In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte VI

di Demetrio Paolin

Il dialogo in FK assolve una funzione fondamentale, prima di avvicinarci con attenzione al cuore di questa struttura narrativa proviamo a fare un discorso più generico. I dialoghi all’interno dei FK sono spesso lunghi, delle vere e proprie “sparate” che alcune volte mettono in difficoltà anche il lettore più attento. In un certo senso D non fa che portare alle estreme conseguenze quella che era una caratteristica del romanzo ottocentesco, molti testi sono colmi di queste tirate lunghissime, ne sono un esempio le opere di Balzac a cui sicuramente Dostoevskij guarda. I dialoghi di Balzac hanno, però, una stoffa diversa: mi pare che spesso in Balzac i dialoghi siano quelli in cui uno dei due narra per pagine e pagine un fatto/accadimento che l’altro deve sapere – potremmo risolverla così: IO racconto a TE una cosa che è accaduta a EGLI in presenza di ME. L’evoluzione moderna di questa tecnica sarà il narratore di Conrad (Lord Jim e Cuore di tenebra). I dialoghi nei FK sono, a mio avviso, differenti, e potrebbero avere motivazioni, legate una alle fonti e una più narratologica.
Bachtin sostiene che la struttura del romanzo, non solo di quello dostoevskijano, derivi dalla satira menippea, quella sorta di ibrido tra poesia, prosa, tragedia, commedia e dramma satiresco, genere minore nell’antichità, ma che si è dimostrato duttile al mondo moderno, diventando lo strumento narrativo per eccellenza. Nel fondo dei dialoghi di D, però, più che la menippea troviamo un neppure troppo camuffato Platone, che è anche scrittore sopraffino (il Fedone, il Convivio, il Fedro, la stessa Apologia sono testi bellissimi al di là che siate d’accordo con la sua visione dell’essere etc etc). Ora prendiamo Repubblica di Platone: è un testo vivace, pieno di colpi di scena, di scambi, di miti, di posizioni limite, tutto giocato sul dialogo e su lunghissimi ragionamenti ora di uno ora dell’altro. C’è da sottolineare che quello di Platone non è un dialogo mimetico, non riproduce la situazione in cui due che parlano, ma è la messa in atto di un metodo di pensare (la dialettica). Le battute di Socrate e degli altri protagonisti si organizzano come pensieri, anzi come lo svilupparsi del pensiero, come lo srotolarsi davanti a noi dei ragionamenti, quelli di Repubblica sono personaggi non in quanto agiscono, ma in quanto pensano. 
Il dialogo è il modo più semplice per narrare l’interiorità che, almeno fino a Freud, non aveva strutture per essere esplorata del tutto. Il dialogo platonico è una messa in scena del pensiero che si pensa e, nel farsi, si dice. In Platone, però, tale struttura narrativa ha uno scopo: il giungere ad una verità, il passare da una situazione di ignoranza a una situazione di sapienza. Se vogliamo è questo il motore narrativo delle opere platoniche, la messa-in-scena della scoperta della verità. In D, come vedremo successivamente, questo è vero solo in parte: D non ha per nulla lo spirito maieutico di Platone nei suoi dialoghi. Ciò che D prende o ri-utilizza da Platone è il dialogo come estroflessione del pensiero; le battute dei dialoghi platonici sono momenti in cui il pensiero dei vari personaggi viene detto. Allo stesso modo nei FK i protagonisti non pensano, ma dicono ciò che pensano a un altro. Il dialogo tra Dimitri e Alesa è sintomatico di questo (FK, Parte prima, libro terzo, cap III-IV-V): noi sappiamo cosa pensando di sé, degli altri, della loro interiorità perché lo dicono. In un certo senso D utilizza Platone tradendolo, ne utilizza una struttura narrativa, ma la snatura non usandola come strumento dialettico, ma è possibile concepire un dialogo che non sia dialettico? La risposta nel capitolo successivo.
Per ora osserviamo un’altra stravaganza dei dialoghi dei FK legata al narratore: infatti, noi non dobbiamo dimenticare che il romanzo è scritto/raccontato in prima persona, che dichiara di conoscere i fatti e le persone, ed è quindi sullo stesso piano dei personaggi e dei fatti che racconta. Questa prima persona è attendibile? No, è in realtà una terza persona camuffata in prima, che torna ad essere prima testimoniale solo nelle parti in cui racconta il processo, dove appunto si fa stenografa delle due arringhe. 
Come possiamo credere ad un narratore in prima persona che   racconta con precisione ciò che si dicono Ivan e Alesa? Come può un narratore in prima persona conoscere gli intimi segreti del cuore di un uomo? La riposta più logica è “non può”, a meno che questi non vengano detti a voce alta e egli non sia presente “in qualche modo” (mi viene in mente il mio amato King Lear: «prenderemo su di noi/ il mistero delle cose come se fossimo le spie di dio») a questi dialoghi. La presenza fantasmatica di questo narratore è il primo patto di sospensione di credulità che D stipula con i lettori: senza questa possibilità, senza questo nostro credere che egli può ascoltare ed essere presente a questi dialoghi in cui i protagonisti non si parlano ma esprimono la propria interiorità, non ci sarebbe il romanzo. 
È chiaro che tale dato artefatto narrativo, alle nostre orecchie educate ai borbottii della nostra mente (pensate a Joyce o Svevo o Woolf) riprodotte dei romanzi, ci pare barbarico e antico. Personalmente tornano alla memoria alcuni passaggi dell’Iliade che descrivono e rappresentano i sentimenti: la rabbia, la furia etc etc non escono dall’uomo ma lo avvolgono, lo coprono e lo possiedono, come se rabbia, furia, amore qualsiasi sentimento&moto fossero esterni all’uomo, che in particolari casi e accidenti prendessero possesso di lui in un movimento dall’esterno verso l’interno. L’uomo in D, così come in Omero, è una soma, è vaso vuoto che di volta in volta viene colmato fino all’orlo di un sentimento, di un moto dell’animo. 
Viene, infine, da chiedersi: Perché e come parlano i personaggi dei FK? La risposta è: essi parlano come Amleto.