In Appunti di Lettura

Joyce, Ulisse, Appunto 8 [XIII-XIV, 517-632]

SEME /PADRE. Dopo il clamore della fuga con cui si chiude il capitolo XII, il tredicesimo episodio del romanzo si apre con una descrizione di calma: «La sera estiva aveva cominciato ad avviluppare il mondo nel suo misterioso abbraccio. Lontano ad ovest il sole stava tramontando e l’ultimo bagliore di fin troppo fuggevole giorno si attardava amorevolmente su mare e spiaggia […], sulla quieta chiesa da dove usciva a rompere di quando in quando il silenzio la voce della preghiera a colei che nella sua pura radiosità è un faro costante del cuore umano sballottato nella tempesta, Maria, la stella del mare» [XIII, 517].  In questa scena descritta con cura, il sole che tramonta, la spiaggia, gli scogli, il suono delle onde del mare alternato al suono delle litanie della chiesa dirimpetto, compaiono via via con maggiore precisione alcune donne con i loro bambini che giocano, le figure femminili vengono descritte nella loro quotidianità; il narratore, infine, concentra la sua attenzione su Gerty MacDowell: di lei abbiamo una sommaria  descrizione fisica, importata ad una sorta di stilnovismo: «il pallore creo del viso», la «bocca bocciolo di rosa», le mani di «alabastro» [XIII, 520]. A questo ritratto si accompagna una descrizione, condotta tramite indiretto libero, del suo animo altrettanto “libresco”, poetico: Gerty, che si strugge per l’attesa dell’amore, novella Bovary, spera nell’amore romantico dei libri, e sulla spiaggia si lascia andare alle sue fantasticherie romantiche, nutrite dell’apparire sul molo di un uomo, che la guarda e la osserva. Nel più che perfetto (così perfetto da sembrare ironica presa in giro) topos dell’amor de lonh, Gerty si trova a sognare e a immaginare questo uomo: «Dagli occhi bruni e dal pallido viso intellettuale aveva capito subito che era un forestiero, […]. Era in lutto stretto, questo lo vedeva, e sul suo viso si leggeva la storia di un dolore ossessivo. Avrebbe dato chissà cosa per sapere cos’era, questo dolore. […]. Era lui che importava, e lei si sentiva il viso invaso della gioia perché lo voleva, perché avvertiva  istintivamente che era diverso da tutti gli altri» [XIII, 533].

Lo straniero che la osserva fa nascere in lei in desiderio di mostrarsi e di sedurlo a distanza, inizia quindi uno gioco di sguardi e di eccitazione, che culmina nella scena dei fuochi d’artificio  quando Gerty atteggia il proprio corpo in modo che lo straniero le veda «tutto il resto, mutandoni di mussola, il tessuto che accarezza la pelle, meglio di quelli altezza sottoveste, […], e lei glielo permise e vide che lui vedeva […] e lei stava tremando in tutte le membra […] ma (lei) non se ne vergognò e lui nemmeno di guardare così in quel modo indecente» [XIII, 544]. Una scena di desiderio e di seduzione, conclusa da una immagine, «le loro anime si incontrarono in un ultimo sguardo indugiante e gli occhi che le arrivarono al cuore, pieni di uno strano scintillio, fluttuarono sul suo dolce viso in fiore» [XIII, 545],  romantica al limite del manierismo, che chiude la prima porzione del capitolo per lasciare spazio al punto di vista dello straniero a cui Gerty si è donata e ha mostrato il proprio corpo.

