In Balloon

«Nessuno può mettere i miti in un angolo»: o di come Orfeo ed Euridice resistono al tempo – Parte I –

di Carmen Rampino

«Ti interessi di mitologia greca, Justin?»
«Non proprio signore».
«Mai sentito parlare del mito di Aracne?»
«Direi di no, Mr. Osborn».
«Secondo la leggenda, Atena – conosci Atena, vero? – sentì parlare di questa donna sulla terra – una semplice mortale, come te e me – che era una tessitrice migliore di lei». 
[…]
«Atena non fu affatto felice di questo, e scese sulla Terra per distruggere le creazioni della donna. Quando la ragazza si rese conto di quel che era successo – cioè che aveva offeso gli dei e che tutti i suoi lavori erano stati distrutti si impiccò. Atena ebbe pietà della povera ragazza, le bagnò la fronte con un liquido magico e disse: “tu non morirai, Aracne. Sarai invece trasformata e tesserai per sempre la tua tela”. Alle parole di Atena, Aracne si rimpicciolì e divenne nera. Prima le caddero il naso e le orecchie, poi le sue dita si trasformarono in zampe. Quel che restava di lei divenne il corpo e da esso iniziò a tessere la sua tela» (Bendis-Bagley 2004, p. 23). 

Abbiamo appena letto l’incipit – una sorta di proemio – di un recente remake del più famoso tra i supereroi Marvel, l’Uomo Ragno, ideato nel 1962 da Stan Lee e Steve Ditko. Tale riscrittura è Ultimate Spider-Man, scritto da Brian Michael Bendis e disegnato da Mark Bagley a partire dall’ottobre del 2000. Questa si presentava come una rilettura contemporanea del celebre supereroe, rilettura che mirava a far emergere anche le sfumature più complesse, contraddittorie e umane del personaggio: un adolescente alle prese con i superpoteri, ma anche con costanti sensi di colpa, rimorsi, la crescita, e l’amore. Che Spider-Man sia uno dei miti della storia del fumetto mondiale – intendendo per mito un simbolo universale che concentra i sogni e i desideri di una intera comunità – è cosa certa, ma che esso stesso possa prendere le mosse da quelle gesta di dei e semidei che altrettanto chiamiamo miti è cosa ancor più interessante e affascinante. In ogni poema che si rispetti la prima soglia di accesso è data da un proemio, quella parte in cui vengono condensati i temi dell’opera e in cui non si manifesta una vera e propria azione. Nel caso in esame questa parte così delicata e importante è occupata proprio dal mito di Aracne, perché è proprio da qui che tutto trae origine. La capacità del mito di travalicare i secoli è senza dubbio uno dei suoi più peculiari caratteri. Tra i materiali mitici più sfruttati nella storia della letteratura vi è senz’altro quel vecchio ma mai logoro archetipo di Orfeo ed Euridice. Solo in ambito letterario e solo in ambito italiano, si potrebbero citare Orfeo e Proserpina  (1929) di Sem Benelli, il racconto L’inconsolabile tratto dai Dialoghi con Leucò  (1947) di Cesare Pavese, l’Orfeo vedovo  (1950) di Alberto Savinio, L’altra Euridice (1971) che oggi si può leggere in Tutte le cosmicomiche  di Italo Calvino, Il ritorno di Euridice in L’uomo invaso  (1986) di Gesualdo Bufalino e molti altri, e questi solo nel Novecento, altrimenti l’elenco potrebbe estendersi fino a comprendere la Fabula di Orfeo di Angelo Poliziano, scritta fra il 1479 e il 1480, l’Orfeo di Monteverdi (1607) fino all’Orfeo ed Euridice di Gluck (1762). Ovviamente le riscritture di miti classici comportano delle novità e dei nuovi spunti di lettura e a volte anche delle reinterpretazioni che possono risultare esagerate, fastidiose, se non addirittura scandalose. Ed è parzialmente questo ciò che accadde nel 1969 quando fu pubblicato Poema a fumetti da Dino Buzzati. In