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“Romanzo senza umani” o della soggettiva e provvisoria sensazione della fine

di Maila Cavaliere

È da parecchio che il romanzo di Paolo Di Paolo mi gira in testa, da quando l’ho letto qualche mese fa e ha fatto scattare nella mia memoria piccole serrature arrugginite.

È un libro intimo con un personaggio risentito, tenero e aspro, interlocutorio e spiazzante. E io non ho saputo a lungo da dove cominciare per parlarne, come accade a volte per i discorsi con cui vorresti davvero spiegare le tue ragioni alle persone a cui tieni ma ti sembrano sempre fatalmente inadeguati: ti riscaldi, prendi la rincorsa, ti alleni a essere perfetta e performante ed efficace e credibile ma poi ti viene l’ ansia da prestazione, ti chiedi se stai sbagliando, se manca qualcosa e nel tentennamento, il muscolo si raffredda, la rinuncia ti conquista o una reazione ostile ti gela, come in una sincope da idrocuzione.
Eh sì, perché, ora che ci penso, le prime domande su cui mi sono interrogata leggendo Romanzo senza Umani, appena entrato in dozzina al Premio Strega, hanno a che fare con il tempo, meteorologico e non.
Ma davvero il clima incide sul nostro modo di essere? Ma davvero alcune sensazioni, i brividi e il batticuore  che attribuiamo a stati emotivi sono influenzati dalla temperatura esterna o la modificano? Ma davvero noi e la Storia, il protagonista del libro e quella  piccola glaciazione del lago di Costanza avvenuta nel sedicesimo secolo siamo così intimamente e reciprocamente interdipendenti?

Il personaggio  del romanzo di Paolo Di Paolo è un uomo sulla quarantina, di professione storico, forse con qualche aspirazione frustrata, forse con qualche obiettivo non realizzato, forse non particolarmente empatico, né schiettamente comunicativo, che arranca come tanti nella vita, nelle relazioni, nella comune illusione che siano gli imprevisti e le cose che accadono a sottrarci a un successo o a una felicità per la quale crediamo ancora di avere i numeri.

Nel bel mezzo delle sue ricerche, il protagonista di Romanzo senza umani sente il bisogno di tornare sui suoi passi, sui luoghi dei suoi studi e, in una sorta di archeologia di sé stesso, il fiotto caldo di certi ricordi comincia a sciogliere gli anni del freddo dovere e delle abuliche occasioni perse, delle cose rimandate.

La memoria a quel punto si manifesta come una villana impostura e dimostra che ciò che gli altri ricordano di noi a volte non ci assomiglia per niente oppure ci disturba per la sua inconsistenza o stride, addirittura, con l’ idea che abbiamo di noi stessi.

La memoria degli altri mette in crisi le nostre certezze, è una crepa nel nostro fedele rispecchiamento, nel nostro ritratto ideale, quello che incorniciamo con tanto di passepartout vellutato.
Non sapevo da dove cominciare, dicevo. E allora ho cominciato da qui, da un’ ipotermia epifanica che cambia lo sguardo.

Romanzo senza umani che, a dispetto del titolo, invece pullula di figure e persone perdute, cercate, trattenute o lasciate andare, implorate, dimenticate, fraintese, è un libro che ti parla come uno che ti conosce bene, che sa che siamo sempre sul confine, in bilico tra lo sporgersi e il ritrarsi, in quel magico sospeso che fa parte di noi e dei nostri limiti.

Ti accorgi, leggendolo, che sono così tanti gli inganni della parola scritta, così tanti gli incanti, tante le suggestioni che attraversano il nostro sentire: portarsi dentro l’ elemento liquido, caldo, freddo, ghiacciato, perdersi volontariamente in posti dai nomi evocativi come segno della propria incoscienza e dell’ inesperienza dinanzi al mondo, del bisogno inestinguibile di conoscere il nuovo, di cercare il mistero, l’ inatteso, mettersi in tasca, per compagno di viaggio, il profumo amaro della separazione, accogliere l’ inganno dei sensi, usare la distrazione come strategia dell’ evitamento, svelare l’ inutilità della comunicazione che riempie solo uno spazio ma non sposta nessuna idea, accogliere il rischio di essere giovani o compresi e la fatale scoperta di non esserlo più, conoscere la condanna del restare, ricordare, confondersi e, soprattutto, dimenticare, dimenticarsi, facendo male, ferendo.

Romanzo senza umani mette in scena anche graficamente il senso incombente della fine, dentro la cui idea ci sentiamo stretti e costretti e che proviamo invano a eludere, lasciando aperti pertugi e vie di fuga.
Dalle pagine del romanzo arrivano echi di Landolfi e Casares, di Walser e Bufalino, libri e persone che accompagnano il nostro viaggio, ologrammi e pretesti che, all’ occorrenza, lo trasfigurano.
E si sente perfino il fischio del treno di Tabucchi che, attraverso una serie di piccole circostanze emotive, ci ricorda di essere così spesso in ritardo su noi stessi.

Paolo Di Paolo dopo Mandami tanta vita,  Lontano dagli occhi e Dove eravate tutti torna a indagare attraverso la letteratura il “sentimento del passato” e lo fa anche a costo di superare, per dirla con un verso di Leonardo Sinisgalli, “il confine oltre il quale le cose spariscono e non conviene più cercarle“.

Paolo di Paolo, Romanzo senza umani, Milano, Feltrinelli, 2023, pp. 224, € 16.15

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“Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud”: tra memoria, amore e psicoanalisi

di Carmen Rampino

Sono nata in una fredda mattina di dicembre in Berggasse 19, “la strada della psicoanalisi”, così la chiamavano a Vienna. Ultima di sei figli, sono sempre stata una bambina schiva, incapace di conciliare la timidezza con la presenza degli altri (Lombardo 2024, p. 15).

A parlare è Anna Freud in Bergasse 19. Una donna di nome Anna Freud (Lombardo 2024), ultimo parto letterario di Lucrezia Lombardo. Oggi sono tante le narrazioni che cercano di raccontare storie di donne rimaste nell’ombra per secoli. Pochi, però, ci riescono in una maniera così chiara, dolce e appassionante come Lombardo con il suo libro pubblicato dalla casa editrice Les Flâneurs. Il libro inaugura la collana Le innominate il cui precipuo scopo è proprio dare voce a quelle sorelle che la storia ha relegato ai margini, pur avendo svolto un ruolo determinante nella storia del pensiero, dando così giustizia alla memoria tradita e rivendicando il posto che spetterebbe loro nella memoria collettiva. Infatti queste donne sono state tradite due volte: la prima volta in vita, quando hanno lottato il triplo per farsi ascoltare; una seconda volta quando sono state depositate nell’oblio, quando è stato attribuito loro il ruolo di moglie di, figlia di – condizione che in alcuni casi le ha sicuramente aiutate: quante non hanno proprio potuto parlare perché non si sono ritrovate in questa fortunata condizione? -, quando a loro è stato dedicato sui manuali, sempre se glielo è stato dedicato, un piccolo paragrafo con una menzione del tipo letteratura femminile. Quando una scrittrice viene identificata non attraverso l’appartenenza ad un genere letterario, a una corrente o a un fenomeno culturale, ma attraverso il proprio genere biologico c’è un problema, dal momento che, se parliamo di Montale, Manzoni, Pavese, non certo usiamo l’espressione letteratura maschile: non riusciamo, quindi, ancora ad identificarle all’interno di un contesto più ampio, ma sentiamo il bisogno di ghettizzarle, di marginalizzarle.

