In Appunti di Lettura

ULISSEIDE – Joyce, Ulisse, Appunto 2 [III-VI,83-165]

di Demetrio Paolin

CIBO. Leopold Bloom compare nell’Ulisse nel quarto capitolo (IV, 101): è impossibile fornire un quadro esaustivo di ciò che rappresenta per la letteratura novecentesca e contemporanea l’apparizione di questo personaggio. Queste righe si prefiggono  un  “compito minore e limitato” (Frank Kermode) ovvero fornire qualche appunto di lettura. L’incipit del quarto capitolo è: «Mangiava di gusto, il signor Leopold Bloom, le interiora di animali e di volatili» (IV, 101). La concretezza del gesto (il mangiare) e  la precisione nel descrivere uno stato interiore (la golosità), sono unite a un’immagine che suggerisce qualcosa di più arcaico (le interiora). In Aspetti del romanzo Forster ricorda che i personaggi – funzioni verbali create dal linguaggio – si mostrano agli occhi del lettore come reali e concreti, attraverso alcune qualità: la nascita, la morte, il sonno, l’amore e cibo: «il cibo è l’anello di congiunzione tra mondo conosciuto e mondo dimenticato; legato saldamente a una nascita che nessuno di noi ricorda, e che giunge fino alla colazione di stamani».  Bloom è rappresentato come un moderno aruspice che sonda le interiora delle bestie per mostrare ciò che siamo e diventeremo. Non è casuale che il suo taglio di carne preferito sia il rognone, filtro delle impurità corporali e luogo di produzione dell’urina. Una prima apparizione del “piscio” ha come protagonista Dedalus: «Scorre ruzzolando, ampiamente scorrendo, galleggiante pozza di schiuma, fiore che si dispiega» (III, 96). Poniamo attenzione sulla immagine del “fiore” e della “schiuma”, perché appare identica nella descrizione del gesto di Bloom: «vide gli scuri riccioli aggrovigliati del pube galleggiare, galleggiante chioma del flusso attorno al flaccido creapopoli, languido fiore galleggiante» (V, 147). Nel linguaggio biblico le reni rappresentano l’intimo, l’interno, il nascosto, il lato umbratile dell’essere umano; rimandano in qualche modo alla potenza sessuale, alla sessualità espressa e repressa.

NATURALISMO. Bloom è uno dei personaggi in cui si incarna il modernismo, eppure le sue radici più tenaci sono tipiche del romanzo realista dell’Ottocento: Bloom come Bovary, quindi? Che Joyce avesse in mente il grande romanzo di Flaubert, e lo considerasse una pietra di paragone è una ipotesi suggestiva[1] e quindi non desta stupore l’esclamazione di Stephen, «Cappello, cravatta, soprabito, naso. Lui, c’est moi» (III, 82), che ricalca un famoso motto flaubertiano.  Bloom appare a noi senza la mediazione di aggettivi. Lo vediamo compiere un’azione consueta, il mangiare, ma non sappiamo nulla del suo aspetto fisico. Solo successivamente, molte righe dopo, Joyce ce lo descrive  come “bigio e tozzo” (IV, 101): la distanza tra l’apparizione del nome “Bloom” e la sua descrizione “bigio e tozzo” è accentuata da una serie di termini semanticamente legati al cibo (interiora, volatili, cuore, rognone, il languorino, il pane, il burro, il the): il dato materiale disinnesca la descrizione fin troppo “comune” del personaggio. La diade qualificativa risalta e interroga, perché lontana dal nome proprio di Bloom; Joyce avrebbe potuto scrivere “Il signor Bloom, bigio e tozzo, mangiava con gusto le interiora di animali e volatili”, compie invece una scelta stilistica diversa, perché?