L’uomo, che noi abbiamo riconosciuto per alcuni indizi descrittivi, è Bloom e il suo apparire produce netto cambio stilistico. Ne è un esempio la descrizione di Gerty: «Camminava con una certa tranquilla dignità come tipico di lei ma con cautela e molto lentamente perché… perché Gerty MacDowell era… Scarpe strette? No. È zoppa! Oh» [ibidem]. La scelta joyciana di rivelarci, solo a questo punto della narrazione, la malformazione di Gerty serve a ridisegnare completamente le impressioni che avevamo avuto nella lettura delle pagine precedenti, e ad abbassare, a rendere più terreste e meno poetico, ciò che ci era sembrato tale, anche perché filtrato dagli occhi della ragazza. Osservata dalla prospettiva di Bloom abbiamo un’altra idea di quello che è successo; Bloom ci descrive il suo atto di voyeurismo come qualcosa di basso e terreno, che si oppone alla aerea bellezza di Gerty. Ciò che nella ragazza era gioco di sguardi, seduzione, amore, desiderio che trascende le distanze, per Bloom è un semplice atto di fisiologia: «Per fortuna quando si è esibita non lo sapevo. Un diavoletto in calore comunque» [XIII, 546], «Secondo me quella là ha capito che io. Quando ci si sente così capita spesso, quello che si sente. Chissà se le sono piaciuto» [XIII, 547]. Tutta la poesia di Gerty, in cui anche il desiderio e la malizia sessuale sono promesse amorose, viene da Bloom ridotta a puro elemento organico: «Il signor Bloom con mano cauta si aggiustò la camicia umidiccia. Oh signore, quella diavoletta zoppa! Comincia a dare un senso di freddo e di appiccicoso. L’effetto non è piacevole, dopo. D’altra parte bisogna più liberarsene in qualche modo». [XIII, 549]. L’idea dell’umidiccio e della spiacevolezza dello sperma torna in altre occasioni lungo il capitolo, «questo umidiccio è molto sgradevole» [XIII, 553], come se Joyce volesse sottolineare il dato solamente materiale dell’atto. In realtà la masturbazione di Bloom è legata al possibile, presunto, tradimento di Molly, evocato con l’orologio da taschino fermo: «Veramente strana la storia del mio orologio. Quelli da polso vanno sempre male. Chissà se c’è magari un influsso magnetico con la persona, perché era circa l’ora che lui. Sì, credo, immediatamente» [ibidem]. Nella ridda dei pensieri di Bloom in cui spesso ci si perde, troviamo/tornano alcuni temi: il tradimento (come abbiamo già visto), la razza e l’esilio, «che ci ha portato fuori della terra d’Egitto e nella casa della schiavitù» [XIII, 561], ma anche e sopratutto il  concetto dell’identità, «credi di aver tagliato la corda e ti imbatti in te stesso» [XIII, 558].

L’atto che Bloom compie più che masturbatorio è onanistico. Solitamente si dice che Onan disperda il proprio seme per terra perché non vuole avere figli, nella realtà nel libro della Genesi si legge diversamente: «Allora Giuda disse a Onan: “Unisciti alla moglie del fratello, compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità per il fratello”. Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva per terra, per non dare una posterità al fratello» (Gn 36, 8-9). La scelta di Onan non è una scelta di semplice sterilità, ma è una scelta di identità: i figli generati dal suo atto non sarebbero stati considerati suoi, ma di suo fratello. Per questo motivo decide di disperdere il suo seme per terra. Bloom vive una situazione simile, perduto Rudy, sta cercando un figlio, o meglio sta cercando di essere un padre, perché l’orfanità produce appunto al perdita della propria identità, il non sapere chi si è. Non è un caso infatti che nelle pagine finali del cap XIIIsi legga un indovinello: «IO.// […] Chinarmi, vedere la mia faccia lì dentro, specchio buio, alitargli sopra, si increspa. […] . SONO. UN.» [XIII, 565]. Cosa è Bloom? Cosa desidera essere? Il tema dell’identità che era divenuto centrale nel capitolo precedente, il XII, in contrapposizione con il Cittadino, qui si pone in modo drammatico. IO. SONO.UN., questa frase anche grammaticalmente manca di predicato nominale, è una copula sterile, orfana: si apre a un bisogno che non può essere in alcun modo definito.