Allora la memoria, pur essendo facilmente manipolabile, è pur sempre l’unico strumento che rappresenta la dimensione pubblica della storia, e anzi, proprio in virtù del fatto di essere un artefatto, un costrutto prodotto collettivamente, deve riappropriarsi della storia di quella che banalmente rappresenta almeno la metà della popolazione mondiale. Nello svolgere operazioni di questo tipo è senz’altro difficile non abbandonarsi a vuoti cliché e luoghi comuni che non aiutano e, forse, sviliscono la causa. È riuscita, però, efficacemente Lucrezia Lombardo nel far conoscere e amare la storia di Anna Freud, donna sempre e quasi unicamente accostata al nome del padre.

Uscito il primo marzo in libreria, Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud risulta un lavoro vincente fin dalla forma scelta: una lunga lettera che Anna scrive a una tale Dorothy, di cui, se non conosciamo la storia vera, solo a p. 95 scopriremo il cognome, iniziandola a inquadrare socialmente: si tratta Dorothy Tiffany Burlingham, proveniente da una delle famiglie più ricche e potenti degli Stati Uniti, giunta a Vienna tanti anni prima in cerca di una scuola per i suoi figli e, soprattutto, di aiuto (cfr. Lombardo 2024, p. 21 e p. 97).

È una lettera inventata, ma basata sulla storia vera, ricostruita a partire dai carteggi di Anna, di Sigmund e di tutto il materiale proveniente dal Sigmund Freud Museum di Vienna: un non fiction novel. Tutto parte da Berggasse 19, via in cui visse la famiglia Freud. La strada solitamente associata a Sigmund, qui viene legata ad Anna, perché la memoria va ricostruita, non certo annullando quella pregressa, ma integrandola e completandola.

Questa è, quindi, proprio la storia di Anna che, attraverso il potente strumento della scrittura, pone finalmente sé stessa sotto la lente di ingrandimento della psicoanalisi.

La lettera, ovvero il lungo monologo, dà concretamente voce ad Anna, che al centro della scena, illuminata da una luce finalmente puntata tutta su di lei, in modo discreto, delicato e mai morboso ci racconta la sua vita, anche quella più intima. Pagina dopo pagina, attraverso una scrittura semplice e piana, dolce e rassicurante, veniamo sempre più inclusi, all’interno degli spazi che attraversa, degli odori che annusa, delle persone che incontra, della vita che vive, e ci sembrerà di essere a fianco a lei. Vivremo la Vienna liberty di primo Novecento, l’arte di Klimt, il sapore dolce amaro di chi, in diretta, stava piano piano sempre più precipitando verso il male, e poi il Nazismo, le persecuzioni, la fuga, la condizione di essere apolidi. L’autrice è riuscita ad immergersi integralmente in questo contesto storico-culturale e, prendendoci per mano, ci conduce in modo profondo all’interno di esso.

Anna richiama, evocandoli, i vari episodi e le varie persone che hanno segnato la sua vita, in primis suo padre: Sigmund Freud. D’altronde come può aprirsi un libro sulla psicoanalisi se non sulla descrizione del rapporto con il padre? Ed è proprio lui a venirne fuori in maniera diversa da quella che ci si aspetterebbe. Viene de-monumentalizzato e umanizzato: scopriamo che, per assurdo, proprio il padre della psicoanalisi non si è certo sottratto al meccanismo più tipico e basilare analizzato dalla psicoanalisi stessa, cioè al malsano rapporto con la figlia e ai traumi che le ha causato. Nella finzione letteraria Anna scrive: «Ho trascorso buona parte della mia infanzia priva del calore di un abbraccio paterno» (Lombardo 2024, p. 27). L’Anna bambina va incontro alle disattenzioni e alla freddezza del padre, all’insofferenza verso la figura materna, al sentirsi una figlia non voluta. Eppure, finirà per ringraziare quelle disattenzioni: «Credo di dover ringraziare le disattenzioni iniziali dei miei genitori, perché hanno permesso alla mia pena di trasformarsi in opportunità» (Lombardo 2024, p. 29). L’essere stata una bambina infelice le darà, quindi, la forza e lo stimolo per portare avanti la sua grande rivoluzione elaborando un metodo psicoanalitico per l’infanzia. Da figlia non voluta, riuscirà a farsi strada, ma dovrà lottare prima di tutto all’interno della sua stessa famiglia per emergere. E sì, con il tempo creerà un legame fortissimo con il padre, ma a costo di duri sforzi. Ecco perché nel tentativo di emancipazione, il rapporto con la figura paterna, comunque, occupa tutto il libro, che è la storia di un progressivo affrancamento. Tutto parte dal padre e attraverso un percorso di formazione e ostacoli si finisce per superarlo. Ciò è suggellato dalle parole dello stesso Freud: «Tu, figlia mia, mi hai già superato» (Lombardo 2024, p. 120). E Anna è riuscita nell’impresa, nonostante fosse destinata dalla società e dalla famiglia ad una vita segnata dall’invisibilità e da quei rigidi schemi patriarcali che la volevano subalterna, che la volevano semplicemente una moglie o una figlia di qualcuno, priva di una identità. Questa condizione, però, Anna non l’avrebbe tollerata. Anna prova disprezzo e rabbia verso le donne come sua madre o come sua sorella, le sembra che, pur felici e serene in quella condizione, gettino via il tempo prezioso delle loro vite tra visite e convenevoli artificiosi (cfr. Lombardo 2024, p. 38). La curiosità le deriva, invece, dalla vita del padre, e sarà a quella che tenderà durante tutta la sua esistenza. E determinante in questo viaggio di liberazione, per il suo coraggio e per il suo essere refrattaria ad ogni autorità, sarà Dorothy.

Ma perché Anna scrive una lettera proprio a Dorothy? Quale legame le lega? Più volte viene sottolineato che si tratta di una lettera di ringraziamento, di gratitudine a quella persona che le ha permesso di ritrovare la speranza. Se approcciamo al libro con uno sguardo vergine e senza conoscerne la storia vera, progressivamente attraverso tante spie testuali e dettagli sparsi qua e là, veniamo a conoscenza del legame che lega Dorothy alla scrivente. Capiamo così che si tratta di una lunga, dolce, intensa lettera d’amore. Non a caso la lettera viene definita, a p. 30, un «ultimo gesto d’amore». Tra le due esiste quell’amore che mette a nudo e distrugge le maschere, che rende vulnerabili, ma anche potenti, infatti Anna le scriverà: «Tu sei stata la prima persona che si è accostata a me senza alcun pregiudizio» (Lombardo 2024, p. 28). Le due sono state compagne di vita, lotte e studio. Hanno lavorato insieme per trovare dei metodi in grado di aiutare bambini traumatizzati, orfani di guerra, vittime di maltrattamenti, bambini senza una casa, attraverso i “War Nurseries” a Londra, gli asili di guerra, che poi inizieranno ad ospitare anche bambini sopravvissuti ai campi di concentramento. Il loro è un amore che è anche dedizione, condivisione di intenti, slancio per una causa che si converte in ragione di vita. Il libro è dunque una storia di amore, lotta, emancipazione, volontà di autodeterminarsi. E se a p. 126 scopriamo che l’Eros è l’antidoto contro la guerra, tutta questa lettera che trasuda di Eros, è considerabile un disperato tentativo di argine alla guerra.

