In Appunti di Lettura

Céline, Trilogia del Nord, postille 14-15

di Demetrio Paolin

14. «Il resto è blablà» (TdN 771). Sarebbe scontato sostenere la centralità della presenza dell’Amleto nella Trilogia del Nord partendo da un dato puramente vettoriale/geografico: il Nord a cui i protagonisti tendono è, appunto, la Danimarca, terra del principe pallido. Nella realtà la presenza di Amleto lungo i tre volumi della “cronaca” è molto più ampia, di cui è memoria proprio questa citazione, che troviamo in Ridogon, e che sono le ultime parole pronunciate da Amleto prima della sia uscita di scena: «Il resto è silenzio». Come abbiamo notato (vd 12), quando ci troviamo in presenza di citazioni più o meno esplicite nella Trilogia, le scelte di Céline non sono mai neutre, e per tale ragione proviamo ad analizzarla da vicino.

La citazione di Céline, così come riportata nella Trilogia, è presente almeno in altre due occorrenze: in Bagatelle per un massacro e in una lettera cui riflette sui suoi ascendenti letterari (Lettere agli editori Quodlibet). Tali evidenze sono sufficienti per sgombrare il campo da qualsiasi idea di mero decorativismo o di semplice calembour, e per segnalare – invece – un percorso all’interno della riflessione céliniana. È indubbio, comunque, che la citazione, pur facilmente “rintracciabile” alla sua origine (nessun lettore, neanche il meno avvezzo all’opera di Shakespeare faticherebbe a riconoscere la battuta del principe danese), abbia negli esiti della Trilogia tutt’altra cadenza.

In Amleto la frase ha una portata gnomica, morale, si staglia nell’ambito del dettato del testo con la sua grandezza ultima: sono le parole finali con cui l’eroe si congeda, esse rappresentano supremamente l’ambiguità di sentimenti, di visione, che il protagonista ha nei confronti dell’esistenza; rappresentano uno sguardo sul mondo da cui nessuno fa ritorno; sono – a volerla guardare con attenzione – una sorta di summa delle aporie attraverso le quali è costruito il personaggio di Amleto; inoltre è una frase, che interroga anche il lettore o lo spettatore della tragedia: cosa è per lui “silenzio” e cosa si intende per “resto” (è questo un enunciato sommamente polisemico che si apre a diverse se non opposte riflessioni).

Ad una prima lettura la battuta shaschespiriana nella Trilogia si configura come una riduzione; tutta la carica morale, filosofica viene disintegrata da Céline nella sua riscrittura della frase; c’è di più. La citazione ci pare contraddica ciò che il principe di Danimarca morendo sostiene, il “resto” non è silenzio, ma anzi è un fragore, un rumore bianco di fondo, che continua e istupidisce tutta l’esistenza: il blablà a cui fa riferimento Céline è il continuo borbottio a cui lui stesso ci ha abituato e nella sua prosa e nelle sue interviste (sarebbe interessante vedere e costruire una sorta di parallelo tra il modo in cui lo scrittore francese compone le sue frasi e il modo in cui parla durante le interviste).

Eppure questo blablà potrebbe ricordare e rimandare alle molte onomatopee presenti nel libro, potrebbe essere, quindi, spia di quel linguaggio pre-grammaticale, di cui le pagine della Trilogia abbondano a volte come ironica rivisitazione dei comics  e altre – il più delle – volte come tentativo provare a descrivere ciò che è accaduto durante i terribili bombardamenti degli alleati, di cui Céline è stato testimone.

