In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte I

di Demetrio Paolin    

Gli uomini maneschi leggon tutti Dostoevskij[1]

I

Il primo ricordo di Dostoevskij (d’ora in poi D) risale all’università, avevo vent’anni, non avevo ancora letto nulla di questo autore, quando a causa del mio nome mi venne chiesto se mia madre o alcuni miei parenti fossero di origine russa o fossero appassionati lettori di D; nessuna delle due ipotesi era corretta: il mio nome era legato a quello di mio nonno, che a sua volta era legato al nome di suo nonno, e così via, e nessuno dei miei parenti era un appassionato lettore di questo autore russo. Mi venne in mente che mia madre avesse potuto, negli anni della giovinezza, incrociare D e l’onomastica dei suoi personaggi nello sceneggiato della televisione che appunto raccontava i Fratelli Karamazov (d’ora in poi FK), ma nella realtà non avevo prove e quindi tralasciai la questione. Mi venne chiesto se avessi letto qualcosa di D e con somma vergogna dissi di no, provenivo da una famiglia con pochi libri e le mie letture erano disordinate, caotiche e spesso non seguivano nessun filo logico, se non quello delle disponibilità in biblioteca o nella libreria dove andavo ad acquistare i volumi, così mi venne detto che se studiavo lettere e mi piaceva la letteratura non potevo non aver letto D. E allora eccomi, il giorno stesso, nella mia libreria di fiducia in fila davanti alla cassa, con una copia di Delitto e Castigo, dell’Idiota, dei Demoni e dei FK che fu il primo romanzo che lessi, perché il nome di uno dei protagonisti era il mio.

Se dovessi comunicare la sensazione che permane di quella lettura, potrei descriverla come un sentimento di apertura, di vasto, di ampio, di ignoto. I FK mi aprirono al romanzo, instillarono in me la devozione a questo tipo di genere letterario; quel ragazzo timido, insicuro, innamorato della filologia romanza, dei testi medioevali, dei dibattiti teologici,[2] quel ragazzo che sentiva il bisogno di esprimersi, da un lato, e dall’altro la necessità di autolimitarsi nel suo dire, e che quindi scriveva versi in endecasillabi, costruiva racconti o poesie piene di vincoli formali, si trovò davanti alla ampia e libera pianura del romanzo, all’aprirsi davanti a lui di questa possibilità in cui poteva muoversi libero, seguendo il bisogno di ciò che voleva dire e esprimendosi come meglio gli andava: è stata allora, e lo ricordo ancora oggi, una sensazione di profondo panico; esisteva, esiste ed esisterà, almeno fino a quando l’uomo camminerà sulla terra, questa possibilità, questa forma versatile, unica e geniale del romanzo di poter dire tutto, di poter raccontare tutto, di poter organizzare ogni aspetto/evento/sentimento/accidente della vita umana in una trama, in una serie di scene, in una sequenza di paragrafi, un forma che produce in chi legge (ma anche in chi scrive) un dilatazione della sua esistenza, un ampliamento dei suoi orizzonti: il romanzo, il romanzo come mi appariva in FK, il romanzo come è diventato per me in questi lunghi anni di apprendistato e di frequentazione è ampia terra, una vastità esplorabile, una promessa di felicità, una ipotesi di terrore, una possibilità di sofferenza; è l’esperimento di più profonda libertà che io abbia mai provato. Così di colpo, senza volerlo, mi trovavo devoto alla religione del romanzo, l’unica forma a cui, come uomo, sento il dovere di obbedienza.

Rileggerlo, quindi, è per me motivo di gioia e di turbamento: è tornare a uno dei luoghi da cui tutto ha avuto inizio, proprio perchè i primi anni dell’università segnarono la lettura di alcuni dei romanzi che ancora oggi io reputo essenziali per me (Ulisse di Joyce, Illusioni perdute di Balzac, Tristam Shandy di Sterne, I promessi sposi di Manzoni). Mi muovo in queste pagine, quindi, alla ricerca di qualcosa di nuovo e nello stesso tempo mi accorgo di aver riletto il romanzo, auscultando il suo battito, alla ricerca quasi infantile di quello stupore che quasi 30 anni fa mi rapì per sempre.

II

In questa rilettura avevo preso con me alcuni saggi di Julia Kristeva, i lavori di Berdjaev su Dostoevskij, i saggi di Luigi Pareyson e gli studi di Bachtin che tenevo sulla scrivania accanto alla copia di FK, nella edizione Einaudi con la traduzione di Claudia Zonghetti. Alla fine non li ho consultati, pensavo di leggerli mentre riprendevo in mano i FK come se fossero un viatico, una mappa diversa del mio muovermi nel testo. Non è andata così, non ho mai sentito il bisogno di leggerli; cercando di capire il perché di questa rinuncia, mi scopro certe volte a sentire dentro di me una strana forma di fatica per tutto ciò che potremmo definire letteratura secondaria, i saggi, gli studi, che parlano dei libri che stai leggendo: ho l’impressione che tali   letture, per quanto essenziali in ambito accademico, siano una sorta di diaframma rispetto al romanzo, all’esperienza di lettura del romanzo che il lettore dovrebbe affrontare in solitaria.[3] Ho l’idea che siano questo tipo di studi una sorta di scudo, di protezione mentre l’avventura del romanzo è sentirsi in pericolo.

Ora, se dovessi pensare ad un’immagine legata alla lettura di un romanzo, e dei FK in particolare, penserei a una casa incendiata. Quando leggo, sento che le mie convinzioni, idee, ideologie e credenze sono messe in discussione; anzi il più delle volte mi sento spinto a ripensarle completamente; leggere un romanzo è come gettarsi dalla finestra di una casa in fuga. Ecco, se debbo dire a chi ho pensato durante la lettura di FK, rispondo David Foster Wallace.

