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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – II parte

di Umberto Mentana

Il fatto che i vari materiali siano oggi sistemati consente finalmente dei reperimenti che non sono delle “truaie”, tra cui quello delle lettere di Kubrick che per me, kubrickiano di ferro, è stata una vera scoperta perché negavo che ci fosse qualsiasi segno del passaggio di Kubrick per Venezia. Riccardo Triolo, il dottorando in questione, fece un bel lavoro, ma si fermò nel momento in cui bisognava passare da un’attività descrittiva dei materiali che aveva selezionato ad uno sguardo più generale. Perciò si trattava di decidere cosa fare ed organizzarmi, sapendo che recarmi negli archivi che intendevo visitare era impossibile. 

Come sostituire, come trovare delle alternative che rendessero questo lavoro egualmente soddisfacente e motivabile? Intanto mi accordo sulla disponibilità dell’archivio della Biennale, dalla quale mi riferiscono che avrei avuto disponibilità soltanto dopo qualche mese. Passarono i mesi, io costruisco il libro e mi servirò degli archivi per coprire i vuoti, un po’ perché nella tesi di dottorato di Triolo c’erano cinque o sei documenti che erano quelli che cercavo e non conoscevo, e che mi sono stati utili perché andavano dagli anni ‘30 al’68, poi perché ho avuto degli aiuti esterni, disperati, immediati, al di là delle mie attese e previsioni. Uno di questi mi è arrivato dall’archivio della Cineteca Lucana di Gaetano Martino. Avrei voluto recarmi alla Cineteca Lucana perché aveva due archivi importanti: uno di Giacomo Gambetti che è stato direttore della Mostra negli anni peggiori e che ha contribuito ad allontanare la Mostra dal Lido e a precipitarla in una sorta di buco nero per qualche anno; l’altro, l’archivio di Rondi (Gianluigi Rondi, ndr), da cui, imprevedibilmente, Gaetano Martino mi ha mandato oltre che una quantità enorme di materiale spedendoli direttamente a casa mia, circa settantacinque chili di roba. Rondi conservava tutto sia negli anni in cui ha fatto il critico, sia degli anni in cui è stato commissario e poi Direttore Presidente. Quindi un archivio straordinario perché dal momento in cui è arrivato a Venezia giovanissimo è sembrato subito predisposto nel compiere questa sua ascensus sonorum anno dopo anno. Un anno dopo, forse grazie alla sua amicizia con Andreotti, era già parte della giuria ed è rimasto per tre anni.

Successivamente ho chiesto aiuto ad altre cineteche come la Cineteca di Bologna ed infine conoscevo l’archivio di Lizzani che era stato dato alla Lily Library di Bloomington: l’avevo consultato e avevo avuto la fortuna di leggere tre o quattro sue lettere del periodo in cui era stato direttore alla Mostra, e poi c’era il suo libro. Insomma, il periodo mancante erano questi ultimi quindici anni, perciò telefono all’Archivio della Biennale e la direttrice dell’Archivio mi dice: “Ma di cosa ha bisogno?”, e io: “Guardate, io ho tutti i cataloghi della Mostra, da quando hanno iniziati a farli fino al 2002, 2003. Me ne manca uno e poi non li ho più, dal 2003 ad oggi”. Esattamente due giorni dopo avevo tutti i cataloghi della Mostra, una ventina di cataloghi dal 2003 al 2019. A quel punto diventò difficile trovare delle scuse con me stesso per non andare avanti e mi sono tuffato. Ho avuto anche spinte da amici che mi dicevano continuamente che dovevo fare questo lavoro e poi, dentro di me, la presi soprattutto anche come una chiamata, un atto di amore e di riconoscenza verso un posto che è stato importante per la mia formazione e che mi ha indicato la strada da prendere nella vita. 

