Pierluigi Mantova intervista Carolina Germini
- «Io non parto più» suona come una frase molto attuale in un mondo piegato dalla pandemia. Come, quando e dove nasce questa storia? È stato ideato come un racconto illustrato sin da subito o il bisogno di affiancare le immagini alle parole è arrivato dopo? Qual è stato il lavoro, sia grafico sia tecnico, che l’illustratrice Ginevra Vacalebre ha fatto partendo dal tuo racconto?
Non potrò mai dimenticarlo. Era una sera di novembre. Mi trovavo a Marrakech, nel quartiere della Kasbah, che in arabo significa fortezza ed è infatti la zona in cui risiedevano i più alti dignitari di corte. Stavo cenando sulla terrazza di un ristorante di fronte alla porta di ingresso delle Tombe Saadiane. Alzando lo sguardo, mi sono resa conto che lì sopra due cicogne avevano costruito il loro nido. Non saprei bene dire perché ma sono rimasta senza parole. La vicinanza di quegli animali nella notte, immersi in un totale silenzio, mentre sembravano vegliare la città, mi ha sconvolta. Sono tornata anche la mattina dopo, quasi per assicurarmi di non aver sognato quel momento. Naturalmente l’effetto è stato molto diverso. Nel rumore e nel disordine delle strade le cicogne si confondevano di più, ma era comunque inevitabile notarle.
Appena sono salita in aereo per tornare a casa, ho iniziato ad annotare i nomi che immaginavo avrei dato alle due protagoniste. Ho sentito un’urgenza forte che mi ha spinto a scrivere di loro, soprattutto nel momento in cui ho lasciato il Marocco. Volevo portare quella storia con me.
E sì, ho avvertito dal primo momento il bisogno di accompagnare quel racconto a delle immagini. Avevo bisogno di un illustratore che avesse la mia stessa sensibilità. E quando ho visto i disegni di Ginevra Vacalebre ho capito che ero sulla strada giusta. Per lei il mondo animale è centrale. Sicuramente in questo ha influito su di lei il fatto di essere cresciuta in campagna. Avendo anche io una casa immersa nel verde, dove vado spesso l’estate, penso che l’amore e la passione per la natura e gli animali ci abbia unito da subito. Per quanto riguarda il lavoro grafico, so che Ginevra ha scelto di usare una tecnica tradizionale: realizzando le basi del disegno ad acquerello e matita. Poi si è servita di Google Earth per andare a visitare virtualmente i luoghi che avevo descritto.
- La storia di Daisy e Sandy può essere paragonata a quella di tante famiglie che scelgono di abbandonare la propria terra natia in cerca di una nuova vita, spesso per cause di forza maggiore. Nel mondo animale ciò è determinato da questioni legate al cibo o al clima, mentre in quello umano la maggior parte delle volte da povertà, neodittature, guerre e/o problemi ambientali. Come mai la scelta di raccontare il “fenomeno delle migrazione” con animali come protagonisti, animati però da sentimenti tipicamente umani come il desiderio e la nostalgia?
In realtà non ho scelto di trattare il tema della migrazione ma ho scelto di raccontare una storia, la storia eccezionale e fuori dal comune di un gruppo di cicogne, ormai conosciute come cicogne di Marrakech, che invece di proseguire la loro rotta, hanno deciso di fermarsi in questa città e non ripartire più. Ho trovato questa storia rivoluzionaria. Siamo sempre abituati a raccontare la migrazione animale nello stesso modo, indicando il periodo della partenza e del ritorno ma cosa succede quando un ciclo viene interrotto? È questa domanda che mi ha spinta a scrivere. Quando poi ho presentato la storia alla casa editrice Momo, Mattia Tombolini, l’editore, è rimasto colpito proprio da questo, dal fatto che questa storia rovesciasse in qualche modo il nostro punto di vista sulla migrazione. Siamo ormai portati ad associare la migrazione al viaggio dall’Africa in Europa e invece in questa storia la direzione è invertita: le cicogne partono dall’Olanda e si fermano in Marocco.
- Le cicogne dal Marocco si fermano ad Alberobello prima di raggiungere l’Olanda. Come mai hai scelto proprio la Puglia come tappa centrale, è solo per una questione cromatica e climatica o c’è un altro motivo?
