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Conversazioni sul fumetto a partire da Un bracciale di stelle di Umberto Mentana e Giuseppe Guida

di Carmen Rampino

Ci sono immagini che prendono il loro alito di vita dalle parole.

Ci sono parole che si animano grazie alle immagini.

Ci sono immagini che non solo rendono la parola più incisiva, ma la accarezzano dolcemente, diventando indispensabili per essa, affinché si possano esprimere concetti che, in altri modi, difficilmente potrebbero esprimersi.

Ci sono molte parole mute e paralizzate se non hanno il supporto delle immagini.

Il miracolo che nasce quando questi due linguaggi si incontrano è storia, precisamente una storia, quella del graphic novel. Definito da Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia come «uno dei fenomeni più straordinari della letteratura contemporanea» (Calabrese–Zagaglia 2017, p. 7), l’emergere del graphic novel ha rappresentato una vera e propria rivoluzione. Per avvicinarci sempre più all’interno del laboratorio artistico di quest’arte senza tempo, abbiamo approfittato della recente pubblicazione (novembre 2023) per La Ruota Edizioni di Un bracciale di stelle (Mentana-Guida 2023), graphic novel scritto da Umberto Mentana e disegnato da Giuseppe Guida, per analizzare più da vicino i ferri di un mestiere che richiede una fatica e una perizia da orafo o miniaturista. In questo caso si è trattato di un lavoro durato due anni. Come ci ha spiegato il disegnatore Giuseppe Guida, l’opera è una particolare trasposizione a fumetti di un libro del 2019, Io mi dono,della giornalista foggiana Michela Magnifico, la quale collabora con l’associazione AIL (Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma). Infatti, il fumetto pone al centro le storie vere di malati e volontari dell’associazione, narrate all’interno della cornice finzionale che vede la giovane giornalista Greta imbattersi nell’associazione AIL di Foggia, venendone travolta e cambiata per sempre attraverso le storie di dolore, forza, lotta e resistenza che verrà a conoscere. Se Io mi dono era un libro dossier contenente le storie vere dell’associazione AIL di Foggia, la trasposizione a fumetti, con un pizzico di fantasia, riesce forse in maniera ancora più calda e penetrante ad arrivare al cuore dei lettori attraverso i colori, le metafore disegnate e le immagini che stringono la gola e si attaccano alla pelle del lettore, come quella della morte, non così perfida come ci si aspetterebbe, ma una cara morte, quasi eco buzzatiano del Poema a fumetti del ’69.

L’AIL sezione di Foggia è la prima in Italia ad aver deciso di affidare al fumetto la possibilità di narrare la sua storia, proprio con il preciso scopo di arrivare a quante più persone possibili. Tale scelta è estremamente eloquente dal punto di vista del medium e del momento florido che sta vivendo. Il fumetto si configura sempre più come luogo in grado di sensibilizzare, divulgare senza essere didascalico, un vero e proprio strumento politico trasversale. In questo caso al centro ci sono i temi del volontariato, dell’altruismo, dell’associazionismo, temi che hanno un’immediata ricaduta sociale. Come ci conferma Guida, negli ultimi 10 anni il fumetto è entrato nelle scuole, in cui vengono abitualmente adottati testi sull’antimafia o il razzismo a fumetti. Da strumento considerato nocivo per le giovani generazioni, si è dunque arrivati alla convinzione che non solo con tale linguaggio si possa trattare qualunque argomento, ma anche in maniera più efficace, incisiva e toccante. Per approfondire meglio i segreti di quest’arte quasi ossimorica, quella che può fare critica sociale, però toccando le corde più profonde della nostra emotività, quella che divulga in maniera gentile, ma allo stesso tempo ribelle e disubbidiente, e per approfondire la sfida della riscrittura trasformando un libro di non fiction in un libro di fiction, abbiamo incontrato direttamente i due creatori e conversato con loro sul progetto realizzato e sulle sorti del fumetto.

Ciao, potete raccontarmi come è nato questo progetto?

G.: Il progetto nasce dall’associazione AIL di Foggia. Io sono stato contattato da Michela Magnifico, giornalista di TeleFoggia, attiva collaboratrice dell’associazione e autrice di Io mi dono del 2019, da cui è tratto il fumetto. Esattamente, l’idea di produrre un fumetto è nata ad un primo evento AIL al Teatro Giordano, in cui io disegnavo dal vivo. Ho conosciuto lì tutta l’AIL e, in particolar modo, Michela, che mi ha lanciato la proposta. Quindi, conoscendo Umberto, e intuendo poi anche la struttura che poteva e doveva avere la storia, abbiamo iniziato a collaborare.

