di Demetrio Paolin
PUNTEGGIATURA. Il capitolo XVIII dell’Ulisse è, di certo, uno dei luoghi testuali della letteratura occidentale dove maggiormente si è concentrata l’acribia dei critici, dei filosofi, dei linguisti, degli antropologi e sociologi: nessuno sembra rimanere immune dal fascino che emanano queste pagine. Molly, che fa una breve comparsa nel cap IV, e poi nel capitolo X, quando la vediamo donare un soldo ad un medicante, e infine addormentata, piena di seme, goduta, distesa come la dea terra nel finale del capitolo XVII, si prende la scena, catalizza su di sé l’intera forza del romanzo, l’intera carica eversiva dell’opera di Joyce e, infine, cancella in un colpo, con un balzo, Bloom e Stephen che scompaiono dall’orizzonte; il monologo di Molly è un evento, narrativo, divorante dell’intera forma dell’Ulisse: l’impressione è che tutta la struttura, gli schemi, gli intimi collegamenti, gli interne corrispondenze si siano dissolte. La pluralità di voci, di fuochi narrativi, di stili, scelte letterarie, l’alternanza egli/io, il soliloquio, il testo teatrale, la predominanza del significante sul significato, il linguaggio scientifico, il dialogo socratico – in una parola lo “stile” che aveva prodotto i primi 17 capitoli del romanzo si dissolva in una lunga sequenza di parole, intervallate da solo due semplici punti fermi [XVIII, 1032; 1067].
Mi soffermerei inizialmente su proprio questi due semplici punti grafici, chiedendomi perché Joyce abbia deciso di inserirli, in quanto essenzialmente pleonastici, rispetto allo sviluppo delle pagine. La mia impressione è che voglia suggerirci come – come per il resto del romanzo – anche questo capitolo nulla non sia come sembra; ovvero che il monologo di Molly non debba essere visto tanto come un testo senza punteggiatura, ma come un testo la cui interpunzione è sprofondata, inglobata, nelle parole stesse, così da contenere in sé anche la ratio – la punteggiatura è prima di tutto un ordine del discorso poi una distribuzione di pause nella lettura – della frase. Difatti la “presunta” illeggibilità di Joyce, che qui dovrebbe giungere al suo culmine, proprio nel periodare di Molly trova la sua smentita più clamorosa: leggere il capitolo XVIII non presenta nessuna particolare difficoltà, se ci si concentra sulla forma-frase che Joyce ha costruito nel lungo tutte le pagine della sua opera, tanto che paradossalmente i pezzi “difficili” sono altri: i soliloqui di Stephen nel capitolo III e di Bloom nel capitolo VIII, o lo sperimentalismo linguistico del XI e XIV.
Prendiamo un passaggio dal monologo di Molly: «quelle sceme pensano che amare vuol dire sospirare io sto morendo ma se lo scrivesse lui credo che ci sarebbe qualcosa di vero e comunque vero o no ti riempie la giornata e la vita ed è sempre qualcosa a cui pensare in ogni momento e vedertela tutta intorno come un mondo nuovo potrei scrivere la risposta a letto per farlo fantasticare su di me una cosa corta poche parole soltanto» [XVIII, 1031]. Lo riporto in originale: «silly women believe love is sighing I am dying still if he wrote it I suppose thered be some truth in it true or no it fills up your whole day and life always something to think about every moment and see it all around you like a new world I could write the answer in bed to let him imagine me, short just a few words».
La lettura ad alta voce di queste righe mostra come il ritmo sia perfettamente coerente con andamento grammaticale della frase, la cui misura, ci avverte Franco Moretti, è in media di 7/8 parole; lavorando su questa ipotesi, ho ricostruito la punteggiatura (metto quella in inglese perché mi pare più calzante per l’esercizio di immaginazione che stiamo facendo e aggiungo che ovviamente questa è la mia particolare forma di punteggiatura; ogni persona, ogni lettore, ha una sua particolare idea di ritmo): «silly women believe love is sighing: “I am dying still”. if he wrote it, I suppose thered be some truth in it. true or no it fills up your whole day and life, always something to think about every moment, and see it all around you like a new world. I could write the answer in bed, to let him imagine me short, just a few words».
