di Ramona Lacorte
Il 17 giugno 2022 ho trascorso il mio compleanno a Trieste, dove si celebrava il centenario dalla prima edizione integrale dell’Ulysses di James Joyce. Ho deciso di regalarmi i biglietti per assistere alla lectio di Mauro Covacich, costringendo il mio fidanzato ad accompagnarmi, spacciandolo per l’evento dell’anno, e accusando di scarso gusto i trentamila barbari diretti a Lignano Sabbiadoro per il concerto dei Maneskin.
Covacich, nato e cresciuto a Trieste, ha aperto il suo monologo raccontando di quando, giovane studente, trascorreva interi pomeriggi con i suoi colleghi a vagare per i vicoli della città, sulle tracce di Joyce. Quasi sempre quei pomeriggi terminavano davanti ad una birra, a parlare di letteratura, e a porsi i due grandi interrogativi che ogni aspirante scrittore si è posto almeno una volta: “Si può vivere di scrittura?” e “Ma tu, lo hai letto l’Ulisse?”
Ho sorriso commossa dietro la mia ffp2.
Ero stata appena annoverata da Covacich tra gli aspiranti scrittori..
No, penso che non si possa vivere di sola scrittura, e Si, io l’ho letto l’Ulisse. “Fa paura a tutti leggere l’Ulisse”. Sarà, ma ho avuto la fortuna di essere guidata nell’impresa da un Maestro, che un giorno ha chiesto se qualcuno avesse voglia di leggerlo o rileggerlo con lui. Siamo così partiti per quella che è stata ribattezzata l’Ulisseide. Demetrio Paolin ha formato un gruppo di perfetti sconosciuti che ogni settimana si incontrava per fare cose del tipo passare dieci giorni a interpretare correttamente l’espressione “No one is anything”.
Ma si sa, “Nessun libro, eccetto la bibbia, riesce a trasformare un gruppo si estranei in una comunità come fa l’Ulisse di Joyce”.
Ho letto metà del libro pensando che JJ fosse una persona estremamente scaltra, di quelle intelligenze pericolose, da cui mettersi al riparo e che avesse scritto tutte quelle parole solo per ubriacarci e burlarsi di noi. Mentre il gruppo provava a trovare un senso, io continuavo a sostenere che fosse tutta una farsa e che il senso di ogni parola era attribuito dal lettore a di volta in volta, per questo non si smetteva mai di litigare. Poi ho abbandonato le resistenze e come ha detto qualcuno “ho capito che dovevo coinvolgermi in simili azzardi e accettare il disordine delle parole come le mescolanze e variabilità delle fantasie”. JJ crea una stralingua in cui non è importante capire, ciò che conta è sentire la musicalità (d’altra parte si scrive con le orecchie) e “L’Ulisse non si legge, si esegue”.
L’abbandono definitivo è arrivato con il capitolo Circe. Alla diffidenza è subentrata la rassegnazione: JJ è totalmente matto, un matto che ha usato con maestria il caos che regnava nella sua mente. “Prendo appunti su pezzi sparsi di carta che poi dimentico nei luoghi più improbabili, in libri, sotto soprammobili, nelle mie stesse tasche, sul retro di volantini pubblicitari”.
Tutto quel frastuono che mi ha distrutto il sistema nervoso e costretto a prolungate pause dalla lettura, la violenza, la volgarità, le immagini deliranti di quella dimensione onirica esplodono nella figura angelica di un bambino di undici anni che “avanza silenzioso leggendo da destra a sinistra impercettibilmente, sorridendo, baciando la pagina”.
Le centinaia di note, la difficoltà di reggere alcuni capitoli in cui Joyce letteralmente sovverte lo stereotipo di letteratura creando un genere (il suo), si susseguono sino al capitolo diciassette.
“La giornata descritta nel romanzo è stata un fallimento per tutti, dal principio alla fine. Tutti i rapporti nel libro sono o superficiali o sfortunati”, “L’Ulisse parla di un passato disperato, di un presente ridicolo e di un futuro patetico”.
Il capitolo diciassette termina con un punto. Molto grande, in neretto, posto al di sotto del testo.
A questo segue il capitolo diciotto, il celebre monologo di Molly, la moglie di Leopold Bloom, con cui termina il romanzo.
Nell’ultimo disperato tentativo di ribellarmi a quel congegno diabolico e perfetto ho commentato: “ è sicuramente un errore di stampa!”.
No, sembrerebbe voluto, e che lo desiderasse ad ogni ristampa sempre più grande.
Abbiamo ragionato circa una settimana anche su questo.
“Qualcuno sostiene che rappresenti Le Colonne D’ercole”.
“NIENTEMENO!!!”, ho pensato mentre lavavo i denti, guardando la registrazione di un incontro perso.
Eppure, eppure quello sarebbe il punto esatto in cui finisce la terra e inizia l’ignoto. Il mare più impetuoso, indica il limite oltrepassato il quale non era più possibile fare ritorno. Ho immaginato che JJ volesse dirci che in quel punto esatto finisse la terra ferma. Il Plus Ultra. Quello che è dato sapere a noi marinari. Quello che è dato sapere a Bloom. E questa idea romantica si è rafforzata in me guardando il testo in lingua originale del Molly’s monologue. Si dice che non ci sia punteggiatura, ma come ci ha insegnato Demetrio due cose sappiamo con certezza sull’Ulisse: la prima è che la narrazione non si svolge in un solo giorno bensì in due, il 16 giugno (data in cui JJ conobbe sua moglie Nora) e il 17 giugno (per la precisione il venerdì nel quale, con Saturno in opposizione, venne al mondo la sottoscritta), la seconda è che nell’ ultimo capitolo a discapito delle dicerie esiste la punteggiatura, troviamo ben due punti.
Ho immaginato così l’ultimo colpo di genio di JJ, aggrappandomi a quei due punti dimenticati (?).
Il monologo nasce con la sua punteggiatura, è chiaramente presente, l’occhio non la vede ma l’orecchio interno la sente. Poi un giorno JJ ha deciso di “rendere il concetto” levando tutti i segni di interpunzione dal capitolo finale. Non come gesto fine a se stesso, non per ribadire che lui era il più figo e rivoluzionario di tutti. (Niente è casuale nell’Ulisse). Io sono qui oggi, per giurarvi, che nel GUARDARE una pagina del flusso di coscienza di Molly e l’Atlantico, non noto differenza alcuna.