Quindi a guardarla con più attenzione la citazione céliniana dell’Amleto è meno lineare di quel sembri a prima lettura. Per spiegarla, mi concedo, una piccola digressione: ho sempre creduto che una delle funzioni essenziali del romanzo sia la parodia; con essa non intendo individuare un semplice rovesciamento di un concetto, di un’idea o di una immagine. Tale stravolgimento produce non impoverimento del sapere, ma anzi una sua nuova e più complessa forma: l’esempio più lampante di tale ipotesi è appunto il Chisciotte di Cervantes, il quale è di certo parodia dei poemi e dei romanzi cavallereschi rinascimentali e tardo rinascimentali, ma non è solo questo. L’esito parodico della Trilogia ormai un dato acquisito di queste nostre postille: un’odissea senza ritorno, un romanzo che si frantuma in cronaca, una lingua che perde per la sua grammatica; e quindi ciò che accade nel macro si riverbera anche nel micro.

Abbiamo visto come la citazione céliniana, nei confronti di Nietzsche, di Cervantes, di Balzac, rappresenti una sorta di setaccio tra le rovine: il mondo “letterario” è esploso e lo scrittore si aggira per questa biblioteca disfatta e trova lungo il suo cammino dei resti, dei rimasugli, delle cianfrusaglie che rappresentano ciò che resta dell’archivio del nostro sapere. In questo orizzonte si comprende meglio il significato e l’utilizzo della citazione: essa è il “resto” di quella grande tragedia. Ciò che rimane di quel caposaldo del nostro sapere sono alcune parole, che lo scrittore non può neppure riprodurre in maniera esatta; la grande letteratura, il grande sistema culturale, che ha formato l’uomo, che ha definito l’umano nella sua essenza, Umanesimo, Rinascimento, Barocco etc etc tutto ciò che eravamo abituati a concepire come orizzonte del nostro vivere, dopo la guerra, dopo la distruzione totale avvenuta tra la prima e seconda guerra mondiale, si è ridotto a una vuota lallazione. Letta in questa prospettiva, la citazione proprio nel suo proporsi come antifrasi – silenzio vs parlottio – rispetto all’originale, in realtà non fa che confermarne l’assunto.

La tragedia di Shakespeare è il ritratto di un personaggio e di un mondo che non riconosce più in sé stesso, di un momento di passaggio, tra il vecchio e il nuovo, tra qualcosa che è noto, ma ormai morto, e qualcosa che deve venire ed è rappresentato come sconosciuto: questo bifrontismo è caratteristico di Amleto, ma lo stesso Céline, o meglio l’io narrante della Trilogia, si trova ad agire in una situazione molto simile, il mondo in cui lui aveva vissuto era andato in frantumi, era saltato via del tutto, e se annunciava un altro che stentava a comprendere (forse l’antimodernismo di Céline sta appunto in questa mancata comprensione). Il “silenzio” di Shakespeare e il “blablà” di Céline sono simili indicano le macerie di un mondo che non c’è e lo spavento rispetto a ciò che sarà.

