In Appunti di Lettura

Joyce, Ulisse, Appunto 7 [XII, 443-515]

UNO STRANO “IO”. L’incipit del capitolo XII ci lascia perplessi: «Ero giusto lì a fare quattro chiacchiere con il vecchio Troy della polizia metropolitana di Dublino sull’angolo di Arbour Hill e mi prenda un colpo se non arriva un cazzo di spazzacamino che quasi mi ficca il suo arnese nell’occhio» [XII, 443].  Poche pagine dopo leggiamo: «Sia come sia Terry ha portato le tre pinte offerte da Joe, e cazzarola la vista mi è quasi cascata dagli oggi quando ho visto tirar fuori un testone. Ohè, preciso come ve lo sto raccontando. Una graziosa sovrana» [XII, 451].

Chi è questo “io” che parla? Perché ovviamente è differente dall’io che avevamo descritto negli appunti precedenti, usato da Joyce per metterci in collegamento diretto, senza mediazioni grammaticali, con la mente dei suoi personaggi: quel passaggio dalla terza persona alla prima, che ad esempio abbiamo notato il capitolo III nei riguardi di Stephen, e nel capitolo VIII con Bloom. L’ “io”, che apre cap XII,  è completamente diverso, tramite esso viene narrato il capitolo, che riprende l’episodio di Polifemo. Questo “io” è a tutti gli effetti il narratore, colui che ci racconta, dal suo punto di vista, con la sua particolare lingua, attraverso i suoi particolari pregiudizi,  i fatti. Quali informazioni abbiamo su lui?

Sappiamo che sta bevendo con alcuni amici, sappiamo che ha qualche pregiudizio razziale (verso l’ebreo Bloom), sappiamo che per caso è presente alla discussione tra il Cittadino e Bloom, null’altro. Non conosciamo il suo nome, ignoriamo se in qualche modo lo abbiamo già visto nelle pieghe del racconto dell’Ulisse. Chiediamoci ora chi è il narratore, che ci ha accompagnato sino alle soglie del cap. XII: il narratore dell’Ulisse è la tipica terza persona onnisciente, “egli” vede, sente ogni cosa, è dappertutto, ed è soprattutto anonimo.

Joyce, che come abbiamo più volte sottolineato gioca a disarticolare o a portare al limite la forma romanzo, sembra voler suggerire che il narratore, questo vettore narrativo, questa funzione semiotica, che la moderna arte del romanzo avverte come desueta, esca – quindi – da una semplice funzionalità testuale e sia personaggio, così come lo sono Bloom, Stephen e la miriade di attori che popolano il testo; Joyce fa in modo così, che anche l’anonimo narratore, onnisciente e costretto sempre a dire “egli”, possa dire “io”.

Abbiamo accennato prima che nel XII si riscrive l’episodio di Polifemo, un episodio così famoso da essere conosciuto anche da chi non ha mai letto una riga del poema omerico; proverbiale, ad esempio, è divenuto il motto astuto con cui Ulisse si prende gioco del gigante, dichiarando di chiamarsi “nessuno”. In questo capitolo del romanzo, mentre la rocambolesca fuga dall’isola [Odissea IX, 471 e seguenti] viene rappresentata dalla partenza precipitosa in carrozza di Bloom: «Il biancolatte delfino scosse la criniera e, salito nella dorata poppa, il nocchiero spiegò la vela a gonfiarsi nel vento e prese spavaldamente il largo con la velatura al completo» [XII, 510], con il Cittadino, simile a Polifemo (Odissea IX, 537-538), che rabbioso scaglia in strada/mare massi per colpire la carrozza/nave di Bloom/Ulisse: «’zzarola, lui ha tirato indietro la mano e poi, fatta una bella estensione, ha lanciato un oggetto. Per grazia di Dio aveva il sole negli occhi altrimenti quello là lo faceva secco» [XII, 513], manca completamente qualsiasi riferimento a Odissea IX, 366: «Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano». La battuta non viene mai pronunciata da nessuno dei personaggi; né Bloom e né il Cittadino si definiscono così: tutti portano il proprio nome, lo dichiarano. L’unico a tacere le proprie generalità, l’unico di cui ignoriamo ogni cosa, del perché sia lì, o dovrà andrà poi, è l’Io narrante. Joyce adombra in lui, in questa figura fuggevole e cangiante, in questa struttura narrativa dallo statuto incerto (esiste veramente il narratore?  O rappresenta una mediazione tra l’autore e il protagonista?)  l’essere nessuno, outis greco, il no-qualcuno, il no-uno che si intravede nella frase omerica. Questa intuizione di Joyce ci rivela anche un meccanismo molto interessante del poema omerico: il narratore dell’Odissea è onnisciente, a lui è affidata la narrazione della Telemachia e del nostos ad Itaca; il poema, però, possiede una narrazione dentro la narrazione, un testo dentro il testo, ovvero le avventure di Ulisse raccontate da lui stesso: il centro narrativo dell’Odissea sono i racconti che Ulisse pronuncia durante il banchetto. Già nel testo epico, quindi, assistiamo una strana forma di ibridazione tra il narratore e il personaggio (Ulisse è il protagonista delle poema, ma è anche il protagonista delle storie che racconta), che Joyce riprende: tramite questo “io” narrante anonimo e partecipe, egli pone nuovamente uno dei temi centrali del romanzo ovvero quello dell’identità.

