In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte VII

di Demetrio Paolin

In FK, Parte quarta, Libro dodicesimo, cap. IX, leggiamo: «Amleto ce l’hanno gli altri, a noi per ora sono toccati i Karamazov». Durante la lettura si è parlato molto del romanzo saggio e dei rapporti tra La montagna incantata e i FK. Si potrebbe citare in questo contesto il lavoro sul romanzo saggio di Ercolino, dove il testo di Mann è visto come il prototipo di romanzo-saggio, perché i dialoghi tra i personaggi sono il movimento verso la verità, che si ottiene proprio lungo le battute tra di loro, che cambiano e si modificano lungo la narrazione, la struttura dei FK, dice sempre Ercolino, è invece tragica, i personaggi hanno un destino/necessità/etc etc e quello è dall’inizio alla fine. Paradossalmente la citazione sembra fornire appigli proprio alla interpretazione di Ercolino, ma nella mia esperienza di lettore questa idea che i FK siano una tragedia non è convincente proprio alla luce della citazione in cui si affiancano Amleto e i Karamazov. 
Nei personaggi della tragedia il destino è già deciso, pre-iscritto nella loro vita: Edipo può fare ciò che vuole, ma infine egli deve uccidere il padre e sposare la madre. C’è nel personaggio tragico qualcosa di assolutamente immobile, fisso e predefinito, che in nessun modo è riscontrabile nei personaggi dei FK. L’Ivan della prima parte non è l’Ivan della seconda: l’euclideo lascia spazio al febbricitante folle; neppure Alesa è identico: la disperazione che lo attanaglia nella morte di Zosima è differente dalla professione di fede della fine del racconto; un discorso simile vale anche per Dimitri: il balordo della prima parte non è simile all’uomo disposto ad accettare il suo destino di fuggiasco e di scacciato dal paradiso terreste della Russia. 
Mi pare che i personaggi abbiano degli sviluppi e in alcuni casi anche sostanziali: ma non sono i dialoghi a produrre queste modificazioni esistenziali. Negli FK i dialoghi sono quasi sempre degli a parte, in cui viene dimenticato l’interlocutore. Quindi D e Mann sono distanti, su questo Ercolino ha pienamente ragione, perché ne La montagna incantata il dialogo è una dialettica produzione della verità, mentre in FK particolarmente i dialoghi spesso girano a vuoto e prevale l’impressione che questi siano monologhi intrecciati, come se il personaggio parlasse a sé e avesse bisogno di sentire la propria voce pronunciare le parole a voce alta. 
In tal senso la pluridiscorsività che Bacthin individua come una delle caratteristiche principali dell’opera dei romanzi di D non è tanto orchestrazione dei diversi tipi di linguaggi, quanto la parcellizzazione degli stessi: ogni personaggio diventa il suo linguaggio e il suo discorso, contiene in sé la sua verità formalmente comunicabile, ma non condivisibile con gli altri personaggi del romanzo.  Il riferimento all’Amleto e l’intuizione di Stenier in Tolstoj o Dostoevskij, dove D viene descritto come un genio essenzialmente drammatico sono a questo punto del ragionamento centrali. Abbiamo sostenuto che le battute di dialogo tra i protagonisti suonano come monologhi; ora, il monologo è primariamente una struttura drammatica, nella quale il protagonista parla da solo, mette fuori ciò che ha dentro: è una tecnica narrativa che inscena l’interiorità, ma nella realtà fattuale dell’opera, nella sua rappresentazione, il protagonista – durante il monologo – non è solo, non parla da solo, ma parla al pubblico, al quale – concretamente – vengono indirizzate le parole. La mia impressione è che FK, come gli altri romanzi di D, siano dialogici, ma che il dialogo non si risolva all’interno del testo, ma tra il personaggio e il lettore: il personaggio comunica al lettore la sua verità, non la dice per convincere o per convincersi, ma semplicemente la enuncia per quella che è in modo che il lettore la conosca. 
Questo parrebbe confermare l’ipotesi di Ercolino, ma il problema sta nella stoffa della verità esposta nei monologhi; infatti, la dose di verità che D affida a questi “dialoghi” paralleli si modifica lungo il percorso del romanzo; i personaggi dei FK sono dei caleidoscopi, la loro verità non è mai la stessa, la loro parola muta di volta in volta. Si pensi solo al poema dell’Inquisitore di Ivan e al dialogo tra Ivan e il diavolo; è chiaro ai nostri orecchi di lettore che tra le due scene sia avvenuto qualcosa che ha prodotto una radicale diversità tra il primo e il secondo. Il loro destino, il destino dei personaggi dei FK, non è tragico, ma al massimo comico, la parabola di Ivan in tal senso è emblematica perché rappresenta una costante e continua umiliazione di sé, è una esperienza di vergogna e di viltà, che è un topos (il riferimento è ad Agamben Categorie Italiane) della narrativa.
L’unico personaggio nel quale sembra sussistere, per un certo grado di narrazione, il germe della tragedia è Dimitri. Anzi, potremmo spingerci a dire che il nocciolo della sua interiorità sembrerebbe essere tragico. Sin dal suo apparire nelle pagine Dimitri compie ogni possibile gesto per essere percepito in tal senso. Si presenta come un parricida, il cui destino è segnato: tutto sembra volgere a suo favore, ma lui non ha ucciso il padre, lui non è Edipo, la sua non è una tragedia ma un semplice errore giudiziario. 
