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Intervista postmoderna a Francesco Permunian

di Giulia De Vincenzo

Siamo in arrivo a: Peschiera del Garda. Prossima fermata: Peschiera del Garda.

La voce metallica proveniente dall’altoparlante mi risveglia da una specie di trance. A farlo è anche il trambusto di una quindicina di passeggeri arrivati a destinazione, che si alzano contemporaneamente.

“Hah sti maledeti turisti che ogni istà i vien sul lago e i fa un luamaro” borbotta spezzante una signora seduta accanto a me. Chissà se si riferisce alla stessa sporcizia lamentata da Francesco Permunian quando, assaltate da chiassose comitive turistiche in estate, le strade e le spiagge del Garda gli diventano insopportabili, portandolo a rifugiarsi in una terra di mezzo tra quell’angolo di provincia veneto-lombarda e le patrie terre del Polesine. Quelle terre basse e monotone che si stendono tra l’Adige e il Po che lo hanno visto nascere proprio nel 1951, anno della disastrosa alluvione, raccontata in Dalla stiva di una nave blasfema. E non sono certo bastate le bonifiche, i nuovi campi o le nuove case al posto dei tuguri per estirpare quel sentimento di solitudine e abbandono che alligna nel DNA di ogni suo abitante. Forse è stata questa la ragione che lo ha spinto a dire addio a quei luoghi. Forse ha preferito non ritrovarsi anche lui, un giorno, impaludato tra quelle nebbie, a consumare le sue speranze in attesa di una ridicola disperazione senile.

Siamo in arrivo a: Desenzano del Garda. Prossima fermata: Desenzano del Garda.

Ci siamo. Ho appuntamento con lui alle 9.30 al bar della stazione, dove ogni mattina va a fare colazione. E dove trasloca in piena notte, con un cuscino e una coperta sottobraccio, quando non riesce a chiudere occhio nel suo letto. Mi sembra quasi di vederlo, passare con nonchalance tra barboni e tassisti per dirigersi verso l’amato boudoir ferroviario, fregiato coi graffiti di Kafka e Sebald, dove ha imparato a dormire coi suoi fantasmi senza ricorrere a tranquillanti e sonniferi.

Scendo dal treno dando un rapido sguardo all’orologio. Le 9.15. Bene. Conoscendo il suo animo inquieto e nevrotico, non sarebbe il caso di farlo aspettare. Provo una certa emozione camminando tra i corridoi di quella che, pur non viaggiando mai, Permunian ha definito la sua seconda casa nel romanzo Il gabinetto del dottor Kafka. Ma, arrivata all’uscita, scorgo al di là della porta a vetri la sua figura emaciata e distinta, seduta a uno dei tavoli del bar. Indossa camicia e blazer scuri. A fine giugno. D’istinto, tiro fuori dallo zaino la mia giacca sfoderata, resa ancor meno elegante dalle pieghe del viaggio. Non senza imbarazzo, la indosso e gli vado incontro.

Lo saluto scusandomi per l’inesistente ritardo e cerco di sedermi nella maniera più disinvolta possibile mentre, sotto il suo sguardo indagatore, sul volto mi si dipinge un’espressione che vorrebbe essere serena e rilassata, ma non ci riesce.

– P…

– Non le sfugge nulla, proprio come mi aspettavo. Forse il modo migliore per stemperare la tensione è cominciare la nostra… Non chiamiamola intervista, se mi permette. Consideriamola, piuttosto, una conversazione. Uno scambio di vedute sui suoi libri. Sui suoi romanzi, principalmente. Anche se lei non ha mai scritto romanzi nel vero senso del genere, eccezion fatta forse per Nel Paese delle Ceneri. La sua è piuttosto – mi corregga se sbaglio – una narrativa frammentaria che registra, come lei stesso scriveva in Dalla stiva di una nave blasfema, “sogni e fantasmi scambiati un tempo per idee e progetti”.

