di Annasara Bucci
La psicologa junghiana Clarissa Pinkola Estés è una cantadora cresciuta a contatto con l’humus letterario della tradizione etnica messicana. In questa cultura, come in molte delle culture più antiche, il momento della narrazione delle storie tradizionali è considerata vera e propria arte medica. La ritualità narrativa possiede piena rilevanza collettiva ed è scandita da ritmi e tempi ben definiti; l’integrità del rito è condizionato dalla cura del dettaglio nella scelta dei tempi e degli spazi della narrazione al fine di giungere alla medicina necessaria per l’anima dell’ascoltatore, e la narratrice (o il narratore) è spesso una figura anziana che ha ricevuto il dono di custodire le storie ed i suoi significati intrinseci, costituendo il corpo stesso della sapienza medica. Dagli studi di psicologia junghiana e grazie alla sua esperienza personale, nasce in lei l’esigenza di dedicare la professione alla guarigione delle lacerazioni spirituali femminili che rompono la relazione con gli elementi più intimi ed istintuali della propria natura, utilizzando le fiabe come strumento di guarigione, cercando e ricreando il mito o la fiaba-guida che permetta di bussare alla porta dell’anima per saldarne le crepe.
“La psicologia tradizionale è spesso avara di parole o del tutto mutila su questioni più profonde, importanti per le donne: l’archetipo, l’intuitivo, il sessuale e il ciclico, le età delle donne, il modo giusto per la donna, il suo sapere, il suo fuoco creativo. Tutto ciò ha guidato il mio lavoro sull’archetipo della Donna Selvaggia per oltre due decenni” (ESTÉS, 2016)
Dopo anni di ricerche condotte sulle famiglie dei Canis lupus e Canis rufus, Estés ritiene che il materiale archetipo della donna abbia a che fare con alcune caratteristiche tipiche dei lupi che rimandano ad elementi innati nel genere femminile; lupi sani e donne sane avrebbero in comune determinate caratteristiche psichiche definite “selvagge” non in accezione spregiativa di ‘incontrollate’, ma nel senso originale di vitalità improntata a valori naturali in cui la creatura possiede le sue tacite, prescienti e viscerali qualità: sani confini, sensibilità acuta e profondo occhio intuitivo, fierezza, coraggio, resistenza ed esperienza nell’arte dell’adattamento.
“L’archetipo della Donna Selvaggia si può esprimere in termini diversi ed altrettanto adeguati. Potete chiamare natura istintiva questa potente natura psicologica, ma la Donna Selvaggia è la forza che sta dietro tutto ciò. Potete chiamarla psiche naturale, ma lì dietro c’è sempre l’archetipo della Donna Selvaggia. Potete chiamarlo l’innato, la natura essenziale delle donne, la loro natura indigena, intrinseca. Ma siccome questa forza genera ogni sfaccettatura importante della femminilità è definita con molti nomi, non soltanto per sbirciarne la miriade di aspetti, ma anche per tenerla a bada” (Ead.)
La ricerca sulla fauna psichica selvaggia accomuna la storia del genere lupus a quella del genere femminile non soltanto per gli elementi psichici istintuali, ma anche per il travaglio generato a loro danno dalle paure dei detrattori: le due specie sono state lungamente perseguitate, accusate di essere voraci ed erratiche e per questo uccise o soffocate, sepolte in un addomesticamento eccessivo dalla cultura circostante, strettamente fasciate, sorvegliate, imbavagliate. La violenza distruttiva nei confronti di entrambe le specie da parte di un predatore che non ha saputo come comprenderle è incredibilmente simile. Quando la donna perde contatto con la sua psiche istintiva perché soggiogata dalla cultura, dal suo Io o dal suo prossimo, cade in un disfacimento invalidante che la rende incapace e sofferente per il vivere al di fuori dei propri cicli, in “estrema antitesi tra storia e natura, pensiero critico e pulsione” (RECALCATI, 2022). Impossibile enumerare tutti i sintomi di una relazione infranta con la propria forza selvaggia.
