In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XII

di Demetrio Paolin

Uno dei problemi di interpretazione che pone l’epilogo dei FK è secondo me legato a una decifrazione dell’immaginario e al suo rapporto con l’ideologia, anzi la relazione tra Ideologia e/o Immaginario è focale dei FK; è importante indagare, quindi, in tale rapporto, l’ipotesi preliminare potrebbe essere riassunta così: l’immaginario è la prassi dell’ideologia, che ne rappresenta la teoria. L’immaginario è la messa in moto, in azione, in mimesi, in pagina di ciò che l’autore pensa. 

Eppure, tale definizione che potrebbe essere anche corretta non resiste alla “prova romanzo”, ovvero FK mostra tutte le diverse criticità dell’enunciato precedente. Se fosse semplicemente così, se questa equazione fosse reale – io ho una ideologia, una visione determinata del mondo, e questa produce un immaginario -, avremmo davanti un’opera chiusa, granitica, inscalfibile. Il genere che maggiormente si conforma a questa idea è, nella classicità, la tragedia; Aiace, Edipo, Medea sono eroi tragici per questo motivo: in qualche modo il loro mondo è ideologicamente definito.   Sempre osservando la classicità, anche Achille ed Ettore sono personaggi tragici, perché non solo si muovono in un mondo già rigidamente definito, ma lo riconoscono come unico e solo, e l’ideologia di questo mondo granitico è, come bene aveva messo in evidenza Weil, la forza che invera e produce l’intero immaginario del poema. Nello stesso tempo, rimanendo nell’epica, l’Odissea segna già un allontanamento della idea di tragico: nelle avventure di Ulisse non è presente una forte necessità ideologica, tanto che la domanda di senso del poema – per cosa torna Ulisse? Perché vuole tornare?  – non ha una risposta univoca, mentre ad esempio se ci chiediamo per cosa e per chi muoiono Achille ed Ettore la risposta ci sarà di certo più chiara e certa.

L’epilogo dei FK mette in scena tale tensione tra ideologia e immaginario, ma non la risolve, la aumenta. D vorrebbe fare la morale, tirare via il sugo della storia ma non ce la fa. Si pensi – ad esempio – all’incontro tra Dimitri e Katerina, Epilogo, cap II: «Tu ora ami un’altra e io amo un altro, ma io ti amerò sempre e tu amerai sempre me: lo sai, questo? Mi senti? Amami, amami sempre, tutta la vita!».

Questo ordine di Katerina sembra proprio opporsi alla conclusione del romanzo a quello che noi avevamo creduto come logica conseguenza nelle pagine precedenti, dove tutto ci pareva chiaro e definito. L’ideologia, d’altronde, ha sempre tutto chiaro, limpido, distinto. D’altronde, come si fa a fare la morale alle persone se le cose non sono chiare? La battuta di Katerina, invece, mette in discussione tutto, non solo e non tanto la parabola dei personaggi, ma proprio il loro sentire intimo.    

L’immaginario di D si ribella alla sua ideologia di autore, e così viene da chiederci dove quest’ultima sia stata resa esplicita: essa è perfettamente rappresentata dalle due lunghe requisitorie, quella dell’accusa e quella della difesa, presenti nella Parte quarta nel libro dodicesimo, dove – e non sarà casuale – sia il procuratore che l’avvocato della difesa utilizzano più volte la parola “romanzo”. Tale occorrenza, ad esempio, non è mai usata dal narratore: questa strana prima persona che possiede in sé alcuni crismi tipici della terza onnisciente che, quando parla del testo che sta redigendo, si limita a definirlo cronaca, testimonianza, storia, ma mai romanzo. 

Le due requisitorie, ognuna per la sua parte, producono abbastanza limpidamente per me l’ordine ideologico del romanzo, il modo con cui sono organizzati i fatti, il modo con cui il mondo viene rappresentato; assistiamo in quelle pagine al tentativo di chiudere tutte le possibili storie e archi narrativi. È uno sforzo incredibile, proprio per la massa di questioni che i FK aprono e lasciano al lettore. Nelle requisitorie c’è una rigidità, una logica o la ricerca di una logica che non ammette deviazioni, che invece nelle pagine precedenti sono stati il modo più classico di costruire la storia per D. 

Nell’epilogo l’autore mette in crisi la sua stessa creazione, è questa la grandezza del genio: sapere che ogni narrazione non può che fallire, non può che in qualche modo traballare, come traballa la conoscenza delle cose umane da parte nostra. Se il romanzo è una avventura, se è l’esplorazione amletica delle lande da cui nessuno fa ritorno, non è possibile che questa esplorazione si chiuda con dato logico. 

Certo D fa di tutto per cercare di costruire una serie di simboli che possano in qualche modo essere ricondotti alla sua ideologia. Osserviamo Mitja che proprio in queste pagine conferma la sua idea di fuggire in America e immagina lui e Grusenka che «zappano e faticano». È indubbio che D voglia costruire un paragone con Genesi: Mitja e Grusenka sono simili a Adamo ed Eva cacciati dall’Eden (la Russia), un Eden nel quale ritorneranno come clandestini nascosti, dopo un periodo di anni, dopo aver appreso una nuova lingua – Mitja parla di «fatica e grammatica» – e fingendosi «americani». Domandiamoci: Che tipo di prefigurazione di salvezza è?

