In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte IV

di Demetrio Paolin

Ho l’impressione che la lunga parentesi su Zosima (FK, Parte seconda, Libro Sesto, cap II e III) e la sua vita sia una sorta di risposta al poema dell’Inquisitore, cioè che in qualche senso D produca un effetto di rifrazione tra le due storie, o ancora di più tra i due personaggi – la strana coincidenza tra Ivan e la bellezza delle foglioline e Zosima e la bellezza del creato, che quasi pre-sente e partecipa al progetto di salvezza di Dio. 
Non ci sono dubbi per l’orecchio e l’occhio, anche quello disattento del lettore, di quanto narrativamente siano bellissime le pagine del Grande inquisitore (FK, Parte seconda, Libro Quinto, cap. V) e quanto invece la storia di Zosima, pur con dei momenti potenti, rappresenti una sospensione della trama centrale. Abbiamo lasciato la casa dei Karamazov nel pieno di una crisi che prelude a qualcosa di terribile, ma D vuole che leggiamo queste pagine sulla vita e la morte di questo monaco. È una sosta, è un momento dal punto di vista dell’intreccio e dello sviluppo del racconto non comprensibile, soprattutto perché l’intera vicenda dalla vita del monaco occupa l’intero libro sesto. 
Più sopra ho sostenuto che la vita di Zosima è la risposta alla Leggenda dell’Inquisitore, e come le pagine dell’uno si ripercuotono nelle pagine dell’altro, mi pare che in questo senso a far lo specchio siano appunto i capitoli che precedono la vita dello Zosima. In particolare, nel libro quinto assistiamo a   tre grandi dialoghi 
1) Alesa e Ivan – il tema del male e la sofferenza dell’innocente;
2) Inquisitore e Gesù – il tema della libertà;
3) Ivan e Smerdjakov – il tema della libertà e del fare il male.
E a questo trittico che la storia di Zosima fa specchio. D ha portato alle estreme conseguenze la sua riflessione, si è trasformato nell’avvocato del diavolo, ha condotto al massimo grado di complessità la visione di una storia e di una vita in cui è convocato l’ospite inquietante: il nichilismo. 
In queste pagine   la sofferenza degli innocenti, la scelta tra libertà e salvezza, tra libertà e possibilità di male, e la liceità di fare male diventano centrali: è questo il crogiolo ideologico in cui si prepara il parricidio, ma qui il parricidio è non più simbolico, ma diventa qualcosa che deve essere compiuto: se Dio non esiste tutto è lecito, se il padre viene ucciso tutto è lecito: io noto una strana conseguenza, una relazione stretta e indistricabile, tra l’atto di restituire il biglietto di Ivan e la decisione di Smerdjakov di uccidere il patrigno dopo il dialogo con Ivan; entrambi si escludono, si mettono fuori dal consenso umano, entrambi scelgono una strada che non è rappresentabile, che non è narrativamente raccontabile. Entrambi escono di scena. Questo ha un riverbero nella struttura del libro: sia Ivan che Smerdjakov sono gli unici due personaggi che escono di scena non “visti”: il suicidio di uno è raccontato durante il processo, come fatto di colore all’interno della grande messa in scena, che avviene in aula; Ivan è evocato da Katerina, da Alesa, da Liza ma non è più visto. Le domande di Ivan rimangano inevase dalla sua stessa assenza, a meno di non leggere la storia di Zosima che è suo contraltare. Quale è il tema di FK libro sesto? Se dobbiamo riassumerlo in due parole, direi: il bene. 
Provo a chiarire la mia affermazione che immagino sia percepita come apodittica. Il nucleo della riflessione di Ivan si può riassumere in una sorta di interrogativo refrain: Siccome c’è il male, io che posso farci? Siccome i bambini soffrono, io che posso farci? Dato che il nobile fa sbranare dai segugi il bambino, io che posso fare? La sua riflessione, logica, stringente, bellissima ci porta dire: “Che possiamo fare?”. La domanda che ruota intorno a tutti i discorsi di Ivan è legata a Dio. Il problema della sofferenza è un problema di Dio e della sua teodicea: Perché Dio se c’è il male? 
È questo l’abisso a cui Ivan ci consegna, subito dopo il tema del grande Inquisitore, che è una riflessione sull’arbitrio, la libertà: in questo elemento abissale dell’essere liberi c’è il male, il male non viene da Dio, ma non è neppure di Dio, è qualcosa che si produce perché infine c’è la libertà; la libertà è ciò che produce la possibilità affinché noi possiamo fare qualcosa; il perdurante, lungo tutto il dialogo, silenzio di Cristo, che è il silenzio di Dio, in cui ogni credente è gettato quotidianamente che è tanto più tremendo tanto si ha fede, perché avvolge ogni azione, singolo gesto, questo silenzio non è silenzio di assenza, di pianto o di stupefatto mutismo davanti al male, è il prezzo della libertà. È questo il prezzo della libertà che è disposto a pagare Smerdjakov, a lui D affida le conclusioni più logiche e terribili del ragionamento di Ivan, spingendolo oltre ciò che Ivan stesso ha potuto pensare.
Zosima e la sua storia mostrano al lettore che anche il bene viene dalla libertà; quindi, se vogliamo, il bene è qualcosa di estraneo a Dio, così come il male, entrambi, infatti, sono concetti che Dio nella sua terribilità e altezza non percepisce, potremmo affermare con un paradosso: Se c’è Dio perché il bene? Se Dio esiste ogni cosa avviene già per un fine, nonostante questo noi compiamo gesti di bene, dice Zosima, noi ogni giorno produciamo semi che morendo danno frutto. La questione che dobbiamo porci è: Perché facciamo il bene? 
Se il mondo fosse a misura di Dio, la sua misura sarebbe la perfezione, e invece il mondo (potremmo dire la realtà, l’esistente) è a misura della libertà, e quindi bene e male sono due facce della libertà, così come peccato e assoluzione, colpa e giustizia: l’assoluta totalizzante libertà è il fulcro di queste pagine, anche quelle che preludono al parricidio, e il parricidio a questo punto diventa il momento in cui gli uomini decidono di essere liberi, di essere adulti, di essere loro stessi. Smerdjakov deve uccidere il padre per essere se stesso, e così dovrebbero fare tutti: senza la morte del padre non è possibile nessun romanzo ovvero non è possibile nessun ragionamento sull’essere uomini nel mondo, e per compiere questo omicidio, rituale o reale che sia, è necessario capire che né male né bene dipendono da Dio, che Dio è in un certo modo superiore, lontano rispetto a questo, ma che male e bene attengono alla sfera dell’uomo ovvero alla libertà.
Mi rendo conto che questa lettura dei FK potrebbe sembrare una lettura troppo religiosa, troppo legata ai temi della fede, immagino che questo possa essere in qualche modo limitante per chi legge. Credo, quindi, che sia necessaria una precisazione che il lettore troverà nel capitolo successivo.