In Appunti di Lettura

Immergersi nella città-verme. Io lettore di Joyce

di Davide Russo

  • Se solo potessimo vivere di cibo buono come questo, le disse piuttosto ad alta voce, non avremmo il paese pieno di denti marci e budella marce. Vivere in un acquitrino di torbiera, mangiare cibo da due soldi con le strade tappezzate di immondizia, merda di cavallo e sputi di tubercolotici.
  • Lei è uno studente di medicina, signore? chiese la vecchia.
  • Si, signora mia, rispose Buck Mulligan.[1]

Più ci penso, essendo difficile riprendermi dall’ubriacatura conseguente alla lettura di un’opera così complessa nella sua polifonicità, e più mi appare difficile descrivere in termini diversi l’Ulisse, o meglio l’esperienza della sua lettura, rispetto all’immagine di un’immersione. Un’immersione in un mondo liquido in cui i confini si fanno porosi e la realtà sembra così “reale” da non esserlo più.

Quali criteri o categorie specifiche è possibile estrapolare da questo libro per tradurre razionalmente le caratteristiche peculiari di quest’immersione, cioè le leggi strutturali di costruzione di quest’opera?

Terrinoni, nelle sue note all’edizione Newton-Compton che ho letto, insiste sull’ombra come apporto fondante di Giordano Bruno all’opera joyceana, assieme alla congiunzione degli opposti (l’alto e il basso, ad esempio come registri narrativi e come personaggi):

Inoltre, la grande influenza su Joyce del pensiero di Giordano Bruno il Nolano pone quesiti di non facile risposta circa il senso della sua traduzione moderna di quelle ombre omeriche dei morti che avevano parlato ad Odisseo. Le ombre secondo Bruno sono per l’uomo la conoscenza possibile delle cose in sé, e la visione umbratile è quanto mai imperfetta perché ci presenta oscuramente, e senza varietà alcuna, solo quanto si trovi all’interno del contorno di una figura – contorno peraltro assai poco nitido. Le ombre dei morti sono numerose nell’Odissea, così come in Ulisse, e nei pensieri dei personaggi di “Ade” esse parlano silenziosamente e per interposizione simbolica… [2]

Sicuramente essa è presente, vista la predominanza della categoria del possibile, ma probabilmente non in maniera così chiaramente definibile. Tutte le influenze in Joyce si presentano come rimescolate, rimasticate, storpiate e reinterpretate. Non mi stupirei se non lo fosse pure Bruno.

I due termini che userei io, non avendo così approfondito l’opera bruniana per poter confutare o affermare con sicurezza quello che dice Terrinoni, sono quelli di città e di tempo, tra loro intimamente connessi. Il primo spunto per questa idea viene da una raccolta di saggi di Lyotard su alcune sue grandi influenze “letterarie”, che così scrive:

Persino nel motivo della città, così predominante nell’Ulysses, non c’è nulla che non abbia a che fare con questa posta in gioco. Non basta infatti considerarlo in modo storico o sociologico come il corrispettivo letterario dell’urbanizzazione in corso. Esso è anche e (a partire da Benjamin) credo soprattutto, il ritorno della solitudine, del deserto e dell’inoperosità nel cuore della comunità. La città moderna è quest’opera in seno alla quale la comunità e l’individuo sono privati della loro opera dall’egemonia dei valori mercantili. Lungi dall’essere una zona franca, la Dublino di Joyce, è, per usare l’espressione di J.L. Nancy, una comunità inoperosa. Bloom, piazzista di annunci economici, è il testimone di questa futilità sofferente.[3]

Walter Benjamin, nella sua analisi della trasformazione di Parigi in una metropoli ai tempi di Haussman, si rifaceva prima di tutto a Baudelaire, ma anche a Poe, Hoffman e Valery. Riguardo a quest’ultimo e all’isolamento urbano contemporaneo, che isola l’uomo contemporaneo da suoi simili, racconta:

