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Niente è più moderno di un’icona – I parte

di Leonardo Gliatta

Narciso acha feio/ O que nao é espelho

(Narciso crede sia brutto/

Quello che non è nello specchio)

Sampa, Caetano Veloso

Che cosa fa di un’immagine un’immagine iconica? Di cosa parliamo quando diciamo che un’immagine è iconica? È possibile stabilirlo? Si parte dal presupposto che questa immagine debba possedere qualità diverse e forse superiori alle altre. Iconica vuol dire cosa? È più efficace? È più suggestiva? Ha un soggetto più accattivante? Sgombriamo subito il campo dal primo dubbio sostanziale: la sfera dell’iconicità ha poco a che fare con il “contenuto”, molto di più sul piano “formale”. Ci possono essere due immagini identiche, che ritraggono lo stesso soggetto. Eppure, una delle due avrà il suggello dell’impressionabilità: sarà quella che rimarrà.

Facciamo un passo indietro, tornando alla definizione di iconico, che deriva dall’icona bizantina (dal greco antico vuol dire “immagine”).

Le regole dell’icona classica: centralità

Nelle icone bizantine Cristo è spesso simmetrico e ci guarda negli occhi, unendo al potere del centro quello della frontalità. Questa è una norma basata su un’abitudine visiva. Se guardiamo le persone accanto a noi è più probabile osservarle di lato, di tre quarti, “di sguincio”: muovendoci intorno a qualcuno abbiamo 360 punti di vista possibili su quel volto: la frontalità è l’effetto di una selezione. Le composizioni centrate hanno solennità, simmetria e compiutezza: il centro dichiara, raggela, monumentalizza, rende assoluto. E dunque è stato il modello prediletto dei ritratti ufficiali. Le divinità e i potenti della terra lo scelgono per prendere le distanze dalla casualità degli eventi e degli uomini comuni.

Quindi, già siamo in un campo di riflessione che ha dei codici standardizzati, delle regole di composizione dell’immagine elaborate e accettate da millenni. Sicuramente l’icona riceve forza e si distingue dalle altre immagini per il tipo di contenuto (divino) che rappresenta, ma cominciamo subito a vedere che non basta raffigurare un soggetto eccezionale come Cristo o i santi: bisogna anche rappresentarlo secondo certe regole interne.

Oltre a rispondere a criteri di composizione interna, l’iconico si struttura anche in base al suo presentarsi all’osservatore: il formato non è affatto un elemento neutro ma è portatore di valori politici e di complesse visioni del mondo. Le icone prediligono il formato verticale, non a caso. Il verticale è prevalentemente un ritratto di qualcuno distante e volitivo che ci si para davanti, affermando sé stesso; l’orizzontale è invece un paesaggio, un territorio o una donna nuda, cioè qualcosa che si stende nello spazio, che si possiede o si conquista.

Isolamento

Un’altra regola che aiutava (parlo al passato e presto si capirà il perché) a rendere iconica un’immagine era il suo isolamento, il suo apparire, manifestarsi, come un unicum, proprio alla maniera delle apparizioni celesti. In altre epoche un’icona di Cristo era considerata una manifestazione del divino, come se Gesù fosse davvero lì presente, e nessuno l’avrebbe mai messa accanto ad altre figure, sarebbe stata considerata sacrilega. Oggi quell’icona si trova vicino a una natura morta, oppure a una battaglia, dentro a un qualsiasi museo o manuale di storia dell’arte. Nel mondo attuale l’isolamento delle rappresentazioni è pressoché impossibile. Da quando siamo nati ne abbiamo viste milioni: affiancate, sovrapposte, ripetute, con entropia crescente.

Del resto, giustapporre linguaggi e codici disparati è lo standard di ogni social network, da Facebook a Pinterest, universi virtuali in cui il sincretismo è la norma: vediamo la pittura rinascimentale accanto ai cartoni animati, alla foto di gossip, alla tragedia di cronaca, all’icona sacra e a quella pornografica.

Le regole dell’icona moderna: ritmo

Oggi una caratteristica che determina l’iconicità di un’immagine è il suo ritmo. Due secoli fa i disegni dei bambini erano considerati meri scarabocchi. Le immagini degne di essere ammirate erano solo quelle che rappresentavano, stavano per qualche altra cosa, che riproducevano più o meno fedelmente la realtà. Il bello coincideva pressappoco con il vero. E dentro questa frase ci stava racchiusa tutta la storia dell’arte, dalle pitture rupestri delle grotte di Lascaux ai giorni nostri. Se oggi siamo in grado di apprezzare un’immagine per l’energia e il ritmo che contengono dipende dal fatto che artisti come Cézanne, Monet, Renoir, nella seconda metà dell’Ottocento, ci hanno messo nelle condizioni di vedere sempre un po’ di astratto nel figurativo, imparando ad apprezzare le immagini non tanto per decifrarle, quanto per il piacere del loro movimento. Del resto, anche molte delle foto che hanno successo oggi sui social sono in debito con le esperienze pittoriche del XIX secolo. Pubblicate, condivise, apprezzate, molte di loro mietono like per come sono composte e non certo per cosa raffigurano: bisogna concentrarsi sul ritmo e sui contrasti per trarre piacere da una lamiera ossidata, da una sezione di tronco d’albero o da un pattern di moda.

