In Focus

Niente è più moderno di un’icona – II parte

di Leonardo Gliatta

Teoria dell’occhiata

Proprio l’individuazione di un fulcro permette di cogliere la foto in un unico colpo d’occhio, come ensemble. E la vera abilità diventa non tanto quella di fotografare, quanto di scegliere lo scatto fra tanti. Oggi il digitale ha reso questa pratica gratuita. Ecco perché su Instagram ci sono tante belle composizioni: sono l’esito di molti tentativi e centinaia di scarti. Ciò è possibile perché un’immagine da valutare in pochissimi secondi e pochi centimetri è in fondo pensata esclusivamente per l’oeillade. Il successo di un quadro o di un’immagine sta tutto nella sua riproducibilità tecnica: deve funzionare in un istante, magari stampato, piccolo quanto una cartolina.

Walter Benjamin, in un testo cruciale per il dibattito delle immagini, sosteneva che la riproducibilità tecnica delle opere avrebbe comportato una perdita della loro aura, cioè quella fascinazione suscitata nello spettatore dagli esemplari originali di pitture e sculture. La “tecnica” a cui si riferisce Benjamin è la fotoincisione: un medium meccanico, neutro, che permette di stampare i quadri su qualsiasi superficie. Del resto, non c’è dubbio: la riproduzione all’infinito annichilisce le immagini e può portarle a noia. Negli ultimi anni abbiamo visto troppi angeli di Raffaello appesi nelle camere degli alberghi, troppi baci di Klimt sui segnalibri. Il merchandising attraverso la riproduzione offusca la scelta di formato e dimensioni fatta dall’artista, ne stravolge il senso, ma allo stesso tempo rende il bacio di Klimt ideale, smaterializzato, onnipresente. Tuttavia, la profezia che l’aura di queste opere avrebbe risentito della sovraesposizione non si è avverata fino in fondo. Oggi, i turisti vanno al Louvre proprio per vedere l’originale de La Gioconda che fino a quel momento hanno conosciuto solo tramite riproduzioni. Il fascino del quadro non sta più nei meriti intrinseci della pittura, ma nel trovarsi di fronte all’originale di qualcosa conosciuto tramite libri, magliette, poster. In molti si fanno un selfie accanto a Monna Lisa come

con un vip incontrato in mezzo alla strada. Ci vanno perché quella esposta è quella autentica. In altre parole, il pubblico prova di fronte agli originali un senso amplificato dell’aura, in un certo senso mistico. E questo grazie alla riproducibilità.

È, insomma, l’uso reiterato dei dipinti, il vederli riprodotti su diversi supporti, che li ha trasformati in capolavori. Certo: l’abuso ha demolito un tipo di aura, ma ne ha creato un’altra, forse ancora più potente: il mito dell’arte. Come esiste la fotogenia – la qualità di alcuni individui di venire bene in foto – esiste la iconogenia – la qualità di risultare migliori visti in riproduzione. Fino al punto che alcune immagini possono essere reputate più “instagrammabili” di altre: funzionano cioè meglio quando sono viste piccole, velocemente, sullo schermo d’un cellulare, e hanno tinte vivaci. Oggi ciò che conta è il colpo d’occhio, l’oeillade. È un bene, è un male? Il successo della cartolina più venduta o dei molti cuori su IG non c’entra nulla con il suo valore artistico né con quello storico delle immagini. C’entra però molto con il loro futuro. Le opere che hanno successo sono anche quelle che darwinianamente avranno più probabilità di restare alle generazioni future. Sarà la riproducibilità a decidere quali opere rimarranno? Una cosa è sicura: grazie alla tecnica le immagini non sono più cose che si ammirano, ma cose che si usano. Le immagini possono essere usate per guardare, per conoscere, per accoppiarci e desiderare. Ma quando stiamo guardando per il piacere di guardare, senza altri fini, ecco che le immagini possono farsi tramite di un piacere spirituale. Credo infatti che la contemplazione estetica sia una forma di preghiera, specialmente per chi non crede in Dio. Di fronte alla perfezione di immagini complesse si può sentire forse, in modo illusorio, che tutto torna, che la vita ha una sua sensatezza. Di fronte a certe composizioni ogni cosa acquista senso, le difficoltà della vita vengono lenite, i pensieri depressivi si dissolvono. Noi quindi viviamo un’esperienza estetica anche di fronte a immagini commerciali, ovvero la predisposizione umana a godere dell’atto stesso di guardare spinge ad emozionarci, magari in maniera minima, anche per la composizione della pubblicità.