«L’uomo civilizzato delle grandi metropoli – scrive, – ricade allo stato selvaggio, cioè in uno stato d’isolamento. Il senso di essere necessariamente in rapporto con gli altri, prima continuamente ridestato dal bisogno, si ottunde a poco a poco nel funzionamento senza attriti del meccanismo sociale. Ogni perfezionamento di questo meccanismo rende inutili determinati atti, determinati modi di sentire.» Il comfort isola. Mentre assimila, d’altra parte, i suoi utenti al meccanismo. Con l’invenzione dei fiammiferi verso la fine del secolo, comincia una serie di innovazioni tecniche che hanno in comune il fatto di sostituire una serie complessa di operazioni con un gesto brusco.[4]

La Dublino reale e quella di Joyce si sovrappongono, ma non corrispondono.  Modificando le azioni dei personaggi attraverso modifiche nel meccanismo sociale. Sono queste interazioni ad interessarmi.

Sono all’opera nella città joyceana quegli spostamenti minimi di cui parlava Benjamin in relazione al tempo messianico e all’opera di Kafka, in cui non si cambia quasi nulla per cambiare in realtà tutto:

I significati però non ritornano tutti al loro posto di prima, da questo istante l’esperienza esce modificata e tra le stratificazioni della memoria si inseriscono piccoli spostamenti, passaggi minimi ma duraturi che esigono dalla riflessione di essere elaborati. Perciò questi istanti del passaggio sono cruciali per la concezione che Benjamin ha della dialettica. […] Dialettica però significa, in senso forte, pensare per determinazioni, fosse anche soltanto la determinazione dell’indeterminatezza stessa. Benjamin vuole dischiudere il regno dell’indeterminato, del fuggevole e incomprensibile all’esperienza dialettica senza schiacciarlo con l’artiglieria pesante della concettualità tradizionale.[5]

Il tempo è probabilmente uno degli elementi centrali in questa inversione dialettica, uno di quegli aspetti che produce quello straniamento ubriacante, che è conseguenza diretta dell’esperienza di immersione e che io stesso sto vivendo come lettore, persino parecchi giorni dopo aver finito l’opera.

Si sostiene nel senso comune che quest’opera duri un giorno, in realtà ne dura due, tuttavia la relativizzazione delle coordinate spazio-temporali operata da Joyce va ben oltre tutto questo, contribuendo a quell’indeterminatezza in cui, contrariamente alle parole di Einstein, “Dio gioca davvero a dadi con il mondo”. Noi sappiamo che il processo ventennale di scrittura dell’Ulisse fu coevo sia con la teoria della relatività speciale del 1905 che con le interpretazioni indeterministiche di Max Born e Werner Heisenberg, che inaugurarono la meccanica quantistica. Ancora Lyotard ci illumina su questa analogia o convergenza storica straordinaria tra fisica e letteratura nel Novecento:

Sartre dichiarò più tardi di aver voluto una scrittura einsteiniana, contro l’universo newtoniano del romanzo classico. Ma a partire da Joyce e da Gertrude Stein la posta in gioco romanzesca non doveva più essere pensata sotto il segno delle equazioni della relatività, ma delle relazioni di incertezza. Il “Noveau Roman” si poneva sulla stessa lunghezza d’onda di Heisenberg e dei pagani danesi, più che su quella del pio Einstein.[6]

Ma il Dio-narratore di cui stiamo parlando è Joyce? Egli è sicuramente l’autore, ma si fa tramite di un qualcosa di più ampio, che vagamente definisco “la città”.

Si tratta di una relativizzazione che però è anche una pluralizzazione dei tempi a seconda delle coordinate spazio-temporali di riferimento in cui di volta in volta si trovano i personaggi.

