di Annasara Bucci
Albe e crepuscoli si alternano lenti ed inesorabili sulla linea d’orizzonte della campagna friulana, colori e odori della madre terra percuotono dolcemente i sensi del giovane Pier Paolo: è sempre la prima luce a spegnere l’ultimo sonno, è così che si fa alba. Si fa alba sulle sue palpebre, sulla sua pelle di giovinetto e sulla vitalità del suo genio, ma è anche l’alba della sua primissima prova da insegnante.
Poco più che ventenne, Pier Paolo Pasolini viene chiamato “maestro” da alcuni ragazzetti sfollati a Versuta, piccolo villaggio nei dintorni di Casarsa; sfollato è egli stesso, nello stesso villaggio, nel 1944 a causa della guerra assieme alla madre Susanna, il cui contributo fu preziosissimo nell’allestimento di quella piccola scuoletta improvvisata tra i fiati dei campi nei pressi della loro abitazione.
Figlio di un ufficiale di fanteria e di una maestra di scuola, Pasolini è uomo di scuola sin dalla giovane età: dalla prima esperienza a Versuta, a Valvasone tra il 1947 e il 1949; infine, in una scuola media di Ciampino nel 1954.
Sfaccettatura inedita, quella della pratica pedagogica pasoliniana, che restituisce il profilo di un pedagogo a tutto tondo mosso da una divorante ansia didattica che si manifesta prestissimo e che non potrà che vibrare nella sua vita e nella sua intera opera, dal momento che l’intero corpus dei suoi scritti è incarnazione estetica della passione vissuta, costantemente vigilata da un’istanza meditativa e riflessiva che rimarrà sempre recisa ma commista al movimento passionale.
Pasolini, dice Zanzotto, non faceva altro che «accrescere la libertà comune, da ottimo pedagogista qual era» (Zanzotto, 1977), ed era proprio questa l’atmosfera che si respirava nella piccola scuola di Versuta che ancora Zanzotto definisce «agape, filìa, eros».
E dal concetto di eros bisogna partire quando si parla di Pasolini: corpo in mezzo ai corpi.
In prima istanza, l’impegno pedagogico di Pasolini nasce da un amore profondo per l’alterità. Lo studio della lingua friulana ne costituisce il momento aurorale e la scoperta del mondo linguistico in tutte le sue componenti converge con l’indagine sui ‘contenitori’ stessi di quella lingua: le menti e i corpi.
Il corpo è per il poeta un dato fenomenologico, un archivio che conserva la memoria delle cose e delle forze da cui è stato plasmato:
L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica […] rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito. La condizione sociale si riconosce nella carne di un individuo perché egli è stato fisicamente plasmato dall’educazione appunto fisica della materia di cui è fatto il suo mondo. (Pasolini, 1976)
Il punto è che Pasolini amava quei corpi di ragazzi. Per quanto la sua omosessualità sia stata un dato sconveniente, che si sia tentato di rimuovere o che sia stato strumentalizzato a fini scandalistici, esso rimane pur sempre il primo motore erotico di quella spinta pedagogica.
Al di là di ogni banale generalizzazione che incastoni il discorso in una inutile deriva pederasta, lo sguardo del maestro Pasolini accarezza il corpo di quei ragazzi con amore e per amore. Ne ama la purezza primordiale naturalmente collegata ad una precisa idea di gioventù rivoluzionaria e non sopporta che quest’idea venga tradita, a giudicare dalla durezza con cui si scaglia contro i giovani di Valle Giulia che si modellano ribelli piccolo-borghesi, incarnando perfettamente le prerogative socio-culturali dei padri anziché rimanere fedeli a quell’ideale di gioventù. Il Pasolini innamorato dei giovani non ha paura di scagliarsi anche contro di loro, se nota il deturpamento di quell’idea primigenia.
Il traslato in materia pedagogica di questo puro dato d’amore, che diventa dato di fatto, consiste in ciò: non esiste atto educativo che escluda la necessità di un discorso d’amore verso l’oggetto educabile nella sua unicità. Non esiste relazione educativa senza corpo, giacché il primissimo atto dell’insegnante è quello di stare fisicamente dinanzi al corpo dello studente in un dato tempo e in un dato luogo.