Se si tratta di una trasposizione a fumetti del libro di Michela Magnifico Io mi dono (2019), perché realizzare un fumetto da un libro già esistente?

G.: Perché loro volevano dare continuità al messaggio dell’associazione arrivando ai giovani. Il mezzo più efficace qual è? La lettura di un fumetto.

Quale tecnica è stata utilizzata per la parte grafica?

G.: In questo lavoro io ho riposto il mio stile, il mio tratto, che non è realistico, ma collocabile tra il cartoon e il grottesco. Conoscendoci, Umberto mi ha lasciato la libertà di potermi muovere e insieme abbiamo cercato di dare continuità allo stile, alla dinamica e soprattutto alla colorazione, scelta particolare perché abbiamo optato per questo turchese/celeste, un colore di speranza soprattutto per chi ha sofferto, in contrasto con il tradizionale bianco e nero, proprio per far trasparire anche un senso di leggerezza. Questa costante attenzione per i dettagli spiega anche perché ci siano voluti più anni per portare a termine il progetto.

Effettivamente si vede che ogni piccolissimo elemento è frutto di una scelta mai casuale. Ma è stato fatto in digitale?

G.: Sì, io lavoro in digitale da un anno e mezzo più o meno.

E invece a livello linguistico che lavoro è stato fatto? E come, in un secondo momento, la sceneggiatura e la parte grafica sono state messe insieme? Come è stato mescolare parole e immagini affinché diventassero una cosa sola?

U: Tutto il discorso è partito da un libro che non era un romanzo o un libro di finzione ma un libro reportage, un libro dossier di testimonianze in cui sono riportate le varie vicissitudini sia dei malati che dei volontari, senza un vero e proprio filo narrativo. Io poi ho operato un lavoro di traduzione attraverso le immagini dando una continuità narrativa. Quindi il libro di raccolta di testimonianze della giornalista Michela Magnifico, intitolato Io mi dono, adesso ha dato vita ad un’altra cosa, che ha un’altra natura. Da lì io ho cercato di selezionare le testimonianze, quelle un po’ più “filmabili”, cioè quelle che potevano essere benissimo rese per immagini, e da quelle poi ho cercato una continuità finzionale attraverso la creazione di Greta, personaggio di mia invenzione. Greta è una giornalista che arriva un bel giorno nell’AIL di Foggia e scopre una realtà totalmente nuova, fatta di persone che lottano, ma anche di volontari che praticamente si applicano anima e corpo per trovare una soluzione e alleggerire vite. Accanto a questo, nel libro compaiono tante altre situazioni anche visivamente interessanti, come la malattia che si personifica o la morte, che pure ha una certa sensibilità per gli affari dei vivi e non è connotata in maniera negativa, anzi vi è tutta una parte che ho chiamato proprio I doni della morte, citando, in un certo senso, Harry Potter. Poi si è lavorato sulle singole immagini e sulle singole inquadrature: in fondo lo sceneggiatore funziona anche un po’ da regista nel fumetto, perché a differenza del regista cinematografico e dello sceneggiatore cinematografico che sono figure staccate, nel fumetto c’è un connubio delle due.

Quindi le redini ce le avevi tu di fatto?

U.: Sì, della parte narrativa sì. Io lavoro con un approccio molto visivo anche nella creazione dei testi. Infatti non scrivo solo la sceneggiatura con le battute, ma lavoro sulle immagini, sugli storyboard. Quindi lavoro già disegnando qualcosina abbozzato (perché sono totalmente incapace di disegnare) proprio per vedere l’impatto della tavola, il ritmo, il montaggio. Da lì faccio tutto un fumetto muto. Questo è il mio modo di lavorare, ma ci sono altri sceneggiatori che sono molto narrativi perché provengono dal romanzo. Io, provenendo dalla sceneggiatura cinematografica, dal cinema e da produzioni video, ho un approccio visivo, ma non c’è un modo giusto o sbagliato di lavorare. Però di base si parte da questo libro che non era narrativo e si è cercato di dare una continuità. Infatti si presenta come se fosse diviso un po’ in capitoli perché ci sono tante storie che si intrecciano e poi si riuniscono in un cerchio, il bracciale di stelle appunto.

E poi questo storyboard provvisorio viene dato a Giuseppe?

U: Sì, che lo lavora a seconda del suo stile, mantenendo un po’ le mie indicazioni, ma anche inserendovi del suo.

E in questa fase tu hai già scritto i testi definitivi?

U.: In questa fase dipende anche dalle richieste della casa editrice, perché dobbiamo sempre tener conto della sua revisione. Se chiedono già di inviare la sceneggiatura con i testi sì, però di base a Giuseppe potevo anche inviare a scaglioni degli storyboard provvisori.