Mi pare che la lunghezza media della prosa di Joyce sia presente anche in questo capitolo, solo che, con una grande abilità, l’autore la nasconda. E quindi, per paradosso, queste pagine, che potrebbero essere lette come annunciatrici, preparatorie?, profetiche?, della scomparsa dell’autore, ne sono – nella realtà – una interessante sconferma: l’autore nel monologo di Molly non è solo presente, ma vivo e vegeto; egli lavora sotterraneamente, scava, sceglie le frasi, le parole, le giustappone in modo che la punteggiatura interna di Molly sia completamente “visibile” per chi legge. Ciò che a prima vista ci sembrava una sorta di “obliterazione” dello stile, una riduzione a zero di tutto l’armamentario retorico è un gioco di prestigio: scompare, è invisibile, ma è presentissimo e misurato in ogni opzione retorica del capitolo. L’intento che muove Joyce (questa scelta mi pare interessante) è produrre un testo, che nonostante tutto sia leggibile e cantabile; quasi se l’autore avesse trovato una misura (le famose 7 parole) della frase e su quella componesse la “melodia”. Molly è il metro del romanzo, è il ritmo del romanzo; la sua evocazione, nel corso dei capitoli non è tanto da vedere come una sorta di rappresentazione, abbassata, ironica della nostalgia che prova Ulisse nei confronti di Penelope, quanto come segreta invocazione allo spirito del romanzo. L’impressione è che Molly sia il romanzo che pensa se stesso, il romanzo che prende la parola, il romanzo denominato Ulisse che immagina se stesso e si mette in scena. Non c’è nulla di meta-letterario o meta-testuale in queste pagine, ma semplicemente è il “ritmo” di come le parole si combinano a prendere il sopravvento.
PAROLE. Il dato empirico, che ci colpisce maggiormente nel capitolo XVIII, è il continuo parlare di Molly; vedremo successivamente cosa dice, ma adesso ci interessa analizzare questo suo continuum: una-parola-dopo-l’altra è così che si presenta epilogo finale dell’Ulisse quasi Joyce volesse che lo leggessimo senza nessuna interruzione, come se la punteggiatura – appunto suggerita – si stemperasse e si perdesse in un ampio brodo di parole che si susseguono. Che cosa si cela dietro questa scelta?
L’impressione, almeno personale, è che queste pagine non siano un flusso di coscienza, ma un monologo “detto” dalla bocca di Molly. L’immagine, parola, “bocca” è presente nel capitolo XVIII, quando la donna descrive i baci, quando parla delle fellatio, quando racconta i momenti in cui canta; a conferma basti una citazione: «non avevo idea di cosa vuol dire baciarsi finché non mi ha messo la lingua in bocca e la sua bocca era una dolcezza di gioventù» [XVIII, 1033]. Molly è una grande bocca che parla, come se la donna adagiata e coricata sul letto, che l’autore descrive nel capitolo XVII, rappresenti due labbra pronte a schiudersi.
