di summa infatti le pagine céliniane sono “fitte”, “continue”, “spezzate” “da puntini di sospensione, di esclamazione”, e il linguaggio è appunto (vd 16) “teso, bucato, vacillato”. La componente sadiana di Céline non è però legata al sesso, c’è qualcosa in Da un castello all’altro, la sfortunata storia di Clotilde e del Commissario Papillon (TdN 176 e seguenti), le scena del Stazione che diventa un bordello sempre in Da un castello all’altro, ma al crimine. L’io narrante si presenta come un libero pensatore, che va contro ciò che di solito pensa, è – in una parola – un libertino, termine che nella cultura francese possiede un’aura molto più complessa di quella che cogliamo noi oggi. Tale sguardo straniato sul mondo, che è lo sguardo della “canaglia” (per riprendere un termine che abbiamo già analizzato) è lo stesso di De Sade, e certificata l’idea di mondo, una storia, e una società tenute insieme da una sorta di Dio Malvagio, di essere supremo che è la copia distorta, terribile e grottesca dell’Essere Supremo, il culto viene sancito in Francia nella Costituzione (mai applicata) dell’Anno I (1793). De Sade scrive: «Convinto di questo sistema, mi dico: c’è un Dio; una mano qualunque ha creato necessariamente tutto ciò che vedo, ma lo ha creato soltanto per il male, essa si compiace soltanto nel male, il male è la sua essenza (…). Nel male egli (Dio) ha creato il mondo, con il male lo regge, con il male lo perpetua. Impregnata di male la creatura deve esistere e in seno al male deve rientrare dopo la sua esistenza». Ad una prima lettura della Trilogia l’immaginario religioso è di certo poco presente. Nel corso dei romanzi, però, l’assenza di Dio viene rotta da alcune bestemmie che, sopratutto in Rigodon, tornano insistite: in Céline la bestemmia diviene de facto una lamentazione, un sberleffo a qualcosa che esiste e che se ne sta indifferente sopra di noi; la bestemmia è tipica della visione De Sade come rovesciamento grottesco della preghiera in un mondo appunto retto dal Male, costituto di Male, e mosso a Male.
Il mondo di Céline è retto dal male? Potremmo provare a rispondere a questa domanda con l’episodio del “pugno alla scatola di legno”. Céline, citando (ancora una volta fraintendendo il testo) Bergson, scrive: «riempite una scatola di legno, una scatola grande, di limatura di ferro molto fina, e ci date un pugno dentro, un pugno forte… che cosa osservate? Avete fatto un cratere… della forma esatta del vostro pugno! Per capire che cosa è accaduto, quale fenomeno, due intelligenze, due spiegazioni… l’intelligenza della formica sbalordita stravolta, che si chiede per quale miracolo un altro insetto, formica come lei, ha potuto […], e l’altra intelligenza, geniale, la vostra, la mia, una spiegazione che è bastato un semplice pugno» (TdN 707). Ciò che mi chiedo io è: chi dà il pugno? La nostra intelligenza, superiore a quella della formica, comprende che a generare il cratere è stato un pugno, ma il romanziere, lo scrittore si deve chiedere: perché viene dato un pugno, perché proprio il pugno? C’è qualcosa fuori dalla scatola che cala il suo braccio e questo potrebbe essere Dio, l’essere supremo, ma supremo e malvagio, perché si palesa nella storia (romanzo) e nella Storia (esistenza) dell’uomo con un atto di violenza. Il dato sadiano, quindi, agisce in profondità costituendo quella che è la visione e l’organizzazione del mondo in cui i personaggi della Trilogia si muovono; un mondo dove Dio c’è ma è un essere crudele che dà un pugno e rompe ogni cosa.
18. «riconosco il posto… proprio così, davanti all’Hotel Esplande… oh non mi sbaglio!… ma ammaccato e tutto crepato, l’Hotel Esplande, il tetto cadente gli spenzolava davanti.. direi per ridere: surrealista!» (TdN 832). Questa descrizione attira la mia attenzione soprattutto per l’aggettivo che la conclude, Céline sicuramente è stato un attento lettore e osservatore che ciò che accadeva nella Francia delle lettere proprio nel momento in cui, ad esempio, si apprestava a esordire; quindi possiamo immaginare che abbia letto e abbia riflettuto sul manifesto del surrealismo che Breton aveva prodotto. Uno dei momenti più interessanti di questo manifesto è a ripresa del famoso “incipit puro” di Valery, «la marchesa uscì alle cinque»; su questo incipit si concentravano tutte le ironie e i sarcasmi dei surrealisti per un tipo di narrazione, che aveva fatto il suo tempo.
