di Giulia De Vincenzo
«Ndo la porto signorì?». È il tassista a vedermi per primo, all’uscita della Stazione Termini. «Mbè?» mi chiede spazientito, come se gli rallentassi la tabella di marcia. «Mi porti al n.10 di Piazza Armenia, per fav…», «Daje, annamo», dice interrompendo la mia richiesta su quel “per favore” inutile, superfluo, e mi strappa di mano lo zaino con dentro i libri di Sandro Bonvissuto. Lo poggia sul sedile posteriore, quello sul quale mi sarei dovuta sedere io, come da lui indicato con teatrale galanteria. Poi, mettendo in moto l’auto, mi dice: «Signorì, lo sa che in quella piazza cianno girato er finale de I Soliti Ignoti, er film de Monicelli?», guardandomi dallo specchio retrovisore con l’aria di chi non avrebbe accettato un no come risposta. «Sì, certo», gli rispondo e metto gli auricolari, non prima di aver intravisto il suo sguardo di approvazione.
Nord, Sud, Ovest, Est, Roma è / Così grande che di notte ti prende, ti inghiotte / Fotte la mente, un gigante che ti culla / Tra le urla che non sente / Ti compra, ti vende, ti innalza, ti stende / Ti usa se serve, ti premia, ti perde / Chi parte, chi scende…
È lì che Sandro mi ha dato appuntamento, sui gradini di marmo del palazzo dove abita e che ai tempi del film era di recente costruzione. “Quella scalinata è come un salotto in mezzo al traffico pazzesco che porta a via Magna Grecia e a San Giovanni”- mi aveva detto al telefono – “è come sta’ seduti sul divano ma in mezzo alla strada”. Per le strade sono ancora affissi i manifesti di propaganda elettorale. Trovo un volantino anche sul sedile e senza pensarci lo prendo, e comincio a spiegazzarlo nervosamente. Mi tornano in mente le pagine di Dentro sul diritto al voto dei carcerati: “Sulle schede c’erano tutti i simboli dei partiti. Come sempre. Ma in quell’occasione mi sembrarono infinitamente più ridicoli del solito. Chissà perché la politica si era interessata a noi quel giorno. Il seggio elettorale era l’unica cosa appartenente al mondo esterno che fosse riuscita a entrare nel penitenziario”. Il protagonista del racconto Il giardino delle arance amare, alla fine, si astiene dal votare. Chissà cosa pensa Sandro di questa scelta al di fuori del carcere…
«Signorì, semo arivati». Saluto il tassista, che mi lascia di fronte ai gradini bianchi, sui quali non c’è ancora nessuno. Mi siedo e mi accorgo di avere ancora il volantino in una mano. Lo poso accanto a me sullo scalino e mi metto a contemplare il traffico di Roma per una mezz’oretta finché, con la coda dell’occhio, vedo sparire il depliant. «Io non voto da decenni».
Mi giro e vedo Sandro Bonvissuto in piedi dietro di me, che accartoccia il mio depliant già malridotto. «Come mai?», gli chiedo.
– Perché la politica è inutile, le elezioni nazionali funzionano con una legge sbagliata e l’apparato democratico di selezione dei candidati costringe l’elettore, al termine delle campagne elettorali, a dover scegliere fra persone corrotte, incapaci o tutte e due le cose insieme, finite in alto grazie alla macchina della promozione politica. Il cittadino che vota non può far altro, così, che scegliere il meno peggio. Purtroppo però in politica non bisogna scegliere il meno peggio, ma er più meglio, così ci hanno insegnato i Greci.
– Quindi approvi l’astensione anche al di fuori del penitenziario?
– Certo! Il partito dell’astensione è l’unico in crescita. Fra poco avremo anche noi un non-premier. Tipo Papa e Antipapa.
– Ciao Sandro! E grazie per la puntualità!
– Scuseme Giulie’, ma Bonvissuto arriva SOLAMENTE in ritardo. Pemmè er ritardo è popo no stile di vita.
Si siede accanto a me. Istintivamente gli guardo i dread raccolti in un elastico nero e lui mi dice: «È na specie di fioretto. Me tajerò i capelli quando il destino che riguarda un certo libro prenderà un’altra piega. I libri so così, so come ee persone; alcuni so tranquilli e nun danno problemi, altri so travajati e te mannano ar manicomio».
– Capisco. Quando questo libro misterioso prenderà la giusta piega fammelo sapere – gli rispondo sorridendo, e intanto tiro fuori i suoi libri dallo zaino, cominciando con Dentro – ma per ora concentriamoci su questa raccolta, che comincia con un racconto sul carcere. Dimmi, da cosa nasce il tuo profondo interesse per l’argomento?
– Da una sensibilità mia. Io alle persone recluse nei penitenziari ci penso sempre, non lo so perché, è un’immagine che mi ha rincorso ovunque, di giorno e soprattutto di notte. Scriverne è stato un esorcismo, e, in più, mi ha consentito un’analisi estesa e affettiva del problema carcere; la penna ha esplorato le profondità più inconfessabili e oscure di quel luogo, illuminandole. Oggi so che non posso fare niente, ma credo appartenga all’etica dello scrivere il raccontare di qualcosa che riguarda la società e tutti noi. Non si può scrivere sempre e solo di sé stessi, come fanno gli italiani moderni.
– Quali sono le più gravi carenze delle strutture carcerarie italiane?