LINGUA/MADRE. La chiusa del capitolo XIII con il suo IO. SONO. UN potrebbe suonare meno stravagante se, seguendo la suggestione di Terrinoni, la leggessimo in inglese «I. AM. A» (Terrironi infatti non traduce questo indovinello). A questo punto potremmo provare proprio come in un rebus a  dividere le lettere diversamente, ad esempio scrivendo “I A MA” ovvero “io una ma(dre)”: tale ipotesi solutori si collegherebbe alla fantasia dell’uomo “incinto”, che aleggia nel romanzo dall’inizio, ma che abbiamo già trovata citata esplicitamente nella discussione della biblioteca [IX, 324: il riferimento a Calandrino e al Boccaccio]. 

Tale suggestione potrebbe aiutarci a leggere uno dei capitoli complessi dell’intero romanzo, il capitolo XIV, il quale rappresenta un vero tour de force di scrittura, oltre ad essere una sfida improba per i traduttori: in questo capitolo Joyce attraversa, usa e parodizza tutti i tipi di inglese scritto – da quello più antico fino a quello in uso nella sua contemporaneità – fino a trasformarlo in un suono privo di ogni contatto con la realtà storica del tempo, arrivando a descrivere una sorta di stato onirico del linguaggio.

Il capitolo si svolge tutto all’interno della sala d’attesa di un ospedale, dove Bloom è andato a trovare una donna che sta per partorire: ancora una volta, quindi, il tema della lingua e il tema della nascita si intrecciano, come si intrecciano il tema della identità e della sterilità (sopratutto per quanto riguarda il tema della contraccezione che in un certo senso riprende la metafora onanista di cap XIII). C’è un legame profondo e fondamentale tra questo capitolo e due precedenti. Se l’Ulisse è il romanzo di una nuova umanità, nata dalle ceneri della prima guerra, è necessario che questo uomo nuovo rinneghi l’uomo vecchio (Paolo nella lettera agli Efesini): il gesto scatologico e corporale di Bloom, la sua masturbazione e i pensieri che ne conseguono, sono un passaggio di svuotamento di sé, del farsi vuoto e pronto ad essere riempito. Questo è il primo passaggio, ma non è sufficiente. L’identità, soprattutto per uno scrittore, sta tutta nella lingua, bisogna, quindi, che anche la lingua vecchia venga sostituita da una lingua nuova. Così il capitolo XIV è una graduale, lenta e testarda rinuncia a quella lingua che è stata patrimonio e tesoro di Joyce, del quale l’Ulisse rappresenta l’apice e la fine. Se è vero che «il testo è una lingua in azione» (definizione geniale di Halliday) nelle pagine del capitolo XIV ne abbiamo una ampia dimostrazione: leggendo cap XIV vediamo la lingua madre di Joyce nascere, formarsi e perdersi, e cambiare, diventare altra, perdere lentamente le sue coordinate e diventare infine qualcosa di irriconoscibile, che annuncia la nascita di un uomo nuovo, di un nuovo essere umano: «Tu sei, dichiaro solennemente, in assoluto il più notevole dei progenitori in questa prolissa onnicomprensiva quanto mai farraginosa cronaca. Straordianrio! Dentro di lei risiedeva una Diostrutturata Diocreata preformata possibilità che tu hai fecondato con il tuo pizzico di azione virile» [XIV, 625].

Si rinuncia a una lingua per trovare una nuova lingua, in cui il dato grammaticale deve essere abbandonato per quello più marcatamente sonoro; come già accennato nel capitolo XI, è il significante a dominare. A questo punto della lettura è chiaro che nell’Ulisse la varietà, l’eterogeneità dei capitoli, dei personaggi e degli stili è lungi da essere percepita come una perdita di centralità, è ricerca di una nuova matrice, di un nuovo ordine e sintassi: «Ogni passo, ogni frase, ogni frammento di frase diventa comprensibile solo in rapporto ad altro. L’Ulysses bisogna leggerlo come una partitura; si potrebbe stamparlo così. Per capire davvero bisognerebbe avere presente a ogni frase tutta l’opera – cosa che rasenta l’impossibile» (Curtius, James Joyce e il suo “Ulysses”).