Il ritmo che ci dà piacere, che ci coinvolge ed emoziona è una faccenda fisica, forse addirittura biologica. Le costruzioni visive non sono poi così diverse. Come spiegano le neuroscienze, il nostro cervello è portato a rilevare i cambiamenti nella scena più che le cose in sé: la conseguenza è che siamo sensibili a ciò che si ripete e a ciò che varia, e dunque sappiamo cogliere ritmi, pesi e direzioni senza pensarci su. Allora, per capire davvero le immagini possiamo provare a guardarle come ascoltiamo Bach: possiamo cercare ciò che stringe e ciò che dilata, ciò che pesa e ciò che si solleva.

La divisione in parti uguali di un quadro (metà rosso e metà verde) è troppo geometrica, statica, monotona, e vediamo solo due strisce. L’asimmetria rende l’immagine più “narrativa”. Quando qualcuno afferma di pensare per immagini sta dicendo qualcosa del genere, cioè si sta figurando in testa rapporti di questo tipo: alto contro basso, pieno contro vuoto, molto rosso e poco verde. Un tale sistema di relazioni semplici ma sensate è ciò che potremmo chiamare “intelligenza visiva” (Arnheim, 1974).

Ogni giorno ci imbattiamo in fotografie pubblicitarie patinatissime, che hanno come unico scopo di rendere “desiderabile” l’oggetto rappresentato: un hamburger si affianca a un bicchiere di Coca Cola o a un sacchetto di patatine; un flacone di profumo si erge accanto a uno struccante. Il contesto commerciale in cui li vediamo può depistare, ma si tratta di una logica inventata cinquecento anni fa: quella particolare forma d’arte che raffigura gli oggetti inanimati che risponde al nome di “natura morta”. La comunicazione di massa ha imparato a comporre proprio studiando i maestri del passato, come disponevano canestri di frutta, bottiglie, teschi su uno sfondo, che senso del ritmo e che plasticità dare ai colori e alle forme.

Oggi più che mai viviamo in mezzo alle cose, siamo invitati a comprarle, a consumarle, cercando attraverso di loro di essere un po’ più felici. Consumare merci per scordarci di dover morire può sembrare l’opposto di un memento mori, ma pure se ribaltata, sempre vanitas è. Forse allora il contenuto delle nature morte in prospettiva evoluzionistica potrebbe essere questo: il desiderio che la vita abbia un senso. Quei frutti che presto marciranno (seppure disposti in modo tanto elegante) ribadiscono la qualità effimera della felicità umana. La composizione in pittura è dunque la vita emendata non del brutto o del doloroso, ma degli aspetti stonati.

L’artista invece di mettere le posate in fila sul tavolo, tutte allineate, come farebbe un nevrotico qualsiasi, ha capito che dipingere quelle posate può dare un minimo di senso al mondo. E quando è bravo riesce a mostrarci attraverso questa nevrosi una condizione esistenziale che ci riguarda tutti.

La scoperta del fulcro

Una delle caratteristiche dell’arte classica è quella di suscitare movimenti oculari ampi e lenti rispetto alla frenesia di altre epoche. Il modo in cui guardiamo un’immagine è determinante: la pubblicità di Dolce & Gabbana e la Madonna di Raffaello hanno un punto focale forte, perché entrambe – pur con ragioni diverse – vogliono essere comprese in un unico sguardo. Il centro delle vecchie icone bizantine è stato sostituito dal fulcro. Non importa che il soggetto sia grande o sia al centro, l’importante è che spicchi. Si può illuminare un solo punto della scena, usare le masse come puntatori, oppure tracciare diagonali con alberi, spade, onde, braccia. Proporre cioè un dispositivo costruito apposta per l’occhio moderno, dove le immagini non hanno più un centro ma un fulcro: ossia, letteralmente un perno intorno a cui ruota e si muove tutta la composizione, simile a una calamita per l’occhio. Siamo circondati da troppe immagini, troppi eventi, sapere che esiste un fulcro di un’immagine ci aiuta a rispondere alla domanda della modernità, che è sempre la stessa: a cosa devo prestare attenzione?