di Antonio R. Daniele
Ad ogni creazione corrisponde un impeto e una voluttà di distruzione. Si potrebbe cominciare da questa specie di assunto apodittico nell’indagine su Primo Levi e l’origine, sicuri che – sia pure nei pericoli di una sintesi che non si ignorano – avremo detto molto della scrittura breve leviana, sia in quanto a materia scelta sia in quanto a prassi narrativa.
Intanto si rifletta su qualche dato e, per meglio dire, su qualche “evento” occorso a Vizio di forma e al suo autore; e a questo proposito molto dice la nota lettera prefatoria con la quale Levi accolse la riedizione dell’opera ai primissimi del 1987: deluso ma lieto; contento ma amareggiato. Primo Levi scriverà un brevissimo saggio di antinomie, un esercizio verbale di conflitti. E se al sentimento di letizia noi assegniamo il valore del “generare” e al sentimento di amarezza quello del “distruggere” vedremo replicata, in quelle poche righe, una dialettica che, è evidente, segnò i racconti che Levi licenziò nel 1971. E, se volessimo esasperare questa dinamica, potremmo notare che il nostro autore lasciò questo mondo negli anni in cui era persuaso che il mondo stesso nascesse a nuova vita:
Il Medioevo non è venuto: nulla è crollato, e ci sono invece timidi segni di un assetto mondiale fondato, se non sul rispetto reciproco, almeno sul reciproco timore. A dispetto degli spaventosi arsenali dormienti, la paura di una «Dissipatio Humani Generis» (Morselli), a torto o a ragione, si è soggettivamente attenuata. Come stiano oggettivamente le cose, non lo sa nessuno.
E in effetti le cose, oggettivamente, sarebbero andate in un altro modo. Ma non è questo che interessa. Interessa, invece, che Levi percepisca attorno a sé nuova creazione e prosperità e lasci il mondo. E lo faccia pochi mesi dopo la riedizione di Vizio di forma, libro costruito su questo conflitto percettivo: origine-distruzione e viceversa.
Ma la scrittura di Levi non ha né tratto apocalittico né ottimisticamente eugenetico. Levi sa operare anche tra le maglie del registro brillante, in alcuni casi dilettevole, senza per questo perdere di vista il peso delle questioni. «I bambini sintetici sono una realtà, anche se l’ombelico ce l’hanno», scrisse con accento scorato in quelle stesse righe all’editore, richiamando uno dei suoi racconti nel quale profetizzava l’avvento di creature costruite in laboratorio, umanoidi, il cui inconfondibile segno distintivo era l’assenza dell’ombelico. La narrazione è, appunto, realizzata su due piani: la leggerezza di quotidiane circostanze scolastiche, quelle che impegnano ragazzini alle prese con usuali lezioni di storia e interrogazioni (tra l’altro, in una infarcitura di cliché sull’insegnamento, evidentemente già diffusi cinquant’anni fa, il che dovrebbe sollecitare qualche riflessione), e il carico di temi insoliti e inquietanti. Torniamo a Levi e alla lettera: è contento della riedizione ma crucciato. Ed è crucciato perché, a suo dire, molto di quanto paventato nel libro si è avverato e i sintetici sono diventati davvero sintetici. Alla fine di quel racconto, superato il livello del “gradevole” assicurato dal vivace scambio di vedute tra il bimbo anomalo e i compagni di classe, il grottesco confronto con la professoressa e il preside, Mario, appunto il ragazzino sospettato di aver avuto origine chissà come e chissà da chi, tiene un discorso dal tono grave:
Adesso siamo pochi, ma poi saremo molti e comanderemo noi, e allora non ci saranno più guerre. Sì, perché non combatteremo fra noi come capita adesso, e nessuno potrà assalirci perché saremo i più forti. E non ci saranno differenze: noi non faremo più differenze, bianchi, negri, cinesi, saranno tutti uguali, anche i Pellerossa, quelli che restano. Distruggeremo tutte le bombe atomiche e i missili, tanto non serviranno più a niente, e con l’uranio che ne ricaveremo ci sarà energia gratis per tutti, in tutto il mondo: e anche da mangiare, gratis per tutti, anche in India, cosi nessuno morrà più di fame. Faremo nascere meno bambini, in modo che ci sia posto per tutti: e tutti quelli che nasceranno nasceranno come noi.
– Nasceranno come? – chiese una voce timida.
– Come me. O anche per telefono, o per radio: un uomo telefona a una donna, e poi nasce un bambino, ma non così.
Il nuovo “assetto mondiale” che a Primo Levi parve di scorgere alla fine degli anni Settanta, quello che garantiva armonia fra i popoli e uguaglianza fra etnie, sarebbe stato prodotto da creature la cui origine sormonta il livello naturale, viene da esperimenti e forse da mondi sconosciuti. Addirittura – viene lasciato intuire al lettore – potrebbe essere il risultato di una incombente invasione di strane creature.
Quando ci sono di mezzo Primo Levi e questioni legate alle scienze si rischia uno spiacevole restringimento di prospettiva: credere, cioè, che Levi abbia trattato alcuni temi soltanto perché aveva familiarità con una certa materia, trascurando con ciò tutto un coté culturale nel quale inserirlo e di cui era di certo consapevole. Questo brano e il grosso delle scritture contenute in Vizio di forma non chiamano in causa soltanto l’intertesto leviano, ma partecipano di un quadro letterario più ampio al quale si deve far risalire una lunga serie di scritture, di tono artistico più o meno valido, che attraversano tutti gli anni Sessanta e la cui matrice potrebbe essere individuata sia in Facial justice di Leslie Poles Hartley (1960) che in Harrison Bergeron di Kurt Vonnegut (1961), dove il mondo ricomincia dopo una guerra mondiale, i bambini nascono in provetta e si lavora per annullare le differenze tra gli uomini, anche nell’aspetto. Da noi si deve registrare un singolare racconto di Dino Buzzati apparso sul «Corriere d’Informazione» nel settembre del 1964 e intitolato Il bambino illecito. Quell’esemplare di narrazione breve – che a sua volta si inseriva in un viatico di scritture e di studi sulle origini di stampo scientifico e fantascientico che Buzzati percorreva sin dalla metà degli anni Cinquanta, quando interloquiva con Leonardo Sinisgalli circa la sua rivista, «La Civiltà delle Macchine» – trasse spunto da un caso che suscitò molto clamore in Italia, quello del dott. Daniele Petrucci che a metà degli anni Sessanta documentò di aver fatto nascere una trentina di bambini fecondando ovuli al di fuori del grembo materno. Buzzati scrive un racconto dissacrante, capovolgendo i termini della questione: in un contesto nel quale la normalità delle cose era la nascita in provetta, l’origine della specie era affidata a una «produzione esclusivamente di bambini e di bambine bianche di tipo “mentale” e “submentale”. C’era anche un nuovo reparto – scrive Buzzati – a carattere sperimentale, per la produzione di tipi “supermentali”, ma era tenuto in sospetto dalle autorità […] una illecita forzatura nello sviluppo di certe particolari qualità della mente, ciò che poteva domani riuscire pericoloso per l’equilibrio sociale». Dunque, i “sintetici” di Levi, queste creature che predicano una nuova origine, un superamento della condizione naturale e sono promessa di un mondo nuovo e normalizzato nei valori e nelle forme, vengono da questa traiettoria culturale e letteraria.