di Mara Fortuna
Ho affrontato questa mia seconda lettura dell’Ulisse come sempre quando mi trovo di fronte a testi molto lunghi: in una modalità, se si può dire così, di lettura estensiva. Non la più adatta, temo, per testi di tale intensità e portata. E tuttavia è l’unica di cui sono capace essendo io sì un’amante della lettura, ma di tipo ansioso, che, riconosco, non essere il migliore. Questo per dire che leggo a velocità di crociera in attesa di essere colpita, attratta, respinta, scandagliata, e, anche, ricacciata all’indietro. In più avendolo letto una prima volta molti anni fa in lingua originale (non completamente, a un certo punto interruppi e saltai al monologo finale) questa lettura mi ha costantemente, ma periodicamente, acceso la curiosità, e quindi spinto a cercare quale fosse la parola o la frase scritta da JJ.
Ad esempio, “oxonboviniano”. Come l’avrà scritto lui? Oxy chap. Un tizio bovino, un ragazzo bue. Mi viene in mente Oxo, i concentrati di carne. E qui? “Bianchedonda”. Wavewhite. “Bianchedonda” parole accoppiate che scintillano sulla fosca marea. Wavewhite wedded words shimmering on the dim tide. Eh, ma qui si perdono le allitterazioni, le consonanze. Senti che ritmo! E così proseguivo la lettura in inglese per un paio di pagine, attratta da quei suoni, da quel modo di fluire e suggerire. Per poi tornare alla traduzione, rendendomi conto che in entrambi i casi qualcosa perdevo e qualcosa guadagnavo, dato il mio livello di competenza (in-).
Ne è risultata una lettura in qualche modo confusa, altalenante, non fosse stato per gli appunti di Demetrio Paolin e gli incontri con gli altri del gruppo che mi riportavano a terra e mi aiutavano a focalizzare l’attenzione, almeno su alcuni aspetti del testo. Che non sempre coincidevano con quelli che più mi avevano preso, ma spesso sì.
Un paio di cose, tra le tante.
Quasi subito incontriamo onfalo, l’ombelico, collegato a “noi stessi”, Sinn Fein, il luogo del corpo in cui risiede l’identità. Poi c’è Eva, senza ombelico. E l’ombelico ricompare ogni tanto (come tante persone, oggetti, parole). Se lo guarda Leopold mentre fa il bagno e dice, come Gesù, questo è il mio corpo. Sono cordoni ombelicali le corde che calano la bara di Dignam nella terra. E dell’ombelico mi ricordo alla fine del diciassettesimo, quando Leopold, stanco, finalmente ritorna a casa e si corica e si mette, sono sue parole, in posizione fetale: uomo-bimbo stanco, uomo-bimbo nel grembo. The childman weary, the childman in the womb (anche l’acqua del bagno era un grembo). Lo fa dopo aver compiuto un viaggio interminabile in cui è stato perfino donna e ha partorito, e in cui compare costantemente la maternità/paternità, la generazione, la morte e la nascita, il sacrificio e la rinascita (il parto di Mina Purefoy e poi lei in ceppi sulla pietra d’altare, dea dell’irragione, nuda, un calice posato sul ventre gonfio). Come se l’ombelico, infine, non fosse possibile tagliarlo davvero.
Perché a cosa torna Leopold dopo aver vagabondato, disquisito, inscenato le sue fantasie e i suoi incubi, disegnato la mappa di Dublino, contato ogni centesimo che ha speso o spenderà nelle sue future imprese e i relativi guadagni? Dopo aver messo in ordine, raccontato attraverso domande e risposte precise, catechistiche, gli ultimi atti e pensieri della lunga giornata, dopo questo sovrumano sforzo di catalogare nei minimi dettagli il contenuto dei cassetti, enumerare gli amanti della moglie, a cosa torna quando si mette in posizione fetale e si addormenta, come se non avesse fatto altro che seguire il suo cordone ombelicale?
A Molly. Donna assente, ma sempre presente, durante tutta la giornata, che non ci prova nemmeno a mettere in ordine: è abbandonata alla marea. Sembra, col suo ventre e il suo sesso, allo stesso tempo a portata di mano e irraggiungibile. Leopold torna in una “casa” che non è sua del tutto, che non è mai stata sua. Il ritorno, quindi, non è possibile.
Non è possibile nemmeno, fino in fondo, la paternità: Milly si sta trasformando in una donna, è un’altra Molly e come tale è alterità, Rudy, invece, è morto piccolo. Il figlio maschio nasce, ma muore subito, non cresce. Lo vede, in un’immagine folgorante, alla fine del quindicesimo episodio, con il volto color malva e un agnellino che spunta dalla tasca del panciotto. La sua apparizione lascia senza fiato. Mancanza e incompiutezza sembrano il cuore profondo di questo libro.
E poi, arrivata alla fine, mi sono accorta di un aspetto che in precedenza non avevo considerato. In questo libro-mondo, in fondo, nella mia attuale percezione, le donne non ci sono. Nel senso che sono sempre viste da un punto di vista fortemente maschile, forse perfino nel monologo di Molly, dove, apparentemente, lei trionfa. Infatti, nonostante la poca cultura, gli errori, l’infedeltà che Leopold vede quasi connaturata in lei, Molly è lì con la sua potenza vitale, la più forte tra i due. Mi era sempre sembrata una celebrazione della donna oltre che una prova di scrittura incredibile. E tuttavia nei pensieri di Molly spuntano elementi tipici delle fantasie maschili e quindi il femminile, ancora una volta, sembra restare estraneo.
Lettura stupefacente e poi esasperante e poi di nuovo stupefacente. Tanto che, aprendo il libro, mi viene voglia di rileggerlo.