Il monologo di Molly, quindi, non ha mai un attimo di pausa, non prevede il silenzio come opzione: è un dire e un dire continuo. L’impressione, che si ha in queste sessanta pagine, è che Molly, e tramite lei Joyce, non voglia che il lettore faccia esperienza di silenzio. Nel 1921 Rosenzwieg pubblica Stella della redenzione, che rappresenta una una riflessione sullo statuto moderno della tragedia. Leggendo il monologo di Molly, che come abbiamo detto riassume in sé l’idea stessa, il ritmo, del romanzo, mi è tornata in mente una riflessione contenuta nel saggio: «L’eroe tragico ha soltanto un linguaggio che gli corrisponde alla perfezione: il silenzio». E qualche periodo più avanti continua: «Proprio per questo il tragico si è costruito la forma artistica del dramma: proprio per poter mettere in scena il silenzio. La poesia drammatica conosce solo il parlare, e solo per questo il silenzio diventa in essa eloquente». Molly è l’antitragico per eccellenza, non sceglie il silenzio, elegge se stessa a forma-parola, rappresenta concettualmente qualcosa che è precedente l’avvenire della tragedia e del personaggio tragico. Ecco perché lei parla, parla e parla: tale flusso di parole (più che di coscienza) avvicina Molly ai grandi personaggi comici del romanzo anatomico: a Gargantua e Pantagruel, al Morgante del Pulci, a Democrito Jr di Anatomia della Malinconia, al Donchisciotte di Cervantes. Molly è precedente a ognuno di loro, è la matrice di questi personaggi, come se Joyce ne avesse trovato l’origine, l’archetipo di coloro, che non lasciano spazio tra una parola e l’altra, perché nel caso l’esito sarebbe il silenzio e, quindi, la tragedia. Il romanzo del primo ‘900, soprattutto dopo gli anni ‘10, è un’opera, che in maniera più o meno esplicita, fa i conti con l’evento tragico della guerra. Il personaggio Molly è una risposta diversa allo choc percettivo e comunicativo di quell’episodio storico: la poetica del silenzio, del balbettio, dei frammenti con grandi spazi bianchi tra una parola e l’altra, che unisce Hemingway, Eliot e Ungaretti, che trova un correlativo nella prosa di Joyce (almeno fino al capitolo XVII), nasce comune e spontanea dopo la guerra del ‘14- ‘18, così come è ben descritta da Benjamin nel suo saggio Il narratore: «È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di cambiare esperienze. […] Una generazione che era ancora andata a scuola in tram a cavalli, si trovava sotto il cielo aperto, in un paesaggi in cui nulla è rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiale, il minuto e fragile corpo dell’uomo». La Grande Guerra, l’evento, ha impoverito il linguaggio, l’ha reso sterile, più incline al silenzio, al mutismo, ma con un miracolo, con una invenzione degna del genio, Joyce crea e dà voce a Molly, che non è un semplice personaggio, ma rappresenta la forma stessa del raccontare, che prende la parola e continua a narrare senza pause e interruzioni e, come una novella Sharazade, nel raccontare ci salva, dice Sì anche per noi.
CORPO. Il monologo di Molly contiene almeno due sparizioni interessanti; la più evidente è la scomparsa di Dublino. Se la città è stata onnipresente primi diciassette capitoli, qui svanisce del tutto. Nell’Ulisse i personaggi hanno sempre un rapporto stretto con i luoghi, interagiscono con essi, entrano in relazione; Joyce stesso è ossessionato nel ricostruire fedelmente i luoghi, i passaggi, gli edifici. Bloom – in un certo senso – è l’epitome e il risultato di questo atteggiamento, ma per quanto riguarda la resa narrativa di Molly tutto questo sembra meno necessario, tanto che i luoghi che Molly racconta sono in realtà più filtrati dal suo ricordo che eminentemente reali. Si potrebbe dire che il luogo in cui accade tutto sia l’interiorità di Molly, che quindi il capitolo XVIII potrebbe essere definito come una semplice resa stenografica dei pensieri della moglie di Leopold Bloom. Abbiamo visto, però, come questo non sia corretto, perché
a) il capitolo non è una riproduzione in presa diretta dei pensieri, in quanto invisibile c’è la mano dell’autore;
b) i pensieri di Molly, ancorché vagabondanti, riprendono i temi e immagini del romanzo (ovviamente il tradimento con Boylan, anche l’episodio dei cani, il marinaio, Rudy, il discorso notturno tra Stephen e Bloom, il tradimenti di Bloom);
quindi Molly contiene nelle sue parole tutto il romanzo, lo riassume in sé. Ho usato il termine “riassumere”, ma non è soddisfacente per il pensiero che voglio esprimere. Molly non è il riassunto del romanzo, come immagine è carente, non ne restituisce la complessità: così prendo a prestito la definizione che Jameson usa per tratteggiare l’organizzazione della prosa di Benjamin ovvero “costellazione”.