C’è un briciolo di contemplazione in tutte le immagini, artistiche o commerciali ed è questo piacere astratto, ritmico, formale che le rende eloquenti, memorabili.

L’immagine violenta

Riprendendo la caratteristica più peculiare di un’icona moderna, la sua capacità di essere colta in una sola occhiata, di sfuggita, ci viene in soccorso un testo fondativo delle teorie delle immagini, Tre saggi sull’immagine (2007) di Jean Luc Nancy. Nel primo dei tre saggi, il filosofo francese parla di “Immagine iconica che è di per sé violenta, l’irruzione di qualcosa che si esercita senza avere responsabili dietro di sé, o garanti.” Poi chiarisce meglio il concetto dicendo: “L’immagine iconica è violenta in virtù di alcune ragioni che sono quelle del suo stesso essere: deve sorgere, strapparsi alla dispersione del molteplice, ridurlo a unità; deve afferrarsi da sè, con un colpo di mano, con una semplice occhiata, o una grinfia. E’ una sintesi, una riduzione all’unità. Non è forse la categoria saliente dell’iconico, l’oeillade? Diventa iconica quando non deve più niente al suo riferimento empirico, all’oggetto per cui sta, e quindi travalica ogni forma di mediazione. È iconica per uno speciale statuto di verità. È come se l’immagine si

desse al di fuori di sé stessa, e che rivelasse una verità intrinseca, una apertura verso un fondo di un pozzo. Come scrive Borges “Quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è forse il fatto estetico”. Più avanti nel saggio ci imbattiamo in una definizione dell’immagine iconica che ci è familiare, perché sembra di sentire gli echi delle caratteristiche dell’icona antica. “L’immagine iconica è in qualche modo sempre sacra, se vogliamo utilizzare questo termine senza confonderlo con “religioso”. La religione è l’osservanza di un rito che tiene e mantiene legati, il sacro è invece il distante, il distinto, il separato, il messo a distanza. Per certi versi la religione e il sacro sono ossimori, tanto la religione ha lo scopo di tenere insieme una comunità di fedeli, quanto il sacro si pone come obiettivo la contemplazione di un oggetto lontano, irraggiungibile. È ciò che non si può toccare. E proprio su questo terreno, della separazione dall’oggetto venerato, che si cimenta l’iconico. Non che sia proibito toccare l’oggetto iconico, i mezzi per farlo ci sarebbero pure, ma è proprio nella sua distanza che si trova il tratto distintivo della iconicità. Se fosse vicino, comune, alla portata di tutti, perderebbe improvvisamente il suo status di materiale diverso, altro, collocato in una sfera più alta. Eppure, l’immagine si dà all’osservatore, si offre per essere ammirata, un contatto viene creato. Il distinto si slancia verso chi l’osserva, salta in esso, ma non vi si lega. Questo è ciò che accade con i ritratti: un ritratto tocca, altrimenti è solo una foto segnaletica. Ciò che tocca è un’intimità che si porta in superficie, estrae qualcosa, una forza, una violenza che è quella che vedevamo prima. Per estrarla, deve sottrarla all’omogeneità, all’indistinto, la distingue, lo stacca e la getta in avanti. La seduzione, l’erotismo delle immagini non è altro che la loro disponibilità ad essere prese, toccate con gli occhi, le mani, con il cuore, e penetrate. Penetrare un’immagine vuol dire essere penetrati da esso, essere compenetrati.