Forse è anche più difficile svolgendo in due il lavoro?

U.: Sono lavori diversi secondo me, perché il disegnatore ha un suo approccio, che è diverso da quello del narratore. Poi, ovviamente, ci sono anche, pensiamo a Zerocalcare o Gipi, disegnatori che sono pure autori, ma loro hanno un approccio da narratori, nel senso che sì, sono anche bravissimi disegnatori, ma il loro obiettivo è soprattutto narrare la storia. Secondo me chi è realmente narratore si deve veicolare verso la parte narrativa che è anche una parte per immagini, perché lo sceneggiatore a fumetti lavora di sintesi, cioè una immagine deve già narrare qualcosa, non ci deve essere necessariamente il testo che deve spiegare. Affiancando semplicemente una immagine all’altra ci deve essere già una natura di progresso della storia.

Oggi non solo il fumetto ha molta visibilità, ma sempre più sembra quasi l’unico medium in grado di rimanere un cantuccio di sensibilità, impegno, quasi di “militanza”. Quanto è importante il fumetto per diffondere messaggi delicati come questo? La sua ibrida e doppia natura in qualche modo riesce ad essere più incisiva? Perché si sceglie proprio questo medium?

U.: Secondo me è cambiato il modo di recepire proprio la cultura. Siamo nella civiltà delle immagini, del successo della serialità televisiva, che ha un potenziale meno registico ma più da scrittori. Siamo continuamente circondati da immagini in movimento, da disegni, da foto, quindi questo è il modo non solo per avvicinare le nuove generazioni, ma in generale fa più presa perché la cultura del tempo è cambiata. Il cosiddetto Zeitgeist è cambiato perché siamo circondati da immagini.

Se non ho capito male, a voi è stato chiesto di fare questo progetto. Da ciò ci si poteva aspettare che la questione potesse essere affrontata come una sorta di sovrastruttura imposta dall’esterno quasi in modo forzato e soprattutto didascalico, eppure sembra che il tema lo abbiate fatto vostro, diventando a tutti gli effetti un bisogno personale. Dunque, quale rapporto, prima di tutto a livello umano, e poi artistico, vi lega alla causa?

U: Alla fine commissionato o non commissionato, uno è libero sempre di accettare o meno un progetto. Siamo autori, abbiamo una certa sensibilità per alcuni temi e per altri no. Questo progetto, parlo per me personalmente, era interessante, anche al di là del tema trattato, per la sfida di traduzione, traduzione da un libro che non era narrativo a una trasposizione in immagini. Era una nuova sfida che non avevo mai affrontato. Solitamente io scrivo su soggetti totalmente originali, quindi di mia invenzione, in questo caso invece si tratta di un soggetto solo parzialmente di mia invenzione, perché è tutto un gioco di puzzle, di incastri. Però mi piaceva l’idea di fare un riadattamento a fumetti.

G.: Se il progetto è nato è sicuramente perché ci ha emozionati un po’ tutti profondamente. Questo è il mio primo progetto che affronta una tematica così delicata, soprattutto poi nel come è stata interpretata nei disegni: pensiamo alla rappresentazione della morte. Spesso si leggono fumetti fantasy o horror, in cui il tema viene trattato con un’altra metodologia tecnica. In questo caso si è cercata una modalità tale che anche un bambino può avere un approccio emozionante, simpatico e non duro o forte. Aggiungo che il libro sta andando in tournée nelle scuole. Crediamo che questo linguaggio, questo modo di far leggere un fumetto sia un intervento importante e interessante. Dunque siamo orgogliosi di aver potuto realizzare il progetto.

Un’opera del genere presuppone una sorta di asimmetria tra chi deve dare voce all’altro e l’altro che, per quanto interpellato e coinvolto, non parla direttamente. Nel fare questo lavoro avete sentito il peso di una responsabilità? Cioè in un momento in cui tende a prevalere molto l’io nelle narrazioni contemporanee, non solo quelle a fumetti, voi avete scelto di scrivere una storia di tutt’altro tipo: come si fa a dare voce ad altri? In questo caso si tratta, tra l’altro, anche di persone viventi.

