In Tu con Zero - Le interviste

Settimana Pasolini – Intervista a Walter Siti

di Pierluigi Mantova

Il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini fu massacrato barbaramente al Lido di Ostia. Quella notte ci ha privato di una delle voci intellettuali più solide e più contrastate del Novecento italiano. In occasione dell’anniversario della sua scomparsa abbiamo intervistato Walter Siti che, oltre a essere un critico letterario e uno scrittore, è uno dei più grandi studiosi di Pasolini. Docente presso l’Università di Pisa e della Calabria, in seguito professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università dell’Aquila. Dal 1994 ha pubblicato romanzi, tra cui il premio Strega Resistere non serve a niente (2012) e il tanto discusso Bruciare tutto (2017), oltre svariati saggi su riviste italiane e straniere. È stato il curatore delle opere complete di Pasolini per la collana editoriale I Meridiani della Mondadori.  

1.         A quale livello e in che modo, secondo lei, letteratura e cinema dialogano in Pasolini?

«C’è una cosa che ho pubblicato qualche anno fa che si chiama Il sole vero e il sole della pellicola, dove tratto proprio il tema di come, secondo me, in Pasolini l’idea del cinema è nata da una specie di crisi della poesia in versi. Nel senso che la coincidenza di date è abbastanza evidente, a parte alcune sceneggiature che lui aveva fatto prima, diciamo così, per vivere: le sceneggiature per Bolognini o l’aiuto che aveva dato come sceneggiatore a Fellini oppure, prima ancora, il film di Soldati con Sophia Loren sono dei lavori di tipo “servile”, non è che lui riconoscesse molto di se stesso in quelle sceneggiature.

L’unica che lui interpreta come se fosse un romanzo fatto con altri mezzi è La notte brava che, fondamentalmente, è una specie di replica di Una vita violenta con la stessa ambientazione e personaggi molto simili. Il suo vero passaggio al cinema avviene poi con Accattone, tra il 1960 e il 1961, e coincide con una sua crisi, molto evidente nella poesia, che è soprattutto metrica nel senso che smette di scrivere in terzine e comincia a scrivere in versi liberi. Per lui è una crisi notevole perché significa, sostanzialmente, affrontare l’informe e quindi anche l’informe della Storia, la perdita dei riferimenti marxiani e poi quella che lui chiamerà, nei primi anni Sessanta, la “nuova barbarie”. In quel momento, credo ci sia un po’ l’idea che con i versi non riusciva più a catturare la realtà e quindi la volontà di passare a una forma espressiva che fosse più potente delle parole. C’è un suo saggio dove, parlando della macchina da presa, dice che è una macchina che non inutilmente si chiama “da presa”, come se il verbo “prendere” fosse fondamentale in questa espressione e quindi come se la macchina da presa fosse capace di catturare più realtà di quanto non potesse farlo la poesia con le sole parole, perché pensa che la lingua del cinema abbia come fonemi, quindi come elementi basilari, gli oggetti stessi della realtà, dunque usare la forma del cinema significa usare una forma estetica che ha, all’interno dei suoi elementi formali, gli oggetti della realtà stessa e quindi i volti e poi i corpi. Io ho l’impressione che quello che ha condotto Pasolini verso il cinema sia stato fondamentalmente questo: cioè il desiderio di avvicinarsi a un genere artistico che gli consentisse di “mangiare” quanta più realtà di quanto non fosse possibile usando soltanto la forma letteraria.»

2. Quale tra le opere letterarie reputa la più “cinematografica” e per quale ragione?

«Ho l’impressione che i suoi due romanzi romani da questo punto di vista stranamente non siano molto “cinematografici”. Nel momento stesso in cui si avvicina al cinema, in letteratura fa soprattutto cose non finite. Si avvicina all’idea del “non finito” nei racconti dopo Accattone, dove c’è una forma immaginata come “cinematografica”. Tant’è vero che comincia a immaginarli lasciando al lettore alcune possibilità d’interpretazione: ciò è molto presente in Teorema romanzo, ad esempio, dove Pasolini lascia al lettore delle possibilità di opzione, comincia a pensare le sue opere letterarie come strutture che vogliono essere integrate da qualcos’altro, per esempio, con delle fotografie, come nell’Appendice a La Divina Mimesis o in Petrolio. È come se la letteratura si aprisse all’immagine, a quella che lui chiamava «integrazione figurale», per cui consiglio di andare a cercare quegli scritti letterari in cui si avverte il bisogno dell’integrazione di qualcosa d’altro.»

