di Vito Santoro
Sabato prossimo avrebbe ricevuto il Premio Campiello alla Carriera, Daniele Del Giudice, morto questa notte a causa della gravissima malattia che da tempo gli aveva tolto parola e memoria. Riconoscimento che appare ora ancora più tardivo di quanto non fosse già sembrato a fine luglio quando la “Fondazione Il Campiello” comunicò la sua decisione di volere così onorare uno dei più importanti scrittori contemporanei. Al di là di questo, la morte non potrà cancellare – mi si scusi la retorica – uno straordinario corpus narrativo e saggistico omogeneo e coerente, dominato dalla ricerca incessante di sonorità e di immagini attraverso due movimenti continui: l’uno nello spazio, l’altro nel tempo. Movimenti che si intrecciano e si dissolvono quasi cinematograficamente l’uno nell’altro, a raggiungere una nuova dimensione ibrida, quasi pietrificata, paragonabile a quella in cui era immerso nel suo «delirio di immobilità», l’Arsenio di Montale. Proprio quel Montale, scoperto dal geniale Bobi Bazlen, sulle cui tracce il giovane Del Giudice si era lanciato trentacinque anni fa esatti sulle pagine dello Stadio di Wimbledon (1983; in questi giorni ripubblicato in Francia nella traduzione di René de Ceccatty), accompagnato dalla nota in quarta di copertina di Italo Calvino, che individuava nello scrittore, allora trentaquattrenne, il tentativo di «rappresentare le persone e le cose sulla pagina». E questo «non perché l’opera conta più della vita, ma perché solo dedicando tutta la propria attenzione all’oggetto, in un’appassionata relazione col mondo delle cose», è possibile «definire in negativo il nocciolo irriducibile della soggettività, cioè sé stesso».
Non a caso, Lo stadio di Wimbledon rispecchia l’irresolutezza di un ulisside io narrante, che tende incessantemente ad una meta e al contempo, alla fuga e al non ritorno. Dal canto suo, Staccando l’ombra da terra si presenta come una raccolta di racconti, dominata dall’alternanza di registri stilistici, fornendo all’insieme dell’opera una tensione centrifuga, che ne mina alle radici la coerenza strutturale, bilanciata da una tensione centripeta ipostatizzata dalla ripresa del personaggio dell’istruttore, sotto nome proprio o sotto mentite spoglie, nel presente di fine ventesimo secolo o agli albori dell’aeronautica.
Analogamente Orizzonte mobile è costituito dall’assemblaggio di pagine in cui Del Giudice racconta una sua esperienza personale in Patagonia e in Antartide, il «grande pozzo freddo della Terra», avvenuta nel 1990, alternate ad altre derivanti dalla riscrittura dei taccuini di due esplorazioni nell’Antartide di fine Ottocento, quali quelle dell’italiano Giacomo Bove e del belga Adrien de Gerlache. Questi scritti, scrive Del Giudice, «sono una letteratura, ma non si tratta di “libri di viaggio”; per l’affresco storico, la forza della passione, la densità del mistero e un ethos sulla soglia dell’incognito e per gli apparati scientifici sono gli ultimi e veri grandi racconti di avventura, il genere che Stevenson, nella sua classificazione del romanzo, definiva il più sensuale, dove gli autori furono anche personaggi e parti in commedia». Precede il tutto il resoconto particolarmente dettagliato di un altro viaggio, più recente, fatto dallo scrittore nel 2007. Resoconto però di un viaggio mai avvenuto. Ne deriva un racconto formato da più storie, che in realtà sono un’unica storia. Del resto, gli esploratori nel corso dei decenni si sono tutti mossi in una terra dotata di un’essenza quasi metafisica e perciò capace di vincere il tempo. Bastano pochi chilometri a separare un fuso orario dall’altro. Il «paesaggio-passaggio» si estende per chilometri e chilometri sempre uguale, tanto che i quattro viaggi sembrano svolgersi lungo lo stesso asse temporale. La presenza dell’uomo è pressoché accidentale. Ragion per cui a prosperare sono solo i pinguini grazie alla loro natura di «grandi incompiuti»: «Non ce l’hanno fatta a diventare pesci, dato che l’acqua non è il loro elemento definitivo; pur essendo uccelli non volano più, e come bipedi sono lenti e preoccupati». Ma l’Antartide è anche il luogo in cui «scienza esatta e phantāsia» possono collidere tra loro. Così il nuovo “orizzonte mobile” da raggiungere, sembrerebbe essere, per Del Giudice, quello della scienza, così difficile da tradurre sulla pagina. Solo misurandosi con il “non-letterario”, adattandosi al suo linguaggio, la letteratura può raggiungere il “Tempo Maggiore”, cioè quell’altrove “essenziale” situato al di là della cronaca, e diventare strumento di conoscenza in un presente sempre più caratterizzato dalla morte della critica e dalla catastrofe del valore d’uso.