Noi ci troviamo a passeggiare per questo spazio amorfo, o meglio polimorfo e policentrico, che è la Dublino di Joyce con Leopold Bloom e Stephen Dedalus, incontrando con loro prostitute, il profeta Elia, un’anziana lattaia, venditori vari, padre Conmee, marinai che raccontavano dei loro viaggi e delle improbabili avventure che avevano vissuto nei vari paesi. È stato ipotizzato che quel marinaio fosse Ulisse e non Leopold, non saprei dire con certezza, ma rilevo questo: vero è che, come Ulisse, il marinaio lascia moglie e figli a casa, mentre viaggia nelle sue diverse tappe. Rappresenta un dato interessante e curioso da rilevare il fatto che tra i popoli peggiori incontrati in queste peripezie figurino proprio gli italiani, con una chiara fama di accoltellatori e bugiardi. Probabilmente Joyce traduceva qui dei sentimenti comuni per la popolazione di Dublino verso gli italiani, come fece anche per gli ebrei e il sentimento nazionalista irlandese, sovente ridicolizzato.

La città potrebbe rappresentare lo spazio, una sorta di macro-contenitore per tutte queste storie, una meta-cornice narrativa come quella di Sherazad per Le mille e una notte o la peste di Firenze per il Decameron di Boccaccio. Lo spazio e il tempo quindi o, per dirla in termini sempre einsteiniani, riguardanti la quarta dimensione: lo spazio-tempo. Città e tempo formerebbero quindi un unicuum, una continuità quadridimensionale che solo analiticamente possiamo distinguere per descriverla. Come rappresentare questa entità? Io la definirei un “verme quadridimensionale”, come direbbero i quadridimensionalisti. L’ontologia delle entità materiali, anch’essa derivante dalle rivoluzioni novecentesche in fisica sopra citate (con i cui risultati cerca un migliore accordo rispetto ad altre ontologie), ci viene in aiuto, infatti, nel trovare un corrispettivo con cui definire questo oggetto parzialmente finzionale che è la Dublino joyceana:

L’assunto di base della dottrina nota come «quadridimensionalismo» è che l’estensione nel tempo sia del tutto uguale all’estensione nello spazio: come un oggetto ha parti spaziali diverse, esso ha anche parti temporali diverse nelle varie sottoregioni della regione totale di tempo che occupa. Il quadridimensionalismo è, infatti, noto anche come teoria delle parti temporali: di fronte ai continuanti del tridimensionalismo, il quadridimensionalismo introduce gli occorrenti, cioè entità a quattro dimensioni che occorrono nel tempo, anziché protrarsi attraverso il tempo, esattamente alla stessa stregua di un evento […] Un’entità a quattro dimensioni viene talora definita verme quadridimensionale: esso può essere immaginato come un verme in un sistema di coordinate spazio-temporali.[7]

Definire in maniera quadridimensionalista il mondo dell’Ulisse alla stregua di “un verme narrativo” potrebbe suonare irrispettoso per qualche lettore, ma anche Dionigi Aeropagita, che Joyce sicuramente conosceva dalle sue frequentazioni teologiche e patristiche, sosteneva che “Dio è un verme”, per farci capire come il linguaggio umano fosse totalmente inadatto per parlare del divino. Questa idea è alla base della cosiddetta teologia negativa. Potrebbe essere altrettanto inadeguato qualsiasi linguaggio narratologico tradizionale, descrittivo o analitico che sia, per illustrare la città del Dio-narratore Joyce e dei suoi alter ego trinitari Stephen, Leopold e Molly? Non ci vuole molto per dirlo ma, secondo la mia esperienza di lettura, ripeterò sempre, concludendo questo scritto come Molly conclude il libro: Sì.


[1] J. Joyce, Ulisse, a cura di E. Terrinoni, trad. di E. Terrinoni con Carlo Bigazzi, Newton Compton Editori, Roma 2015, p. 43.

[2] Ivi, p. 777.

[3] J.F. Lyotard, Letture d’infanzia, trad. di F. Sossi, Ed. Anabasi Spa, Milano 1993, p. 21.

[4] W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi con un saggio di F. Desideri, Einaudi, Torino 1995, pp. 109-110.

[5] M. Ophälders, Costruire l’esperienza. Saggio su Walter Benjamin, CLUEB Edizioni, Bologna 2001, p. 90.

[6] J.F. Lyotard, Letture d’infanzia, op. cit., p. 111.

[7] P. Valore, L’inventario del mondo. Guida allo studio dell’ontologia, UTET edizioni – De Agostini Scuola Spa, Novara 2008, pp. 264-265.