“Sentirsi impotenti, cronicamente in dubbio, vacillanti, bloccate, incapaci di determinazione, di dare la propria vita creativa agli altri, di rischiare nelle scelte dei compagni, del lavoro, affogate nella routine domestica, nell’intellettualismo, nel lavoro o nell’inerzia, perché questo è il posto più sicuro per chi ha perduto i propri istinti” (Estés, 2016.)
La guarigione della donna lesa è, di solito, un lavoro buio e profondo. La psicologia junghiana che approccia alla fiaba come contenitore di materiale archetipo transtemporale e transgenerazionale concorre alla sedimentazione della stabilità psichica attraverso le istruzioni disseminate nelle storie narrate, considerate come il più limpido dei prodotti della fantasia umana nell’espressione di sentimenti, emozioni ed esperienze comuni a tutta l’umanità. Basandosi sulle sperimentazioni condotte da Marie-Louis Von Franz, allieva e continuatrice degli studi junghiani, Clarissa Pinkola Estés allena il muscolo psichico leso con il tirocinio della fiaba, amplificazione simbolica del dramma che attende di essere interpretato e compreso per lasciar spazio alla guarigione del Sé, iniziando dalla narrazione della storia del viaggio dell’anima per antonomasia: il viaggio di iniziazione. La Storia di Vassilissa è l’emblema della narrazione dell’attraversamento del bosco come rito di passaggio, tòpos ampiamente presente nelle tradizioni letterarie. Vassilissa è una bambina costretta ad attraversare il bosco dopo la morte della madre a causa di una matrigna che la costringe all’esperienza della durezza, della paura e dell’azione; la fase dell’attraversamento del luogo oscuro costituirà il discrimine tra l’ingenuità fanciullesca ed il primo momento di apertura alle durezze dell’esistenza.
“Nelle sue viscere, la donna sa che è velenoso restare a lungo con un Sé troppo dolce. Allentare la presa sullo splendente archetipo della madre dolcissima e buona è il primo passo. Lasciamo il capezzolo ed impariamo ad andare a caccia” (Ead.)
L’iniziazione alla difficoltà esistenziale sarà per Vassilissa un contatto con la morte ed insieme un contatto con la vita: andrà a morire una parte della sua psiche in cui i buoni sentimenti della fanciullezza legati alla presenza della madre dovranno necessariamente morire con lei affinchè ne nascano di nuovi. I valori che rispondono alla necessità di azione per nuove sfide sono da identificarsi nella costruzione di una nuova madre interiore a cui dare ascolto, lasciando morire ciò che è destinato a morire per esigenze intrinseche alla ciclicità del meccanismo esistenziale. Questa nuova madre interiore, adeguatamente coltivata dall’esercizio del contatto con la vita, temprerà una forza resiliente che non teme cambiamenti e che concepirà qualsiasi terremoto come temporanea prova di assestamento di un florido terreno psichico nascente. La perdita della vecchia pelle psichica costa la fatica e la paura di un duro lavoro, ma paura e fatica non sono scuse sufficienti per non fare il lavoro.
“Quando si cominciano ad accettare i modelli della Vita/Morte/Vita si possono anticipare i cicli della relazione in termini di accrescimento che segue il disavanzo e di logorio che segue l’abbondanza” (Ead.)
All’interno della fiaba La Donna scheletro, l’elemento osseo è simbolo eccellente di un’esistenza logorata che esige per questo un profondo rinnovamento. I modelli archetipi dei processi di rinascita rendono necessari movimenti discendenti o labirintici a monte di quelli di risalita, ed occorre seguire questo processo per apprendere la grazia dell’interconnessione tra le fasi della vita dove tutto ha il suo giusto tempo. Per questi motivi, Estés invita la donna a non trascurare la cura del proprio Sé istintuale. Il fatto psichico centrale resta che la connessione con i significati, la piena espansione dell’anima e la natura profonda sono elementi su cui si deve costantemente vegliare coltivando l’occhio interiore, facendo attenzione alla scelta dei compagni e dei maestri, non permettendo ad alcun tipo di predatore di defraudare energie creative e calore spirituale. In tal senso, nel suo essere portatrice di seme archetipo, la potenzialità della fiaba si esprime nella possibilità di essere narrata come “catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte di vita che è farsi un destino” (CALVINO, 1956)