U.: È un lavoro complesso. Infatti è strano affrontare dal vivo i personaggi che erano su carta. Oggi, in conferenza stampa, è stata la seconda volta che ho incontrato il dottor Ferrandina (ematologo e presidente AIL Foggia divenuto uno dei protagonisti del fumetto N.d.R.) di persona, a parte una presentazione all’interno di una manifestazione dell’AIL di un paio di anni fa, quando il progetto è partito, ed è particolare vedere queste persone che sono persone reali. È una strana sensazione assistere a questo fenomeno. Ricorda un po’ una sensazione di cui, come ultimamente leggevo, ha parlato Paola Barbato, l’autrice di Dylan Dog e di romanzi thriller. Lei raccontava che adesso è partita la lavorazione per un film, Mani nude,tratto da un suo romanzo e, incontrando gli attori, diceva di provare questa strana emozione nel vederle vivere quelle creature che erano su carta. Nel nostro caso è ancora ulteriore il passaggio, perché sono ritratti di vita reali e non sono personaggi partoriti solo su carta. La responsabilità ovviamente è tanta perché si tratta anche di temi molto delicati. Per noi è stata un’esperienza totalmente immersiva da un punto di vista emotivo, perché si racconta la lotta con la malattia, l’impegno per rendere a volte meno sofferente e a volte sconfiggere questa terribile malattia. Quindi ci siamo sentiti estremamente responsabili nel dare voce a persone che hanno donato questo impegno per riuscire a diffondere le loro voci, perché comunque stiamo parlando delle loro vite, non sto inventando nulla, cioè solo parzialmente.

Negli ultimi anni sempre più persone si interrogano sul fumetto, sul suo successo ma anche sulla sua precarietà, voi che previsioni vi sentite di fare su questa nona arte?

U.: Ahia, altra responsabilità. Sicuramente il fumetto vive di buona salute, perché, sempre ritornando al discorso legato ad una civiltà totalmente dedita alle immagini – immagini in movimento, immagini disegnate e così via – io credo che, anche grazie alle potenzialità del web, il medium possa rinnovarsi e trasformarsi, ma non scomparire. Pensiamo ai web comics che tutti conosciamo: in quel caso è cambiata la loro fruizione, perché anziché sfogliare le pagine, le scrolliamo, si potrebbe dire che è un po’ un ritorno ai papiri, andando nella verticalità e non seguendo il punto di vista orizzontale del voltapagine. Dunque le possibilità sono infinite, ricordiamoci che si tratta di un medium nato alla fine dell’Ottocento, quasi in corrispondenza con il cinema, e che i primi fumetti apparvero sui quotidiani. Io credo, dunque, solo che il fumetto possa prendere nuove strade, come ha fatto anche il cinema e la televisione.

TESI CITATI.

Stefano Calabrese – Elisabetta Zagaglia, 2017, Che cos’è il graphic novel, Roma, Carocci editore.

Michela Magnifico, 2019, Io mi dono, Molfetta, la meridiana.

Umberto Mentana – Giuseppe Guida, 2023, Un bracciale di stelle, Roma, La Ruota Edizioni.

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«Nessuno può mettere i miti in un angolo»: o di come Orfeo ed Euridice resistono al tempo – Parte II

di Carmen Rampino

La catabasi di Orfeo ha ovviamente continuato a ispirare altre molteplici opere, talvolta pure di nuovo a fumetti. Lo stesso Andrea Pazienza, il più alternativo, radicale e anticonformista tra i fumettisti di tutti i tempi, con Gli ultimi giorni di Pompeo in fondo non ha fatto altro che rielaborare originalmente questo descensus ad inferos. A ben pensarci, anche Pompeo fa un viaggio verso gli inferni, gli inferni della droga, e ne ottiene uno scacco. Proprio come Orfeo, ha violato ciò che non bisognava violare, in questo caso «ha violato l’interdetto più tremendo del nostro secolo, LA DROGA, ha guardato ciò che non doveva vedere e ora non è più la sua Euridice che cerca disperatamente e non potrà mai avere, ma qualcosa di diverso e ugualmente terribile» (Formento 1997, p. 5). 
Inferni, droga, mito di Orfeo ed Euridice… tanti temi diversi che possono incontrarsi e rivivere nel presente, in una modalità particolarmente interessante. Oggi scopriamo infatti che il mito può acquistare nuova linfa persino su Netflix, anche in maniera pop e di fronte a milioni e milioni di spettatori di tutto il mondo. Questo accade proprio al mito di Orfeo o, meglio, di Euridice, nell’ultimo recente successo di Zerocalcare, Questo mondo non mi renderà cattivo. Essendo una serie di animazione, il mito trova ancora una nuova forma, oltre che nuove chiavi di lettura alternative. La serie non certo parla del mitico cantore della Tracia. Infatti si tratta di una storia tutta contemporanea, una storia politica, civile, in cui la vicenda privata di un amico che torna in quartiere dopo tanti anni di assenza si incrocia con quella collettiva di un centro di accoglienza, del “pacco” contenente 35 persone rigettato da tutti. È la storia di come spesso la rabbia, il rancore, la frustrazione di un capitalismo sempre più sfrenato finisca per porci gli uni contro gli altri, creando una guerra orizzontale tra poveri che dovrebbero stare dalla stessa parte e mettere in discussione, come fanno i “dinosauri”, lo stato delle cose. I tre amici Zero, Secco e Sarah in questa avventura si trovano in commissariato e attraverso un flashback, che percorre tutti gli episodi, si capirà cosa è successo. La serie, di grande attualità, mantiene un ritmo intenso, che però richiede almeno una doppia visione. Cosa c’entra, però, il mito in una narrazione come questa? Il primo episodio, che termina con l’arrivo di Cesare dopo 20 anni, si chiude con queste parole: 