Molly è la “costellazione” dell’Ulisse, ovvero, usando la definizione del dizionario, è l’ “insieme di numerosi elementi analoghi raggruppati in un ampio spazio”: essa è il medium ( certo è da intendersi come “mezzo”, ma nello stesso tempo medium ha un coloritura occultistica che qui mi pare utile rimarcare) che Joyce utilizza per tenere insieme una struttura sul punto di esplodere, sul punto di negare se stessa. L’Ulisse è un insieme di luoghi, di temi, di stili, di immagini che abbiamo in questi appunti cercato di tenere insieme, ma che era sottoposta una forza centrifuga netta. Se il romanzo si fosse concluso al capitolo XVII chi avesse visto nell’Ulisse l’inizio, la prefigurazione, del postmoderno, oppure l’anticipazione a certe strutture rizomatiche del pensiero e, perché no?, la struttura della rete avrebbe avuto validi, anche se non decisivi, motivi di ragione; ma il cap XVIII modifica tutto, perché, infine, a tenere insieme ogni cosa appare Molly.
A scomparire insieme a Dublino è l’interiorità. Il flusso di pensieri di Molly è un tripudio di esteriorità: Molly parla del suo corpo, dei corpi altrui; sono pagine, queste del capitolo XVIII, in cui paradossalmente accadono più cose, e in cui i pensieri (il pensiero che pensa un pensiero) sono assenti: le parole di Molly non sono ragionamenti, non sono idee astratte, che partono dal gocciolare del rubinetto per arrivare a raccontare il ciclo dell’acqua, in una sorta di parodia del ragionamento platonico (si veda XVII, 913-916 ), ma raccontano “fatti”, accadimenti, per la maggior parte dei casi legati al corpo, al sesso, alla carne, alla vita che esplode e di cui lei è la catalizzatrice.
Molly è nel romanzo la vita che si oppone alla letteratura: «a me i fiori piacciono mi piacerebbe avere la casa che trabocca di rose Dio del cielo non cè niente come la natura le montagne selvagge e poi il mare e le onde che corrono e poi quella bella campagna con i campi di avena e grano e roba di ogni genere […] che ti farebbe bene allo spirito vedere fiumi e laghi e fiori di tutti i tipi di forme e profumi e colori possibili che spuntano su persino dai fossi primule e viole è la natura insomma e quelli che dicono che Dio non esiste non darei uno schiocco di due dita per tutta la loro cultura» [XVIII, 1065]. Se la letteratura in Ulisse è spesso rappresentata come un esercizio di sterilità, lo abbiamo visto con Stephen nell’appunto 10.1, la risposta di Molly e il tentativo – tra il paterno e l’incestuoso – di Bloom di spingere Dedalus nella braccia della moglie sono il tentativo di conciliare tali opposti. La rinuncia di Molly, però, non deve essere vista come una negazione. Contrariamente a L’uomo in rivolta di Camus, il cui il centro del suo discorrere è il “no”, Molly è il personaggio che afferma, che dice “sì”: questa parola torna spesso nel capitolo XVIII, ma la densità delle sue occorrenze aumenta considerevolmente nelle pagine finali, fino alle ultime 9 righe dove il termine “sì” torna 10 volte a ratificare il diritto della vita sulla letteratura, e a celebrarne il suo trionfo. L’Ulisse, quindi,rappresenta una strana aporia: è un romanzo che sancisce la vittoria della vita sulla letteratura con un personaggio romanzesco, Molly, che è prodotto da parole e costruito secondo con una precisa struttura retorica. Molly, infine, rappresenta il fallimento, o il naufragio, dell’Ulisse, ma ne è anche la sua più alta testimonianza di grandezza.