Anche Dorothy fugge da una famiglia opprimente, intenta sempre a salvare le forme e le apparenze a scapito della sostanza. Da qui si capisce, dunque, come le classi sociali sono tutte, indifferentemente, toccate da un’organizzazione patriarcale oppressiva, solo che con livelli di ipocrisia diversi e con possibilità di salvezza diverse (non dimentichiamo che pur con tutto il coraggio che la contraddistingue, Dorothy ha avuto la fortuna di poter fuggire in Europa per salvare sé stessa e i suoi figli da una situazione dolorosa).

Durante tutta la lettera, la nostra attenzione sarà attratta sempre da Anna che, con il suo frizzante temperamento, con le sue lacerazioni, in lei presenti fin da bambina, la sua malinconica insofferenza, non viene mai restituita come un personaggio piatto o privo di sfumature. Fin da subito è contraddistinta da insanabili lotte interiori. Anna si troverà a vivere il conflitto tra la sua femminilità e l’irrefrenabile istanza all’autonomia (cfr. Lombardo 2024, p. 41), tra il desiderio di aiutare i bambini sofferenti e il suo rifiuto della vita familiare tradizionale, scelta da lei considerata egoistica perché finalizzata al perseguimento dell’esclusivo benessere dei propri cari (cfr. Lombardo 2024, p. 41), tra la sua volontà di aiutare i poveri e i sofferenti e la fortuna e il senso di colpa per provenire da un mondo confortante, borghese (cfr. Lombardo 2024, p. 44). E Anna, si diceva, ci attrae proprio perché in queste fessure e conflitti ci riconosciamo, perché è rassicurante sapere che il nostro essere sfaccettati, il nostro dover imparare a convivere con tutte le varie contraddizioni insanabili, caratterizza tutti. Senza Dorothy, però, forse non ci sarebbe stata salvezza per Anna, e viceversa. Lo slancio per l’aiuto del prossimo le ha legate, il trovare un complice, però, ha salvato entrambe.

Perché leggere queste pagine? Innanzitutto, ognuno vi troverà un pezzettino di sé stesso, anche semplicemente in alcuni stati d’animo o atmosfere evocate e, se si lascerà travolgere dalla potenza delle parole, troverà in alcuni angoli anche un pezzetto del nostro presente. Si legga a titolo esemplare l’elogio della condizione degli apolidi:

Ci abituammo all’idea che l’Inghilterra sarebbe diventata la nostra nuova casa, non certo una patria, gli apolidi non hanno appartenenza, né una nazione di cui sentirsi parte ma questa, forse, è la condizione migliore per proteggersi dallo spirito del nostro tempo, assetato com’è d’identità violente e di prevaricazione. (Lombardo 2024, p. 124)

Questo, però, è solo uno dei molteplici spunti offerti da un libro che riesce a tenere insieme mitologia, arte, tragedie greche, scultura, amore, psicoanalisi. La lettura del libro conduce ad una nuova consapevolezza, e forse aggiunge anche quel briciolo di rabbia in più alle nostre vite che ci porta a chiedere: Quanto ci siamo persi? A quali vette sarebbe giunto il pensiero se una parte di umanità per secoli non fosse stata ammutolita? E con quest’acre sapore in bocca proseguiamo nelle nostre personali lotte quotidiane.

TESI CITATI.

Lucrezia Lombardo, 2024, Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud, Bari, Les Flâneurs.

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Il Meridione narrato da Angelo Rossi: “Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956)”

di Carmen Rampino

Sul golfo di Manfredonia si affaccia il Tavoliere delle Puglie, una pianura che si estende per migliaia di chilometri.

Si tratta di una delle più vaste province della penisola, ma con una densità di popolazione tra le più basse d’Italia.

Chi è nato qui è abituato fin da subito ad avere un precario e fragile senso di appartenenza, una sorta di crisi dell’attaccamento dovuta a molteplici fattori, tra cui anche lo scarso peso, soprattutto politico, che i tanti piccoli paesi che circondano la pianura, collocati alle pendici della dorsale appenninica, assumono. E se un senso attaccamento c’è, lo si attribuisce sempre al fatto di essere l’ultima provincia d’Italia per qualità della vita e la prima per criminalità.

Allora, chi è nato qui si porta sempre dentro una ferita insanabile: la lacerazione di provenire da una terra sempre più abbandonata da tutti, senza riuscire però a recidere mai del tutto quel cordone ombelicale che ci lega indissolubilmente ad essa attraverso un amore profondissimo che ci riconduce alle braccia dei contadini, al sole, alla povera gente.

Eppure, senza cadere in un patriottismo per partito preso o in un cieco e retorico populismo, esistono delle storie che provengono da questo territorio di persone, che, pur non dimenticando la loro provenienza, con le loro vite hanno inciso sulla Storia, e che meriterebbero qualcosa di più dalla memoria collettiva. Sono storie concrete, e non astratti miti, che ci permettono di riconnetterci e ricostruire un senso di sana identità verso la nostra terra.  

È il caso di Liliana Rossi, una figura che in provincia di Foggia conoscono in pochi, ancor meno in Puglia e ancor meno nel Meridione e quasi nessuno tra «quelli di Roma», come avrebbero detto i contadini di Carlo Levi (Levi 2014, p. 67). Conoscere questa storia vuol dire scoprire tracce di antifascismo, femminismo, e lotta in luoghi da sempre considerati dormienti. Ed ecco che l’operazione della casa editrice Guida Editori di Napoli, di pubblicare nel dicembre 2023, il testo Il tempo di Liliana. Tra musica e impegno civile (1932-1956), scritto da Angelo Rossi, si rivela in questo senso assolutamente necessario. Al centro del libro vi è Liliana Rossi, la cui storia iniziò a diffondersi parzialmente a livello popolare grazie al film del 1998 di Michele Placido Del perduto amore. Questa giovane donna, nata nel 1932 a Bovino e morta nel 1956 ad Ascoli Satriano, a soli 23 anni, ha fuso il suo viscerale cristianesimo militante con un impegno politico attivo nel Partito Comunista. Da tempo si sentiva il bisogno di una sistematizzazione ordinata e attendibile che desse luce a questa personalità, varie volte citata ma poche volte davvero conosciuta. Tale pubblicazione, che comprende una sorta di biografia scritta dal fratello Angelo, la tesi di laurea di Liliana sull’appena nata Costituzione dell’Italia repubblicana, due saggi a cura rispettivamente di Francesca Izzo e Silvia Niccolai, dei documenti e un repertorio fotografico, rispondono proprio a quest’esigenza di unitarietà e ordine intorno a Liliana Rossi. La parte principale, quella redatta dal fratello Angelo, si configura come un testo a metà tra memoria, romanzo storico e biografia, in cui attraverso la micro-storia di Liliana e del suo contesto sociale e familiare, il lettore può entrare in contatto in modo diretto con l’atmosfera che doveva respirarsi a Bovino, Ascoli Satriano (luogo dove, dopo Bovino, la famiglia Rossi si trasferirà), Foggia e tutta la Capitanata, in quegli anni di storia fondamentali che dal fascismo alla Seconda Guerra Mondiale, passando per il difficile periodo del dopoguerra, arrivano alla nascita della Repubblica e della Costituzione. Il libro ci permetterà di accedere proprio a questo squarcio di storia in modo così piacevole che la lettura sembrerà trasformarsi in un racconto orale, che talvolta si perde seguendo il filo un po’ confuso dei ricordi, esposto dalla voce di un nonno colto che narra episodi imprescindibili, dal punto di vista di chi ne è stato un attivo protagonista, pur non dimenticando quel rigore storico che Rossi, già docente di storia e filosofia nonché senatore della Repubblica dal 1994 al 1996, non trascura mai. Cosa voleva dire andare a scuola durante il fascismo? Chi vi poteva accedere? Com’era lacerata la società del Meridione durante la Seconda Guerra Mondiale? Cosa voleva dire ascoltare Radio Londra per capire in maniera più attendibile cosa stava accadendo durante la guerra? E cosa ha significato il bombardamento su Foggia del ‘43? Leggendo questa narrazione accorata, si concretizzeranno davanti ai nostri occhi i vari episodi, i vari luoghi dilaniati dalla guerra, i vari volti raccontati.

