In Schede

Le stagioni di Iris – rec. a “Vuoto” di Ilaria Palomba

di Valentina di Corcia

Ci si avvicina a questa storia come lo si farebbe a un istrice: migliaia di aghi acuminati sono pronti a schizzare per colpirti in punti dolorosissimi. Quest’istrice resta al riparo, si difende come può, attacca a prescindere e sa stupirti con l’intensità del dolore che è in grado di infliggerti. Tuttavia, il dolore che si sente è qualcosa che ci appartiene e, pertanto, siamo a disposti a sopportarlo man mano che leggiamo. Anzi, più leggiamo e più vogliamo stare nella storia come Iris.

In questo racconto a due voci.  Iris e Ilaria, si alternano fino a fondersi nell’io narrante di una narrazione in cui protagonista prepotente è il vuoto. Nato da un dolore mai superato, che traccia un solco tra prima e dopo, questo non spazio è capace di inglobare tutto, nutrito dai sensi di colpa, di inadeguatezza, ed espandersi fino a prendere forma e diventare “doppio”. Noi sentiamo che le vicende di Iris sono profondamente innervate della vita stessa di Ilaria e ciò non ci dispiace affatto, anzi in una certa misura ci consola, perché è come se venissimo a sapere che, se un giorno tutto il dolore e tutte le afflizioni di Iris saranno le nostre, potremo affrontarle e combatterle. Infine, vivere ancora.

Palomba riempie il vuoto attraverso la costruzione di triangolazioni amorose. La più stabile è quella composta da Iris, suo padre e Federico. Sono le sole figure maschili di riferimento a cui riconosca una certa autorità nonostante tutta la serie di conflitti che passano nei loro rapporti. Forse, è proprio la dialettica del conflitto a rafforzarle. Palomba si inserisce con efficacia nella ormai lunga serie di narrazioni domestiche, che entrano e sfondano le pareti dei rapporti familiari. Ma Palomba pare farlo per erigere di nuovo qualche muro rovinato sotto i colpi della dissoluzione del sé. Del buddismo che attraversa in filigrana tutta la storia pare avere recuperato questo dato: un’ultima fiducia nella possibilità che le cose – persone e oggetti (forse persone come oggetti) possano ricomporsi. Gli altri uomini, invece, si reggono su una certa sottomissione masochistica (l’unicum è Giulio, amato e perso, troppo puro per poter sopravvivere a certe dinamiche guaste.)

Il vuoto è la scala per il paradiso, il desiderio di libertà.

Con “Vuoto”, Ilaria Palomba conferma quella che fino ad ora poteva essere un’intuizione: ci troviamo di fronte a una nuova generazione di cannibali che, a differenza degli originali, usano il filtro del gotico.

Gotico e cannibalico si sono impastati pur mantenendo distinte le proprie caratteristiche, che emergono da richiami diretti o da suggestioni evocate dalla scrittura. E ancora una volta torna l’elemento ancestrale: il romanzo contribuisce ottimamente alla crescente attenzione per certi fatti del passato, dalle leggende del territorio agli eventi di cronaca nera che da un lato hanno generato una schiera di nuovi mostri, mentre dall’altro ci hanno restituito le vittime sotto forma di nuove icone pop. Cristallizzate in quelle immagini, sempre uguali a sé stesse, passate centinaia di volte ai tg; vicende che possono essere recuperate e riaffidate alla memoria collettiva attraverso l’upgrade della nuova consacrazione mainstream: il podcast. Ma Palomba, così come Serena Vinci, non scade mai nella facile restituzione mediatica della demonologia appulo-lucana, dove maciare, fatture e serpenti diventano puro folklore, mentre sono cultura e storia. E ancora una volta torna l’elemento ancestrale: il romanzo contribuisce ottimamente alla crescente attenzione per certi fatti del passato, dalle leggende del territorio agli eventi di cronaca nera che da un lato hanno generato una schiera di nuovi mostri, mentre dall’altro ci hanno restituito le vittime sotto forma di nuove icone pop. Cristallizzate in quelle immagini, sempre uguali a sé stesse, passate centinaia di volte ai tg; vicende che possono essere recuperate e riaffidate alla memoria collettiva attraverso l’upgrade della nuova consacrazione mainstream: il podcast.

Con Palomba siamo autorizzati a fare un piccolo salto indietro nella storia del romanzo italiano contemporaneo: a metà degli anni Novanta Isabella Santacroce folgorò una generazione con Fluo, romanzo che apriva la cosiddetta Trilogia dello spavento.  Come i personaggi di Santacroce vivono un’alterazione frenetica, tra discoteche ed esperienze borderline nella Riccione all’apice della sua stagione psichedelica, la Iris di Palomba, bramosa di libertà, simile alla Belle di Povere Creature, segue il sentiero delle sue cicatrici, tracciando la sua mappa: definisce una nuova geografia dell’inquietudine.

Alle notti romane, avvolte da un’aura speciale, potremmo dire misterica, alterna i paesaggi di una Puglia aspra e sonnolenta; tra estati di ritorno, paesini appartati e città (Bari, specialmente) quasi insopportabili. Ci sono deserti di sabbia e calce bianca, capaci di imprigionare nel torpore di una vita tanto lenta da diventare immobile. Di sicuro lontana da certe “cartoline” instagrammabili. Ci sono poi le strade urbane, i quartieri pesanti della Bari che accoglie Iris non più ragazzina e quasi donna: è qui che tutto si fa difficile. Per Palomba la Puglia è bella nella dialettica infanzia-paese e si rovina in quella che va dallo stadio adulto allo spazio urbano.

Ilaria Palomba

Vuoto

Bari, Les Flâneurs Edizioni, “Élite”, 2022

€ 18,00