– P …

E lo fa perché la scrittura, mi è parso di capire leggendola, è l’unico mezzo per resistere al nichilismo e destreggiarsi tra un passato sempre più sfuggente, un presente mefitico e un futuro incerto. In tutte le sue opere è palpabile il suo fare i conti con la realtà quotidiana e al tempo stesso con i fantasmi del passato. E questo la obbliga giocoforza a utilizzare due modalità narrative: quella realistica per descrivere la sua quotidianità sul Garda e quella fantastica per sublimare quella stessa realtà quando la opprime. Specialmente in questo periodo, credo, quando l’arrivo di festanti orde di turisti la trasforma in un orrendo lunapark a cielo aperto. Dico bene?

– P …

– Del resto, mi chiedo da un po’ cosa l’abbia spinta a un certo punto a virare verso la narrativa, dal momento che la sua attività di scrittore è cominciata nelle vesti di poeta. Immagino sia perché oggi la poesia non fa più mercato. La poesia rientra difficilmente nella sfera dell’utilità, giusto? E oggi il concetto di piacere corrisponde tristemente a quello di utilità. Come pure, l’attuale mercato editoriale somiglia sempre più a uno smisurato e caotico romanzificio nazional popolare che obbedisce al canone realistico perfino quando produce delle opere “distopiche”.

– P …

– No, non serve affatto che mi rammenti la sua profonda avversione per tutti i grandi festival letterari, equiparabili a degli squallidi supermarket. Nonché la sua predilezione per tutte le situazioni borderline e anche per la piccola editoria, alla quale ha affidato quasi tutta la sua produzione. È chiaro che a muoverla in questa direzione concorrano delle ragioni editoriali, poetiche, sì, ma anche caratteriali. Non vorrei metterla in imbarazzo, ma che lei abbia un carattere schivo e solitario si capisce già dalla sua penna, affilata e beffarda. Una penna a tratti anche un po’ astiosa nei confronti di quegli pseudo scrittori falliti che sempre più vanno profanando la sacralità della letteratura, l’unica religione della quale si professa credente.

– P …

– Ha ragione, a questo punto è opportuno chiederle qual è la sua posizione dinnanzi a quella che Sergio Quinzio ha definito “la sconfitta di Dio”, ovvero il suo venir meno alle promesse di felicità e giustizia di cui gronda il testo biblico. Sarei tentata di domandarle se il suo ateismo le procuri più un senso di perdita o di libertà. In fondo, però, ho imparato a conoscerla attraverso i suoi scritti e ho la sensazione che il nichilismo, piuttosto che spaventarla, quasi la rassereni. Se quello delle nostre vite – convengo con lei – è un teatrino dove ora si ride, ora si piange, l’idea di un dio che da grande capocomico osservi il tutto sbellicandosi dalle risate senza muovere un dito, beh, farebbe dubitare chiunque della propria fede religiosa.

– P …

– Di questo discuteremo magari un’altra volta. Ora torniamo ai suoi fantasmi, quelli che cerca di esorcizzare o di debellare attraverso la scrittura. Ripensavo, durante il viaggio, a un passaggio da L’anno del pensiero magico di Joan Didion in cui l’autrice scrive “se il serpente resta visibile non può morderti. È così che affronto il dolore: voglio sapere dov’è”. Ecco, credo che la stessa cosa possa valere per quelle ombre che la perseguitano. In fondo, il fatto di fissarle sulla carta, impedisce il concretizzarsi di quella che secondo me è la sua paura più grande, ossia la perdita definitiva del suo vagolabile passato. L’esercizio della scrittura, da parte sua, risponde all’ostinata volontà di mantenere in vita i suoi ricordi. E, forse, è proprio questo mondo fatto di carta e inchiostro quella terra di mezzo in cui ha dichiarato di vivere ne Il rapido lembo del ridicolo. Mi sbaglio?

– P…

– Ah già, non le ho ancora chiesto nulla sulla sua attività di bibliotecario, incarnata peraltro dal protagonista di una sua opera, La  Casa  del  Sollievo  Mentale. Mi dica una cosa: le ha permesso di conoscere meglio le “umane genti” oppure di defilarsi dalle relazioni col prossimo, magari facendole cosa gradita?