Ma il riferimento ad Amleto? Non è Amleto una tragedia? Per rispondere a queste domande concentriamoci su un’immagine del dramma di Shakespeare: Amleto entra in scena, dopo aver visto lo spirito, ha in mano un libro, legge (Amleto, II, 2), così alla richiesta di Polonio «Cosa leggete mio Signore», Amleto risponde «Parole, parole, parole». Viene da chiedersi perché Shakespeare dopo aver fatto incontrare lo spettro e Amleto, decida di far entrare in scena il protagonista con libro, e perché questo libro viene descritto come un insieme di parole vuoto? Che legame c’è tra il libro e lo spettro, tra le parole dello spettro e le parole del libro? Nel Piccolo Organon Brecht fa una osservazione interessante, legando il destino del protagonista e alla temperie culturale: «Vediamo dunque come in tali circostanze un giovane -ma già adiposo- gentiluomo faccia un uso assai maldestro della nuova scienza, appresa da poco all’università di Wittenberg. Nei conflitti del mondo feudale, la scienza gli è di impaccio. Di fronte ad una realtà assurda, la sua ragione manca di senso pratico ed egli cade vittima della contraddizione tra il suo ragionamento e la sua azione». 
Amleto che legge libri è un rappresentante della nuova cultura, della nuova idea di uomo: ha frequentato le istituzioni più moderne d’Europa, è figlio di quel riso, di quella volontà di bellezza, di quel desiderio di sapere che, ad esempio, Rabelais mette in bocca al protagonista del suo poema; eppure, dopo l’apparizione dello spettro tutto quel sapere e ognuno di quei libri diventano parole vuote, ripetute. Perché   avviene questo? Perché, stando a Brecht, lo spettro ha mostrato ad Amleto come quel mondo – che la cultura umanista voleva cancellare, che immaginava finito – quel mondo di serpi, magie, maledizioni, oltretomba è ancora presente e reclama in un certo senso il suo intervento. Rispetto a quel mondo, l’intelligenza razionale di Amleto è completamente inservibile e inutile. Amleto vive, quindi, in un momento di crisi, di cambio di paradigma sociale, antropologico e politico che è, se vogliamo, una delle testi che Schmitt definisce con chiarezza in Amleto o Ecuba. 
Tornando a FK, possiamo notare come tutti i personaggi leggano, e questo loro leggere è spesso sentito come “fuori fuoco” rispetto a come essi si presentano sulla pagina; c’è da sottolineare come i Karamazov siano dei lettori “pessimi” perchè la maggior parte non comprende quello che legge: né esempio più clamoroso Smerdjakov, circondato di libri in francese, che appunto per lui non sono  altro che parole. Il discorso che Brecht e, in un certo senso, Schmitt fanno per Amleto, mettendo in evidenza come la sua crisi, la sua modernità, la sua inquietudine che tanto ci affascina da sembrare nostra, sia proprio il passaggio tra due mondi, tra due sistemi politici, tra due realtà, potrebbe essere declinato anche per i FK, la cui ambientazione temporale è proprio dopo l’abolizione della servitù della gleba (un momento di certo delicato all’interno della forma stato che ebbe la Russia). Questi personaggi sono catapultati in un mondo che non capiscono, sono ansiosi di uccidere il padre e di vedere la modernità, ma contestualmente ne sono sopraffatti, come Amleto hanno intuito qualcosa di nuovo, grande e moderno, ma come il principe danese, durante la narrazione, qualcosa li ricaccia indietro, rendendo impossibile la loro emancipazione. 
Date queste premesse possiamo dire che Amleto è una tragedia sui generis, anzi chiunque assista a una sua rappresentazione o legga il testo l’impressione che il protagonista sia maggiore, più ampio e più complesso dell’opera in cui è contenuto: Amleto non è un eroe tragico, così come lo intendiamo nel teatro, ma è in realtà l’eroe che mette in crisi l’idea della necessità, del destino, che rinvia, ripensa, re-immagina la sua vita e le sue azioni; esce dalla stessa trama dell’opera di Shakespeare. Biontani nel suo saggio su Amleto dichiara che non siamo noi a interrogare e interrogarci su Amleto, ma è lui che non smette di interrogare noi. D nei FK compie qualcosa di simile, quindi il riferimento all’opera di Shakespeare è molto profondo: in primo luogo Amleto è un’opera drammatica che pare essere la prediletta da Dostoevskij (ricordiamo Steiner): Dostoevskij è uno scrittore che tende a costruire testi come se fossero atti drammatici, scene in cui i personaggi parlano, dialogano, ognuno con la propria lingua e alcune volte questi linguaggi tra di loro così diversi non cooperano: ne può essere un esempio il dialogo tra Ivan e Alesa. Amleto è un’opera drammatica spuria, dove Shakespeare gioca con la stessa struttura, inizia con una tragedia della vendetta, vira verso la black-comedy, passa al teatro nel teatro, conclude nuovamente come una tragedia il cui finale per quanto simile a quello di una tragedia di vendetta è a ben vedere molto diverso. 
Shakespeare prende e utilizza ciò che gli serve dalla tradizione, dalla storia, dalla modernità del suo tempo e lo porta dentro la sua opera che si fa aperta; è in questo senso veramente una sorta di menippea, di genere non genere, di ordine narrativo disordinato. Anche nei FK entrano in gioco diversi repertori narrativi: le agiografie dei monaci, i testi filosofici, il giallo, il romanzo gotico, il romanzo lacrimevole, la cronaca giudiziaria: tutto viene usato senza soluzione di continuità, senza una vera spiegazione, senza un ordine, in una sorta di “ordine disordinato”, che potrebbe essere una plausibile definizione del romanzo di D.  I FK, così come L’Amleto, possiedono quindi una uguale e tenace idea, tipicamente romanzesca, ovvero quella di produrre una immagine dell’uomo nel tempo che passa, mentre il tragico è mosso da un’altra istanza narrativa ovvero di dare l’immagine dell’uomo nell’eterno immutabile.