In Narrazioni

Saluto a Morselli

di Matteo Caputo

Ognuno di noi porta con sé dei sensi di colpa.

Per quanto alcuni possano apparire assurdi e immotivati, ci si aggrappano addosso e ci costringono ad agitarci come cani che hanno qualcosa sulla schiena e non riescono a scrollarsela di dosso. Il mio senso di colpa più insensato è, ve lo anticipo già, verso uno scrittore.

Io non lo conosco e lui non mi conosce, anche perché, quando ho messo piede su questa Terra, era già morto da tempo. Si è suicidato, per la verità: dettaglio che, nella vita di un uomo, non è affatto irrilevante. Ha preso la sua «Ragazza dall’occhio nero», come la chiama nel suo romanzo più famoso, e l’ha fatta finita. Esattamente cinquant’anni fa, il 31 luglio del 1973, Guido Morselli decideva di abbandonare un mondo che non l’aveva mai capito e che forse, in quegli anni, non avrebbe comunque potuto farlo.

Bolognese di origine, varesotto di adozione, Morselli tentò finché ebbe respiro di farsi pubblicare, tuttavia invano. In vita poté vedere l’uscita solamente di Proust o del sentimento, del 1943, e Realismo e fantasia, del ’47. Proprio a proposito del primo saggio, uscito mentre si trovava in Calabria (per rimanerci tre anni, dal ’43 al ’45), scrive nel Diario:

Mi chiedo se sia possibile desumere un orientamento, ricavare una indicazione sul senso della nostra vita, di ciò che il destino – o la Provvidenza – ci ha riservato o ci viene apprestando, e che spesso ci sembra irragionevole e ingiusto se non assurdo ed iniquo. Ad es., vi è forse sottinteso un oscuro disegno nel fatto che la mia prima opera venga in luce lontano da me e senza che io ne possa avere notizia.

Per una di quelle beffarde ironie della sorte che connotano meglio di tante altre cose le storie personali di ciascuno di noi, egli non sapeva di aver chiaramente descritto la condizione che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita e che avrebbe trovato conferma in ciò che sarebbe accaduto dopo di essa. Dopo la morte, infatti, come da copione, il successo: in meno di dieci anni, tra il 1974 e il 1980, vede la luce la maggior parte dei suoi romanzi. Il primo, ad esempio, Roma senza papa, in cui il vicario di Cristo decide di abbandonare Roma per vivere comodamente in una villetta a Zagarolo, esce nello stesso 1974; E che dire di Contro-passato prossimo, pubblicato l’anno successivo, dove Morselli riscrive un capitolo importante della Storia recente immaginando che la Grande Guerra sia stata vinta dagli Imperi centrali? (Oltretutto, a spaccare a metà il racconto, un Intermezzo critico davvero interessante). L’ultimo titolo di questa rapida rassegna (dal sapore, lo riconosco, un poco pubblicitario: ma, non dimenticatelo, io ho il mio senso di colpa da lenire), l’ultimo titolo, si diceva, è quello di sicuro più noto, Dissipatio H.G. (non vi sforzate, va sciolto così: Humani Generis), tra l’altro oggetto di una notevole riscoperta in anni recenti e causa di un’attenzione critica ipertrofica rispetto al resto della produzione morselliana, tanto da essere rappresentabile, con un po’ di fantasia, come uno di quei quadri di Dalì dove sono presenti arti sproporzionati. È la storia di un’apocalissi selettiva: un uomo sull’orlo del suicidio si trova a desistere dal proposito di ammazzarsi annegandosi in un laghetto. Durante il ritorno a casa scopre che l’umanità è sparita, è “evaporata”, appunto: si spalancano così, davanti al protagonista, le strade della riflessione su questo inedito scenario post-apocalittico e su tutto ciò che da esso scaturisce, percorse con lucidità ed ironia e inframmezzate dalle soste offerte dai ricordi: «Tutta la nostra esperienza interiore è il gioco di due fattori: la memoria (il passato), l’angoscia (il presente)», scrive trent’anni prima a Catanzaro nel VI Quaderno del Diario, quello di gennaio-febbraio 1944.

Si tratta del suo ultimo romanzo, del suo estremo tentativo di offrire al grande pubblico le proprie meravigliose pagine: anche tutti i precedenti, s’intende, erano andati a vuoto, e protagonisti delle inascoltate ragioni di questo exclusus amator – che tuttavia non arretrò mai di un passo la linea della propria dignità, anzi – sono stati personaggi di altissimo livello culturale, tra cui Calvino (con il suo trentennio di attività editoriale presso Einaudi) e Vittorio Sereni, il quale, in una lettera del 1971, non esita a ricordargli che «il nostro non è un ufficio di consulenza critica, ma un servizio di carattere editoriale, del quale rispondiamo ovviamente all’editore». L’editore di cui parla il poeta di Luino, si sa, è Mondadori.

Ma, come per ogni casa editrice, la pubblicazione di un libro è sempre una questione che deve tener conto di tanti parametri che nulla o quasi nulla hanno a che vedere con la letterarietà: l’autore della Casina Rosa (il suo buen retiro di Gavirate), per varie ragioni, era impubblicabile (tant’è che ci avrebbe pensato un editore come Adelphi a farlo conoscere al mondo). Non ultima, lo ammetto, quella dello stile: leggerlo implica un’attenzione particolare, spesso una rilettura, ma con il grande vantaggio di avviare riflessioni profonde e scoprire anche perle di rara ironia. Insomma, Morselli non è un autore da sfogliare sotto l’ombrellone: fa strano che io lo dica proprio nel periodo migliore per i consigli sulle letture da spiaggia, ma è così.

Se volete, lo rimandiamo a settembre. Con la promessa, però, di riprenderlo: non solo per i romanzi, ma anche, ad esempio, per il suo Zibaldone personale, quel Diario non più ristampato (ne esiste una versione in e-book, per fortuna) che non ha nulla da invidiare agli Escolios di Gómez Dávila o ai Cahiers di Cioran e che ci guida lungo trentacinque anni di riflessioni sull’amore e sul problema del male, sulla letteratura e sulla filosofia, sul suicidio e su Dio.

Da questo senso di colpa privo di colpa, sono leggermente più sollevato. Buona estate.