Il libro procede su più tempi, quelli che hanno incrociato gli anni di Liliana. Descritta come una bambina prodigio, una studentessa modello, appassionata di violino, cinema e cultura, gli studi non l’hanno mai resa elitaria, non dimenticando mai quanto importante potesse essere insegnare a leggere e scrivere alle ragazze di un Meridione che iniziava a sembrare sempre più anacronistico in un dopoguerra di «grandi problemi ma anche enormi speranze di cambiamento» (Russo 2023, p. 5). Dopo gli studi liceali, compiuti in meno anni del previsto, e gli intensi anni di studio del violino presso l’allora Liceo Musicale Umberto Giordano di Foggia, Liliana si reca a Napoli, città impegnata, presente a intermittenza nella storia, che con i suoi circoli funge da volano per la passione politica dei giovani fratelli Rossi. Qui si laurea in Giurisprudenza e, in men che non si dica, diventa assistente dell’ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Napoli, Alfonso Tesauro. La sua tesi di laurea e i vari interventi in favore della giovane Costituzione rappresentano il segno di una lungimiranza e sensibilità uniche. Accanto a questo, rilevante è stato l’impegno politico all’interno del Partito Comunista. Nel ’56 fu candidata al Consiglio Comunale di Foggia e tenne il comizio di chiusura delle amministrative di Ascoli Satriano dove era candidato suo fratello Angelo. Come ci racconta Rossi, le donne di Ascoli, in modo particolare, si affezionarono a lei, al punto da affiggere, dopo la scomparsa, la foto di Liliana nelle case, come una figura sacra, che seguiva le famiglie anche durante le migrazioni all’estero. Nel libro c’è tutto questo e anche i risvolti più intimi della parabola esistenziale di Liliana, eppure anche i toni più elegiaci della storia d’amore, quella tra Liliana e Franco, novelli eroi romantici, cugini di primo grado che si amavano, diventano segni di una consapevolezza fuori dal comune, che sembrano dirci qualcosa ancora oggi: Liliana non rinunciò ai suoi sogni e ai suoi progetti, anche quando ricevette pressioni per adeguare la sua vita a quella del futuro marito Franco, magistrato, carica che in Italia fino al 1963, ben 15 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, fu interdetta alle donne.

Insomma una intelligenza fuori dal comune, con una spiccata dote per lo studio, un costante impegno sociale, civile e politico, con il piglio di una instancabile studiosa, attiva su tanti fronti, come la delicata condizione femminile (si ricordi il discorso tenuto all’UDI l’8 marzo del ’56), la difesa della Costituzione, e poi, ancora, eccellente musicista, sincera cristiana. Eppure proprio la sua fede profonda non bastò. Quando nel ’56 Liliana morì, il parroco di Ascoli Satriano si rifiutò di celebrare in chiesa i funerali di una comunista, “scomunicata”. I funerali laici, pur senza rito religioso, furono molto partecipati e le donne del paese dauno si vestirono di bianco per manifestare il loro supporto, la loro vicinanza, la miopia di certe prese di posizione.

Non va dimenticato che Liliana ha avuto la fortuna di nascere in un contesto socio-familiare in cui si è potuta istruire, condizione rara al tempo, soprattutto per una donna, ma ciò che ha fatto con gli strumenti in suo possesso è stato rivoluzionario.

Che cosa sarebbe diventata Liliana? Sicuramente «una straordinaria intellettuale destinata, se la morte non l’avesse colta così presto, a diventare forse una affermata violinista oppure un’autorità nel campo del diritto costituzionale oppure una figura politica nutrita di solide competenze specialistiche. Chissà». (Izzo 2023, p. 202) Non lo sapremo mai, perché Liliana è stata un germoglio sbocciato a metà, ma forse questo cammino biografico si è interrotto così presto proprio perché doveva in qualche modo rappresentare il primo gesto di un direttore d’orchestra che segna l’inizio di una composizione musicale nuova, di una stagione nuova, di un percorso che doveva essere proseguito da tante altre donne, che avrebbero dovuto e dovrebbero percorrere la stessa strada da lei intrapresa per ricordare, soprattutto a tutte le ragazze del sud come lei, di dover indirizzare le proprie cure e la propria dedizione prima di tutto a difendere, come Liliana fece, ciò che le madri della Repubblica e della Costituzione hanno realizzato: tutti quei diritti che esistono, ma che per essere pienamente effettivi necessitano ancora di dure lotte. Per questo il libro di Rossi è un libro necessario, un faro in un momento storico come quello attuale, un modo per ricordare e guardare al futuro con una coscienza diversa. Per quanto non sia propriamente una trattazione storiografica, è l’unico strumento che al momento abbiamo – a parte il film, molto romanzato, di Michele Placido del 1998 – per conoscere la storia di Liliana e anche per sapere come la macro-storia, nota ai più, influì anche su questi territori. È una storia di non fiction che, pur con i limiti e le imperfezioni che un tipo di narrazione come questa può comportare, in tempi di smaccato revisionismo implica il riappropriarsi della nostra memoria collettiva. Oggi la giovane vita di Liliana continua a vivere grazie all’amore del fratello, che con dedizione non ha mai abdicato al suo ruolo di divulgatore di una storia che merita sempre più di essere conosciuta.

TESI CITATI.

Carlo Levi, 2014 (1° ed. 1945), Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Giulio Einaudi editori.

Francesca Izzo, Una appassionata intelligenza meridionale, in Angelo Rossi, Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956), Napoli, Guidaeditori.

Angelo Rossi, 2023, Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956), Napoli, Guidaeditori. Stefania Russo, 2023, Prefazione. Liliana Rossi: l’impegno di una donna, in Angelo Rossi, Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956), Napoli, Guidaeditori.

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Rec. a “25” di Bernardo Zannoni

di Francesca Bellucci

Venticinque anni e la storia di un ragazzo imprigionato in questa età nefasta, caratterizzata dalla paura di andare avanti, di uscire dalla gabbia di decisioni che solo in questo tempo di mezzo sembrano essere irreversibili. Questa è la narrazione di Gero, il protagonista dell’ultimo romanzo di Bernardo Zannoni che racconta con grande delicatezza le rotture e le storture di un giovane ragazzo raccolto nella solitudine e di tutti coloro che gli ruotano attorno.