IDENTITÀ.  Una lettura meno frettolosa del libro nono dell’Odissea potrebbe far comprendere come il vero nodo narrativo non stia tanto nell’ammissione di Ulisse di essere/chiamarsi “nessuno”, quando nello scambio di battute tra Polifemo e l’eroe greco ormai in fuga. Solitamente questa seconda parte è lasciata in disparte nonostante a) sia importante per comprendere il perché del resto del peregrinare di Ulisse; b) questa scelta riduca il ciclope a un povero idiota, battuto e vinto dalla intelligenza scaltra di Odisseo. Siamo in un certo senso vittime di un sentimento votato alla semplificazione: Odisseo =astuzia e Polifemo= stoltezza. In realtà le sfumature psicologiche sono molto più ampie, leggendo il libro IX dell’Odissea veniamo a sapere che un indovino aveva profetizzato a Polifemo l’incontro con Ulisse e il suo accecamento. Il gigante lo racconta con queste parole: «Egli mi disse che un giorno tutto questo si sarebbe compiuto/d’essere privato di vista per mano di Odisseo./ Ma io ho sempre aspettato che arrivasse qui un uomo/grande e bello, vestito di grande vigore:/invece uno che è piccolo, da nulla e debole, ora/ mi ha orbato dell’occhio, dopo avermi vinto con il vino» [Odissea IX, 511-514]. Odisseo dopo i suoi viaggi è “piccolo”, un uomo “da nulla e debole”, senza forza e vigore. Ulisse inganna Polifemo non perché più astuto, ma perché Polifemo condivide i valori arcaici dell’Iliade, dove forza coraggio e vigore definiscono gli uomini e gli avversari. Odisseo è invece l’uomo che non è più nulla, l’uomo complicato, moderno, che sfugge a una qualsiasi definizione.

Il cap XII – proprio nello scontro dialettico tra il Cittadino e Bloom – ha come centro la domanda “chi   è Leopold Bloom?”, un tema, come abbiamo visto, già presente nel capitolo VIII; quest’uomo così sfuggente, solitario, silenzioso, trafficone, che viene tradito e tradisce, sempre alle prese con qualche pensiero, mostra in queste pagine un altro aspetto di sé. Se il Cittadino rappresenta tutto ciò che in una parola  potremmo definire nazionalistico, Bloom si descrive come apolide, sradicato, senza terra, senza patria: Bloom porta su di sé la stimma dell’ebreo errante: «Eccolo lì, l’ebreo! Tutto per sé. Furbo come un ratto di latrina» [XII, 509], vive con una idea di stato completamente nuova: «Una nazione sono le stesse persone che vivono nello stesso posto» [XII, 497], è straniero in una patria che sente sua, ma che lo odia: «Sono nato qui. L’Irlanda» [ibidem], «E appartengo a una razza […] che è odiata e perseguitata. Anche adesso. In questo momento. In questo preciso istante» [XII, 498; nel capitolo è un coacervo di pregiudizi antisemiti, espressi di volta il volta dall’Io narrante e dal Cittadino]. Bloom  è veramente un personaggio moderno, portatore di un concetto di uomo, nato dalle ceneri della prima guerra mondiale; la rottura del paradigma umanistico, avvenuta lungo le trincee del conflitto mondiale, dà inizio a quello stravolgimento dell’umano che sarà centrale nella letteratura tra le due guerra Eliot, Hemingway, Woolf. Il Cittadino e gli altri suo amici oppongono a Bloom una idea stantia e vecchia di nazione, i cui rigurgiti in parte arrivano fino a noi: «Non vogliamo più stranieri a casa nostra» [XII, 486]; all’interno di questo paradigma vecchio e passato, come leggere altrimenti le infinite elencazioni di eroi mitologici, di luoghi, di avvenimenti pseudo storici che troviamo nel capitolo, essi non riescono a definire Bloom. Egli più che un nessuno è un no-uno, qualcosa di non riconducibile all’unità (come non lo è il romanzo oramai frantumato in mille rivoli di cui è protagonista). Bloom è veramente l’uomo complicato e multiforme, così simile all’Odisseo che Omero decide di cantare nel suo poema; egli è figura della complessità, della impossibilità di essere riassunto, di essere definito: «Ma quello là è ebreo o gentile o cattolico romano o protestante o cosa diavolo è? […]. Addirittura: Chi è? Senza offesa» [XII, 505].

“Chi è?”. La domanda di identità ritorna e trova risposta alla fine del capitolo, quando appunto, Bloom fugge dal Cittadino come Ulisse da Polifemo, ma se nell’episodio omerico è Ulisse a dichiarare la sua vera identità, qui assistiamo a una blasfema epifania, che mescola l’episodio veterotestamentario del carro di Elia, e la trasfigurazione sul Tabor di Cristo, narrata dai Vangeli, fornendo a Bloom un connotato cristologico tale da renderlo ancora più ambiguo e sfuggente: «Ed essi scorsero Lui, proprio Lui, ben Bloom Elia, tra nugoli di angeli ascendere alla gloria del fulgore a un angolo di quarantacinque gradi sopra Donohoe in Little Green Street» [XII, 515]