questo caso il disagio e il turbamento degli intellettuali derivava in gran parte dalla forma scelta da Buzzati: il fumetto. Come era possibile che uno scrittore così “serio” come il bellunese potesse dedicarsi ad un divertissement come il fumetto? Eppure la lettura di questo capolavoro si rivela un’esperienza di autentica poesia e come le altre riscritture permette di affrontare questioni universali, come l’apparente assurdo gioco della vita e della morte. Qui Orfeo è diventato Orfi ed è un cantante, anzi un cantautore, che vive nella Milano industrializzata degli anni Sessanta, figlio di una famiglia di nobili decaduti. Canta e suona la chitarra nel locale notturno Polypus, dove ogni notte manda in estasi tanti minorenni. Una sera, dalla finestra della sua casa in via Saterna, vede scendere da un’auto e entrare in un edificio attraverso una porta chiusa Eura, giovane ragazza di cui è innamorato. Il giorno dopo scopre che Eura è morta per un male misterioso. Così decide di andare presso quella porticina in cui l’aveva vista passare, perché vuole scoprire a tutti i costi dov’è Eura. Qui gli viene detto da uno strano uomo verde che non può passare, perché non è morto. Orfi, però, non si ferma, inizia a suonare la chitarra che ha portato con sé e alla fine la porta finalmente si apre. Non si trova in un giardino, come immaginava, ma in una stanza chiusa. Il primo essere che vede è una donna. È questo l’Ade e a guardia di esso non ci sono mostri, ma donne, le creature orribili che rappresentano una tentazione costante per il protagonista e che dovrebbero far desistere Orfi dalla sua impresa. Inizia il descensus ad inferos, ma per poter incontrare Eura deve cantare e suonare per i dannati ricordando loro le bellezze della vita alle quali essi guardano in modo nostalgico. Dopo aver superato la prova, riuscirà a rincontrare Eura. Quando la vede lui vuole fare di tutto per riportarla nel mondo dei vivi e con il suo orologio le ricorda ossessivamente che il tempo sta per scadere e devono affrettarsi. Lei, però, sa benissimo che non potrà in ogni caso seguirlo, perché non è possibile farlo. Richiede solo un abbraccio, ma lui non riesce neanche a fare questo, pensa di potere tutto con la sua chitarra, ma questa volta non è così, anche il canto ha un limite: «povera favola di Orfeo. Anche se tu non ti volterai indietro, non servirebbe lo stesso. Adagio, ti prego, Orfi, io sono stanca. Tutti qui siamo stanchi» (Buzzati 2017, p. 205). È la rottura della quarta parete, è il momento metaletterario per eccellenza, in cui si esce dalla finzione e ci si richiama per la prima ed unica volta alla favola di Orfeo, quel buon vecchio mito che, però, proprio in questo punto cambia radicalmente forma. Lei sa bene che i miti non esistono e che non si può sfuggire dalla morte. La colpa non è di Orfi o di Eura. A prescindere dalle loro azioni, l’ineluttabilità della morte che non si può sconfiggere prevale. Eppure quando Orfi, preso da una forza invincibile, si ritrova in via Saterna e l’uomo verde, che ricompare, gli dice che tutto è solamente un sogno ed Eura dorme un sonno eterno sottoterra, si accorge di stringere tra le mani l’anello di lei, l’unico oggetto posseduto dal suo corpo nudo che Orfi, fuggendo, aveva rimosso. «E allora, questo anello? Ma lo sconosciuto non c’era più. La strada era completamente deserta» (Buzzati 2017, p. 219). Tutto rimane così, sospeso tra la tormenta di anime in pena (cfr. Buzzati 2017, p. 220), gli ultimi re delle favole che vanno in esilio (cfr. Buzzati 2017, p. 221) e le nubi dell’eternità che passavano lentamente (cfr. Buzzati 2017, p. 222).