Non è, però, questa l’unica occorrenza dell’Amleto in Trilogia, soprattutto in Da un castello all’altro, il principe danese viene evocato alcune volte: «Yorick! Niente alas» (TdN 92); «ah not to be! Be» (TdN 168); «l’Amleto lui l’aveva facile a filosofare su dei crani» (TdN 273). Come si vede le diverse riprese del testo di Shakespeare vengono trattate allo stesso modo, confermando – per sommi capi – il modo di lavorare sul materiale letterario di Céline; egli conosce l’opera di Shakespeare e la riscrive la modifica, come vediamo nella citazione a p.168, nella quale Céline riprende i termini del famoso monologo e li inverte; basta questa semplice operazione, per mantenere da un lato la memorabilità della sentenza, ma calcando ancora più la mano su dato negativo, nichilistico, puntando, quindi, all’attenzione sul “non essere” rispetto all’ “essere. È interessante notare poi che l’ultima occorrenza sia posta all’interno della scena del funerale di Bichelonne (TdN 270 e seguenti). La descrizione delle cerimonia funebre del ministro collaborazionista ha profonda portata comica e parodica, dove il tono basso e corporale della prosa céliniana ricorda il linguaggio scatologico con cui i becchini dell’Amleto discutono dei morti; ecco come Céline vede il morto: «Bichelonne è in scatola» (TdN 272); Céline poi continua: «è proprio Bichelonne sta bara?… nessuna fiduca coi Tedeschi… sai mai… comunque una bella bara!, ha più conti da rendere a nessuno, Bichelonne!». (TdN 273). Notiamo un passaggio interessante: nella prima citazione il morto è ancora separato dal suo contenitore, nella seconda contenitore (bara) e contenuto (Bichelonne) sono divenuti una cosa sola. L’uomo si riduce alla sua bella bara, non è neppure importante che sia realmente lì dentro. È questo un procedimento tipico di Céline che trasforma ogni cosa in paesaggio, in scenografia, uomini, prati, colline, strade, città tutto diventa una sorta di sfondo in cui l’io narrante si muove, ciò che viene rappresentato come sempre vivo e vivente è ciò che è pare più estraneo o lontano dall’umano (gli animali e i bambini “svedesi” come vedremo in una delle future postille). Ritornando al funerlae, esso avviene in una atmosfera comica; la delegazione, che ha viaggiato per portare l’ultimo saluto al ministro, si trova nel bel mezzo del niente, tra la tormenta di neve, il freddo terribile e una banda militare che per fare gli onori suona la Marsigliese. La scena dei becchini, che è forse una delle scene più emblematiche riproposte e riscritte dell’Amleto, contiene al suo interno la rappresentazione profondamente creaturale dell’uomo: il becchino, con una sorta di ironia dissacratoria, di chi è abituato a maneggiare la morte (i cadaveri, le tibie, i teschi) mostra a Amleto ciò che prima o poi ogni uomo sarà; questo atteggiamento dissacratore e nel contempo pietoso, la cui genealogia letteraria Céline non esplicita mai, ma che secondo me è appunto legata alla scena di Amleto, è presente in ogni pagina della Trilogia, tanto che ad un certo punto Céline esclama, siamo verso la fine di Rigodon: «oh sì più niente conta, se non la canzonatura e il cimitero» (TdN 849); canzonatura e cimitero potrebbero essere le due parole lungo le quali si muove non solo l’episodio dei becchini, ma l’intera parabola di Amleto, e tra canzonatura e cimitero vive anche Céline della Trilogia in particolare di Rigodon. L’io narrante non rivendica mai per sé il ruolo di protagonista di una tragedia, non sarebbe nelle corde della sua scrittura, ma fa in modo che il lettore comprenda questa vicinanza con il principe danese, ad esempio quando esclama: «dovunque io arrivo, tutto diventa marcio» (TdN 852), a sigillare appunto quella corrisponde con il principe di Danimarca, dove sappiamo c’è del marcio.

15. Oltre a questo dato testuale, non certo marginale, c’è altro mi spinge a guardare all’Amleto come una delle “fonti” nascoste della Trilogia o almeno come uno dei testi con cui Céline dialoga maggiormente. Per farlo vorrei provare a seguire una suggestione legata alle descrizioni delle città in rovina, che troviamo nella Trilogia; ora non è possibile in queste postille soffermarsi su ogni dato testuale legato alla categoria “distruzione”, “rovina”, “bombardamento” etc etc, ma si potrebbe notare come il paesaggio delle città distrutte in Trilogia sia quasi sempre vicino a una idea di “rappresentazione teatrale”, quasi i personaggi si muovessero tra «il teatro e le quinte» (TdN 887). L’impressione più forte del paesaggio come “messa-in-scena” lo abbiamo quando i protagonisti entrano nella città di Berlino: «fra poco non ci saranno più marciapiedi, troppi mucchi, troppo alti, troppo larghi, piramidi… ve l’ho già detto, le facciate che restano, sbolgiano, sventolano, cedono, si scrostano al vento… […] fra poco resterà più niente delle case… altro che rovine e crateri» (TdN 336).