3. Cos’è il sacro per Pasolini?

«Penso che Pasolini seguisse la definizione di Rudolf Otto del sacro e del religioso: il religioso è un’insieme di norme, regole, testamenti, una forma legata più ai dogmi; mentre il sacro è antecedente a questo, una specie di percezione di qualcosa di non misurabile con mezzi umani. Ad un certo punto Pasolini lo definisce numen tremendum, una specie di percezione dell’assoluto non meglio definito che è immanente alla realtà. Credo che il sacro sia molto legato a quando Pasolini era piccolo: c’è un passo dove parla del coito dei suoi genitori e dice che quando impugnava la macchina da presa e inquadrava qualche aspetto della realtà, provava una specie di timidezza, come se tutte le volte che avvicinava l’occhio alla macchina da presa, si immischiasse nel coito dei suoi genitori. Quindi concepisce il sacro come qualcosa che sta all’origine della vita, non in senso realistico, ma nel senso di trovare nell’origine stessa della vita qualche cosa che non appartiene alla socialità, ma che va oltre l’aspetto sociale, qualcosa che fa paura anche soltanto toccare o guardare.»

4. Quali sono state le principali questioni di ordine filologico che ha dovuto affrontare nella raccolta e pubblicazione delle opere di Pasolini?

«Nei testi editi è ovvio che non ci sono stati problemi filologici perché li si prende così come sono stati pubblicati da Pasolini, mentre per gli inediti è una cosa diversa. Per Petrolio il problema si è posto in maniera clamorosa, poiché è un libro non finito a causa della scomparsa dell’autore. Ne I Meridiani, in generale, il problema che ho riscontrato non era tanto come editare i testi, ma in che ordine editarli. Nel senso che la “buona educazione filologica” di solito vorrebbe che, nel caso per esempio dei romanzi, uno mettesse prima i romanzi editi che hanno uno statuto diverso perché sono quelli voluti dall’autore, e poi invece i romanzi rimasti inediti; però se avessi fatto così, nel volume dei romanzi, il primo che il lettore avrebbe letto sarebbe stato Ragazzi di vita, mentre prima di arrivare a questo Pasolini aveva scritto Atti impuri e Amado mio, romanzi molto importanti e, secondo me, anche più belli di Ragazzi di vita, poi alcuni tentativi interessanti degli anni Cinquanta, come il Romanzo del mare. Quindi c’era tutta una preistoria di Pasolini romanziere che il lettore avrebbe capito solo alla fine del libro, quando sarebbe arrivato alla parte degli inediti, così ho preferito usare una forma filologica abbastanza discussa al tempo, veniva dalla Francia e i francesi la chiamavano critique génétique, cioè critica genetica, e quindi pubblicare le cose in ordine cronologico come erano state pensate dall’autore proprio perché dai libri precedenti, anche se inediti, venivano generati quelli successivi ed è la cosa che è stata più discussa quando uno dei romanzi è uscito, molti hanno pensato che fosse uno “schiaffo” alla “buona regola filologica”, però io resto convinto che il profilo del Pasolini narratore risulti meglio così che nell’altro modo.»

5. Come mai, secondo lei, un intellettuale che conduceva una vita privata considerata “immorale” o “contro natura” per quei tempi, ricercava e rappresentava la vita nel senso più ampio, nel suo stato più “naturale”, oserei dire anche “stato grezzo”?

«Non mi pare ci sia contraddizione da questo punto di vista: Pasolini cercava sempre la “naturalezza” sia nella vita privata, con sottoproletari e contadini non acculturati, che nella vita letteraria.»

6. Dopo il vostro incontro a Roma, quale insegnamento – esplicito o implicito – le ha lasciato l’uomo Pasolini?

«Ero molto giovane all’epoca, avevo più di vent’anni, forse ventidue o ventitré, e la cosa che mi colpì molto fu la sua grande generosità di tempo. Nel senso che Pasolini è stato ore e ore, provando a correggere un capitolo della mia tesi di laurea per farlo diventare un articolo che andasse bene per la pubblicazione su una rivista, discutevamo pagina per pagina su cosa togliere perché troppo “accademico” o cosa sviluppare di più e non era minimamente tenuto a farlo, non aveva nessun obbligo di fare un lavoro di questo tipo eppure si è messo lì e ha perso delle ore in modo totalmente gratuito.

Da questo punto di vista, mi colpiva questa sua generosità, con cui aiutava un giovane studente che, tra l’altro, non conosceva e non c’era nessun rapporto né ufficiale né di parentela. Niente. Un’altra cosa fu il fatto che all’epoca avessi detto a poche persone che ero omosessuale, era un momento della mia vita in cui preferivo tenere per me queste cose, non lo andavo a raccontare in giro a tutti, ma nel momento in cui lo dissi a lui mi scrisse una lunga lettera, che purtroppo ho perso, dove mi raccontava dei suoi problemi d’adolescente nel momento in cui anche lui aveva scoperto la sua omosessualità e questa cosa mi aiutò a sentirmi meno solo».