CLICHÉ. Bloom rappresenta alcuni cliché del romanzo ottocentesco a)il bisogno di soldi (IV, 106; 109; 111) ; b) la trasandatezza del vestire (IV, 104); c) una vita sessuale più sognata che attiva (IV,107) con tanto di d) tresca immaginaria via lettera(V,135). I punti a, b, c e d rappresentano in un’ottica ottocentesca gli accadimenti narrativi che conducono la freccia della nostra narrazione da un inizio a una fine. Potremmo definirli peripezie che producono il desiderio da parte del lettore di continuare nella lettura; Joyce prende quel tipo di armamentario, lo rende parodico ed estremo, come lo è la scelta di raccontare 24 ore“a caso” di un personaggio .

«Potrei buttar giù un bozzetto. Dei signori L. M. Bloom. Inventare una storia su un proverbio. Quale? Un tempo cercavo sempre di annotarmi sul polsino quello che diceva lei mentre si vestiva. Non mi piace che ci vestiamo insieme. Mi tagliavo radendomi. Lei si mordeva il labbro inferiore» (IV,122). La parola “bozzetto” è interessante. È un termine preso in prestito dalle definizioni di genere letterario in voga nell’ottocento, Bloom la pronuncia, mentre legge un  racconto (ironica rivisitazione di un racconto giovanile di Joyce) pubblicato su una rivista. Niente di nuovo: un personaggio riflette sulla sua vita sentimentale mentre legge un racconto, se non fosse per il luogo in cui avviene: «Aprì con un calcio la porta sgangherata del cesso». Bloom, accosciato sulla «cattedra stercoraria» nel «tanfo di calce muffosa», durante la defecazione, legge «in silenzio, trattenendosi, la prima colonna e poi, cedendo ma ancora resistendo, attaccò la seconda. A metà, al cedere dell’ultima resistenza, lasciò che i visceri si rilasciassero quietamente mentre leggeva, continuando a leggere pazientemente, totalmente superata la stitichezza del giorno prima» (IV, 122). Il contrappunto tra il falso racconto naturalista e la pratica di evacuazione corporea è la mimesi radicale: se dobbiamo mostrare la realtà per come è, allora non dobbiamo sottrarci davanti a nulla, neppure davanti alla merda dei nostri protagonisti. La chiusa del cap IV è talmente icastica da rappresentare alla perfezione il modo con cui Bloom e il suo autore si presentano al pubblico: «Strappò via bruscamente metà del premiato pezzo e ci si pulì il culo. Poi tirò su i calzoni, infilò le bretelle e si abbottonò. Tirò a sé la sobbalzante traballante porta del cesso e uscì dalla penombra all’aria aperta» (IV,123).

STERILITÀ. Uno dei tratti dominanti di queste prime pagine su Leopold Bloom è la sterilità. Ulisse viene pubblicato nel 1922, lo stesso anno di The Waste Land di Eliot. La sterilità, che domina entrambe le opere, non riguarda non solo la sfera sessuale, ma l’impotenza rispetto al mondo, ormai landa deserta, vuota e grigia, abitata da uomini invecchiati prima del tempo, vizzi come fiori. Si leggano i versi della terza parte di The Waste Land (https://poetryarchive.org/poem/waste-land-part-iii-fire-sermon/) e si accostino a «Una landa sterile, nudo deserto. Lago vulcanico, il mar morto: niente pesci, senza alghe, sprofondato nella terra. Nessun vento potrebbe sollevare quelle onde, grigio metallo, fosche acque velenose. Un mare morto in una landa morta, grigia e vecchia. […]. Ma ha generato i progenitori, la prima stirpe. […]. Adesso non poteva più generare. Morta; di una vecchia; la grigia figa infossata del mondo» (IV, 110). La comunanza d’immaginario è certamente interessante, come se derivasse da uno choc di percezione, che è primariamente linguistico[2]. La sterilità della natura è legata in Bloom a una riflessione sulla propria stirpe (IV,110). C’è quindi un rapporto stretto tra sterilità/ discendenza. Nella scena dell’urina (V, 147) questa tensione è presente nel rapporto tra aggettivo – floscio –  e nome –  creapopoli – . La vita sessuale di Bloom è legata a fantasie sessuali, difficilmente realizzabili: la cameriera dei vicini di casa incontrata dal panettiere (IV, 107), la blasfema descrizione della comunione in chiesa: «Il prete passavo loro davanti a una a una, mormorando, reggendo la cosa tra le mani. […] Si fermò a ciascuna di esse, estrasse l’ostia, […], e gliel’infilò destramente in bocca» (V,139);  e infine l’amante Martha (V, 134). Bloom nutre per Martha un  desiderio sessuale de lonh. In una versione deforme dell’amore cortese, Bloom, che si fa chiamare da Henry Flower (V, 137), esprime il proprio desiderio in termini di trobar clus: «Arrabbiata tulipani con lei adorata orchide italica punisco il suo cactus se non accontenta la povera nontiscordardimé quanto anelo viole al caro rose, quando noi presto anemone ci conosceremo tutti ragazzacci belladonna moglie di profumo di Martha» (V, 135). Il desiderio più che esperito è un fatto linguistico, sublimato desiderio in parole. È necessario che la parola, quindi, venga chiarita, per ben due volte a Bloom viene chiesto il significato di una parola i) Martha: «La prego, mi dica qual è il vero significato di quella parola» (V,135); ii) Molly: «Dimmelo con parole semplici» (IV, 114-115 ).