La storia inizia con Gerolamo che risale la strada verso casa nel cuore della notte, frastornato e inebetito. Assuefatto a una solitudine tormentata di cui scopriremo le ragioni nel corso del romanzo. E’ la storia di un ragazzo cresciuto all’ombra di una famiglia disfatta, di un padre assente, di una madre incapace di assolvere al proprio compito genitoriale, riscaldato dal calore di una zia che si porta addosso il peso di una vita non vissuta ma che riconosce in Gero un talento che ai suoi stessi occhi è inesistente. Il tutto raccontato tra le mura di una casa troppo piccola, maleodorante, ma perfetto rifugio d’amore nella sua esatta imperfezione, la casa della zia, e quella troppo grande, buia per la prima parte del romanzo, abitata solo dalla solitudine dell’abbandono, la casa padronale della famiglia del protagonista. E il bar del paese, scenario dell’apice della disfatta di Gerolamo e dei suoi coetanei.

I luoghi di questo romanzo sono l’emanazione delle storture dei personaggi, si sgretolano, sembrano tra loro distanti miglia e sempre coperti da una luce offuscata, pronta a dare la mano alla notte che puntualmente arriva, portando con sé le gambe molli dei giovani del paese, i quali si muovono come sonnambuli, fantasmi delle loro vite. Questo romanzo racconta quanto possa essere complesso avere venticinque anni, specie in una società in cui la linearità della crescita si scontra con l’impossibilità di credere che provare ad inseguire i propri desideri sia una scelta possibile.

 Il primo quarto di secolo è un limbo sempre pronto a diventare precipizio: troppo giovani per saper conoscere sé stessi, pur essendo convinti di avere la capacità e i mezzi per sapere di sé quanto è celato allo sguardo degli altri, e troppo grandi per credere di poter cambiare strada, di battere un percorso inesplorato.

Da bambino era tutto così facile: non esistevano filtri per il dolore, la paura, la gioia. Ti cadeva tutto addosso, ma faceva parte di un percorso necessario. Ora bisognava scegliere una strada, calcolare il tempo. Sbagliare aveva un costo, lasciava dei segni, ti esponeva ad altri rischi.

 La strada che vorremmo percorrere si incupisce, si restringe, diventa un filo di ferro che attana le caviglie e ti cementifica sul pavimento di un bar di paese o, nel peggiore dei casi, diventa una lama che recide i polsi. Come avviene per Tommy. Nei bagni di quello stesso bar, sotto gli occhi dei suoi amici. E Tommy è lo specchio di tutti loro. Nessuno se lo sarebbe aspettato, eppure l’ha fatto. Non è l’azione in sé a tormentarli, a lasciarli interdetti, ma il coraggio di aver preso una decisione. Questo pensa Gero, sentendosi addosso quel tormento, rivedendolo su di sé, ritrovandolo nei suoi pensieri.

Che senso ha una vita che si conduce da sola? Quanto può valere respirare se non si ha una ragione per farlo, ma ci si trascina in un giorno e poi nell’altro e nell’altro ancora, in una ciclicità che ha il sapore di una condanna infernale?

Ci si può ornare di qualsiasi titolo, professione, gloria o infamia, ma il succo resta: abbiamo vite piccole, fatte di cose piccole, e questo non si cambia.

Non si cambia. E quando si cerca di farlo ci si scontra con le vite degli altri, con i loro dolori, con le difficoltà e le loro ignominie. Gero si scontra con Martin, il vicino di casa della zia che vive con la giovane compagna incinta. Una gravidanza deformante, che sgretola la ragazza, la invecchia e che è priva della dolcezza della nascita di una nuova esistenza e invece di diventare ragione di crescita e di cambiamento, si fa mezzo di disfatta, come se tutto stesse per perire e nel grembo ci fosse un “problema” e non una vita. Qui c’è la coerenza di questo tempo: la vita stessa è un problema ed è possibile cercare di darne alla luce un’altra solo se la propria è libera dal sapore ferroso di quello stesso sangue che sporca e colora il pavimento del bagno di Barracus. Quel sapore viscido pervade Gero quando varca la soglia del mattatoio, per iniziare a lavorare su intercessione di Martin. Quel lavoro, che pare al protagonista il primo passo verso la libertà da se stesso, è in realtà una finzione, una trappola, come l’ammasso di carne che agli occhi di Gero pare umana e non animale, l’odore pungente del sangue, la crudeltà che il protagonista crede di vedere nelle azioni dei suoi colleghi di lavoro mentre riducono in poltiglia i resti animali. Il mattatoio si fa metafora della vita di Gerolamo: corpi privati della loro essenza e della loro forma, ossa da rimuovere, identità da cancellare per precipitare nel vortice dell’indefinitezza. Un giorno di supplizio interrotto dallo smascheramento di un lavoro che non è una possibilità per Gero, ma l’inganno di un giovane uomo, Martin, che scappa dall’imbocco della sua nuova vita, dalla compagna e dal figlio che sta per arrivare, per rifugiarsi nella bugia di un sonno indotto dalla droga, in un luogo sulle colline distanti dal paese, il Pillola Blu, il tutto sotto una pioggia battente che non sa lavare via la sozzura di un tempo in putrefazione.

L’acqua è l’altro elemento caratterizzante del romanzo. La pioggia che incontriamo sullo scenario dell’incipit, che impasta con la terra e sporca il procedere di Gero verso casa, ma anche l’acqua che bagna i piedi del protagonista sulla cucina della casa di famiglia. L’elemento extraumano, che esula dalla volontà del ragazzo, e la mancanza di controllo sulla sua vita, che gli impedisce di illuminare le sue scelte così come la casa in cui vive, il tutto solo per un interruttore inconsapevolmente spento. Basterebbe così poco per dare un senso, per provare ad andare oltre, eppure il pensiero dell’azione si perde con il levare del sole, per ricomparire nella lotte, per rispondere ad un bisogno che pulsa nei polsi ma non si riesce a seguire e proprio quando tutto sembra essere ormai disfatto, quando l’irreparabile sembra aver preso il controllo, che Gerolamo ritorna all’esattezza della sua età, che ne comprende la potenza del divenire, che svolta verso la strada spianata dalla zia, suo ultimo gesto d’amore, per smettere di essere un ragazzo e provare a diventare un uomo senza lasciarsi scorrere il tempo addosso, al di fuori delle sue vene.

Bernardo Zannoni,

25

Palermo, Sellerio, 2023

pp. 180, € 15,20

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Attraversare lo specchio – Rec. a “Scrivere il perturbante”

di Umberto Mentana

Ho sempre provato una irrefrenabile attrazione per il “weird” ovvero  l’inquietante,  quella sensazione che provoca straniamento e viene chiamata Perturbante.  Non è un caso, infatti, che io abbia dedicato un libro a R.L. Stine e che le mie prime letture siano state essenzialmente le storie pubblicate nella serie Piccoli Brividi.

 Il libro di Giorgia Tribuiani pubblicato qualche mese fa per Dino Audino Editore,  Scrivere il perturbante ( primo volume di una “trilogia del mistero”) è un saggio che illustra tutte quelle procedure che sollecitano interessi in voga e che richiamano la mia stessa attenzione: teorie e tecniche psicologiche, un fenomeno sempre più diffuso”

Dopo una prima parte prettamente teorica, in cui è ben indicizzata vasta produzione dedicata al tema del perturbante e all’interno della quale spiccano i nomi di H.P. Lovecraft, Stephen King, Edgar Allan Poe, E.T.A. Hoffman, Todorov, Freud, considerati “numi tutelari”, Tribuiani sottopone alla nostra attenzione studi più o meno recenti come quello di Davide Borghetti (Il perturbante. Paura e inquietudine nel quotidiano, 2018 ndr), Mark Fisher o Francesco Corigliano (La letteratura weird – Narrare l’impensabile, 2020 ndr). Questa è una sezione a mio parere riuscitissima, proprio perché Tribuiani, opera una summa efficace delle molteplici fonti e la veicola attraverso un discorso fluido e “in progressione”, partendo  dal concetto delle “Tre paure” proposto da Stephen King nel suo Danse Macabre, arriva alla descrizione dello spaesamento cosmico-architettonico del monolite di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick.

