In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XIII-a

di Demetrio Paolin

Un sigillo della grandezza dei romanzi risiede nei personaggi minori e dal loro modo di agire (mi vengono in mente, ad esempio, le pagine di Manzoni su Tonio e Gervasio nei Promessi Sposi o, per venire a cose più vicine, Harras in Trilogia del Nord di Céline): sono personaggi meno importanti, meno centrali nella costruzione del romanzo/narrazione, ma che si impongono alla nostra attenzione. Alessandro Zaccuri, su Avvenire, ha curato una rubrica in cui ha raccontato alcuni di questi personaggi minori, e grazie ad essi illuminava il romanzo intero o metteva in evidenza qualcosa di nuovo del romanzo di cui stava parlando. Ci sono nei FK due personaggi minori, tra i tanti presenti, che vorrei analizzare: Smerdjakov e Liza (vd XIII, b) 
Quando incontriamo Smerdjakov per la prima volta, egli è descritto come colui che porta a Dimitri un messaggio, in cui si stabilisce l’ora dell’incontro con Zosima. Smerdjakov è il servo di Fyodor, ma ha un rapporto particolare con Dimitri. È rappresentato come un messaggero, ha in sé qualcosa di mercuriale; infatti, come il dio romano, anche Smerdjakov possiede in sé qualcosa del latore di notizie, ma anche del ladro; è ambiguo, non è mai comprensibile nel suo muoversi e nel suo agire. La sua nascita è avvolta nel mistero: sappiamo che è dovuta a una violenza, sappiamo che sua madre la Smerdona è una pazza di Cristo, una urlona; tutto cospira a farci pensare che il padre sia Fyodor, Smerdjakov viene adottato dai servi di casa Karamazov che hanno vissuto un lutto, avendo perduto il proprio bambino: insomma S. è frutto di violenza, abbandonato e adottato “in vece” di un neonato defunto. Oltre al nome dalla madre egli ne ha in un certo senso ereditato la follia, che in lui si mostra nei segni del grande male, dell’epilessia. 
Un altro luogo centrale in cui torna Smerdjakov è il dialogo con Ivan, quello del “tutto è lecito”, dove è presente il germe della giustificazione per l’omicidio di Fyodor. A questo fa da contraltare l’ultimo e definitivo scambio con Ivan, dove appunto Smerdjakov confessa il suo delitto, raccontando come nell’ombra e con costanza e precisione ha fatto in modo che tutta la colpa materiale ricadesse su Dimitri e quella morale ed etica su Ivan. 
Tra il primo e il secondo dialogo passano centinaia di pagine in cui Smerdjakov scompare dell’azione, viene chiamato in causa da Alesa, da Katerina, da Grusenka, da Dimitri come colui che ha commesso l’omicidio, ma solo a Ivan verrà detta la verità, che appunto lo getterà nel baratro della sua stessa allucinazione, il dialogo con il diavolo e la sua malattia, mentre Smerdjakov infine si ucciderà. 
La prima cosa che colpisce di come D costruisca questo personaggio è il suo essere sotterraneo alla narrazione: Smerdjakov muove molti dei fili della narrazione, è il centro di molte zone nevralgiche del romanzo, ma D ce lo mostra e dedica a lui molte meno pagine di quelle che ci aspetteremo. Torna quindi, prepotente anche qui, un discorso di economia, nella duplice accezione di risparmio – il numero di scene, pagine o parole che dir si voglia intorno a un personaggio – e di disegno prefissato. Con la massima economia di parole, Smerdjakov è nell’economia del romanzo colui che lo fa attuare: egli è un, o è il, motore del romanzo, in un certo senso produce il romanzo. Egli è un personaggio spregevole, un mentitore, un millantatore eppure muove i fili della vicenda, li tiene in pugno, è colui che ci mostra la vera realtà: ciò che è realmente accaduto e non ciò che i giudici e la gente pensa sia accaduto; è veramente un perfetto e ambiguo messaggero, che perverte le euclidee convinzioni di Ivan e le usa a suo uso e consumo.