In base a questo epilogo possiamo sostenere che si è salvi se si finge di essere ciò che non si è. Mitja può tornare in patria solo rinnegando la sua stessa patria, rinnegandone la lingua, vivendo con una donna che ama, ma sapendo che ama anche un’altra donna, e che l’amore di prima non può in nessun modo essere perdonato: sarà straniero nella terra della salvezza, e sarà straniero nella terra della perdizione. In che modo questa “scelta” di Dimitri nell’economia del romanzo possa essere legata all’ideologia di D, alla sua convinzione della centralità della sua Russia nell’economia della salvezza che Dio ha nel mondo, mi pare difficile da trovare. C’è una sostanziale tensione non risolvibile tra il romanzo e l’ideologia del suo autore, tanto che Dimitri pare suggerire a Dostoevskij come la sua idea, la Russia come nuovo Israele, sia sbagliata, perché il destino di Dimitri è sì la salvezza, ma a costo della rinuncia alla Russia. 

La scomparsa dalla scena di Ivan è altrettanto sintomatica, Ivan è il personaggio che ha posto più problemi a Dostoevskij ideologo, perché le immaginazioni su Ivan – l’inquisitore, il dialogo di Smerdjakov, il dialogo, di cui noi conosciamo sommariamente il contenuto, con Liza, il dialogo con il diavoletto borghese – producono una serie di rotture non indifferenti: il nichilista diventa lentamente religioso, infatti che cosa è più religioso e mistico che vedere il diavolo e combattere contro lui?

D è ossessionato da Ivan, che sembra sussurrare nel suo orecchio: “Tu credi in Cristo e credi in Dio. E ipotizziamo che Dio esista, perché esiste il diavoletto, ma Cristo? Se ciò che per te è Cristo non esistesse? E Se a baciare l’inquisitore non fosse Cristo come tu credevi, ma dal diavoletto che tormenta me, Alesa e Liza? Anzi se a dare quel bacio fosse stato l’Anticristo? ” 

La scelta dell’epilogo di condannare Ivan a silenzio è il trionfo dell’immaginario sulla ideologia che nulla potrebbe su quella domanda, che rimane abissale per un credente, perché si riassume nella impossibile interrogazione “Perché Dio piuttosto Gesù il Cristo?” 

Alesa, ovviamente, pare il più tetragono, il più ideologico: il discorso sulla resurrezione di Iljusa potrebbe essere letto così, se indugiamo in particolare sulle battute finali che chiudono il dialogo con Kartasov. Diversa, però, sarebbe la nostra impressione se leggessimo l’intero discorso che precede questa chiusa un po’ goffa. Noi sappiamo che Alesa come Liza e Ivan ha esperienza del demonico, del basso, del peccato, lo sappiamo già da quando lo incontriamo senza speranza dopo la morte di Zosima, perché Alesa aveva posto la sua fede in Zosima e non in Cristo. 

Alesa – lui il puro, colui che si è gettato a terra, che si è unito alla terra, che è morto come il chicco – sogna lo stesso sogno di Liza, a condividerne un’ombra enorme; quasi presagisse che la sua ricerca di santità si riducesse, così come per Liza, nel desiderio, che «non resti niente di niente. Come sarebbe bello se non restasse più niente». 

Alesa – il credente – diventa nichilista come e più di Ivan: D lo presagisce, tanto che le parole che gli fa pronunciare “davanti alla pietra” sono confuse, Alesa stesso sembra giustificarsi, «perché spesso dico cose poco chiare», e aggiunge misteriosamente: «Lo dico nel caso in cui dovessimo diventare cattivi». Un possibile cattivo, un possibile uomo che potrebbe diventare a tutti gli effetti Stavrogin, è questo personaggio a cui D affida la definizione del nucleo fondante della fede cristiana: la resurrezione e la gioia. A ben leggere questo epilogo si ha l’impressione che Alesa abbia perduto la fede, non riusciamo a comprendere quando D se ne sia accorto, o quanto lo sviluppo del suo personaggio abbia preso una piega diverso dal suo iniziale progetto, ma in lui, nell’eroe del romanzo (vd. Nota dell’autore), si nota con chiarezza la tensione tra immaginario e ideologia. 

A conferma di ciò osserviamo una breve scena dell’epilogo, nel quale Kartasov critica l’usanza di mangiare i bliny dopo il funerale: al ragazzo tutto ciò pare stonato e fuori logica rispetto all’enormità della morte innocente di un bambino e al funerale appena avvenuto. C’è in questa rabbia di Kartasov qualcosa di potente e di religioso: non si può mangiare in un momento del genere. Alesa, dopo aver ricordato il mistero della resurrezione, invita tutti, sorridendo, a mangiare i bliny, perché è una usanza. Questo riferimento alla usanza, alla fede sempliciotta, ci porta nuovamente al diavolo di Ivan e al suo desiderio di viver una vita semplice, andando in chiesa e accendendo di tanto in tanto una candela votiva come la vecchietta, è simile al sogno di Liza che mangia la composta d’ananas mentre il bambino è crocifisso; la fede che Alesa propugna è paradossalmente una non-fede, una credenza, un insieme di riti. Il mistico dell’inizio del romanzo è scomparso; nulla di ciò che lo caratterizzava a inizio romanzo è presente in lui, Zosima lo manda nel mondo perché sa che Alesa deve perdersi, deve smarrire se stesso ma, smarrendosi l’eroe del romanzo, il principio ideologico della visione di D si arrende alla vastità dell’immaginario, alla impossibilità, per fortuna nostra, di scrivere romanzi a tesi, e ci riconcilia con la possibilità/tentativo di guardare questa “cosa” multiforme che è la vita e darne una immagine.