    Ho cercato fin da subito di pensare al luogo tenendo dentro la mia ego-storia che tuttavia non trapela fino in fondo in quei momenti in cui la mescolo, ma essa c’è, e quindi nella scrittura di questo libro sono molto coinvolto autobiograficamente perché ancora oggi, a cinquanta o sessant’anni di distanza, ascoltare in questa sede una delle dottorande che si occupa di Pasolini è bello; io sono diventato amico di Pasolini col tempo, ho avuto varie occasioni di incontrarlo, di presentare i suoi libri, ma i primi veri traumi che ho avuto da spettatore fu vedere come era accolto all’arena del Lido: sentire il pubblico che al solo nome di un film di Pasolini iniziava a fischiare perché c’erano pubblici già costituiti. Quindi anche questo, il pubblico, lo voglio assolutamente raccontare e allora, quando ho iniziato a pensare a questo libro, mi son detto: “Va bene, vado avanti, ma come costruisco questa storia? Come la articolo?” 

È entusiasmante quella fase confusionale in cui, non sapendo quale strada intraprendere, ti senti facilmente perso nei materiali e ti ritrovi a pensare: “Beh, che storia racconto?”. Da veneziano, avevo anche una discreta fortuna per aver avuto in mente un modello che mi piaceva molto: quello di pensare a dei capitoli che fossero perfettamente autonomi come I teleri di Tintoretto, in cui quaranta teleri raccontano una storia unica, sono tra loro indipendenti ma pur sempre connessi. 

L’altra cosa che volevo far avvertire al lettore è la sacralità del luogo. Il Lido ha avuto questa fortuna: ha alle spalle Venezia e questa è la sua forza (rispetto anche a Cannes, che alle spalle non ha niente); la Mostra del Cinema di Venezia ha alle spalle la Biennale, la più grande manifestazione culturale italiana, ed ha avuto la fortuna di essere chiamata “Mostra d’Arte Cinematografica” dai suoi padri ideatori, i quali le hanno attribuito sin da da subito la connotazione di arte (cosa che nel 1932 non era così ovvia) in un luogo che all’inizio che non era nemmeno deputato al Cinema: è questo albergo nato nel 1907 che era diventato, negli anni di Guerra e subito dopo, un luogo d’attrazione per le élite internazionali. Il Lido attraeva la grande aristocrazia ma anche i magnati americani, Ford era amico di Volpi e gli chiese: “Ma come? Sono andato al Lido con le mazze da golf e non c’è un campo da golf?”, e Volpi gli farà un campo da golf un anno dopo. Il Lido cresce dentro questa grande logica di Giuseppe Volpi di Misurata di far diventare Venezia di nuovo città capitale della modernità e affermarsi anche come luogo di diplomazia culturale. I suoi padri fondatori sono persone che pensano con uno sguardo internazionale fin da subito e ciò è curioso, visto che la Mostra è nata e ospitata in questo luogo che è molto amato dall’élite, ma le proiezioni avverranno nella terrazza dell’Excelsior e la prima edizione registra venticinquemila persone. Anche facendo l’elenco di tutte le teste coronate, di tutti i nobili, di tutti i ricchi e gli imprenditori, non si raggiungono i venticinquemila spettatori. Quel pubblico di venticinquemila spettatori è anche un pubblico di persone qualunque, che non vestono in smoking ma con abiti di tutti i giorni. E dunque è vero che il pubblico che attrae, il pubblico che fa notizia, il pubblico che è il vero protagonista sono questi personaggi importanti, ma sin da subito ho percepito che la gente di Venezia c’è, ed è anche un pubblico incuriosito: si crea perciò un rito sulla terrazza dell’Excelsior, con un proiettore mobile dentro un capannino dell’albergo perché, se piove, ci si sposta rapidamente nello showroom. Ciò che voglio dire è che sin dal primo anno questo luogo acquista sacralità e ritualità poiché chi ci è stato desidera tornarci; è un luogo definito da Tullio Kezich come: “Un’isola ad alto potenziale di utopia” perché la gente va per coltivare sogni, visto che da subito i suoi tre ideatori Volpi, Antonio Maraini (segretario) e Luciano De Feo (organizzatore-direttore culturale), riescono in pochi mesi ad organizzare questo programma con quindici, sedici, diciassette nazioni che vi partecipano. E partecipano dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica con i propri rappresentanti, con un messaggio di auguri di Auguste Lumière che si trova nell’Archivio, ed è una delle cose che l’Archivio regala e che questo luogo mantiene nel tempo.

(qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/)