E non sapevo bene che domande fargli. Perché, c’hai presente Orfeo e Euridice? Ecco, è come se quel cojone non se girava, riusciva a portà a Euridice fuori dall’inferno e poi je chiedeva… che se fa là il fine settimana? Te sei imparata a giocà a padel? Ma ce sta un bar che proietta la serie A? Boh… e quella giustamente non je vuole risponde, perché chissà che cazzo ha passato. Me pare pure legittimo. Per questo è così difficile pure fa le chiacchiere stupide. Perché io non lo so che se chiede a uno che è appena tornato dall’inferno 

Ritornano, dunque, Euridice e il suo inferno, però in questo caso Cesare è appena tornato da una comunità di riabilitazione per tossicodipendenti. È questo l’inferno a cui si allude. La metafora, poi, viene ripresa anche alla fine del secondo episodio:

È che non ce sta Orfeo dentro a sta storia. Ce sta solo Euridice che va all’inferno, e nessuno che la va a cercà. E dopo vent’anni riesce a tornà da sola quando ormai nessuno se la ricordava più e tu te stupisci pure se non è più la stessa

A queste parole si sovrappone l’alternarsi di immagini di Euridice in tunica che torna a casa e chiede prosaicamente un passaggio in macchina a quelle di Cesare che a sua volta torna a casa. Sembra che i due si vadano in contro sulla stessa strada, fino a sovrapporsi del tutto. Ad essere persa negli inferi, dunque, non è Euridice o, meglio, non solo lei, ma un ragazzone alto e grosso di nome Cesare. Con il suo volto corrucciato e inquieto, lo stesso Cesare diventa Euridice. Come sottofondo di questo momento così intenso si ascolta Bits of Kids degli Stiff Little Fingers. È questa la novità di tale riscrittura: non si tratta solo di parole, ma di un intreccio di parole, disegni in movimento, musica, espressioni indelebili dei volti. La metafora, in questo modo, è vivida e si aggrappa agli spettatori, senza abbandonarli mai. Sebbene nella serie non verrà ripresa più apertamente, anche alla fine ritornerà alla mente quell’immagine di Euridice. Perché in fondo il senso è tutto racchiuso qui dentro, in queste note mitiche, malinconiche e agrodolci, come malinconico e agrodolce sarà il finale della serie. In questa circostanza il mito, che compare in una piccola parte, e che ha alle sue spalle secoli di storia, diventa una chiave di accesso, addirittura un pertugio per introdursi in una storia tutta contemporanea. E non è l’unica volta in cui nella serie il materiale mitico viene sfruttato. Infatti, interessante è poi scoprire che ancora prima di questo mito, sempre nel primo episodio, ne compare un altro. Zero, sicuro di non essere arrestato perché ormai ha fatto una serie per Netflix e può fare quello che vuole, viene rimproverato dalla mamma Lady Cocca che gli dice al telefono: 

vabbè sei troppo securo de te. Ricordate sempre il figlio de Dedalo, coso, come se chiama, Icaro, che stava in fissa de volà sempre più in alto senza mai mette ‘na sciarpetta per riparasse la gola che fine ha fatto. 

Contemporaneamente scorrono le immagini di Zero vestito da Icaro con la tunica greca bianca, ma con il riconoscibilissimo teschio sul petto, e le ali e infine si legge l’epitaffio: Icaro portato via da una brutta bronchite. Questa divertente commistione alto-basso oltre a suscitare il riso, ci permette di riflettere ancora su quanto terribilmente popolari possano essere i miti. Molte volte il fumetto, didascalicamente, è stato usato per trasmettere in modo accessibile dei miti o i grandi classici della letteratura, altre volte, però, può accadere il contrario: il mito è talmente popolare da poter facilitare la comprensione di una storia. 

TESI CITATI.
Brian Michael Bendis – Mark Bagley, 2004, L’uomo ragno. Identità segreta, in “I classici del fumetto di Repubblica. Serie oro”, Modena, Panini.
Dino Buzzati, 2017 (1° ed. 1969), Poema a fumetti, Milano, Oscar ink.
Giovanni Formento, 1997, Il mito in Buzzati e Pazienza, un parallelo impossibile o una staffetta riuscita?, in «Bolle», n. 27, dicembre.

