di Francesca Bellucci
La prima volta che vidi Michela Murgia era il 2015, mi trovavo nell’Aula Magna del mio liceo e avevo, come spesso accadeva allora, aspettative minime su quell’ennesimo incontro con l’autore. Era in giro per l’Italia a presentare la sua ultima uscita, Chirù, romanzo che non solo non mi piacque, ma che mi suscitò un certo insopportabile senso di fastidio. Fu il primo che lessi, su imposizione, proprio in vista di quell’incontro; e credetti che sarebbe stato anche l’ultimo. Pensai che, come molti degli altri scrittori che erano capitati sulle colline della mia città, si sarebbe limitata ad assolvere all’unico compito che stava a cuore a me e ai miei compagni: allontanarci dall’aula, serrare le orecchie e fingere, nella migliore delle ipotesi, un’attenzione che avremmo destinato al compagno seduto accanto. E dire che allora leggere era l’attività principale della mia vita, ma due malcapitati al loro primo romanzo, scritto a quattro mani, dissero in quella stessa Aula Magna che la scrittura non poteva e non doveva avere a che fare con la vita dello scrittore. Quella frase mi fece odiare prima quei due e poi gli scrittori che seguitarono ad arrivare a scuola. Era stato il compiacimento generale che mi fece storcere il naso, mandando in brandelli la credibilità di chi, in qualche modo, imboccava la strada per la mia città e soprattutto di chi decideva chi sarebbe arrivato.
Ma l’incontro con la Murgia fu tutt’altro: lei ci costrinse ad aprire le finestre e a guardare fuori, a renderci conto che in un romanzo ci sono sempre dei pezzi di vita vissuta, voluta, desiderata, spaventosa e profondamente dolce. La Murgia parlava e noi eravamo davvero lì con lei, in dialogo, stupefatti e attratti da quelle verità che lei ci stava proiettando davanti agli occhi con dolcezza e sagacia. Ripercorse la sua storia e quella del suo primo romanzo, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, e quel momento fu il fulcro di tutto. Lì la vita dello scrittore e dello scritto diventavano un tutt’uno e mi permisero di capire che c’era chi, come lei, dalla verità non solo non si lasciava spaventare ma che imbrigliava col coraggio la paura di parole messe in fila l’una dietro l’altra per sancire un punto di fine e uno di inizio. La vera magia fu che di tutta quella forza non me ne accorsi subito: entrò poco alla volta, smosse prima le corde della curiosità, poi quelle del dubbio. Non ci sono molteplici forme di verità collettiva, ce n’è una sola, comune, che ha come unico perno la felicità. Una società giusta è una società in cui il singolo sa di potersi beare dei piaceri della vita senza imporre a se stesso una maschera che gli permetta di muoversi latentemente per le vie della propria giustizia personale.
La sera di quel dicembre 2015 scesi di casa per ascoltarla ancora nella libreria che la ospitava. C’erano per lo più adulti, tanti piccoli borghesucci di provincia che i libri e gli incontri li collezionavano per fregiarsi di chissà quale cultura, forse posseduta, ma di certo sterile: incapace di farsi forma di pensiero. Con la grazia che le ho sempre ritrovato anche negli anni successivi, la Murgia planò sulle nostre vite. Usò il suo romanzo come pretesto per farci dire ad alta voce che sono i desideri più reconditi quelli in grado di muoverci davvero, che per comprendere chi siamo dobbiamo guardare in basso, vedere ciò che abbiamo nascosto, abbellito da una nebulosa convinzione di agiatezza.
In questi otto anni l’ho vista prendere a due mani le verità della nostra società e metterle sotto la lente d’ingrandimento per permetterci di capire che la strada che stiamo percorrendo non è quella corretta, se non è quella scelta con la testa.
La Murgia ha cucito una maglia di idee che cerca di rendere la società più giusta, più equa, che si pone l’obiettivo di scardinare le bugie che ci raccontano e ci raccontiamo per alimentare la nostra pigrizia e lasciare che tutto ci scorra addosso, convinti che la tempesta possa attraversarci e non sbaragliarci. Ha raccontato storie, ne ha inventate tante altre; ha intrecciato verità e fantasia, ha inciso lapidi di parole sulle brutture del nostro tempo.
Molto da dire ci sarebbe sulle donne della sua penna, sul suo uso delle parole nei saggi e nei romanzi, sul registro comunicativo che con grande coerenza ha usato per l’attivismo sui social, sulla capacità di adattare i mezzi di comunicazione a sua disposizione alla misura dello scrittore, sancendo la dimensione moderna dell’intellettuale, sulla potenza degli scritti degli ultimi mesi.
Muore solo la donna; gli scrittori, si sa, continuano a vivere nella dimensione delle parole.