Perché Alberobello? Visivamente ho trovato subito una somiglianza tra i nidi delle cicogne e i tetti dei trulli e poi, raccontando una storia per bambini, ho pensato che soprattutto per loro i trulli fossero delle costruzioni magiche, quasi oniriche. E poi ho tantissimi ricordi legati alla Puglia. Tutti gli anni della mia infanzia mia madre mi ha sempre portato a trovare una sua amica di Lecce, così ho sentito da subito questa terra un po’ come una seconda cosa. Ho anche alcuni ricordi legati agli animali ora che ci penso. Il primo risale a quando avevo circa dieci anni e andammo a visitare il parco naturale di Fasano. Ricordo che per me fu impressionante attraversarlo in macchina ed essere circondata da ogni tipo di animale: giraffe, lama, leoni. È stato un vero safari! La prima volta in cui ho visto quegli animali fuori dalle gabbie. Non ho mai amato gli zoo perchè ho sempre avvertito la sofferenza degli animali chiusi in gabbia ma quella era un’esperienza completamente diversa.
Poi nell’estate del 2015, mentre andavo verso la Spiaggia di Pescoluse, ho visto sul ciglio della strada un cane che rovistava tra i rifiuti. Non potevo non fermarmi. Avrà avuto cinque mesi, era completamente deperito… Così l’ho preso e l’ho portato a Roma.
- La filosofa contemporanea Donatella Di Cesare nel suo recente libro Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione riflette su cosa significhi essere migranti oggi e su che cosa, più in generale, abbia significato migrare nella storia dell’umanità. Secondo te, invece, quale filosofia del passato si è soffermata di più su questo tema? E qual è, se esiste, la filosofia all’interno del viaggio come esperienza fisica e concreta?
Donatella Di Cesare è stata una mia docente di Filosofia teoretica alla Sapienza. Conosco questo suo lavoro sulla filosofia della migrazione. Anni fa seguii un suo corso incentrato su un suo libro intitolato Heidegger e gli ebrei, pubblicato in occasione della scoperta dei Quaderni neri, pagine che hanno tolto ogni dubbio riguardo l’antisemitismo di Heidegger. A proposito di questo tema, naturalmente non posso non pensare a quanto la storia ebraica sia fin dall’origine una storia di migrazione. Mi viene in mente, tra i tanti, il filosofo Baruch Spinoza, i cui genitori, portoghesi di origine ebraico-sefardita, furono costretti a convertirsi al Cristianesimo, ma poiché di nascosto mantenevano la loro fede, non ebbero altra possibilità che lasciare il Portogallo per trasferirsi in Olanda. Penso anche ad un’altra filosofa, Hannah Arendt, che nel 1941 emigrò negli Stati Uniti, riuscendo così a salvarsi. Diverso invece è stato il destino del filosofo Walter Benjamin, che l’anno precedente raggiunse la Catalogna nella speranza di imbarcarsi per gli Stati Uniti ma si vide ritirare il visto di transito. A quel punto, convinto che di lì a poco sarebbe stato catturato dalla polizia di frontiera spagnola, per poi essere rispedito in Francia, sotto il governo nazista, si suicidò. Fatalità: il giorno dopo arrivò il visto che gli avrebbe permesso di emigrare. Quindi, più che venirmi in mente una filosofia del passato che ha riflettuto sulla migrazione, non posso non pensare a quanto la migrazione abbia determinato il pensiero e la vita di molti filosofi.
- Cosa ti spinge oggi a scrivere per le nuove generazioni? Può essere considerata ancora, secondo te, una scelta editoriale con una valenza educativa e formativa per il giovane lettore?
Scrivere per i bambini mi diverte moltissimo e mi aiuta a pensare in modo diverso, più libero direi.. A Parigi per un periodo ho insegnato in alcune classi della scuola elementare. Proprio in quel periodo stavo sviluppando la storia sulle cicogne. Credo che questa esperienza mi abbia stimolato molto nella scrittura perché mi ha permesso di guardare il mondo attraverso i loro occhi, riscoprendo la bellezza della meraviglia, che poi è quello che ho provato quella sera a Marrakech quando mi sono trovata di fronte a quel nido. Ciò che mi spinge a scrivere per loro è il desiderio di raccontare una storia, che li porti a scoprire dei mondi che ancora non conoscono. L’entusiasmo che ho avuto nel parlare di un Paese come il Marocco credo sia venuto proprio da questo: usare parole come minareto, kasbah, spezie, Moschea, è stato un modo per raccontare una cultura. Ho deciso di non frenarmi nell’usare termini più complessi perché penso che un libro serva anche e soprattutto per apprendere nuovi vocaboli, per arricchire il nostro immaginario e il nostro modo di guardare il mondo. Un cappello non sarà più soltanto un cappello per chi da piccolo ha letto Il piccolo principe così come un giardino dopo aver letto il Il giardino segreto. Quindi sì, credo proprio che scrivere storie per bambini sia ancora un mestiere meraviglioso, con un immenso valore.