La forza di questo libro è dunque, e soprattutto, questo: aver sviluppato gli elementi manualistici, di cui è impregnata l’intera seconda parte del libro, attraverso una componente raffigurabile, tangibile, visiva. Numerosi sono gli esempi di interi brani della letteratura in esame ma, per lo più, le riproposizioni sono regole di un gioco intrapreso ( impostato) con il lettore e che va al di là della sola pagina. L’autrice ci propone queste “perturbazioni” mostrandoci come, effettivamente, si può provare e trasmettere la paura, per esempio come ritrovare una routine scombinata quando il conoscibile diviene non conoscibile, oppure un luogo domestico che materialmente non rispetta le dovute proporzioni che ci aspetteremmo e che sappiamo solitamente ritrovare, elementi anatomici o personalità duplicate, raddoppiate, fino a passare in rassegna una rinnovata “borsa degli attrezzi” del perturbante: dall’utilizzo esclusivo di un certo tipo di narratore, ai luoghi perturbanti alle tecniche narrative d’adozione per eccellenza, dalle tipologie di conflitti, agli strumenti per infondere tensione al particolareggiato uso del dialogo, ai simbolismi e alle ripetizioni tematiche presentate come immagini ricorrenti.
Tutto questo alternando naturalmente maestri dello storytelling destabilizzante come Stephen King, Roman Polanski, William Peter Blatty, Shirley Jackson, Stanley Kubrick, Ray Bradbury, David Lynch a nomi più recenti come Thomas Ligotti, Joe Lansdale, non disdegnando naturalmente anche Italo Calvino o Dino Buzzati che ben riescono a sposarsi in questo luogo comunicativo che risulta essere il libro di Giorgia Tribuiani pieno di stimoli, avvertenze e inquietudini. 

Nella fase conclusiva, il libro ci pone la domanda “Di cosa hai paura?”, un quesito che ritroviamo anche nelle prime pagine del volume e al quale Tribuiani, non  fornisce  risposte specifiche ma, da romanziera navigata e soprattutto da insegnante utilizza per portare lontano il lettore, oltre quei limiti conosciuti. Ci restituisce  una dimensione in cui non ci sentiamo più sicuri, circondati da geometrie non convenzionali e da ritornanti che non temono di arrestare la loro corsa e così, mentre noi siamo intenti a leggere, qualcuno si nasconde sotto al nostro letto,  qualcuno che ha il nostro stesso viso ma che presenta ugualmente qualcosa di diverso.

Scrivere il perturbante di Giorgia Tribuiani è dedicato a Giulio Mozzi con cui la scrittrice dirige la Bottega di narrazione, scuola di scrittura creativa per la quale ha ideato e conduce annualmente il “Laboratorio del mistero” dedicato alla narrativa perturbante e fantastica.

Giorgia Tribuiani

Scrivere il perturbante. Modelli, tecniche, strategie

Roma, Audino, 2023, € 18,52

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Le stagioni di Iris – rec. a “Vuoto” di Ilaria Palomba

di Valentina di Corcia

Ci si avvicina a questa storia come lo si farebbe a un istrice: migliaia di aghi acuminati sono pronti a schizzare per colpirti in punti dolorosissimi. Quest’istrice resta al riparo, si difende come può, attacca a prescindere e sa stupirti con l’intensità del dolore che è in grado di infliggerti. Tuttavia, il dolore che si sente è qualcosa che ci appartiene e, pertanto, siamo a disposti a sopportarlo man mano che leggiamo. Anzi, più leggiamo e più vogliamo stare nella storia come Iris.

In questo racconto a due voci.  Iris e Ilaria, si alternano fino a fondersi nell’io narrante di una narrazione in cui protagonista prepotente è il vuoto. Nato da un dolore mai superato, che traccia un solco tra prima e dopo, questo non spazio è capace di inglobare tutto, nutrito dai sensi di colpa, di inadeguatezza, ed espandersi fino a prendere forma e diventare “doppio”. Noi sentiamo che le vicende di Iris sono profondamente innervate della vita stessa di Ilaria e ciò non ci dispiace affatto, anzi in una certa misura ci consola, perché è come se venissimo a sapere che, se un giorno tutto il dolore e tutte le afflizioni di Iris saranno le nostre, potremo affrontarle e combatterle. Infine, vivere ancora.

Palomba riempie il vuoto attraverso la costruzione di triangolazioni amorose. La più stabile è quella composta da Iris, suo padre e Federico. Sono le sole figure maschili di riferimento a cui riconosca una certa autorità nonostante tutta la serie di conflitti che passano nei loro rapporti. Forse, è proprio la dialettica del conflitto a rafforzarle. Palomba si inserisce con efficacia nella ormai lunga serie di narrazioni domestiche, che entrano e sfondano le pareti dei rapporti familiari. Ma Palomba pare farlo per erigere di nuovo qualche muro rovinato sotto i colpi della dissoluzione del sé. Del buddismo che attraversa in filigrana tutta la storia pare avere recuperato questo dato: un’ultima fiducia nella possibilità che le cose – persone e oggetti (forse persone come oggetti) possano ricomporsi. Gli altri uomini, invece, si reggono su una certa sottomissione masochistica (l’unicum è Giulio, amato e perso, troppo puro per poter sopravvivere a certe dinamiche guaste.)

Il vuoto è la scala per il paradiso, il desiderio di libertà.

Con “Vuoto”, Ilaria Palomba conferma quella che fino ad ora poteva essere un’intuizione: ci troviamo di fronte a una nuova generazione di cannibali che, a differenza degli originali, usano il filtro del gotico.

Gotico e cannibalico si sono impastati pur mantenendo distinte le proprie caratteristiche, che emergono da richiami diretti o da suggestioni evocate dalla scrittura. E ancora una volta torna l’elemento ancestrale: il romanzo contribuisce ottimamente alla crescente attenzione per certi fatti del passato, dalle leggende del territorio agli eventi di cronaca nera che da un lato hanno generato una schiera di nuovi mostri, mentre dall’altro ci hanno restituito le vittime sotto forma di nuove icone pop. Cristallizzate in quelle immagini, sempre uguali a sé stesse, passate centinaia di volte ai tg; vicende che possono essere recuperate e riaffidate alla memoria collettiva attraverso l’upgrade della nuova consacrazione mainstream: il podcast. Ma Palomba, così come Serena Vinci, non scade mai nella facile restituzione mediatica della demonologia appulo-lucana, dove maciare, fatture e serpenti diventano puro folklore, mentre sono cultura e storia. E ancora una volta torna l’elemento ancestrale: il romanzo contribuisce ottimamente alla crescente attenzione per certi fatti del passato, dalle leggende del territorio agli eventi di cronaca nera che da un lato hanno generato una schiera di nuovi mostri, mentre dall’altro ci hanno restituito le vittime sotto forma di nuove icone pop. Cristallizzate in quelle immagini, sempre uguali a sé stesse, passate centinaia di volte ai tg; vicende che possono essere recuperate e riaffidate alla memoria collettiva attraverso l’upgrade della nuova consacrazione mainstream: il podcast.

