In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte V

di Demetrio Paolin

Il romanzo può essere una esperienza religiosa? La rappresentazione (teatrale, musicale e cinematografica) possiede ancora in sé qualcosa di sacro come l’entrata in un recinto, luogo di separazione dal mondo circostante, ma questo non può avvenire per il romanzo, che è una forma più laica e profana di comprensione del mondo, di analisi delle cause e degli effetti del reale: più della scienza, che in qualche modo arriva a una soluzione con una forma chiara e una lucida decisione nel dire, il romanzo consegna il lettore a un’assenza di perché, e lo consegna solitario in questo luogo senza risposta. Il romanzo non è una esperienza religiosa o, meglio, che si riduce alla sola esperienza religiosa. 
Ritorniamo ai FK, prendo le mie mosse dalle critiche mosse da Nabokov a D: «I lettori non russi non comprendono due cose: che non tutti i russi amano Dostoevskij, e che la maggior parte dei russi che lo amano, lo venerano come mistico più che come artista. Era un profeta.»
È il rischio che si corre con D e in particolare nei FK dove l’esperienza del mistico e del profeta sono all’ordine della pagina. Leggere D come se fosse un testo sacro è fuorviante, perché ciò produrrebbe una essenziale dimenticanza, ovvero che D ha scritto opere di finzione&immaginazione. Quale sia la differenza tra testo sacro e romanzo, che è poi la differenza tra la Bibbia e l’Odissea ad esempio, mi pare semplice, o almeno a me pare semplice: la Bibbia può essere letta come testo narrativo, ma nonostante questo per chi crede rimane un testo che afferma alcuni precetti di fede, mentre un romanzo non può mai assurgere a testo sacro. 
Il rischio che corriamo è legato all’immaginario di D, che è appunto intriso di religione, di immagini cristologiche, di colpa, vergogna e peccato, ma se leggiamo questo romanzo e questo autore solo alla luce di tale specchio, abbiamo una percezione ristretta di D.
Nelle pagine de L’arte del romanzo Kundera scrive una professione di fiducia nel romanzo, confessando che sceglierà sempre la parte di Chisciotte. Ecco, non dobbiamo mai dimenticare che D, come tutti grandi narratori, come chiunque voglia scrivere un romanzo, era/è/sarà dalla parte di don Chisciotte, di ciò che rappresenta. La religione è anche una norma, anzi, potremmo dire che essa è un normare le cose, uno stabilire leggi precise per dati comportamenti; il romanzo è un movimento che scarta questa normazione sin dall’inizio. Il romanzo nasce anzi da uno scarto, dai fogli di carta gettati per terra che il lettore legge: non è casuale che all’inizio del romanzo di Cervantes Chisciotte legga anche i fogli lasciati cadere per terra. Il romanzo è una apertura, un uscire, un camminare, è un imbastardirsi, uno sporcarsi: cosa che i personaggi dei FK fanno oltremisura. Se quindi dovessimo trovare una parola, una sola, che possa indicare il romanzo, definirlo, metterlo in una sorta di paradossale ordine di lemmi, diremmo che il romanzo è la possibilità. 
Il romanzo ha come motore del suo stesso la racconto la possibilità, ogni personaggio è o, meglio, potrebbe essere qualcosa (la dicotomia tra storia e poesia della Poetica di Aristotele) che sarà oppure no: questo senso di potenzialità e possibilità è il luogo in cui abitano Chisciotte, Bloom, Shandy, Ivan, Madame Bovary, Ida, Useppe etc etc e questo senso di possibilità è in Dostoevskij portato alle estreme conseguenze. Nel paragrafo precedente (V) parlavo della libertà come cardine dei FK: la libertà è un concetto complesso, ambiguo, polisemico che, se guardiamo solo da punto di vista religioso, diviene – per forza, perché la religione è questo – obbedienza al bene, alla bellezza e a Dio. Ciò, però, riguarda la mia vita privata di uomo, e non la mia esistenza di scrittore e di lettore. Quindi la semplice ipotesi di romanzo come esperienza religiosa produce in me un impoverimento ermeneutico, mentre la possibilità, l’apertura, è rappresentata dalla possibilità di leggere e rileggere e riguardare il romanzo da una prospettiva sempre nuova: il sacro è il regno dell’obbedienza, il romanzo è il regno della possibilità; ed io posso -leggendo un romanzo- trovare una visione religiosa, cristocentrica, buddhista, islamica della realtà, ma la bellezza del romanzo sta nel suo non esaurirsi, nel suo continuare a interrogarci costantemente. Se osservo il romanzo come un testo sacro lo impoverisco, mentre se leggo e analizzo un testo sacro come un romanzo trovo qualcosa di nuovo ogni volta, qualcosa che sposta un poco più in là la mia interpretazione e la mia possibilità di comprendere. D è uno scrittore religioso, ma non è un profeta, è un romanziere, è della schiatta di quelli fedeli a Chisciotte, di quelli che escono nel mondo e lo guardano e, stupiti dalle foglioline, le vorrebbero descrivere una a una, senza domandarsi se dietro ci sia un Creatore, un Demiurgo o un niente, anzi, ventilando la possibilità infinita che ci possano essere/coesistere – è questo il bello del romanzo – tutte queste cose insieme.
Il romanzo poi non è teologico, non si chiede la sostanza ultima delle cose, ma è economico, ovvero si chiede in che relazione stiano le cose tra di loro, e quali siano i possibili rapporti, azioni e movimenti esistenti tra idee, persone, cose, paesaggi. Ciò che interessa al romanziere, e a D in particolare, è l’economia del mondo, come si muove il mondo e i suoi personaggi, non gli interessa cosa sia il mondo, ma le azioni che accadono all’interno di esso; il romanziere non vuole tanto conoscere la sostanza ultima, il mistero nascosto della realtà, ma è interessato a come si ordinano le cose, come avviene che questo sia il mondo in cui viviamo: egli, infine, non è un mistico, ma predilige  l’ascetismo, se proprio vogliamo trovare una possibile corrispondenza religiosa.  Pensiamo a Par. XXXIII dove Dante che non penetra, non si consuma nel mistero di Dio, ma lo osserva, lo razionalizza, lo scrive, lo organizza in sillabe, 11, in versi (terzine). Nell’atteggiamento di Dante esiste una relazione economica tra numero di parole e cosa che viene descritta, niente di più lontano dal mistico. Il profeta è un mistico, D mette nei suoi romanzi molti personaggi che hanno un movimento e un modo di esistere mistico: Kirillov dei Demoni, Alesa stesso, il principe Myskin, ma non dobbiamo mai – come lettori – confondere il romanzo con i suoi personaggi, i personaggi sono dentro il romanzo, non possono essere estrapolati, non possiamo far dire loro le stesse cose fuori dal contesto in cui sono. I personaggi esistono all’interno di quella narrazione, sono vivi perché sono dentro quelle relazioni, dentro quel disegno, dentro quel movimento della storia. Ecco che torna il tema dell’economia del romanzo, che è un tentativo di rendere conto delle quantità e delle qualità, una idea che forse sta tutta nella scrittura, primo tentativo di mettere ordine e nei magazzini pieni di vettovaglie e nei racconti dei reduci da una guerra, e che il romanzo porta alle sue conseguenze più estreme e, mi verrebbe da dire, necessarie.  Proprio questo possibile contarsi, questo mettersi alla prova in un luogo aperto è il segreto movente di ogni romanzo, ovvero quello di fornirci «una possibilità di noi stessi» (Auerbach).