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«Nessuno può mettere i miti in un angolo»: o di come Orfeo ed Euridice resistono al tempo – Parte I –

di Carmen Rampino

«Ti interessi di mitologia greca, Justin?»
«Non proprio signore».
«Mai sentito parlare del mito di Aracne?»
«Direi di no, Mr. Osborn».
«Secondo la leggenda, Atena – conosci Atena, vero? – sentì parlare di questa donna sulla terra – una semplice mortale, come te e me – che era una tessitrice migliore di lei». 
[…]
«Atena non fu affatto felice di questo, e scese sulla Terra per distruggere le creazioni della donna. Quando la ragazza si rese conto di quel che era successo – cioè che aveva offeso gli dei e che tutti i suoi lavori erano stati distrutti si impiccò. Atena ebbe pietà della povera ragazza, le bagnò la fronte con un liquido magico e disse: “tu non morirai, Aracne. Sarai invece trasformata e tesserai per sempre la tua tela”. Alle parole di Atena, Aracne si rimpicciolì e divenne nera. Prima le caddero il naso e le orecchie, poi le sue dita si trasformarono in zampe. Quel che restava di lei divenne il corpo e da esso iniziò a tessere la sua tela» (Bendis-Bagley 2004, p. 23). 

Abbiamo appena letto l’incipit – una sorta di proemio – di un recente remake del più famoso tra i supereroi Marvel, l’Uomo Ragno, ideato nel 1962 da Stan Lee e Steve Ditko. Tale riscrittura è Ultimate Spider-Man, scritto da Brian Michael Bendis e disegnato da Mark Bagley a partire dall’ottobre del 2000. Questa si presentava come una rilettura contemporanea del celebre supereroe, rilettura che mirava a far emergere anche le sfumature più complesse, contraddittorie e umane del personaggio: un adolescente alle prese con i superpoteri, ma anche con costanti sensi di colpa, rimorsi, la crescita, e l’amore. Che Spider-Man sia uno dei miti della storia del fumetto mondiale – intendendo per mito un simbolo universale che concentra i sogni e i desideri di una intera comunità – è cosa certa, ma che esso stesso possa prendere le mosse da quelle gesta di dei e semidei che altrettanto chiamiamo miti è cosa ancor più interessante e affascinante. In ogni poema che si rispetti la prima soglia di accesso è data da un proemio, quella parte in cui vengono condensati i temi dell’opera e in cui non si manifesta una vera e propria azione. Nel caso in esame questa parte così delicata e importante è occupata proprio dal mito di Aracne, perché è proprio da qui che tutto trae origine. La capacità del mito di travalicare i secoli è senza dubbio uno dei suoi più peculiari caratteri. Tra i materiali mitici più sfruttati nella storia della letteratura vi è senz’altro quel vecchio ma mai logoro archetipo di Orfeo ed Euridice. Solo in ambito letterario e solo in ambito italiano, si potrebbero citare Orfeo e Proserpina  (1929) di Sem Benelli, il racconto L’inconsolabile tratto dai Dialoghi con Leucò  (1947) di Cesare Pavese, l’Orfeo vedovo  (1950) di Alberto Savinio, L’altra Euridice (1971) che oggi si può leggere in Tutte le cosmicomiche  di Italo Calvino, Il ritorno di Euridice in L’uomo invaso  (1986) di Gesualdo Bufalino e molti altri, e questi solo nel Novecento, altrimenti l’elenco potrebbe estendersi fino a comprendere la Fabula di Orfeo di Angelo Poliziano, scritta fra il 1479 e il 1480, l’Orfeo di Monteverdi (1607) fino all’Orfeo ed Euridice di Gluck (1762). Ovviamente le riscritture di miti classici comportano delle novità e dei nuovi spunti di lettura e a volte anche delle reinterpretazioni che possono risultare esagerate, fastidiose, se non addirittura scandalose. Ed è parzialmente questo ciò che accadde nel 1969 quando fu pubblicato Poema a fumetti da Dino Buzzati. In questo caso il disagio e il turbamento degli intellettuali derivava in