E Céline? Dovremmo pensare che egli sia in linea con questa concezione di rinnovamento, eppure se andiamo a guardare con attenzione e ciò che abbiamo analizzato in queste postille possiamo fare alcuni nomi degli autori che più in profondità agiscono nella sua prosa: Cervantes, Shakespeare, De Sade, Hugo… Non è quindi casuale che Céline scriva: «Pare che sia del tutto passato di moda scrivere “che alle dieci il calesse delle contesse era venuto avanti” ah vacca miseria! Che ci posso fare se vado giù di moda?» (TdN 531). Céline ha ben chiaro, in questo passo, e nei molti altri che dissemina lungo i romanzi, la Trilogia potrebbe essere anche letto come una lunga riflessione meta letteraria sul romanzo, che la sua novità sta appunto e forse nel recupero di alcuni modi di raccontare gli eventi che possono parere obsoleti agli occhi di molti innovatori. Abbiamo visto che Céline si muove nel campo dell’inter-testualità come un uomo tra le macerie dopo una esplosione, ne raccoglie brandelli, né salva piccoli pezzi, li ricompone secondo una sua personale sensibilità; ad esempio il termine “cronaca” per descrivere la Trilogia secondo l’uso di alcuni scrittori medioevali francesi o l’utilizzo dell’argot (vd 16) alla luce di Hugo. Avevamo messo in evidenza, sin dalle prime postille, come l’utilizzo della punteggiatura, sopratutto, dell’esclamazione poteva essere visto come debito “stilistico” verso Hugo e Balzac, di Hugo abbiamo già detto, ma Balzac?
È chiaro che lo sberleffo di Valery, che Breton riprende, ha proprio come oggetto il romanzo dell’ottocento, che vede in Balzac il suo più grande interprete; Céline cita chiaramente due volte Balzac la prima parlando della pelle dello zigrino, uno dei romanzi centrali della Comedie Humaine, e poi nelle pagine conclusive di Rigodon, quando appunto dichiara che Balzac ha vissuto per un periodo a Meudon: «Balzac giusto!… Balzac sarebbe venuto a Meudon… avrebbe abitto a Belle-vue in casa del conte Apponyi» (TdN 897). La Trilogia insomma si chiude all’ombra del grande romanziere francese, quello che sognava di “portare un’intera società nella sua testa”, la sua presenza in chiusura non è casuale: Céline con la Trilogia ci fornisce una descrizione che per certi versi poteva essere molto simile a quella di Balzac: se il primo voleva rappresentare la Francia nel XIX secolo (e con la Francia il mondo, stando alla felice intuizione di Wilde), Céline compie un’azione simile: rappresenta tutta la prima metà del XX secolo, nel suo punto apicale e finale, pochi istanti prima che scompaia. Rigodon (e la Trilogia di conseguenza) è libro “finale”, perché sono le ultime parole scritte e pensate di Céline, un libro scritto mentre le Parche gli rosicavano i fili, scritto in furia proprio perché la pelle dello zigrino è ormai giunta alla fine. È un libro sulla morte di un’epoca e sulla sua, di Céline, personale morte: «ho adesso sessantasette anni, la mia pelle di zigrino così ristretta, dovrei essere crepato dal un bel pezzo, ho fatto tutto per… applaudite» (TdN 885). Ora, come sempre, la citazione di Céline non è corretta completamente, necessita di essere esplicitata: nel romanzo di Balzac la pelle dello zigrino è una sorta di amuleto magico che il protagonista (Rafael de Valetin) ottiene da un usuraio, la pelle ha una particolarità: è costruita a misura della vita del suo possessore, a ogni desiderio, che magicamente viene esaudito, essa si ritira fino a svanire, decretando la morte del suo possessore. Valetin, dopo una vita dissoluta, si accorge che la pelle dello zigrino è ormai poco più di niente e cerca di rimandare la morte, vietandosi qualsiasi desiderio, ma infine le parche avranno ragione di lui… La pelle dello zigrino è ristretta: Céline scrive sapendo, oscuramente di certo, ma sapendo che questo sarà il suo ultimo romanzo; e così, proprio come in una recita, si mostra infine nelle ultime pagine al centro del palco da solo, i rumori della storia sono passati, tutto è consumato, anche il suo amuleto, e lui ci guarda oramai vecchio e stanco, sta per farci l’ultima confessione – «ho scritto tutto per…» – in cui forse ci racconterà quello che ha nel cuore, il suo ultimo pensiero, il motivo per cui ha scritto questo romanzo, ma invece con un movimento, da clown quale ha voluto farci credere di essere, ci chiede un applauso. È il suo ultimo desiderio, quello finale, che infine al braccato, all’impostore, al traditore venga concesso il giusto applauso. Noi sappiamo, e Céline lo sa perché è conoscitore di Balzac, che con questo ultimo desiderio, la pelle dello zigrino si consumerà e all’autore non resterà che confondersi con “quelle profondità spumose che più niente esiste” (TdN 898).