– P …

– Va bene, le lascio la facoltà di non rispondere. Si figuri. Ma almeno può dirmi se il lavoro da bibliotecario ha acuito il suo senso critico? Non solo nei confronti della società, ma anche della letteratura, s’intende. Glielo chiedo perché mi ha molto colpito la sua polemica contro i critici odierni, dediti soltanto a scrivere romanzi oppure a confezionare favori all’amico o all’editore di turno. E dal momento che lei considera oltre il novanta percento degli attuali romanzieri nient’altro che carne in scatola, cotta e stracotta, reputo anch’io inaccettabile una critica totalmente incapace di esercitare la nobile arte della stroncatura.

– P …

– Sì, è vero. È stato Harold Bloom a sostenere che la critica è morta da un pezzo. Lei, però, ha condiviso pienamente il suo pensiero, mi pare. Stando così le cose, del resto, capisco che qualsiasi interpretazione non richiesta della sua opera la lasci ormai abbastanza indifferente. D’altronde, abbiamo ampiamente chiarito che la scrittura è per lei un’operazione necessaria. Tuttavia, ci tengo a dirglielo, questo non le impedisce, nel frattempo, di costruire personaggi interessanti che riescono a imprimersi nell’immaginario di noi lettori. Sto pensando alla Carmen de Il gabinetto del dottor Kafka, che non ha nulla da invidiare a una delle donne di Almodovar. O comunque non la porta certo a rinunciare  all’invenzione che si sviluppa attraverso tutte le situazioni grottesche che animano le sue pagine.

– P …

– Ma allora, se il gusto letterario tende ad essere orchestrato da una critica prezzolata, perché pubblicare ancora? Vuol forse dirmi che nell’inarrestabile degrado della letteratura, la lettura, se fatta con criterio, può ancora essere un modo per salvarsi da “quel grandissimo mostro odierno che è la solitudine di massa”?

– P …

– Bene. È la risposta che mi aspettavo. Lo sente? È Frank Sinatra che passano in radio? Sì, mi sembra proprio lui. Sa, è buffo come in Giorni di collera e di annientamento lei si sia costruito come alter ego un crooner che ha rinunciato alla carriera musicale per aver vinto un Premio Strega. Io, invece, l’ho sempre immaginata seduto da solo in riva al lago a intonare melodie malinconiche con l’armonica. Esatto, come Neil Young. Solitario e nostalgico.

Riguardo l’orologio: sono le 9.20.

Thinking your mind, was my own in a dream / What would you wonder and how would it seem?/ Living in castles a bit at a time

Ma non c’è da sorprendersi. In fondo le mie, come quelle di Permunian, sono solo parole, parole tra le righe del tempo.

The king started laughing and talking in rhyme / Singing words, words between the lines of age.

TESTI CITATI:

Francesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema, Reggio Emilia, Diabasis, 2009;

Francesco Permunian, Il gabinetto del dottor Kafka, Roma, Nutrimenti, 2013;

Francesco Permunian, Nel paese delle ceneri, Milano, Rizzoli, 2003;

Francesco Permunian, Una strana vocazione al suicidio, Brescia, Centro Iniziative Culturali P.P. Pasolini, 1980;

Francesco Permunian, Il rapido lembo del ridicolo, Trieste, Italo Svevo Edizioni, 2021;​

Francesco Permunian, Giorni di collera e di annientamento, Firenze, Ponte alle Grazie, 2021;

Sergio Quinzio,                 La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1992;

Joan  Didion, L’anno  del  pensiero  magico  (The  Year  of  Magical  Thinking,  2005),  traduzione  di  Vincenzo Mantovani, Collana Narrativa n.2, Milano, Il Saggiatore, 2006;

Giovanni Raboni, Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema teatro , Milano, Mondadori, 2019;

Giovanni Bitetto, Il morbo della letteratura, intervista a Francesco Permunian sulla rivista online Singola, 2022;

Neil Young, Words (Between the lines of age),                Harvest, 1972.