gran parte dalla forma scelta da Buzzati: il fumetto. Come era possibile che uno scrittore così “serio” come il bellunese potesse dedicarsi ad un divertissement come il fumetto? Eppure la lettura di questo capolavoro si rivela un’esperienza di autentica poesia e come le altre riscritture permette di affrontare questioni universali, come l’apparente assurdo gioco della vita e della morte. Qui Orfeo è diventato Orfi ed è un cantante, anzi un cantautore, che vive nella Milano industrializzata degli anni Sessanta, figlio di una famiglia di nobili decaduti. Canta e suona la chitarra nel locale notturno Polypus, dove ogni notte manda in estasi tanti minorenni. Una sera, dalla finestra della sua casa in via Saterna, vede scendere da un’auto e entrare in un edificio attraverso una porta chiusa Eura, giovane ragazza di cui è innamorato. Il giorno dopo scopre che Eura è morta per un male misterioso. Così decide di andare presso quella porticina in cui l’aveva vista passare, perché vuole scoprire a tutti i costi dov’è Eura. Qui gli viene detto da uno strano uomo verde che non può passare, perché non è morto. Orfi, però, non si ferma, inizia a suonare la chitarra che ha portato con sé e alla fine la porta finalmente si apre. Non si trova in un giardino, come immaginava, ma in una stanza chiusa. Il primo essere che vede è una donna. È questo l’Ade e a guardia di esso non ci sono mostri, ma donne, le creature orribili che rappresentano una tentazione costante per il protagonista e che dovrebbero far desistere Orfi dalla sua impresa. Inizia il descensus ad inferos, ma per poter incontrare Eura deve cantare e suonare per i dannati ricordando loro le bellezze della vita alle quali essi guardano in modo nostalgico. Dopo aver superato la prova, riuscirà a rincontrare Eura. Quando la vede lui vuole fare di tutto per riportarla nel mondo dei vivi e con il suo orologio le ricorda ossessivamente che il tempo sta per scadere e devono affrettarsi. Lei, però, sa benissimo che non potrà in ogni caso seguirlo, perché non è possibile farlo. Richiede solo un abbraccio, ma lui non riesce neanche a fare questo, pensa di potere tutto con la sua chitarra, ma questa volta non è così, anche il canto ha un limite: «povera favola di Orfeo. Anche se tu non ti volterai indietro, non servirebbe lo stesso. Adagio, ti prego, Orfi, io sono stanca. Tutti qui siamo stanchi» (Buzzati 2017, p. 205). È la rottura della quarta parete, è il momento metaletterario per eccellenza, in cui si esce dalla finzione e ci si richiama per la prima ed unica volta alla favola di Orfeo, quel buon vecchio mito che, però, proprio in questo punto cambia radicalmente forma. Lei sa bene che i miti non esistono e che non si può sfuggire dalla morte. La colpa non è di Orfi o di Eura. A prescindere dalle loro azioni, l’ineluttabilità della morte che non si può sconfiggere prevale. Eppure quando Orfi, preso da una forza invincibile, si ritrova in via Saterna e l’uomo verde, che ricompare, gli dice che tutto è solamente un sogno ed Eura dorme un sonno eterno sottoterra, si accorge di stringere tra le mani l’anello di lei, l’unico oggetto posseduto dal suo corpo nudo che Orfi, fuggendo, aveva rimosso. «E allora, questo anello? Ma lo sconosciuto non c’era più. La strada era completamente deserta» (Buzzati 2017, p. 219). Tutto rimane così, sospeso tra la tormenta di anime in pena (cfr. Buzzati 2017, p. 220), gli ultimi re delle favole che vanno in esilio (cfr. Buzzati 2017, p. 221) e le nubi dell’eternità che passavano lentamente (cfr. Buzzati 2017, p. 222). 

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Lo strano caso dell’invisibilità dello scrittore di fumetti: “L’Uomo con la faccia in ombra” – Tito Faraci (Feltrinelli Comics, 2022)