L’immagine che domina qui, quella che ci viene fornita come lettori, è appunto di una quinta teatrale, come se dietro non ci fosse niente, un vuoto totale, lo stesso che Céline ci presenta qualche pagina prima: «niente! Il vuoto… oh, un vuoto di ben sette piani» (TdN 333). Berlino non è più una città, ma semplicemente uno scenario: «ma io conosco lo scenario delle facciate, credo che una strada esiste, esiste più… tutto il suo interno, travi, mattoni, scale, gli spenzola dalle finestre… o si trova a mucchi davanti alle porte… se vedi di lontano, una certa altezza di mattoni, è questo tutto il ricordo dell’edificio…» (TdN 330). Non esistono più edifici, ma ricordi di essi, come se le abitazioni fossero esseri umani morti; e così le squadre impegnate nella raccolta delle macerie portano alla memoria di Céline i beccamorti, così il passaggio dai becchini alla tragedia di Shakespeare è nella logica della narrazione: «…ste squadre di vecchi beccamorti lavorano per l’avvenire! Amleto era poco meno che una matricola… dialettico e viziato avesse attaccato il Castello, demolirlo pietra su pietra… gli avrebbe fatto un bene boia! Avrebbe sgranato meno alas…» (TdN 336).

C’è quindi un rapporto tra le rovine delle città distrutte dai bombardamenti e la tragedia di Shakespeare, un rapporto che potrebbe fare vedere la Trilogia come il romanzo, o la narrazione, che più di ogni altro è riuscita a mostrare le macerie che le due guerre mondiali hanno prodotto. L’Amleto è un’opera enigmatica, che ha come paradosso quello di essere irresistibile e inafferrabile (devo questi due aggettivi alla lettura di In cerca di Amleto di Pietro Biotani, edito da il Mulino), essa sfugge a qualsiasi classificazione e ossessiona tutti coloro che vengono in contatto con quelle parole. Amleto nella Trilogia diventa una figura simbolica, un paradigma, ma di che cosa? Amleto è l’Europa, egli come Chisciotte, come Faust, rappresenta al meglio questa idea, questo luogo geografico, questa categoria dello spirito: se Chisciotte raffigura l’orizzonte che si apre, la grandezza dello spazio e dell’avventura che abbiamo davanti, se Faust è la tentazione della grandezza, Amleto è il demone dell’ironia, dello sguardo sulla rovina delle cose, è il tentativo di comprendere il perché del continuo guastarsi del tempo, della vita, dell’incessante processo di distruzione, è la tentazione di uccidersi o di uccidere; è il segreto inesplicabile del cuore dell’uomo.

Paul Valery aveva intravisto tutto questo nel suo saggio Crisi del pensiero, nel quale immagina un Amleto (il suo, perché ogni scrittore ha il “proprio” Amleto) affacciato da una balconata ampia come l’Europa, mentre contempla migliaia di spettri. Questi spettri sono gli stessi che Céline vede nel suo cammino, uomini, donne, con cui scambia una occhiata furibonda o tenerissima; alcune volte Céline si ferma, placa la sua rabbia, che si tramuta in una tenera rievocazione, in tali frangenti la sua gentilezza è a favore degli animali e dei bambini: «tutto fu distrutto intorno a lei, tutto il quartiere, un’ondata di aerei, la casa in fiamme, lei nella sua culla, niente! Siamo tornati a prenderla per riportala al municipio in perfetto stato… mi domando che ne è stato di lei?» (TdN 880).