Oltre l’iconico

E cosa c’è oltre l’iconico? Esiste una dimensione ulteriore che supera l’iconico? Dobbiamo a questo punto chiedere il surplus di riflessioni dal campo dell’Estetica, con un testo di Pinotti, Alla soglia dell’immagine, 2021. George Simmel nel suo saggio Ponte e porta ha insistito sul legare e sullo sciogliere, l’uno presupposto reciproco dell’altro, come gesti costitutivi dell’animo umano, “quell’essere senza confini che vive di confini”. Simmel è anche il teorico della separazione impegnato a scongiurare il confondersi tra immagine e realtà in virtù di un severo dispositivo di incorniciamento. La Soglia è il nome che lui dà all’abbraccio che unisce e separa, che scioglie e lega, linea di confine tra il dentro e il fuori, l’intervallo tra iconico e reale, è allo stesso tempo ponte e porta tra questi due mondi. Nel momento in cui l’immagine si costituisce come isola, come uno spazio-tempo altro rispetto alla struttura spazio-temporale della realtà ordinaria, si innesca il desiderio di gettare un ponte oltre il fossato, per conquistare quell’isola, riallacciare quei legami e aprire un passo carraio che consenta il transito nei due sensi. Nessuna epoca è stata immune da questo desiderio, ciascuna cultura visuale, di volta in volta secondo le tecnologie disponibili, ha interrogato a suo modo quella soglia. Il libro di Pinotti ha cercato di raccontare, nell’arco che si tende dal mito di Narciso (che si specchia nelle acque e si innamora della sua immagine, prototentativo di avvicinamento estremo tra realtà e immagine) alle contemporanee tecnologie di realtà virtuale, la storia di questo desiderio millenario, cogliendolo nello specchio delle idee e dei dispositivi che lo esprimono.

L’iconico si configura fino a quando esiste una soglia, una cornice che delimita lo spazio-tempo della realtà da quello della rappresentazione. Un’immagine è iconica se è ancora racchiusa in un frame, in un supporto che la isola dal vero. La domanda che si pone Pinotti è: se attraversassimo questa soglia? Se sconfinassimo oltre la cornice? Se bruciassimo i confini che ci tengono separati dall’immagine e arrivassimo a non distinguere più il reale dalla sua rappresentazione? Avremmo l’effetto di scorniciamento, nella sua presenza

e immediatezza. Ed ecco che irrompe il concetto di Realtà Immersiva: un’esperienza in cui non è più possibile eseguire un’operazione banale ma cruciale: focalizzare lo sguardo su ciò che immagine non è, sul fuori-immagine. Una proprietà tradizionale dell’immagine è sempre stata quella di avere una cornice, un frame che consiste nell’occupare un ritaglio del campo visivo all’interno del quale vigono regole sintattiche, riempimenti semantici altri rispetto a quelli vigenti nel mondo extra iconico. L’immagine ritagliata è una presenza nel mondo reale (si tratta pur sempre di un oggetto, supportato da un medium materiale: la tela, la carta, il marmo, lo schermo cinematografico) che ci introduce ad una specie di irrealtà.

Nella realtà virtuale, invece, non mi trovo più di fronte al quadro o allo schermo, sono piuttosto dentro, o appunto immerso in un ambiente che mi sollecita azioni e movimenti.

Se oggi c’è un abuso del termine iconico per designare qualcosa di antico e moderno, di distante e irraggiungibile, avvolto da un’aura di sacralità e che rispetta certe regole di composizione interna e esterna, il terreno su cui dovremmo più significativamente muoverci è quello del superamento dell’iconico, tentativo che permette di afferrare l’inafferrabile, di mettere un piede dentro lo specchio e di entrare (immergersi) in un mondo del rappresentato. Così, mentre l’iconico diventa un termine sempre più privo di senso, perchè usurato dalla sua infinita riproducibilità tecnica, il futuro è già presente, ed è lo sfondamento dell’iconico, il suo definitivo annichilimento.