Con Palomba siamo autorizzati a fare un piccolo salto indietro nella storia del romanzo italiano contemporaneo: a metà degli anni Novanta Isabella Santacroce folgorò una generazione con Fluo, romanzo che apriva la cosiddetta Trilogia dello spavento.  Come i personaggi di Santacroce vivono un’alterazione frenetica, tra discoteche ed esperienze borderline nella Riccione all’apice della sua stagione psichedelica, la Iris di Palomba, bramosa di libertà, simile alla Belle di Povere Creature, segue il sentiero delle sue cicatrici, tracciando la sua mappa: definisce una nuova geografia dell’inquietudine.

Alle notti romane, avvolte da un’aura speciale, potremmo dire misterica, alterna i paesaggi di una Puglia aspra e sonnolenta; tra estati di ritorno, paesini appartati e città (Bari, specialmente) quasi insopportabili. Ci sono deserti di sabbia e calce bianca, capaci di imprigionare nel torpore di una vita tanto lenta da diventare immobile. Di sicuro lontana da certe “cartoline” instagrammabili. Ci sono poi le strade urbane, i quartieri pesanti della Bari che accoglie Iris non più ragazzina e quasi donna: è qui che tutto si fa difficile. Per Palomba la Puglia è bella nella dialettica infanzia-paese e si rovina in quella che va dallo stadio adulto allo spazio urbano.

Ilaria Palomba

Vuoto

Bari, Les Flâneurs Edizioni, “Élite”, 2022

€ 18,00

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Morte di un ragazzo perbene – rec. a “Il sangue che ti scorre accanto” di Serena Vinci

di Valentina di Corcia

C’è stato un preciso momento in cui il male si è insinuato nei chiaroscuri della storia del nostro Paese e ha iniziato ad espandersi, richiamando su di sé i clamori mediatici, trasformando il pubblico televisivo in una tifoseria organizzata e, non da ultimo, tributando podi e onori ai sapienti del crimine, incoronati vincitori di un grottesco e atipico talent show.

I fatti narrati in questa storia sono lontani, nel tempo e nello spazio, dai boschi del cosiddetto satanismo acido, animato da droghe e violenza, in cui un gruppo di ragazzi utilizzerà l’occulto come alibi a una vita di degrado.  Pare affacciarsi – lo diciamo con prudenza, ma abbiamo qualche buona ragione dalla nostra parte – una nuova “Gioventù Cannibale” in una certa violenza sfacciata e vorace.

Questa storia parla di affascino, di una goccia di sangue mescolata al caffè e del potere arcano dei lacci d’amore. Serena Vinci parte da un fatto di cronaca, un fatto di sangue particolarmente controverso e ancora oggi rimasto insoluto. Per renderlo meno brutto – perché la realtà sa rivelarsi assai peggiore di qualsiasi fantasia macabra – lo impregna di esoterismo. Tutto questo dà alla storia delle connotazioni che richiamano aspetti da realismo magico. Potremmo considerarla come una forma di etnofiction, per dirla con Augè: i personaggi che animano l’immaginario paese di Distici subiscono supinamente l’affascino, ne sono soggiogati perché, in certi contesti del sud Italia, la magia è un fenomeno endemico.  Dunque, risulta più facile credere alla magia che alzare il velo su una verità più scomoda.

C’è una mappa ideale che attraversa tutta la Penisola e contiene i luoghi di quello che potremmo definire un nuovo gotico italiano. Partendo da Butera, in Sicilia, dall’antro della strega de “Lo Scuru” di Orazio Labbate, ci si sofferma per una visita al condominio dei misteri di “Questo giorno che incombe” di Antonella Lattanzi e poi su su, si sale fino alle valli piemontesi per trovare una cura all’epidemia di “Morsi” di Marco Peano, per poi scendere ancora lungo lo Stivale, fino a raggiungere Distici, paese di un non meglio identificato sud Italia, in cui è ambientato il romanzo d’esordio di Serena Vinci, “Il sangue che ti scorre accanto”, edito quest’anno da Les Flâneurs nella collana di narrativa “Montparnasse”.

Il nostro gotico affonda le radici nel passato. Nasce, dopo lunga gestazione, dalla tradizione orale, da quelle leggende che di bocca in bocca hanno attraversato intere generazioni e che, sfidando il pregiudizio del progresso sono giunte fino a noi, impastate a formule di antichi rituali praticati in stanze proibite. Ma, in fondo, cos’è la leggenda se non una verità manipolata, un evento reale contaminato dalla fantasia?   L’occidente cristiano e sincretico ha assorbito il mito e ha distinto il bene dal male, offrendo però l’occasione di una sclerosi delle due qualità finché oggi queste due qualità sono diventate due fazioni. Ma la vita è fatta di vie di mezzo e Serena Vinci costruisce una storia che si oppone ai dogmi, animandola con una protagonista femminile che cerca risposte laddove tutti hanno smesso di farsi domande.

Alle fanciulle tenute prigioniere in dimore di famiglia la Vinci oppone Fiammetta che dall’antico palazzo è fuggita già una volta ma, vinta dal richiamo del sangue, vi fa ritorno e proprio seguendo la goccia di quel sangue che scorre e segna il sentiero, intraprende un viaggio a ritroso nel tempo. Riguadagnando i luoghi attraverso i ricordi, prima che sfumino (o affondino) nel passato e si confondano con i “si dice”.

Serena Vinci ci offre una storia potente: apparentemente connotato dalle caratteristiche del noir, con richiami al soprannaturale, questo romanzo è costruito attorno a un personaggio che con la sua creatrice condivide molto più che la professione di archivista e la fisiologica tendenza a risistemare dati e documenti, seguendo metodo e intuito. Serena, attraverso il personaggio di Fiammetta, ci offre la possibile soluzione a una brutta storia di provincia, presto dimenticata come accade a certe storie piccole, narrazioni di sottofondo rispetto agli eventi dei grandi prosceni. Come accade quando a morire è un ragazzo perbene.

Serena Vinci

Il sangue che ti scorre accanto

Bari, Les Flâneurs Edizioni, “Montparnasse”

€ 15,00

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Autobiografie in cerca d’autore: “La ricreazione è finita” di Dario Ferrari

di Matteo Caputo

Why don’t you get a job?: queste parole risuonano dalla voce dirompente di Dexter Holland, frontman di uno dei più noti gruppi punk del mondo, gli Offspring, mentre dall’alto si viaggia tra le luci di una Roma notturna, con la cinepresa che si ferma, ormai giorno, sulla “Minerva” di Arturo Martini e sul complesso di piazza Aldo Moro della Sapienza: è l’inizio di Smetto quando voglio, primo episodio di una tragicomica trilogia sull’Università italiana e sui suoi ricercatori, che quella domanda iniziale se la sentono ripetere da tempo. E, ça va sans dire, le orecchie di chi scrive non fanno eccezione.

Sarà anche per questo che La ricreazione è finita, seconda opera narrativa del viareggino Dario Ferrari, addottorato in Filosofia a Pisa e insegnante e traduttore a Roma, nonostante le sue quasi cinquecento pagine, si è fatta consumare in poche, concitatissime ore.