L’importanza della fisicità è il primo degli insegnamenti che Pasolini restituisce alla pedagogia odierna dove luoghi, tempi e corpi hanno subito trasmigrazione virtuale, innanzitutto le aule, queste entità astratte, vestite da non-luoghi.
Viene spontaneo chiedersi quale sarebbe stato il suo giudizio sulla didattica odierna se – in tempi non sospetti – egli stesso anelava ad una scuola “senza feticci”, dove il ricorso al corpo è il mezzo del dono educativo per una lezione impostata su quelle che oggi definiamo metodologie di didattica “attiva”, in linea con la sua naturale propensione sperimentale.
Lo ritroviamo infatti in aula nelle vesti di attore e lettore recitante di prosa e poesia, con il preciso intento di ‘drammatizzare’ la lezione:
Io, con un’astuzia calcolata, ma tutt’altro che fredda, sottolineavo i particolari insignificanti, lasciavo cadere nel vuoto di una stupefacente indifferenza i dati essenziali, giocavo con la loro attenzione […] insomma, davo alle mie lezioni una specie di drammaticità. (Pasolini, 1954)
Se, da un lato, il chiaro obiettivo del metodo era quello di tenere alta l’attenzione dello studente, dall’altro c’è un Pasolini che palpa sensibilmente la pericolosità di una impostazione didattica inquinata dal puro nozionismo: ha bisogno di formare coscienze cha abitino quei futuri corpi di adulti, non di lasciarli marcire nei loro involucri.
Per formare coscienze c’è bisogno di una riflessione sulla lingua che includa di certo l’esempio letterario del passato, ma che non trascuri gli esempi del presente storico: non soltanto Dante, Boccaccio, Petrarca, Manzoni, Leopardi, ma (in piena polemica contro le selezioni antologiche ormai vetuste dei libri di testo) anche Quasimodo, Penna, Saba, Montale ed altre delle voci più autorevoli del Novecento letterario italiano.
Non importa che si stia parlando dei ragazzi di Versuta o di Ciampino, che la lezione si svolga tra l’odore dell’erba pestata di un campo o quello del gesso di un’aula attrezzata, il maestro ha bene in mente che l’allievo deve riflettere sul presente storico per essere cosciente del suo hic et nunc e, per far ciò, deve spingerlo ‘dentro’ le parole dell’immediato presente, fargliene sentire rumori, silenzi, frammentazioni e brutture di un’epoca segnata dalla perdita del senso.
«Le parole sono importanti!», gridava un Moretti disperatissimo da dietro lo schermo, quelle parole che Pasolini sentiva frantumarsi nel linguaggio corrente a causa della spinta dei mezzi di comunicazione e dell’azione socio-culturale del consumismo.
In uno scenario culturale che virava verso la massificazione, gli sforzi del maestro Pasolini erano finalizzati a non permettere alla scuola di implodere, così come porrà successivamente il problema della formazione di modelli qualitativamente affidabili, elevati a guide socratiche in grado di contrastare le crisi delle autorevolezze e ai quali affidare la missione educativa: missione da portare avanti per amore, non per convenzione.
Un giorno, in giardino, durante la ricreazione, gli feci una domanda del tutto inattesa. Gli chiesi in maniera farfugliata cosa avrei dovuto fare per non trovarmi tanto male nella vita. Lui, dopo aver aggrottato un attimo le sopracciglia, si lasciò sfuggire un sorriso un po’ disarmato e un po’ tenero. Ci pensò qualche secondo e mi disse letteralmente: «Basta che non fai quello che fanno tutti!» (Cerami, 2002)
Bibliografia di riferimento:
- Saggi contenuti nel volume: Pasolini e la pedagogia, Quaderno n° 5 del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, a cura di Roberto Carnero e Angela Felice, Marsilio, 2015.
- A. Zanzotto, Pedagogia in Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano, 1994.
- Testimonianza della conversazione tra l’allievo V. Cerami e il maestro Pasolini contenuta in: Vincenzo Cerami, Pensieri così, Garzanti, Milano, 2002.
- P.P. Pasolini, Diario di un insegnante in Id. Un paese di temporali e di primule, Guanda, Milano, 2019.