– Loro stesse, i penitenziari nascono proprio obbedendo al concetto di carenza, sono basate sull’idea di privazione, per questo riescono ad essere solo quello. Non sono progettate bene e poi funzionano male, ma sono progettate direttamente male. E poi funzionano male. Non so se mi spiego.
– Sì, certo. Stavo pensando… Da come hai costruito il personaggio di Babba sembrerebbe che siano le circostanze socio -politiche a indurre alla criminalità…
– Beh certo aiutano, un ambiente guasto è il primo complice di ogni crimine. Il soggetto e gli atti penali o illegali compiuti da questo vanno giudicati nel contesto nel quale sono avvenuti. Le circostanze condizionano l’uomo molto più di quanto sia vero il contrario. Sono tutti bravi ad essere onesti cittadini al quartiere Parioli o alla Camilluccia, provate ad esserlo a San Basilio, o a Tor bella Monaca.
Sandro getta una rapida occhiata all’orologio. Tra un’ora deve andare in trattoria, dove lavora da oltre vent’anni come cameriere.
– Ti scoccia essere etichettato “il cameriere-filosofo”?
– Faccio questo mestiere da tanti anni, e non c’è molto altro da aggiungere. A me fa più sorridere l’idea del filosofo, anche perché io non ho prodotto nessun pensiero (come fanno i filosofi), ho solo studiato un po’ di filosofia. Certo, considerato il panorama culturale italiano, presi quelli che vanno in giro e fanno opinione, c’è da dire che in mezzo a questi io so Heidegger. Ma per fortuna loro lavoro in una trattoria. Come indicato dall’etichetta. Il cerchio si chiude. D’altronde anche Diogene alla fine viveva in una botte, eppure da lì ha parlato direttamente con Alessandro Magno.
– Beh, personalmente, se dovessi scegliere un dualismo che si adatti a te, sceglierei il binomio padre/figlio. Il rapporto con la figura paterna è molto presente nella tua produzione – penso al tuo contributo per l’antologia Scena Padre o al racconto Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta (Dentro) – e si configura come una tacita trasmissione di valori o uno scambio di sentimenti che si fa fatica a dichiarare apertamente. Nel tuo essere padre, quanto ti sei allontanato dal tuo modello di riferimento? E in cosa, invece, gli sei rimasto fedele?
– Essere figlio e padre nello stesso momento è l’esperienza più incredibile della vita di un uomo. Trovarsi a predicare cose a tuo figlio che tu stesso hai disatteso quando eri figlio, o sentirsi contestato come padre quando tu stesso hai contestato le stesse cose a tuo padre, non ha prezzo. È come convivere con un alter ego in una realtà aumentata. E’ un rapporto complesso e oscuro, direi segreto. Mi rendo conto che parlo sempre di questo quando scrivo, ma al momento non voglio cambiare niente.
– Però oltre al carcere e al rapporto padre – figlio, nel racconto Il mio compagno di banco (Dentro) hai scritto anche della scuola e di un sistema per sopravviverci, quello della “diarchia”. Che studente eri? E come vedi l’attuale istituzione scolastica?
– La scuola, almeno ai tempi miei, funzionava molto bene. Era una grande istituzione, prima che i ministri incapaci e corrotti degli ultimi governi cominciassero a demolirla. Ma la scuola, come il carcere, è un’istituzione immensa atta a dominare il singolo, e mi piaceva raccontare la reazione dei soggetti a questo potere che viene dall’alto. Io andavo in un liceo immenso con migliaia di studenti, tanti docenti, e tante sezioni. Così tante che avevamo anche il turno di pomeriggio. Anche se non ci andavamo quasi mai, io e il mio compagno di banco amavamo moltissimo la scuola. Da una certa era in poi avevamo preso a fare sega stando comunque all’interno dell’istituto, mischiati con gli altri alunni che erano entrati regolarmente in classe. Ci nascondevamo mostrandoci a tutti: geniale!
Le risate, trattenute a fatica nel corso dell’intervista, a questo punto esplodono. Perché con Sandro Bonvissuto si riflette e si ride. Tanto. Quasi mi dispiace doverlo salutare tra poco. Guardo la piazza che ci sta davanti e i palazzi altissimi dalle tinte pastello che la delimitano. Chiudo gli occhi e per un attimo mi immagino Gassman, Mastroianni, Murgia e Pisacane che la attraversano, lasciandosi alle spalle i gradini sui quali siamo seduti. Prendo il suo ultimo romanzo, La gioia fa parecchio rumore, e gli rivolgo le ultime domande.
– Sandro, qui sostieni di aver imparato ad amare tifando A.S. Roma. Quali sono le principali analogie che riscontri tra amore umano e calcistico?
– Nessuna. Semplicemente perché l’amore umano scade, come lo yogurt. L’amore calcistico invece è eterno. Le due cose sono solo simili, ma non uguali. Sentimenti che hanno radici diverse, e soprattutto un funzionamento diverso per il soggetto: gli umani si amano in uno scambio, l’amore per la squadra è a senso unico e non dà mai niente indietro di quello che si è dato. Chi ama un essere vivente può sperare in un ritorno, chi ama una cosa è senza speranza. Questo amore è al centro del libro.
– E se guardi la tua città – lo guardo, facendo un cenno a Piazza Armenia – cosa ti viene in mente?
…Poi alzi l’occhi vedi Roma / E chi vive davero sta città, ritrova il senso a tutto…
– Che l’amo. Roma non passa nemmeno per la mente, va diretta al cuore. Roma è un sentimento.
…e non se ne vo più annà, non se ne vo più annà…
(Piotta, 7 Vizi Capitale)