Marcello Gori è un trentenne che ancora non sa cosa fare della propria vita: laureato in poco più di dieci anni in Lettere con una tesi su Kafka, fidanzato senza troppo impegno con Letizia, ragazzina dell’alta borghesia di Viareggio e studentessa di medicina, vive ancora con la madre e, senza mostrare di preoccuparsene troppo, è senza un impiego. Tra un lavoretto e un altro racimola ogni mese qualcosina, intestardito a non voler rilevare il bar di famiglia, gestito dal padre settantenne. Un padre che Marcello odia perché ha lasciato la madre anni fa per un’altra donna e soprattutto perché pare non avere alcuna stima di lui. E così, per indispettirlo, tenta il concorso di Dottorato in Lettere all’Università di Pisa, vincendo inaspettatamente la borsa di studio.

Viene a quel punto affidato alle mani di uno dei più influenti docenti del Dipartimento, il Chiarissimo prof. Raffaele Sacrosanti il quale, dopo aver scartato una serie di idee che gli erano sembrate improponibili, un po’ per affidare a un dottorando non voluto una tesi poco spendibile, un po’ per motivazioni non chiare, decide di proporgli un lavoro sul recentemente scomparso terrorista viareggino Tito Sella. Di chi sia costui, il dottor Gori non ne ha la minima idea, tuttavia accetta la proposta e inizia la ricerca a partire dai parenti stretti, che di storia locale recente, almeno per averne fatto parte, qualcosa dovrebbero saperne. Le necessità, poco dopo, conducono Marcello tra i banchi della be-en-ef, la Biblioteca Nazionale Francese, che custodisce il materiale preparatorio approntato da Sella per le proprie opere narrative e, soprattutto, i suoi scritti più intimi, tra i quali potrebbe esserci la Fantasima, una sorta di autobiografia perduta del terrorista.

È l’inizio di un’avventura che oscilla tra il tempo attuale privo di azione e i ferventi anni ’70, sui quali ancora oggi è disteso un velo che è ancora troppo pesante per essere rimosso. Tito sarà l’autore che il personaggio Marcello cerca: pur nella distanza tra l’indolenza del protagonista, eccitata solamente da pochi avvenimenti, e l’energia dirompente del giovane fondatore della brigata Ravachol, dai diari di quest’ultimo viene fuori qualcosa che permette a Marcello di ricucire passato e presente, offrendogli una nuova chiave di lettura del proprio mondo e delle sue sempre più chiare circostanze.

Dario Ferrari, La ricreazione è finita

Sellerio, 2023

Euro 16,00

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Il sogno di un’Italia da bere

di Valentina di Corcia

Lo spot pubblicitario di un noto amaro è la fotografia perfetta dell’Italia degli anni ottanta, la narrazione pop del rampantismo di quegli anni: la Milano da bere entrerà nel linguaggio comune al punto di diventare un modo per definire quel periodo storico e gli uomini che lo hanno animato. La storia raccontata in questo libro, esempio di non-fiction che alla biografia abbina romanzo e saggio proviene, in buona misura, da quel mondo. Sebbene il suo protagonista in quel mondo non sia mai affondato del tutto. Lui lo ha divorato, arrivando a cambiarne le regole, inventandone di nuove. Il self made man, il tuffatore di Paestum, romagnolo, sanguigno e visionario, a tratti surreale, sembrava essere uscito dalle pagine di un romanzo d’avventura, anzi, meglio: la sua vita è stata talmente ricca di avvenimenti reali e romanzati, avvolta da quell’aura di mito che fa la fortuna di pochissimi, da farci venire alla mente il protagonista di  una sceneggiatura di Fellini e Guerra. 
Capitano d’industria e capitano di ventura, innovatore e romantico, classe 1933, uno dei protagonisti indiscussi della Prima Repubblica: Raul Gardini. 
Dopo una vita costellata di successi privati e pubblici,  nel 1988 realizza quello che nessuno aveva mai neppure ipotizzato: attraverso una joint venture unisce Montedison ed Eni: nasce Enimont. E così il tuffatore, l’uomo che si muove tra una dimensione e l’altra,  che sfida la sorte, porta a compimento il suo progetto avveniristico, potremmo dire utopico. Gardini prospetta un modello economico che fa saltare tutti i parametri : produrre chimica verde e creare energia di derivazione agricola. Da qui in poi la sua storia di uomo e imprenditore diventerà sempre più densa. Gardini,  il suo sorriso bianchissimo, i suoi modi concreti, lo sguardo rivolto a un futuro che i più non riescono ancora a scorgere, diventa una vera icona di quegli anni, riuscendo ad offuscare quella del monarca dell’industria italiana, Gianni Agnelli. Questi sono gli anni in cui le sue gesta gli varranno i soprannomi di pirata e ultimo imperatore di Ravenna. Accanto alle scorrerie nel mare della finanza alternerà le regate  della  Louis Vouitton Cup prima e dell’America’s cup, dopo. A capo del leggendario Moro di Venezia, affiancato da un giovane Paul Cayard, appassionerà gli italiani alla vela, rendendola più popolare e meno elitaria. Gli anni dall’ottantotto al novantatrè registreranno l’apice della sua fortuna ma anche l’inizio del suo declino. Nel 1992 l’Italia intera verrà scossa dalle fondamenta: inizia la stagione di “Mani Pulite”. Ad essere coinvolti saranno i principali attori sulla scena della Prima Repubblica,  tra i nomi della politica, della finanza e imprenditoria, spicca quello di Raul Gardini che sarà uno dei principali imputati e verrà condannato per finanziamento illecito ai partiti, la sua passerà alla storia come” la madre di tutte le tangenti “. Nel giugno 1993 si suiciderà nella sua residenza milanese.

Elena Stancanelli, “Il Tuffatore”
La Nave di Teseo, Collana Oceani, 2022
18 euro 

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“R.L. Stine – Piccoli Brividi, Fear Street e altre scary stories” – Il nuovo saggio di Umberto Mentana. Edizioni Weird Book

R.L. Stine è lo scrittore per ragazzi più venduto al mondo. La sua serie horror di Piccoli Brividi ha venduto oltre quattrocento milioni di copie segnando irrimediabilmente l’immaginario di intere generazioni di lettori grazie al singolare connubio fra humour e horror attraversando una storia editoriale che incomincia e ha la sua golden age negli anni Novanta, diventando nel tempo un fenomeno sociale dalla portata rivoluzionaria.

Questo libro è il primo saggio italiano sullo Stephen King per ragazzi, ed è una ricerca non solo biografica ma anche sui processi di scrittura in un dialogo trasversale e serratissimo accompagnato dalle più note “scary stories” dell’autore: Fear Street, Piccoli Brividi, Just Beyond sono collane di successo che travalicano i limiti del singolo medium librario conversando parallelamente con il Cinema, il Fumetto, la Televisione. Impreziosito da un intervento in esclusiva per il pubblico italiano di Tim Jacobus, l’artista cult delle storiche copertine di Piccoli Brividi, questo libro si propone di porre l’attenzione su un Maestro dell’horror ancora troppo poco esplorato dalla saggistica italiana.

Cover di Giorgio Finamore.

TitoloR.L. Stine – Piccoli Brividi, Fear Street e altre scary stories
Autore: U. Mentana
Editore: Weird Book
CollanaRevolution
Genere: Saggio
Pagine: 180
Prezzo: 25,90 €
Formato: 15 x 22 cm
ISBN: 978-88-31373-89-0
Data di uscita: 31 gennaio 2023