Con Smerdjakov D compie un’altra scelta: in un romanzo dove ognuno produce una idea di mondo, la sua azione rimane sostanzialmente avvolta nel mistero: perché Smerdjakov agisce così, perché uccide il presunto padre? Perché rivela tutto? Perché si uccide? Dostoevskij di solito così pronto a dirci tutto di tutti, le idee sublimi e le meschinità, su Smerdjakov è reticente, anche il suo suicidio è raccontato, detto ma non mostrato, come se l’autore volesse in qualche modo non farci partecipi fino in fondo di quella esistenza. Smerdjakov rappresenta una immagine di “male per il male”, che si auto-alimenta facendo del male o facendosi del male: la sua figura ricorda molto da vicino a Iago di Otello, la stessa gratuità nel compiere il male, la stessa opacità di spiegarlo. C’è, però, un dato differente tra Iago e Smerdjakov: questa opacità sul perché delle proprie opere è razionale, pensata e voluta in Iago, mentre in Smerdjakov è frutto di una mente limitata, Iago sa perché fa il male e non ce lo dice, il servo dei Karamazov non sa perché fa il male, lo compie e basta. Smerdjakov rappresenta l’idea che il male sia idiota, che abiti fuori dai regni della comprensione razionale o della fede, cioè infine che non abbia a che fare né con il Dio né con il diavolo, che il male sia proprio un’altra cosa, un’altra entità estranea al rapporto trinitario tra Alesa, Ivan e Dimitri. 
Si potrebbe quasi ipotizzare che il male sia l’escluso, il reietto e lo scarto, sia l’escremento infine ovvero, come indica il suo stesso nome, la merda, qualcosa quindi che si produce per espulsione. 
Un ultimo dato, l’epilessia: nel romanzo L’idiota, l’epilessia è uno stigma della bontà. Il principe, grazie all’epilessia, entra in contatto con una realtà altra e diversa, nuova e più buona: vede -se vogliamo- la vita e il mondo da una diversa prospettiva, afferma che tutto è buono, che tutto è santo nonostante il male, o forse ancora con più terribilità anche il male è buono e santo. Nei Demoni Kirillov è epilettico, e si proclama profeta di una religione e si suicida per dimostrare che Dio non esiste, anzi – meglio – si uccide per liberare l’uomo dal fantasma di Dio e farsi Dio; anche Kirillov grazie all’epilessia vede una realtà nuova, la presume, la desidera anche se ne ha paura; rispetto però al principe Myskin Kirillov non ha nessun interesse per il mondo così come è, ma vuole un modo diverso, ed è disposto per questo motivo anche ad autoaccusarsi di cose tremende. 
Smerdjakov – l’ultimo grande epilettico di D – ha perduto il suo alone di santità, che in Kirillov era ancora presente, ma anzi fa dell’epilessia una scusa, una maschera, una finzione per poter agire indisturbato, lo fa così che nessun possa pensare che lui sia il colpevole, perché malato, perché debole, perché idiota. Quell’idiozia di Myskin, che era simbolo della stultitia religiosa, del folle di Dio, è marcita in lui, ha perduto ogni contatto con il divino, con dono profetico che portava con sé (si leggano le pagine dei Demoni in cui Kirillov parla del proprio stato prima di una crisi), quasi che il grande male sia diventato solo un male, questo opaco agire delle cose, questo disporsi casuale delle cose: l’epilessia è diventata uno dei tanti accidenti del mondo, misurabili, normali, il grande male è divenuto una malattia che si può fingere e può tornare utile; come se il daimon della profezia (di cui l’epilessia è figura), come se la profezia stessa fosse messa al bando dalla narrazione, ultimo baluardo della scrittura come visione, come religione, fosse presa in giro e messa alla berlina brillando, un’ultima volta, nelle parole povere e sconclusionate di un merdone.