di Demetrio Paolin
Il secondo personaggio minore del romanzo di cui vorrei occuparmi è Liza e in particolare vorrei soffermarmi su FK, parte quarta, libro undicesimo, cap. III, Il demonietto, interamente dominato da questa ragazzina, che abbiamo visto, all’inizio, immobilizzata su una sedia a rotelle, poi verso metà romanzo, guarita e innamorata – come possono essere innamorati i personaggi di Dostoevskij, che non vivono mai un amore limpido, puro, ma è sempre mescolato con una dose più o meno generosa di veleno, di una dose di gelosia, di odio, di ripicca, di rivalsa, di recriminazione, di sfida, di supponenza, di sadismo – di Alesa, e che infine incontriamo in questo capitolo, dove il dialogo con Alesa pronuncia, forse, alcune delle frasi più tremende dell’intero romanzo: «Ma bene. Certe volte penso che l’ho crocefisso io quel bambino. È lì appeso e piange, e io me ne sto seduta di fronte a lui a mangiare composta d’ananas. Mi piace molto, la composta d’ananas, sa? E a lei?»
Liza narra ad Alesa una vicenda, riferita in un libro, in cui si racconta di un ebreo «che prima aveva tagliato le dita di tutte e due le mani a un bambino di quattro anni e poi lo aveva crocifisso al muro». Liza continua questo racconto sostenendo che il bambino ci ha messo poco a morire «quattro ore. Poco? Ha pianto, ha detto, ha pianto tanto, e lui stava lì a guardare e a godersi lo spettacolo. Ma bene!».
Ora l’episodio ci consentirebbe di aprire una lunga parentesi sul pensiero antisemita di Dostoevskij e di buona parte del’ 800 intellettuale, ma qui interessa capire che ruolo ha Liza nella costruzione di senso nei FK. Intanto Liza prende su di sé l’atto malvagio, assume su di sé il terribile delitto; questo movimento immaginativo mi pare interessantissimo. Se in qualche modo l’ebreo può essere considerato il reietto, il “giuda”, il “deicida”, allora Liza assume su di sé totale alterità: Liza non è semplicemente il negativo, ma è l’Altro, qualcosa di totalmente diverso, qualcosa che parrebbe porsi fuori dai confini dell’umano: l’ebreo era inviso, odiato e temuto; era veduto come un inerme e nello stesso tempo come colui in grado di compiere l’abominio più terribile; se volete, provando a risvegliare l’antisemita latente che ognuno di noi possiede, il più perfetto prototipo dell’ebreo è Giuda: traditore per pochi soldi, baro, eppure indispensabile nell’economia della salvezza. Dio salva il mondo morendo e per morire ha bisogno di Giuda; nel vangelo di Giovanni Gesù intinge il pezzo di cibo e lo passa a Giuda: è una elezione; c’è la necessità che Giuda tradisca; si poteva immaginare una economia della salvezza diversa? Un modo diverso per salvare l’uomo e il mondo? Il vangelo ci racconta questa modalità e non un’altra. Così il racconto di Liza sembra una sorta di riscrittura malvagia della crocifissione: il bambino innocente (Cristo) che viene crocifisso e l’ebreo (Giuda) lo guarda morire, sarà accaduto che Giuda abbia visto Cristo morire? È plausibile. Cosa avrà pensato Giuda?
Nella frase citata D ha un tocco felice e aggiunge l’immagine della «composta d’ananas», che Liza mangia: è il sigillo di grandezza dello scrittore , che spesso si annida nel particolare, nell’insignificante che non lo è. Liza si identifica con l’ebreo, che vede il bambino morire crocifisso, anzi dice che crede di essere lei stessa ad averlo crocifisso e poi lo guarda morire. A questa altezza c’è la differenza rispetto alla scena precedente: lei mangia mentre il bambino muore, lo guarda, il bambino è davanti a sé ma lei non lo vede più, vede la composta d’ananas: la composta d’ananas prende il sopravvento nella nostra immaginazione; non vediamo più il bambino, ma ci chiediamo perché la composta di frutta, perché proprio quella. Il comportamento di Liza racconta certi racconti degli aguzzini dei campi di concentramento: uomini e donne crudelissimi che, tornati a casa, diventavano uomini e donne amorevoli. Spesso ci chiediamo come ciò sia potuto accadere, e la risposta ce la fornisce D: essi «credevano nella composta di ananas»; è come se Liza cancellasse, in quel gesto legato al cibo, ciò che ha compiuto o il male che potrebbe fare: la composta di ananas diventa l’ultima immagine del nichilismo totale: «crede nella composta d’ananas», «solo che non crede a nessuno. E se non crede a nessuno, disprezza tutti».
Il secondo dato particolare è legato alla parola «bene» che Liza pronuncia più volte. Questo bene, così come la composta, diventa una terribile giustificazione: «è un bene essere disprezzati. È un bene il bambino con le dita tagliate». Poniamo attenzione, Liza non dice che è bene – nel senso è giusto – essere disprezzato, ma che il disprezzo e il bimbo mutilato sono UN bene, come se fossero necessari, in quanto dimostrano la cattiveria dell’uomo; il male diventa bene, perché tramite il male comprendiamo il grado di perdizione dell’uomo: il male diventa necessario per la salvezza, così come Giuda è necessario per Dio nel piano della salvezza. D intravede in Liza qualche movimento dell’animo umano non ancora completamente realizzato: c’è in Liza qualcosa di profetico e di terribile, come se prefigurasse l’umanità nuova che nascerà e si formerà tra le due guerre, quella dei campi, quella di Hiroshima, quella di Dresda, un’umanità che uccide e mangia la composta d’ananas, un’umanità che si nutre di un nuovo sentimento, il disgusto di ogni cosa. «Tutto mi disgusta» dice Liza consapevole di ciò che lei è, e forse non è casuale che Liza sia uno dei pochi personaggi del racconto che infine si autodefinisce, avendo certezza del suo essere: «Le tremavano le labbra mentre bisbigliava tre sé e sé, svelta svelta: – Cattiva, cattiva, cattiva, cattiva!»