di Umberto Mentana

Era il 1983 quando Alfredo Castelli, dominus per eccellenza del fumetto seriale italiano portava in stampa con la collaborazione di Gianni Bono e Silver – il “papà” di Lupo Alberto – un agile manualetto intitolato emblematicamente Come si diventa autore di fumetti, allegato alla storica rivista Eureka della Editoriale Corno. In quelle snelle ma intense circa sessanta pagine veniva per la prima volta messo in chiaro un concetto che sembrava e tuttora sembra essere scontato ma che ancora non riesce a fare breccia nel lettore-fumettaro: dietro ad ogni storia a fumetti c’è qualcuno che scrive e sceneggia una storia, e non per forza questo qualcuno (o qualcuna) è capace o semplicemente non vuole e non è suo compito disegnarla! Castelli, onnivoro sceneggiatore e soggettista delle testate più note del fumetto seriale italiano, da Martin Mystére a tantissimi altri, non per ultimo Diabolik – di sua firma è infatti l’idea di base dell’inedita “trilogia” sceneggiata da Tito Faraci di cui è protagonista il “Re del Terrore” conclusasi proprio questo Novembre in occasione del sessantesimo compleanno del personaggio creato da Angela e Luciana Giussani –, nel suo libriccino dedicava finalmente spazio alla figura e al ruolo dello “scrittore per immagini”, anzi per vignette, cosa mai accaduta prima di allora nel panorama culturale italiano, arrivando appunto anche a proporre come trasformare un soggetto puramente letterario in un testo “atto ad essere illustrato”. Dicevo, ne sono passati decenni, e la lezione di Castelli-Bono-Silver, nonostante abbia aperto più di una porta è purtroppo tutt’oggi ancora per lo più confinata agli addetti ai lavori, ed è invece per riflesso lo stereotipo che vige e domina il microuniverso fumettistico: “Come dici, scrivi fumetti? Quindi sai disegnare!”, siamo ancora ben fissati a questo punto, anche se qualcosa si muove almeno per quanto riguarda la considerazione del fumetto su scala nazionale. Fenomeni letterari come Zero Calcare, Gipi, Fumetti Brutti e la triste nomenclatura che è stata affibbiata loro di “autori completi”, visto che sia scrivono che disegnano le loro storie (come se i “soli” disegnatori o sceneggiatori non fossero completati a loro volta) hanno per certi versi scardinato nel nostro territorio tanto indisponente sul fumetto quel sistema di analisi del medium fumettistico come letteratura di serie B –  roba che in Francia sarebbe impensabile, vista l’alta considerazione che ha sempre avuto la bande dessinnée – proprio per i contenuti profondi e stimolanti delle loro storie e assecondando l’assurdo compromesso della tanto dibattuta dicitura “Graphic Novel” per i loro libri, tanto comoda al mercato editoriale ma che sempre fumetto rimane (ricordatelo!). Perlomeno  oggigiorno non c’è libreria italiana che non abbia una sezione fumetto, nonostante siamo tradizionalmente il Paese di geni artistici riconosciuti unanimemente come Andrea Pazienza, Magnus, Milo Manara, Hugo Pratt; è decisamente un passo in avanti per quanto riguarda la divulgazione della Nona Arte ma il lettore è ancora lì, a dibattere che non ci può essere una figura professionale che si occupa solamente di scrivere la storia e di “metterla in scena” per poi consegnarla al disegnatore o alla disegnatrice di turno.

            Tito Faraci è sicuramente uno dei nomi più noti se parliamo di scrittura nell’ambito del fumetto, è un autore camaleontico, ci continua a portare quasi ogni mesi da ormai qualche decennio in universi su carta molto differenti tra loro, in storie ugualmente accattivanti che hanno in comune, solo apparentemente dietro le quinte, la firma de L’uomo con la faccia in ombra. Ed è infatti proprio questo il titolo dell’ultimo lavoro di Faraci per, possiamo definirla una major (aggiungo, finalmente!) Feltrinelli Comics, collana da lui stesso curata, e questa volta non è un fumetto ma qualcosa di meglio: è la posizione perfetta da cui spiare e osservare come effettivamente si fa un fumetto, ovvero come si scrive una storia per la Nona Arte, posizionando finalmente al centro e non più in “ombra” lo sceneggiatore di fumetti. Faraci è abile ed è un appassionante insegnante non restio a svelare i segreti del suo “metodo” di scrittura, ci racconta come delineare tutti gli aspetti della stesura di una storia per immagini in particolare per il fumetto seriale, dalla “forma” archetipica e anatomica alle definizioni e alle componenti di una visual grammar di base, così passando in rassegna la scelta delle inquadrature, la “recitazione” dei personaggi e consigli direttamente maturati da casa Diabolik, Dylan Dog, Tex e Topolino non mancando di presentarci integralmente alcune delle sue pagine di sceneggiatura. Il libro, accompagnandosi con le efficaci illustrazioni di Paolo Castaldi è una miscellanea, è un manuale e anche un’autobiografia dove l’esperienza non solo professionale ma anche interamente umana di Luca “Tito” Faraci si riflette nel suo metodo, nel suo sentire carnalmente quelle storie che noi tutti amiamo tanto leggere come ci racconta nell’incipit del libro: “Faccio fumetti per vivere. Mi piace dirlo. Non lo trovo svilente. Perché dovrebbe? Significa affermare un rapporto di intimità e necessità con il fumetto”, e noi tutti siamo grati a Tito per aver finalmente sviscerato con questo libro tramite tutte le sue sensibilità l’importanza dello sceneggiatore di fumetti…perché un fumetto non lo realizza solo chi sa disegnare, anzi!

Tito Faraci

L’uomo con la faccia in ombra

Feltrinelli Comics, 2022, pp. 224