In La Seconda Repubblica delle Lettere

I Griffin, Jonathan Franzen e l’importanza dello stile

di Andrea Micalone

Una delle convinzioni più difficili da rimuovere, quando mi trovo davanti a persone che ambiscono a imparare a scrivere (soprattutto nei corsi di scrittura creativa, per ovvie ragioni, ma non solo), è quella secondo la quale le trame, le narrazioni e anche le singole scene possiederebbero una carica emotiva specifica di per sé.

Mi spiego meglio. Chi ha una conoscenza basilare delle meccaniche narrative (o dello storytelling, come va di moda dire), spesso è convinto che le trame possiedono una carica drammatica, o comica, o di altro genere, connaturata alla narrazione stessa. E questa certezza, inevitabilmente, va a ripercuotersi sugli scritti dell’aspirante scrittore (o sceneggiatore, o fumettista, o quel che è). Quest’ultimo, infatti, partendo da un simile presupposto, nel momento in cui deve creare qualcosa di proprio, si concentra nell’ideare scene o situazioni che, a suo modo di vedere, siano già colme di un dato peso emozionale. Così facendo, quando poi si trova davvero a comporre il proprio testo, finisce inevitabilmente per sorprendersi se l’insegnante o i suoi compagni di corso non rimangono profondamente scossi da ciò che ha scritto, o addirittura ridono del suo racconto.

“Come è possibile?” si chiede. “Io avevo in mente una scena drammatica, e questi ignoranti insensibili scoppiano a ridere? Sono esseri senz’anima!” O viceversa: “Io ho scritto una scena spassosissima, e tutti invece si complimentano con me per la malinconia e la tristezza che avrei trasmesso?” La ragione molto semplice che si cela dietro questo “enigma” è che le trame e le scene non possiedono una carica emotiva propria.

La qualità emotiva di una data scena è, invece, resa esclusivamente dallo stile, e da nient’altro. Non appena proclamo quest’affermazione nei corsi di scrittura, tutti corrono a confermarla. Sono d’accordo: è logica e indissolubile. Per quanto possano mostrarsi d’accordo, però, al primo racconto seguente che devono scrivere, incappano di nuovo negli stessi identici errori fatti in precedenza. E questo accade, io credo, perché banalmente saper giocare con lo stile non è certo roba che si apprende in due minuti. Conoscere in linea teorica la questione non significa saperla già mettere in pratica. Ma conoscere un concetto in linea teorica non significa neppure averlo realmente compreso. Se, infatti, io posso esprimere questa “regoletta” a voce (se lo sia davvero, una regola, ora non c’importa), e se i corsisti annuiscono con l’aria di chi ha compreso, basta poi mostrare loro un video per dimostrare quanto siano ancora distanti dall’avere inteso a fondo ciò che intendo dire.

Prendiamo, ad esempio, questo video: “Peter Griffin dimentica come ci si siede” (potete visionarlo a questo link di YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=tTuaIqzW2lY ).

“I Griffin”, per chi ancora non lo sapesse, sono un cartone animato americano, creato da Seth MacFarlane, indicato per un pubblico adulto. Fanno della demenzialità più estrema la propria chiave comica, e ogni puntata è costellata di gag come quella di cui sopra, totalmente nonsense e, proprio per questo, divertenti (almeno a parer mio. Se non vi fa ridere perché vi pare troppo stupida, amen). Se viene mostrato questo video a degli aspiranti scrittori e si chiede loro: “una simile scena potrebbe risultare drammatica?”, la risposta (escludendo quelli che vogliono brillare da subito) suonerà netta: “No. Mai.”

Come potrebbe, infatti, risultare drammatico uno sciocco omone che dimentica come ci si siede e si tuffa in modo goffissimo sulla poltrona? Ebbene, prima di andare avanti, vi do un piccolo avvertimento. Se ora vi sembra impossibile che una simile scena possa essere resa in modo drammatico, quando vi mostrerò che non è così, direte: “Ah, be’, ma in questo modo è ovvio che il tuo discorso funziona”. Sul primo momento questa frase vi parrà un’opposizione al mio ragionamento, ma se vi fermerete un minuto in più a pensarci, vi accorgerete che questa “ovvietà” quasi sospetta è, in realtà, proprio l’ovvietà di cui vi parlavo in principio: lo stile genera la carica emotiva della scena, e non il contrario. Lo stile è tutto, insomma (e per stile, qui, intendo un mare di cose: la voce dell’autore, l’atmosfera, le parole utilizzate, le scelte artistiche; insomma: lo stile). Prendiamo adesso il romanzo “Le Correzioni” di Jonathan Franzen (Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi, edizione 2002; colgo l’occasione per ringraziare la casa editrice e la traduttrice, che mi hanno concesso di riportare in questo articolo il frammento seguente). Andiamo a pagina 66 e leggiamo (qui troviamo l’anziano Alfred Lambert alle prese con i primi problemi datigli dall’Alzheimer e dalla vecchiaia in generale):