Forse, l’unico saggio che in qualche modo mi è risuonato nella lettura del romanzo di D è stato Il Dostoevskij di Joseph Frank contenuto in Considera l’aragosta. Alcune frasi del saggio mi sembrano essere le uniche in linea con quello che vorrei sostenere in queste pagine. «Che Dostoevskij sappia raccontare storie non basta di per sé a renderlo grande. Se bastasse, Judith Krantz e John Grisham sarebbero grandi romanzieri. […] le loro trame sono popolate da figure bidimensionali rudimentali e poco convincenti. (Per dirla tutta, ci sono anche scrittori che sono bravi a creare personaggi umani complessi […], ma sembrano incapaci di inserirli in una trama credibile e interessante. E altri ancora – spesso dell’avanguardia accademica – che non sembrano esperti/interessati né alla trama né ai personaggi, i cui libri dipendono interamente per movimento e attrattiva da progetti rarefatti metatestici). I personaggi di Dostoevskij hanno questa cosa che sono vivi. E per vivi non intendo solo ben realizzati o sviluppati o “torniti”. Il meglio di loro vive dentro di noi […].    Queste e così tante altre creature di Dostoevskij sono vive […] non perché sono tipi o sfaccettature di esseri umani abilmente tratteggiati, ma perché, agendo all’interno di trame plausibili e moralmente avvincenti, essi mettono in scena le parti più profonde di tutti gli esseri umani, le parti più conflittuali, più serie - quelle in cui si rischia di più». (nota?)

Leggere i FK mi ha messo in pericolo, ha costretto a chiedermi che tipo di felicità perseguo nella mia vita, che tipo di amore ho per le persone intorno a me, quali sono i miei gradi di viltà, di piacere, quale grado di male, umano e divino sono disposto a sostenere e sopportare, quale grado di malvagità sono disposto a compiere, fino a che punto mi spinge la mia abiezione, la mia lussuria, il mio desiderio, il mio bisogno di gioia; quale è la mia fede, quale la mia idea di felicità, di demonio… Non è possibile leggere i FK senza porsi queste domande, senza camminare a fianco di Dimitri, di Alesa, di Ivan, condividendo con loro le loro furibonde passioni, le amplificazioni che D applica alle loro azioni; si ha l’impressione alcune volte che la prosa di D sia troppo: troppo urlata, troppo forzata, troppo lunga, troppo grezza, ma questo troppo infine, quando il romanzo verrà chiuso, risuonerà nella tua mente e ti dominerà. Questo troppo oggi ci fa ridere, ci fa alzare il sopracciglio: oggi siamo più fini, siamo più ironici, più scafati rispetto alle tirate di D, rispetto alle prolusioni dei suoi personaggi, al sistema di valori morali e ideologici che in FK o nelle altre opere viene gridato. Ciò è certamente vero, ma ogni ipotesi di analisi rigidamente testuale che non metta in pericolo il me lettore non ha senso: non è possibile produrre una speculazione strutturalista del testo, un approccio semiologico o semiotico all’opera; i bizantinismi della critica letteraria qui si rompono; c’è qualcosa di compatto nei FK che non lascia ridurre a puro testo, a pura speculazione, a pura analisi delle figure retoriche o a scomposizione narratologica, questo qualcosa   potremmo definirlo come una economia del romanzesco, una sorta di contenitore ibrido,[4] dove stile, storia, trama, montaggio convivono indistinguibili: tutto ciò che segue nel modo più disordinato possibile, eppure secondo un filo che a me pare chiarissimo, si è voluto inquisire mettendo sotto processo proprio questa economia del romanzesco.


[1]      Immagino che il lettore, vista l’epigrafe, arricci il naso o, peggio, provi fastidio. È chiaro che tale epigrafe è una boutade da leggere in antifrasi rispetto al suo contenuto. Nello stesso tempo tocca un nervo scoperto dell’opera di Dostoevskij, di cui forse il celebre saggio sul parricidio di Freud è il capostipite e il più chiaro rappresentante. L’idea di queste inquisizioni nasce proprio per negare (da qui il carattere antifrastico) il contenuto dell’epigrafe, nella speranza di sfuggire da psicologismi, autobiografismi che costellano l’opera narrativa. Quando iniziai, oramai trent’anni or sono, a leggere Dostoevskij discussi con alcuni amici e amiche sulle sue premesse ideologiche, eravamo giovani laureandi e volevamo fare gli scrittori, i critici letterari, i professori e volevamo darci un tono, e mentre eravamo lì a discutere una amica, rimproverando a D un certo maschilismo, se ne uscì con questo slogan, preso da qualche manifestazione e movimento dei ‘70, che allora venne accolto con una sonora risata, ma che nel tempo mi ha portato a riflettere sul modo di recepire e di raccontare questo autore e il suo testo.

[2]      Non credo sia casuale la presenza anche in questo mio saggio di numerose riflessioni teologiche, perché infine D rimane uno scrittore che produce una riflessione che mette al centro la domanda di senso su Dio.

[3]      Non è una contraddizione il fatto che queste inquisizioni nascano all’interno del gruppo di lettura di Lettera Zero, perché l’atto della lettura è solitario, così come lo è l’atto della scrittura, mentre il confronto, la riflessione, il ragionamento possono e debbono essere comunitari.

[4]      Mi rendo conto che questa è la stessa natura del contributo che state leggendo, altrettanto ibrido, indeciso tra saggistica e memoria, tra speculazione critica e lavoro di scavo letterario/stilistico.