di Demetrio Paolin
In FK, Parte Prima, Libro Terzo, cap. III, leggiamo: «Ma innamorarsi non significa amare. Ci si può innamorare e odiare». E poi continuiamo: «Cammino e non so se sono capitato tra tanfo e vergogna o tra luce e gioia. È questa la vera disgrazia, che al mondo tutto è mistero». Poi poco più avanti leggiamo: «Perché sono un Karamazov, io. Perché se finisco nell’abisso, mi ci tuffo a capofitto a testa in giù e piedi all’aria, e a caderci in quel modo umiliante è una soddisfazione, per me, addirittura una bellezza». E ancora: «La bellezza è una cosa spaventosa e tremenda! Spaventosa perché non definibile, e definirla non si può perché Dio ci ha lasciato enigmi. […] Troppi enigmi opprimono l’uomo su questa terra».
Il movimento della prosa di D è, a mio avviso, affascinante: è uno continuo correre, una breve ripresa di fiato, e nuovamente al massimo di frequenza possibile, alcune volte a questa velocità, che è una vera e propria furia, incontriamo frasi come quelle appena proposte, che ci costringono a un inciampo o a una frenata brusca. A pronunciare queste parole è Dimitri, che è il personaggio a cui presto più attenzione. Dimitri, lontano dal fascino oscuro di Ivan e dalla luce di Alesa, mi si è imposto come il grande personaggio del romanzo, come colui che veramente uccide il padre, che compie il parricidio per mettersi in viaggio verso la coscienza di sé.
D fa di tutto per convincerci che sia Dimitri a commettere l’omicidio, perché narrativamente è lui che prende il largo, è lui che farà l’esperienza dell’altrove. Queste frasi citate racchiudono, in maniera precisa, la figura sfuggente di Dimitri o, meglio, racchiudono il modo in cui lui si sente: sono la voce del personaggio, non sono né la voce del narratore (che sappiamo “segue” per Alesa), né quella di D che ho sempre pensato detestasse, amandolo Ivan.
Dimitri descrive una forma di tensione in cui amore e odio sono mostri che agiscono così nell’intimo dell’essere da renderli simili: si ama ciò che si odia più profondamente, perché ciò che si ama mostra di te l’abisso che non vuoi vedere, mostra la parte di te più terribile, quella che tieni nascosta quando cammini per strada o siedi al bar a sorseggiare il caffè; l’amore diventa odio, perché l’amore ti mostra la tua totale insignificanza rispetto al mondo, alle cose, cosicché l’unico modo che tu hai per impossessarti di loro è odiarle più profondamente; è ciò produce luce e gioia, tanfo e vergogna, l’uomo non è buono, o cattivo, è una mescolanza in cui l’abietto sta con la bellezza, e la bellezza arriva a toccare il punto più basso della vergogna.
Si può desiderare qualcosa, sentirla come necessario al tuo essere, e sapere che ciò che desideri è sbagliato, disgustoso, possiamo amare ciò che ci disgusta, ciò che è considerato sbagliato dalla società e della morale, lo possiamo amare perché in parte lo odiamo: ne facciamo così esperienza che diventiamo noi stessi disgusto abiezione, diventiamo peccato, facciamo diventare ciò che amiamo peccato: e il peccato diventa bellezza, perché conserva intatta, in qualche angolo nascosto, la gioiosa luminosità dell’amore e la sua purezza, di quando vedemmo la bellezza prima che ogni singola parola la corrompesse.
La bellezza diventa tremenda, e solo nell’accettare la mostruosità di questa bellezza potremmo comprendere a fondo la possibilità che la bellezza salvi il mondo, perché la bellezza in D non ha nulla della quieta immobilità greca, ma è contemplare in sé l’orrendo, il negativo; è questo l’enigma del nostro essere: la tensione o il desiderio a fare il bene, e il compiere nelle opere nostre il male, come dice Paolo: «Io scopro allora questa contraddizione: ogni volta che voglio fare il bene, trovo in me soltanto la capacità di fare il male».