In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Narrazioni

“Ulisse” di J. Joyce, una lettura – 0

di Demetrio Paolin

Il 2 febbraio 1922, giusto 100 anni fa, per l’editore nonché librario, Shakespeare &Co esce Ulisse di James Joyce. La data così tonda e precisa rappresenta una occasione superba per prendere nuovamente in mano il romanzo e provare a condividere, nel corso delle prossime settimane, la mia lettura insieme a voi lettori di Lettera Zero (*). L’idea mi è tornata alla mente quando, girando tra i social, mi sono imbattuto in un post che chiedeva, non so quanto ingenuamente: “Ho comprato l’Ulisse di Joyce: come devo affrontarlo?”. L’unica risposta, sensata mi vien da dire, che sono riuscito a formulare è stata: “Prendi il libro, siediti su una sedia/poltrona e leggilo”. Se l’unico modo per affrontare un libro è leggerlo, mi sono convinto che sarebbe stato interessante tenere un diario di lettura settimanale, in cui annotare le pagine lette e dire ciò che ho pensato, immaginato, riflettuto durante la lettura in progress del libro. Ovviamente mi sono posto il problema della traduzione da scegliere: ho deciso per quella di Mario Biondi, edita da La nave di Teseo. La scelta non è stata facile: ho nella mia libreria più copie dell’Ulisse (solo il numero di esemplari della Commedia di Dante supera quelli del romanzo di Joyce), ho l’edizione – classica – della Mondadori, l’edizione della Newton Compton con la traduzione di Terrinoni, quella della Feltrinelli a cura di Ceni, quella di Einaudi con la traduzione di Celati, la Mattioli 1881 con la traduzione di Crescenzi, Giuliani e Viazzoli. E infine l’originale in lingua. Dato questo elenco mentirei se dicessi che questa è la prima volta che affronto la lettura dell’Ulisse: l’ho letto altre volte (due completamente, alcuni spezzoni più volte), ma sono convinto che le riletture siano sempre un modo nuovo e diverso per entrare nel testo. Perché, infine, ho scelto Biondi? Perché nella mia opinione, né da esperto traduttore, né da madre lingua che conosce i segreti e i trucchi che Joyce ha lasciato, Biondi è riuscito a rendere meglio la grandezza del romanzo, di cui involontariamente e per antifrasi la Woolf ha scritto il miglior giudizio: «Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario». Questa idea di bassezza e di sordidezza che la Woolf ravvisa nell’Ulisse, mi ha ricordato in qualche modo gli autori per periodo altomedievale con il loro latino rozzo, basso, imbarbarito dalle parlate volgari, ma perfettamente coerente con i temi dei loro testi – sermoni, storie di santi, storie di miracoli, di martiri – citati da Auerbach nel suo Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità e nel Medioevo (Feltrinelli), il sermo, la lingua, che Joyce usa è un sermo humilis ovvero concreto, basico, scatologico; proprio perché Joyce, come gli ignoti o meno predicatori e scrittori, che si trovano a dover scrivere nel momento di crisi e di passaggio da una realtà storica definita a qualcosa di oscuro, che ha prodotto non solo un cambio di immaginario, ma una modifica e un allentamento delle regole sintattiche, dell’uso delle proposizione e delle parole, creando una lingua totalmente nuova per i bisogni del pubblico a cui si riferiva, rivive nella stessa situazione – temporale e linguistica – con l’Ulisse. Ovvero la presunta illeggibilità de L’Ulisse è in realtà la fondazione di una diversa idea di lingua, di pubblico e di immaginario, che è quanto chiedo a un testo. Ad esempio non mi domando mai se/perché sia un classico, ma, con molta più prosaicità, perché le parole che leggo mi costringono a girare la pagina e ad arrivare fino alla fine. Un libro, per me, è sola scriptura, la lettera del testo, l’ingegnoso susseguirsi dei lemmi, della sintassi e dei periodi. Sono convinto che il libro non sia un’opera aperta ma chiusa, e che le sue ragioni sono da ricercare nel testo, dentro il testo, nelle lacune e nelle presenze, negli hapax e nelle ripetizioni e la logica compositiva di quel che viene letto. Quindi per me L’Ulisse di Joyce è un insieme di parole che si susseguono, e che formano frasi di lunghezza media, che secondo le statistiche di Franco Moretti (Un paese lontano, Einaudi) si aggirano intorno alle 7 parole, e raccontano la giornata ordinaria di un uomo.

Alcuni potrebbero chiedersi: “Questo modo di leggere può avere un senso?”. Provo a rispondere con un esempio o meglio con una fantasia. Il mio desiderio più profondo – chissà che prima o poi non abbia il coraggio di farlo – sarebbe costruire sull’Ulisse una sorta di performance artistica: prenderei una telecamera e la posizionerei fissa sullo schermo, prenderei una vecchia macchina da scrivere e incomincerei a ricopiare lettera dopo lettera, parola dopo parola, periodo dopo periodo l’Ulisse. Ho la certezza che alla fine ognuno di noi, ognuno che abbia assistito per intero a questa operazione, ne uscirebbe con una consapevolezza aumentata del mondo e della vita. L’unico modo di leggere un libro è ricopiarlo. Ecco: nelle mie vene scorre un residuo minimale del sangue di un qualche monaco irlandese che, quando ogni cosa si disfaceva (i barbari alle porte, l’impero perduto), copiava senza capire i testi antichi per ore e ore nello scriptorium; e così quando le ombre si allungavano e non bastavano le luci delle candele per vedere le lettere si stiracchiava, usciva e si dirigeva, finalmente, alla sua minuscola cella per fare compieta, poi s’addormentava e nel dormire sognava, e nel sogno c’erano bestie e draghi, e – vinta l’ultima difesa razionale – appariva il serpente e la mela e, infine, Eva, nuda, sconosciuta e nuova che diceva “Sì: lo voglio. Sì!”.

(*): Gli articoli verranno pubblicati a partire da lunedì 14 febbraio e avranno cadenza settimanale. Stiamo pesando anche di creare un canale Telegram per riunire coloro che vogliano iniziare una lettura condivisa del romanzo di Joyce e condividere spunti, riflessioni e impressioni di lettura con gli altri;

Se siete interessati potete mandare una mail dpaolin@gmail.com con oggetto: Lettura condivisa Ulisse.