FIGLIO. Rudy è la parola segreta, che costringe Bloom a produrre immaginazioni sessuali sterili. Il figlio morto di Leopold e Molly Blom viene nominato la prima volta con queste parole: «Ha capito [si riferisce alla levatrice] che il buon piccolo Rudy non ce l’avrebbe fatta. Be’. Dio è buono, signore. L’ha capito subito. Avrebbe undici anni, se fosse vissuto» (IV, 118). L’immagine di Rudy continua a circolare sotterranea nelle pagine successive, che Bloom pare allontanare con il ricorso a ragionamenti economici. Se il figlio morto è un pensiero latente e oscuro, l’altro polo del pensare è economico: Bloom è spesso descritto mentre fa di conto, come quando si chiede quante pinte di birra abbiano venduto i proprietari della Guinness per diventare così ricchi: «Due pence a pinta, quattro pence per un quarto, otto pence a gallone di porter, no, uno e quattro pence a gallone di porter. Venti diviso uno e quattro: quindici circa. Sì, esattamente. Quindici milioni di barili di porter. Cosa dico barili? Galloni. Comunque circa un milione di barili» (V, 137). Bloom comprende le persone tramite un valore di economico, come un far tornare i conti, un mettere in ordine guadagni e perdite. Rudy è, perciò, la restituzione mancata, la cifra errata dell’addizione, è la falla del suo pensiero: «Una faccia da gnomo, viola e grinzosa, come era quella del piccolo Rudy. Un corpo da gnomo, fragile come il gesso, in una cassa di abete foderata di bianco. Funerale pagato dalla società del muto soccorso. Un penny alla settimana per una zolla di terra. Nostro. Piccolo. Straccione. Bimbo. Senza senso. Sbaglio di natura. Se è sano dipende dalla madre. Altrimenti dall’uomo. Andrà meglio la prossima volta». (VI, 162). Ecco che la tensione tra dentro e fuori, tra sterilità e sesso, tra cibo e escrementi qui si coagula terribilmente “se è sano dipende dalla madre, altrimenti dall’uomo”: il sesso ha prodotto uno sbaglio della natura, uno gnomo grinzoso, qualcosa che non può essere restituito, una morte che ha valore di perdita anche economica (il penny alla settimana), qualcosa di irrimediabile, infine, che rende malinconico e triste, simile a una sbronza,  il bozzetto tardo ottocentesco di Molly e Leopold (IV.122).


[1]      Lo stesso Italo Svevo considerava l’Ulisse un’opera che portava a compimento la poetica realista.

[2]      Nel saggio Narratore Benjamin lo afferma chiaramente: “Non si era visto, alla fine delle guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile?”