In soggiorno, Alfred stava raccogliendo il coraggio per sedersi sulla chaise longue di Chip. Meno di dieci minuti prima c’era riuscito senza incidenti. Ma ora, invece di rifarlo e basta, si era fermato a pensare. Solo di recente si era reso conto che alla base dell’atto di sedersi c’era una perdita di controllo, una caduta cieca all’indietro. La sua eccellente poltrona blu era come un guantone da baseball che accoglieva con delicatezza qualunque corpo gli piombasse addosso, a qualsiasi angolazione e velocità; le sue grandi e abili braccia a orso lo sorreggevano mentre eseguiva la cruciale manovra cieca. Ma la poltrona di Chip era un pezzo di antiquariato, troppo bassa e scomoda. Alfred le volgeva le spalle, esitante, con le ginocchia piegate quel tanto che glielo consentivano i polpacci neuropatici e con le mani che scavavano e brancolavano nell’aria dietro di lui. Non riusciva a decidersi. E tuttavia c’era qualcosa di osceno in quello stare semiaccovacciato e vacillante, qualcosa che gli ricordava il gabinetto, un fondo di vulnerabilità che gli parve così intensa e allo stesso tempo così spregevole che, unicamente per farla finita, chiuse gli occhi e si lasciò andare. Atterrò di peso sul fondoschiena e proseguì all’indietro, fermandosi solo quando arrivò con le ginocchia a mezz’aria.

– Al, va tutto bene? – gridò Enid.

– Non capisco questo mobile, – rispose lui, sforzandosi di raddrizzarsi e di assumere un tono energico. – Dovrebbe essere un divano?

Di nuovo: un omone tutto d’un pezzo che, per brevi istanti, non è più sicuro di come ci si sieda e di cosa abbia sotto di sé (leggendo soltanto questo frammento, il personaggio potrebbe sembrarvi solo un anziano in lieve difficoltà; ma chi ha letto l’intero romanzo sa invece che Lambert è già preda dell’Alzheimer, e che nel resto del libro faticherà in atti altrettanto banali; insomma: se qui non ha dimenticato del tutto come ci si siede, è in procinto di farlo). Ora, invece di vedere una gag simpatica, ci siamo trovati davanti un uomo che, a causa della vecchiaia e di una malattia, fatica in uno degli atti teoricamente più sciocchi e quotidiani che possano esistere. E proviamo un innegabile dolore, una rabbia cieca verso la vita che col tempo porta via con sé ogni cosa. Mi si potrebbe opporre che, in questo secondo caso, Alfred non si tuffa in modo stupido, e alla fine atterra nella maniera giusta, e che insomma non vi sarebbe effetto comico solo perché non vi è un atterraggio scomposto. Ma è davvero così? Immaginiamo se la scena si concludesse nello stesso identico modo del video: l’uomo si lancia e crolla in modo disarticolato sulla poltrona.

No.

Comunque ora non ci farebbe più ridere.

Anzi, sarebbe ancor più drammatico di quanto già lo è il frammento del romanzo. Sarebbe il cedimento definitivo di un malato. Ma allora cos’è che in questo secondo caso ci addolora e nel primo caso ci diverte? La conoscenza del contorno? Della malattia? In parte, certo, ma non del tutto: del resto, proprio “I Griffin” traboccano di gag politicamente scorrettissime su malattie e quant’altro: black humour allo stato puro. Questa conoscenza, dunque, in realtà va soltanto a sommarsi, appunto, allo stile del racconto. È esso, proprio esso, lo stile, a determinare il respiro della scena e a donarle una determinata carica emotiva.

Ma la scena di per sé? Quale carica emotiva avrebbe?

Questa è una domanda da un milione di dollari a cui non credo vi sia risposta. Nella realtà, probabilmente, saremmo più sul versante drammatico, ma una scena di una narrazione non è realtà. Una scena è una scena. Una scena non esiste di per sé. Una scena esiste soltanto nello stile in cui l’artista l’ha concepita.