L’Amleto di Valery è stanco: «I suoi fantasmi sono tutti gli oggetti delle nostre controversie, i suoi rimorsi tutti i titoli della nostra gloria, è oppresso dal peso delle scoperte, delle conoscenze, incapace di rimettersi a questa attività illimitata»; così come è stanco Céline, la cui stanchezza è quella di chi non riesce più a comprendere il mondo in cui vive (forse sarebbe da leggere sotto questa lente la sua continua invettiva a proposito della minaccia gialla; quindi non tanto come dato razziale, ma come dato culturale di un uomo che ha strumenti vecchi per comprendere un mondo troppo nuovo), così proprio come l’Amleto di Valery anche quello di Céline odia e non comprende appieno la modernità e il progresso. Valery scrive che il mondo «battezza progresso la propria tendenza a una precisione fatale» e «cerca di unire i benefici della vita ai vantaggi della morte». Parole che il Céline delle ultime pagine di Rigodon scrive con più amletica forza e comicità: «come noi qui mettiamo domani, arrivato il missile, da Est da Ovest, o Nord, mi darete notizie… chi che sarà comunistissa o no?… anti?… sarete poltiglia ed è tutto! E puttana di Dio per amore o per forza! A questo l’uomo è giunto, il suo immenso progresso ecumenico, pluriatomico, tutti quanti nell’arena» (TdN 815). Alla fine di tutta questa distruzione, di questo disastro, scrive Valery, «vedremo apparire il miracolo di una società animale, un perfetto e definitivo formicaio», immagine questa che non ci può non rimandare alla dedica “Agli animali”, che apre  Rigodon e che si riverbera anche sugli altri due pannelli del trittico, sulla quale torneremo nelle prossime postille, e sulla immagine della formica: «io poi cronista mi trovo a scegliere, il genere formica». (TdN 707). Questa idea del cronista, dello spettatore che osserva il mondo e lo guarda, mentre le cose accadono, riporta alla mente alcune riflessioni del Benjamin del Dramma Barocco tedesco: «Ad appagarlo (Amleto), però, non può essere lo spettacolo che viene recitato per lui, ma solo e unicamente il suo proprio destino». L’Amleto di Shakespeare non è il protagonista di un dramma, ma è il farsi dramma, è il destino dell’uomo, dell’essere umano, i lutti, gli amori, i dolori, le gioie e la follia, che non sono più esterni, guardati da fuori, ma vissuti: in questo senso la scelta cronachistica di Céline è una scelta teatrale, perché porta sul piano della narrazione l’intenzione di mostrare e raccontare ciò che avviene vivendo; siamo davanti a un enorme e lunghissimo “a parte”, in cui l’autore ci mette a conoscenza di ciò che gli accade realmente nel momento in cui gli accade; è come se Céline avesse portato la trascendenza delle cose – la necessità, il destino, la morte, la vita, la gioia – nella immanenza della vita, come se da piccola formica, tornare all’immagine precedente, volesse comprendere l’immensità della volta celeste. Amleto rappresenta questa frattura conoscitiva, rappresenta, anzi meglio, questa possibilità gnoseologica. In un saggio bellissimo e illuminate, dal titolo Amleto o Ecuba Carl Schimtt scrive: «Don Chisciotte è uno spagnolo buon cattolico; Faust è tedesco e protestante; Amleto sta tra i due, nel mezzo della frattura che ha segnato il destino dell’Europa». Dalla/nella frattura nasce Amleto, tale frattura è quella che geograficamente Céline attraversa durante il percorso raccontato nella Trilogia. Avevamo esordito (vd 14) sostenendo che usare il vettore geografico per parlare dell’influenza che Amleto possiede sulla Trilogia fosse semplicistico, ora – però – dopo questa disanima la traiettoria spaziale che percorrono i personaggi acquista un valore nuovo: il percorso descritto nella Trilogia non rappresenta solo più una direzione, ma uno stato, anzi uno “stato d’essere”; meglio ancora l’Amleto, la sua presenza testuale, è indice di un modo di stare nel mondo, e quindi un modo di etico e politico di esistere. Céline come Amleto si trova nel mezzo della frattura che l’Europa vive, quella frattura nata appunto in Europa verso il 600 e che tra il 1914 e il 1945 è divenuta un abisso, dove «per noi tutto è pericoloso» (TdN 894).